I
Come andò che Maestro Ciliegia, falegname,
trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva
come un bambino.
— C’era
una volta...
— Un
re! — diranno subito i miei piccoli lettori.
— No,
ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non
era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno
si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare
le stanze.
Non so
come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò
nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome Mastr’Antonio, se
non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso,
che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
Appena
maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto; e dandosi
una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:
— Questo
legno è capitato a tempo; voglio servirmene per fare una gamba di
tavolino. —
Detto
fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a
digrossarlo; ma quando fu lí per lasciare andare la prima asciata, rimase col
braccio sospeso in aria, perché sentí una vocina sottile sottile, che disse
raccomandandosi:
— Non
mi picchiar tanto forte! —
Figuratevi
come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
Girò
gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere
uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno;
guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel
corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; aprí l’uscio di bottega per
dare un’occhiata anche sulla strada, e nessuno. O dunque?...
— Ho
capito; — disse allora ridendo e grattandosi la
parrucca — si vede che quella vocina me la son figurata io.
Rimettiamoci a lavorare. —
E
ripresa l’ascia in mano, tirò giú un solennissimo colpo sul pezzo di legno.
— Ohi!
tu m’hai fatto male! — gridò rammaricandosi la solita vocina.
Questa
volta maestro Ciliegia restò di stucco, cogli occhi fuori del capo per la
paura, colla bocca spalancata e colla lingua giú ciondoloni fino al mento, come
un mascherone da fontana.
Appena
riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo
spavento:
— Ma
di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?... Eppure qui non c’è anima
viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a
lamentarsi come un bambino? Io non lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è
un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco,
c’è da far bollire una pentola di fagioli... O dunque? Che ci sia nascosto
dentro qualcuno? Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo
io! —
E cosí
dicendo, agguantò con tutte e due le mani quel povero pezzo di legno, e si pose
a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza.
Poi si
messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse.
Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!
— Ho
capito; — disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la
parrucca — si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la son
figurata io! Rimettiamoci a lavorare. —
E
perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per
farsi un po’ di coraggio.
Intanto,
posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a
pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giú,
sentí la solita vocina che gli disse ridendo:
— Smetti!
tu mi fai il pizzicorino sul corpo! —
Questa
volta il povero maestro Ciliegia cadde giú come fulminato. Quando riaprí gli
occhi, si trovò seduto per terra.
Il suo
viso pareva trasfigurito, e perfino la punta del naso, di paonazza come era
quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.
II
Maestro Ciliegia regala il pezzo di legno al suo
amico Geppetto,
il quale lo prende per fabbricarsi un burattino
maraviglioso,
che sappia ballare, tirar di scherma e fare i
salti mortali.
In
quel punto fu bussato alla porta.
— Passate
pure, — disse il falegname, senza aver la forza di rizzarsi in piedi.
Allora
entrò in bottega un vecchietto tutto arzillo, il quale aveva nome Geppetto; ma
i ragazzi del vicinato, quando lo volevano far montare su tutte le furie, lo
chiamavano col soprannome di Polendina, a motivo della sua parrucca gialla, che
somigliava moltissimo alla polendina di granturco.
Geppetto
era bizzosissimo. Guai a chiamarlo Polendina! Diventava subito una bestia, e
non c’era piú verso di tenerlo.
— Buon
giorno, mastr’Antonio, — disse Geppetto. — Che cosa fate
costí per terra?
— Insegno
l’abbaco alle formicole.
— Buon
pro vi faccia.
— Chi
vi ha portato da me, compar Geppetto?
— Le
gambe. Sappiate, mastr’Antonio, che son venuto da voi, per chiedervi un favore.
— Eccomi
qui, pronto a servirvi, — replicò il falegname, rizzandosi su i
ginocchi.
— Stamani
m’è piovuta nel cervello un’idea.
— Sentiamola.
— Ho
pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno: ma un burattino
maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con
questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier
di vino: che ve ne pare?
— Bravo
Polendina! — gridò la solita vocina, che non si capiva di dove
uscisse.
A
sentirsi chiamar Polendina, compar Geppetto diventò rosso come un peperone
dalla bizza, e voltandosi verso il falegname, gli disse imbestialito:
— Perché
mi offendete?
— Chi
vi offende?
— Mi
avete detto Polendina!...
— Non
sono stato io.
— Sta’
un po’ a vedere che sarò stato io! Io dico che siete stato voi.
— No!
— Sí!
— No!
— Sí! —
E
riscaldandosi sempre piú, vennero dalle parole ai fatti, e acciuffatisi fra di
loro, si graffiarono, si morsero e si sbertucciarono.
Finito
il combattimento, mastr’Antonio si trovò fra le mani la parrucca gialla di
Geppetto, e Geppetto si accòrse di avere in bocca la parrucca brizzolata del
falegname.
— Rendimi
la mia parrucca! — gridò mastr’Antonio.
— E
tu rendimi la mia, e rifacciamo la pace. —
I due
vecchietti, dopo aver ripreso ognuno di loro la propria parrucca, si strinsero
la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita.
— Dunque,
compar Geppetto, — disse il falegname in segno di pace
fatta — qual è il piacere che volete da me?
— Vorrei
un po’ di legno per fabbricare il mio burattino; me lo date? —
Mastr’Antonio,
tutto contento, andò subito a prendere sul banco quel pezzo di legno che era
stato cagione a lui di tante paure. Ma quando fu lí per consegnarlo all’amico,
il pezzo di legno dètte uno scossone e sgusciandogli violentemente dalle mani,
andò a battere con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto.
— Ah!
gli è con questo bel garbo, mastr’Antonio, che voi regalate la vostra roba?
M’avete quasi azzoppito!...
— Vi
giuro che non sono stato io!
— Allora
sarò stato io!...
— La
colpa è tutta di questo legno...
— Lo
so che è del legno: ma siete voi che me l’avete tirato nelle gambe!
— Io
non ve l’ho tirato!
— Bugiardo!
— Geppetto
non mi offendete; se no vi chiamo Polendina!...
— Asino!
— Polendina!
— Somaro!
— Polendina!
— Brutto
scimmiotto!
— Polendina! —
A
sentirsi chiamar Polendina per la terza volta, Geppetto perse il lume degli
occhi, si avventò sul falegname, e lí se ne dettero un sacco e una sporta.
A
battaglia finita, mastr’Antonio si trovò due graffi di piú sul naso, e
quell’altro due bottoni di meno al giubbetto. Pareggiati in questo modo i loro
conti, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la
vita.
Intanto
Geppetto prese con se il suo bravo pezzo di legno, e ringraziato mastr’Antonio,
se ne tornò zoppicando a casa.
III
Geppetto, tornato a casa, comincia subito a
fabbricarsi il burattino
e gli mette il nome di Pinocchio. Prime
monellerie del burattino.
La
casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala.
La mobilia non poteva essere piú semplice: una seggiola cattiva, un letto poco
buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un
caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era
dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di
fumo, che pareva fumo davvero.
Appena
entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a
fabbricare il suo burattino.
— Che
nome gli metterò? — disse fra sé e sé. — Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo
nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi:
Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la
passavano bene. Il piú ricco di loro chiedeva l’elemosina. —
Quando
ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare a buono, e
gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi.
Fatti
gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accòrse che gli occhi si
movevano e che lo guardavano fisso fisso.
Geppetto,
vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n’ebbe quasi per male, e
disse con accento risentito:
— Occhiacci
di legno, perché mi guardate? —
Nessuno
rispose.
Allora,
dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il naso, appena fatto, cominciò a
crescere: e cresci, cresci, cresci, diventò in pochi minuti un nasone che non
finiva mai.
Il
povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma piú lo ritagliava e lo
scorciva, e piú quel naso impertinente diventava lungo.
Dopo
il naso gli fece la bocca.
La
bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere e a
canzonarlo.
— Smetti
di ridere! — disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al muro.
— Smetti
di ridere, ti ripeto! — urlò con voce minacciosa.
Allora
la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua.
Geppetto,
per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene, e continuò a lavorare.
Dopo la bocca, gli fece il mento, poi il collo, poi le spalle, lo stomaco, le
braccia e le mani.
Appena
finite le mani, Geppetto sentí portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in
su e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano del burattino.
— Pinocchio!...
rendimi subito la mia parrucca! —
E
Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la messe in capo per sé,
rimanendovi sotto mezzo affogato.
A quel
garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece tristo e melanconico, come non
era stato mai in vita sua: e voltandosi verso Pinocchio, gli disse:
— Birba
d’un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di
rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male! —
E si
rasciugò una lacrima.
Restavano
sempre da fare le gambe e i piedi.
Quando
Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentí arrivarsi un calcio sulla punta
del naso.
— Me
lo merito! — disse allora fra sé. — Dovevo pensarci prima! Oramai è
tardi! —
Poi
prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, sul pavimento della
stanza, per farlo camminare.
Pinocchio
aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per
la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l’altro.
Quando
le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a
correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e
si dètte a scappare.
E il
povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché quel
birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre, e battendo i suoi piedi
di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso, come venti paia di
zoccoli da contadini.
— Piglialo!
piglialo! — urlava Geppetto; ma la gente che era per la via, vedendo questo
burattino di legno, che correva come un barbero, si fermava incantata a
guardarlo, e rideva, rideva e rideva, da non poterselo figurare.
Alla
fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere il quale, sentendo tutto
quello schiamazzo, e credendo si trattasse di un puledro che avesse levata la
mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada,
coll’animo risoluto di fermarlo e d’impedire il caso di maggiori disgrazie.
Ma
Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere, che barricava tutta la
strada, s’ingegnò di passargli, per sorpresa, framezzo alle gambe, e invece fece
fiasco.
Il
carabiniere, senza punto smuoversi, lo acciuffò pulitamente per il naso (era un
nasone spropositato, che pareva fatto apposta per essere acchiappato dai
carabinieri), e lo riconsegnò nelle proprie mani di Geppetto; il quale, a
titolo di correzione, voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi. Ma
figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli orecchi, non gli riuscí di
poterli trovare: e sapete perché? perché, nella furia di scolpirlo, si era
dimenticato di farglieli.
Allora
lo prese per la collottola, e, mentre lo riconduceva indietro, gli disse
tentennando minacciosamente il capo:
— Andiamo
subito a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo i nostri
conti! —
Pinocchio,
a questa antifona, si buttò per terra, e non volle piú camminare. Intanto i
curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lí dintorno e a far capannello.
Chi ne
diceva una, chi un’altra.
— Povero
burattino! — dicevano alcuni — ha ragione a non voler tornare a casa! Chi lo sa
come lo picchierebbe quell’omaccio di Geppetto!... —
E gli
altri soggiungevano malignamente:
— Quel
Geppetto pare un galantuomo! ma è un vero tiranno coi ragazzi! Se gli lasciano
quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di farlo a pezzi!... —
Insomma,
tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimesse in libertà Pinocchio,
e condusse in prigione quel pover’uomo di Geppetto. Il quale, non avendo parole
lí per lí per difendersi, piangeva come un vitellino, e nell’avviarsi verso il
carcere, balbettava singhiozzando:
— Sciagurato
figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi
sta il dovere! Dovevo pensarci prima!...
Quello
che accadde dopo, è una storia cosí strana da non potersi quasi credere, e ve
la racconterò in quest’altri capitoli.
IV
La storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove
si vede come i ragazzi cattivi hanno a noja di sentirsi correggere da chi ne sa
piú di loro.
Vi
dirò dunque, ragazzi, che mentre il povero Geppetto era condotto senza sua
colpa in prigione, quel monello di Pinocchio, rimasto libero dalle grinfie del
carabiniere, se la dava a gambe giú attraverso ai campi, per far piú presto a
tornarsene a casa; e nella gran furia del correre saltava greppi altissimi,
siepi di pruni e fossi pieni d’acqua, tale e quale come avrebbe potuto fare un
capretto o un leprottino inseguito dai cacciatori.
Giunto
dinanzi a casa, trovò l’uscio di strada socchiuso. Lo spinse, entrò dentro, e
appena ebbe messo tanto di paletto, si gettò a sedere per terra, lasciando
andare un gran sospirone di contentezza.
Ma
quella contentezza durò poco, perché sentí nella stanza qualcuno che fece:
— Crí-crí-crí!
— Chi
è che mi chiama? — disse Pinocchio tutto impaurito.
— Sono
io! —
Pinocchio
si voltò, e vide un grosso grillo che saliva lentamente su su per il muro.
— Dimmi,
Grillo, e tu chi sei?
— Io
sono il Grillo-parlante, e abito in questa stanza da piú di cent’anni.
— Oggi
però questa stanza è mia — disse il burattino — e se vuoi farmi un vero
piacere, vattene subito, senza nemmeno voltarti indietro.
— Io
non me ne anderò di qui, — rispose il Grillo — se prima non ti avrò detto una
gran verità.
— Dimmela
e spicciati.
— Guai
a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori, e che abbandonano
capricciosamente la casa paterna. Non avranno mai bene in questo mondo; e prima
o poi dovranno pentirsene amaramente.
— Canta
pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio
andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti
gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola, e per amore o per forza
mi toccherà a studiare; e io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho
punto voglia, e mi diverto piú a correre dietro alle farfalle e a salire su per
gli alberi a prendere gli uccellini di nido.
— Povero
grullerello! Ma non sai che, facendo cosí, diventerai da grande un bellissimo
somaro, e che tutti si piglieranno gioco di te?
— Chetati,
Grillaccio del mal’augurio! — gridò Pinocchio.
Ma il
Grillo, che era paziente e filosofo, invece di aversi a male di questa impertinenza,
continuò con lo stesso tono di voce:
— E
se non ti garba di andare a scuola, perché non impari almeno un mestiere, tanto
da guadagnarti onestamente un pezzo di pane?
— Vuoi
che te lo dica? — replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza. —
Fra i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo che veramente mi vada a genio.
— E
questo mestiere sarebbe?
— Quello
di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita
del vagabondo.
— Per
tua regola — disse il Grillo-parlante con la sua solita calma — tutti quelli
che fanno codesto mestiere, finiscono quasi sempre allo spedale o in prigione.
— Bada,
Grillaccio del mal’augurio!... se mi monta la bizza, guai a te!...
— Povero
Pinocchio! mi fai proprio compassione!...
— Perché
ti faccio compassione?
— Perché
sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno. —
A
queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso di sul banco un
martello di legno, lo scagliò contro il Grillo-parlante.
Forse
non credeva nemmeno di colpirlo; ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel
capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crí-crí-crí, e
poi rimase lí stecchito e appiccicato alla parete.
V
V
Pinocchio ha fame e cerca un uovo per farsi una
frittata;
ma sul piú bello, la frittata gli vola via dalla
finestra.
Intanto
cominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla,
sentí un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito.
Ma
l’appetito nei ragazzi cammina presto, e di fatti, dopo pochi minuti,
l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si convertí in
una fame da lupi, in una fame da tagliarsi col coltello.
Il
povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva,
e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro: ma la
pentola era dipinta sul muro. Immaginatevi come restò. Il suo naso, che era già
lungo, gli diventò piú lungo almeno quattro dita.
Allora
si dètte a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti
i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari un po’ di pan secco, un
crosterello, un osso avanzato al cane, un po’ di polenta muffita, una lisca di
pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma qualche cosa da masticare: ma non trovò
nulla, il gran nulla, proprio nulla.
E
intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva
altro sollievo che quello di sbadigliare, e faceva degli sbadigli cosí lunghi,
che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi. E dopo avere
sbadigliato, sputava, e sentiva che lo stomaco gli andava via.
Allora
piangendo e disperandosi, diceva:
— Il
Grillo-parlante aveva ragione. Ho fatto male a rivoltarmi al mio babbo e a
fuggire di casa... Se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di
sbadigli! Oh! che brutta malattia che è la fame! —
Quand’ecco
che gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche cosa di tondo e di
bianco, che somigliava tutto a un uovo di gallina. Spiccare un salto e
gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un uovo davvero.
La
gioia del burattino è impossibile descriverla: bisogna sapersela figurare.
Credendo quasi che fosse un sogno, si rigirava quest’uovo fra le mani, e lo
toccava e lo baciava, e baciandolo diceva:
— E
ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata!... No, è meglio cuocerlo nel
piatto!... O non sarebbe piú saporito se lo friggessi in padella? O se invece
lo cuocessi a uso uovo a bere? No, la piú lesta di tutte è di cuocerlo nel
piatto o nel tegamino: ho troppo voglia di mangiarmelo! —
Detto
fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa: messe nel
tegamino, invece d’olio o di burro, un po’ d’acqua: e quando l’acqua principiò
a fumare, tac!... spezzò il guscio dell’uovo, e fece l’atto di scodellarvelo
dentro.
Ma
invece della chiara e del torlo scappò fuori un pulcino tutto allegro e
complimentoso, il quale facendo una bella riverenza disse:
— Mille
grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiata la fatica di rompere il guscio!
Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa! —
Ciò
detto, distese le ali, e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a
perdita d’occhio.
Il
povero burattino rimase lí, come incantato, cogli occhi fissi, colla bocca
aperta e coi gusci dell’uovo in mano. Riavutosi, peraltro, dal primo
sbigottimento, cominciò a piangere, a strillare, a battere i piedi in terra per
la disperazione, e piangendo diceva:
— Eppure
il Grillo-parlante aveva ragione! Se non fossi scappato di casa e se il mio
babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di fame! Oh! che brutta malattia
che è la fame!... —
E
perché il corpo gli seguitava a brontolare piú che mai, e non sapeva come fare
a chetarlo, pensò di uscir di casa e di dare una scappata al paesello vicino,
nella speranza di trovare qualche persona caritatevole, che gli facesse
l’elemosina di un po’ di pane.
VI
Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano,
e la mattina dopo si sveglia coi piedi tutti
bruciati.
Per
l’appunto era una nottataccia d’inferno. Tonava forte forte, lampeggiava come
se il cielo pigliasse fuoco, e un ventaccio freddo e strapazzone, fischiando
rabbiosamente e sollevando un immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e
cigolare tutti gli alberi della campagna.
Pinocchio
aveva una gran paura dei tuoni e dei lampi: se non che la fame era piú forte
della paura: motivo per cui accostò l’uscio di casa, e presa la carriera, in un
centinaio di salti arrivò fino al paese, colla lingua fuori e col fiato grosso,
come un cane da caccia.
Ma
trovò tutto buio e tutto deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte di casa
chiuse; le finestre chiuse, e nella strada nemmeno un cane. Pareva il paese dei
morti.
Allora
Pinocchio, preso dalla disperazione e dalla fame, si attaccò al campanello
d’una casa, e cominciò a sonare a distesa, dicendo dentro di sé:
— Qualcuno
si affaccerà. —
Difatti
si affacciò un vecchino, col berretto da notte in capo, il quale gridò tutto
stizzito:
— Che
cosa volete a quest’ora?
— Che
mi fareste il piacere di darmi un po’ di pane?
— Aspettami
costí che torno subito, — rispose il vecchino, credendo di avere da fare con
qualcuno di quei ragazzacci rompicolli che si divertono di notte a sonare i
campanelli delle case, per molestare la gente per bene, che se la dorme
tranquillamente.
Dopo
mezzo minuto la finestra si riaprí, e la voce del solito vecchino gridò a
Pinocchio:
— Fatti
sotto e para il cappello. —
Pinocchio
si levò subito il suo cappelluccio; ma mentre faceva l’atto di pararlo, sentí
pioversi addosso un’enorme catinellata d’acqua che lo annaffiò tutto dalla
testa ai piedi, come se fosse un vaso di giranio appassito.
Tornò
a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e dalla fame: e
perché non aveva piú forza da reggersi ritto, si pose a sedere, appoggiando i
piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno di brace accesa.
E lí
si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno gli presero fuoco, e
adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere.
E
Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero quelli
d’un altro. Finalmente sul far del giorno si svegliò, perché qualcuno aveva
bussato alla porta.
— Chi
è? — domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.
— Sono
io! — rispose una voce.
Quella
voce era la voce di Geppetto.
VII
Geppetto torna a casa, e dà al burattino la
colazione
che il pover’uomo aveva portata per sé.
Il
povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi fra il sonno, non s’era ancora
avvisto dei piedi che gli si erano tutti bruciati: per cui appena sentí la voce
di suo padre, schizzò giú dallo sgabello per correre a tirare il paletto; ma
invece, dopo due o tre traballoni, cadde di picchio tutto lungo disteso sul
pavimento.
E nel
battere in terra fece lo stesso rumore, che avrebbe fatto un sacco di mestoli,
cascato da un quinto piano.
— Aprimi!
— intanto gridava Geppetto dalla strada.
— Babbo
mio, non posso — rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi per terra.
— Perché
non puoi?
— Perché
mi hanno mangiato i piedi.
— E
chi te li ha mangiati?
— Il
gatto — disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine davanti si
divertiva a far ballare alcuni trucioli di legno.
— Aprimi,
ti dico! — ripeté Geppetto — se no, quando vengo in casa, il gatto te lo do io!
— Non
posso star ritto, credetelo. Oh! povero me! povero me, che mi toccherà a
camminare coi ginocchi per tutta la vita!... —
Geppetto,
credendo che tutti questi piagnistei fossero un’altra monelleria del burattino,
pensò bene di farla finita, e arrampicatosi su per il muro, entrò in casa dalla
finestra.
Da
principio voleva dire e voleva fare; ma poi, quando vide il suo Pinocchio
sdraiato in terra e rimasto senza piedi davvero, allora sentí intenerirsi; e
presolo subito in collo, si dètte a baciarlo e a fargli mille carezze e mille
moine, e, coi luccioloni che gli cascavano giú per le gote, gli disse singhiozzando:
— Pinocchiuccio
mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi?
— Non
lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d’inferno e me ne ricorderò
fin che campo. Tonava, balenava e io avevo una gran fame, e allora il
Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene: sei stato cattivo, e te lo meriti» e io
gli dissi: «Bada, Grillo!...» e lui mi disse: «Tu sei un burattino e hai la
testa di legno» e io gli tirai un manico di martello, e lui morí, ma la colpa
fu sua, perché io non volevo ammazzarlo, prova ne sia che messi un tegamino
sulla brace accesa del caldano, ma il pulcino scappò fuori e disse:
«Arrivedella... e tanti saluti a casa». E la fame cresceva sempre, motivo per
cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi alla finestra mi disse:
«Fatti sotto e para il cappello» e io con quella catinellata d’acqua sul capo,
perché il chiedere un po’ di pane non è vergogna, non è vero? me ne tornai
subito a casa, e perché avevo sempre una gran fame, messi i piedi sul caldano
per rasciugarmi, e voi siete tornato, e me li sono trovati bruciati, e intanto
la fame l’ho sempre e i piedi non li ho piú! ih!... ih!... ih!... ih!... —
E il
povero Pinocchio cominciò a piangere e a berciare cosí forte, che lo sentivano
da cinque chilometri lontano.
Geppetto,
che di tutto quel discorso arruffato aveva capito una sola cosa, cioè che il
burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò fuori di tasca tre pere, e
porgendogliele, disse:
— Queste
tre pere erano la mia colazione: ma io te le do volentieri. Mangiale, e buon
pro ti faccia.
— Se
volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle.
— Sbucciarle?
— replicò Geppetto meravigliato. — Non avrei mai creduto, ragazzo mio, che tu
fossi cosí boccuccia e cosí schizzinoso di palato. Male! In questo mondo, fin
da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiar di tutto, perché non
si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!...
— Voi
direte bene — soggiunse Pinocchio — ma io non mangerò mai una frutta, che non
sia sbucciata. Le bucce non le posso soffrire. —
E quel
buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi di santa
pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un angolo della
tavola.
Quando
Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l’atto di buttar via
il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio, dicendogli:
— Non
lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo.
— Ma
io il torsolo non lo mangio davvero!... — gridò il burattino, rivoltandosi come
una vipera.
— Chi
lo sa! I casi son tanti!... — ripeté Geppetto, senza riscaldarsi.
Fatto
sta che i tre torsoli, invece di esser gettati fuori dalla finestra, vennero
posati sull’angolo della tavola in compagnia delle bucce.
Mangiate
o, per dir meglio, divorate le tre pere, Pinocchio fece un lunghissimo
sbadiglio e disse piagnucolando:
— Ho
dell’altra fame!
— Ma
io, ragazzo mio, non ho piú nulla da darti.
— Proprio
nulla, nulla?
— Ci
avrei soltanto queste bucce e questi torsoli di pera.
— Pazienza!
— disse Pinocchio, — se non c’è altro, mangerò una buccia. —
E
cominciò a masticare. Da principio storse un po’ la bocca: ma poi una dietro
l’altra, spolverò in un soffio tutte le bucce: e dopo le bucce anche i torsoli,
e quand’ebbe finito di mangiare ogni cosa, si batté tutto contento le mani sul
corpo, e disse gongolando:
— Ora
sí che sto bene!
— Vedi
dunque — osservò Geppetto — che avevo ragione io quando ti dicevo che non
bisogna avvezzarsi né troppo sofistici né troppo delicati di palato. Caro mio,
non si sa mai quel che ci può capitare in questo mondo. I casi son tanti!!... —
VIII
Geppetto rifà i piedi a Pinocchio, e vende la
propria casacca
per comprargli l’Abbecedario.
Il
burattino, appena che si fu levata la fame, cominciò subito a bofonchiare e a
piangere, perché voleva un paio di piedi nuovi.
Ma
Geppetto, per punirlo della monelleria fatta, lo lasciò piangere e disperarsi
per una mezza giornata: poi gli disse:
— E
perché dovrei rifarti i piedi? Forse per vederti scappar di nuovo da casa tua?
— Vi
prometto — disse il burattino singhiozzando — che da oggi in poi sarò buono...
— Tutti
i ragazzi — replicò Geppetto — quando vogliono ottenere qualcosa, dicono cosí.
— Vi
prometto che anderò a scuola, studierò e mi farò onore...
— Tutti
i ragazzi, quando vogliono ottenere qualcosa, ripetono la medesima storia.
— Ma
io non sono come gli altri ragazzi! Io sono piú buono di tutti, e dico sempre
la verità. Vi prometto, babbo, che imparerò un’arte, e che sarò la consolazione
e il bastone della vostra vecchiaia. —
Geppetto
che, sebbene facesse il viso di tiranno, aveva gli occhi pieni di pianto e il
cuore grosso dalla passione nel vedere il suo povero Pinocchio in quello stato
compassionevole, non rispose altre parole: ma, presi in mano gli arnesi del
mestiere e due pezzetti di legno stagionato, si pose a lavorare di grandissimo
impegno.
E in
meno d’un’ora, i piedi erano bell’e fatti: due piedini svelti, asciutti e
nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio.
Allora
Geppetto disse al burattino:
— Chiudi
gli occhi e dormi! —
E
Pinocchio chiuse gli occhi e fece finta di dormire. E nel tempo che si fingeva
addormentato, Geppetto con un po’ di colla sciolta in un guscio d’uovo gli
appiccicò i due piedi al loro posto, e glieli appiccicò cosí bene, che non si
vedeva nemmeno il segno dell’attaccatura.
Appena
il burattino si accòrse di avere i piedi, saltò giú dalla tavola dove stava
disteso, e principiò a fare mille sgambetti e mille capriòle, come se fosse
ammattito dalla gran contentezza.
— Per
ricompensarvi di quanto avete fatto per me — disse Pinocchio al suo babbo — voglio
subito andare a scuola.
— Bravo
ragazzo.
— Ma
per andare a scuola ho bisogno d’un po’ di vestito. —
Geppetto,
che era povero e non aveva in tasca nemmeno un centesimo, gli fece allora un
vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza d’albero e un
berrettino di midolla di pane.
Pinocchio
corse subito a specchiarsi in una catinella piena d’acqua e rimase cosí
contento di sé, che disse pavoneggiandosi:
— Paio
proprio un signore!
— Davvero,
— replicò Geppetto — perché, tienlo a mente, non è il vestito bello che fa il
signore, ma è piuttosto il vestito pulito.
— A
proposito, — soggiunse il burattino — per andare alla scuola mi manca sempre
qualcosa: anzi mi manca il piú e il meglio.
— Cioè?
— Mi
manca l’Abbecedario.
— Hai
ragione: ma come si fa per averlo?
— È
facilissimo: si va da un libraio e si compra.
— E
i quattrini?
— Io
non ce l’ho.
— Nemmeno
io — soggiunse il buon vecchio, facendosi tristo.
E
Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece tristo anche lui:
perché la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i
ragazzi.
— Pazienza!
— gridò Geppetto tutt’a un tratto rizzandosi in piedi; e infilatasi la vecchia
casacca di frustagno, tutta toppe e rimendi, uscí correndo di casa.
Dopo
poco tornò: e quando tornò, aveva in mano l’Abbecedario per il figliuolo, ma la
casacca non l’aveva piú. Il pover’uomo era in maniche di camicia, e fuori
nevicava.
— E
la casacca, babbo?
— L’ho
venduta.
— Perché
l’avete venduta?
— Perché
mi faceva caldo. —
Pinocchio
capí questa risposta a volo, e non potendo frenare l’impeto del suo buon cuore,
saltò al collo di Geppetto e cominciò a baciarlo per tutto il viso.
IX
Pinocchio vende l’Abbecedario per andare a vedere
il teatrino dei burattini.
Smesso
che fu di nevicare, Pinocchio, col suo bravo Abbecedario nuovo sotto il
braccio, prese la strada che menava alla scuola: e strada facendo, fantasticava
nel suo cervellino mille ragionamenti e mille castelli in aria uno piú bello
dell’altro.
E
discorrendo da sé solo, diceva:
— Oggi,
alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere,
e domani l’altro imparerò a fare i numeri. Poi, colla mia abilità, guadagnerò
molti quattrini e coi primi quattrini che mi verranno in tasca, voglio subito
fare al mio babbo una bella casacca di panno. Ma che dico di panno? Gliela
voglio fare tutta d’argento e d’oro, e coi bottoni di brillanti. E quel
pover’uomo se la merita davvero: perché, insomma, per comprarmi i libri e per
farmi istruire, è rimasto in maniche di camicia... a questi freddi! Non ci sono
che i babbi che sieno capaci di certi sacrifizi!... —
Mentre
tutto commosso diceva cosí, gli parve di sentire in lontananza una musica di
pifferi e di colpi di gran cassa: pí-pí-pí, pí-pí-pí, zum, zum, zum, zum.
Si
fermò e stette in ascolto. Quei suoni venivano di fondo a una lunghissima
strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto fabbricato sulla spiaggia
del mare.
— Che
cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola, se no... —
E
rimase lí perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione: o a
scuola, o a sentire i pifferi.
— Oggi
anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a scuola c’è sempre
tempo — disse finalmente quel monello, facendo una spallucciata.
Detto
fatto, infilò giú per la strada traversa e cominciò a correre a gambe. Piú
correva e piú sentiva distinto il suono dei pifferi e dei tonfi della
gran-cassa: pí-pí-pí, pí-pí-pí, pí-pí-pí, zum, zum, zum, zum.
Quand’ecco
che si trovò in mezzo a una piazza tutta piena di gente, la quale si affollava
intorno a un gran baraccone di legno e di tela dipinta di mille colori.
— Che
cos’è quel baraccone? — domandò Pinocchio, voltandosi a un ragazzetto che era
lí del paese.
— Leggi
il cartello, che c’è scritto, e lo saprai.
— Lo
leggerei volentieri, ma per l’appunto oggi non so leggere.
— Bravo
bue! Allora te lo leggerò io. Sappi dunque che in quel cartello a lettere rosse
come il fuoco, c’è scritto: GRAN TEATRO DEI BURATTINI...
— È
molto che è incominciata la commedia?
— Comincia
ora.
— E
quanto si spende per entrare?
— Quattro
soldi. —
Pinocchio,
che aveva addosso la febbre della curiosità, perse ogni ritegno e disse, senza
vergognarsi, al ragazzetto col quale parlava:
— Mi
daresti quattro soldi fino a domani?
— Te
li darei volentieri — gli rispose l’altro canzonandolo — ma oggi per l’appunto
non te li posso dare.
— Per
quattro soldi, ti vendo la mia giacchetta — gli disse allora il burattino.
— Che
vuoi che mi faccia di una giacchetta di carta fiorita? Se ci piove su, non c’è
piú verso di cavarsela da dosso.
— Vuoi
comprare le mie scarpe?
— Sono
buone per accendere il fuoco.
— Quanto
mi dai del berretto?
— Bell’acquisto
davvero! Un berretto di midolla di pane! C’è il caso che i topi me lo vengano a
mangiare in capo! —
Pinocchio
era sulle spine. Stava lí lí per fare un’ultima offerta: ma non aveva coraggio:
esitava, tentennava, pativa. Alla fine disse:
— Vuoi
darmi quattro soldi di quest’Abbecedario nuovo?
— Io
sono un ragazzo, e non compro nulla dai ragazzi — gli rispose il suo piccolo
interlocutore, che aveva piú giudizio di lui.
— Per
quattro soldi l’Abbecedario lo prendo io — gridò un rivenditore di panni usati,
che s’era trovato presente alla conversazione.
E il
libro fu venduto lí su due piedi. E pensare che quel pover’uomo di Geppetto era
rimasto a casa, a tremare dal freddo in maniche di camicia, per comprare
l’Abbecedario al figliuolo!
X
I burattini riconoscono il loro fratello
Pinocchio, e gli fanno
una grandissima festa; ma sul piú bello, esce
fuori il burattinaio Mangiafoco,
e Pinocchio corre il pericolo di fare una brutta
fine.
Quando
Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò una
mezza rivoluzione.
Bisogna
sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.
Sulla
scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e,
secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico
di schiaffi e di bastonate.
La
platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il
battibecco di quei due burattini, che gestivano e si trattavano d’ogni vitupero
con tanta verità, come se fossero proprio due animali ragionevoli e due persone
di questo mondo.
Quando
all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi
verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea,
comincia a urlare in tono drammatico:
— Numi
del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiú è Pinocchio!...
— È
Pinocchio davvero! — grida Pulcinella.
— È
proprio lui! — strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla
scena.
— È
Pinocchio! è Pinocchio! — urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti
fuori dalle quinte. — È Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio! Evviva
Pinocchio!...
— Pinocchio,
vieni quassú da me! — grida Arlecchino — vieni a gettarti fra le braccia dei
tuoi fratelli di legno! —
A
questo affettuoso invito, Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va
nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla
testa del direttore d’orchestra, e di lí schizza sul palcoscenico.
È
impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti
dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio
ricevé in mezzo a tanto arruffío dagli attori e dalle attrici di quella
compagnia drammatico-vegetale.
Questo
spettacolo era commovente, non c’è che dire: ma il pubblico della platea,
vedendo che la commedia non andava piú avanti, s’impazientí e prese a gridare:
— Vogliamo
la commedia, vogliamo la commedia! —
Tutto
fiato buttato via, perché i burattini, invece di continuare la recita,
raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi Pinocchio sulle spalle, se lo
portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta.
Allora
uscí fuori il burattinaio, un omone cosí brutto, che metteva paura soltanto a
guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto
lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando
camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i
suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro; e
con le mani schioccava una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe
attorcigliate insieme.
All’apparizione
inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno fiatò piú. Si sarebbe
sentito volare una mosca. Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano
come tante foglie.
— Perché
sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro? — domandò il burattinaio a
Pinocchio, con un vocione d’Orco gravemente infreddato di testa.
— La
creda, illustrissimo, che la colpa non è stata mia!...
— Basta
cosí! Stasera faremo i nostri conti. —
Difatti,
finita la recita della commedia, il burattinaio andò in cucina, dov’egli s’era
preparato per cena un bel montone, che girava lentamente infilato nello spiede.
E perché gli mancavano le legna per finirlo di cuocere e di rosolare, chiamò
Arlecchino e Pulcinella e disse loro:
— Portatemi
di qua quel burattino, che troverete attaccato al chiodo. Mi pare un burattino
fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi
darà una bellissima fiammata all’arrosto. —
Arlecchino
e Pulcinella da principio esitarono; ma impauriti da un’occhiataccia del loro
padrone, obbedirono: e dopo poco tornarono in cucina, portando sulle braccia il
povero Pinocchio, il quale, divincolandosi come un’anguilla fuori dell’acqua,
strillava disperatamente:
— Babbo
mio, salvatemi! Non voglio morire, no, non voglio morire!... —
XI
Mangiafoco starnutisce e perdona a Pinocchio, il
quale poi difende dalla morte
il suo amico Arlecchino.
Il
burattinaio Mangiafoco (ché questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso,
non dico di no, specie con quella sua barbaccia nera che, a uso grembiale, gli
copriva tutto il petto e tutte le gambe; ma nel fondo poi non era un
cattiv’uomo. Prova ne sia che quando vide portarsi davanti quel povero
Pinocchio, che si dibatteva per ogni verso, urlando «Non voglio morire, non
voglio morire!», principiò subito a commuoversi e a impietosirsi; e dopo aver
resistito un bel pezzo, alla fine non ne poté piú, e lasciò andare un
sonorissimo starnuto.
A
quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e ripiegato come
un salcio piangente, si fece tutto allegro in viso e chinatosi verso Pinocchio,
gli bisbigliò sottovoce:
— Buone
nuove, fratello! Il burattinaio ha starnutito, e questo è segno che s’è mosso a
compassione per te, e oramai sei salvo. —
Perché
bisogna sapere che, mentre tutti gli uomini, quando si sentono impietositi per
qualcuno, o piangono, o per lo meno fanno finta di rasciugarsi gli occhi,
Mangiafoco, invece, ogni volta che s’inteneriva davvero aveva il vizio di
starnutire. Era un modo come un altro, per dare a conoscere agli altri la
sensibilità del suo cuore.
Dopo
avere starnutito, il burattinaio, seguitando a fare il burbero, gridò a
Pinocchio:
— Finiscila
di piangere! I tuoi lamenti mi hanno messo un’uggiolina qui in fondo allo
stomaco... sento uno spasimo, che quasi quasi... Etcí! Etcí! — e fece altri due
starnuti.
— Felicità!
— disse Pinocchio.
— Grazie.
E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? — gli domandò Mangiafoco.
— Il
babbo, sí: la mamma non l’ho mai conosciuta.
— Chi
lo sa che dispiacere sarebbe per il tuo vecchio padre, se ora ti facessi
gettare fra que’ carboni ardenti! Povero vecchio! lo compatisco!... Etcí, etcí,
etcí — e fece altri tre starnuti.
— Felicità!
— disse Pinocchio.
— Grazie!
Del resto bisogna compatire anche me, perché, come vedi, non ho piú legna per
finire di cuocere quel montone arrosto, e tu, dico la verità, in questo caso mi
avresti fatto un gran comodo! Ma ormai mi sono impietosito e ci vuol pazienza.
Invece di te, metterò a bruciare sotto lo spiede qualche burattino della mia
Compagnia. Olà, giandarmi! —
A
questo comando comparvero subito due giandarmi di legno, lunghi lunghi, secchi
secchi, col cappello a lucerna in testa e colla sciabola sfoderata in mano.
Allora
il burattinaio disse loro con voce rantolosa:
— Pigliatemi
lí quell’Arlecchino, legatelo ben bene, e poi gettatelo a bruciare sul fuoco.
Io voglio che il mio montone sia arrostito bene! —
Figuratevi
il povero Arlecchino! Fu tanto il suo spavento, che le gambe gli si ripiegarono
e cadde bocconi per terra.
Pinocchio,
alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del
burattinaio, e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli
della lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole:
— Pietà,
signor Mangiafoco!...
— Qui
non ci son signori! — replicò duramente il burattinaio.
— Pietà,
signor Cavaliere!...
— Qui
non ci sono cavalieri!
— Pietà,
signor Commendatore!...
— Qui
non ci sono commendatori!
— Pietà,
Eccellenza!... —
A
sentirsi chiamare Eccellenza, il burattinaio fece subito il bocchino tondo, e
diventato tutt’a un tratto piú umano e piú trattabile, disse a Pinocchio:
— Ebbene,
che cosa vuoi da me?
— Vi
domando grazia per il povero Arlecchino!...
— Qui
non c’è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia mettere sul
fuoco lui, perché io voglio che il mio montone sia arrostito bene.
— In
questo caso — gridò fieramente Pinocchio, rizzandosi e gettando via il suo
berretto di midolla di pane — in questo caso conosco qual è il mio dovere.
Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi là fra quelle fiamme. No, non è
giusta che il povero Arlecchino, il vero amico mio, debba morire per me! —
Queste
parole, pronunziate con voce alta e con accento eroico, fecero piangere tutti i
burattini che erano presenti a quella scena. Gli stessi giandarmi, sebbene
fossero di legno, piangevano come due agnellini di latte.
Mangiafoco,
sul principio, rimase duro e immobile come un pezzo di ghiaccio: ma poi, adagio
adagio, cominciò anche lui a commuoversi e a starnutire. E fatti quattro o
cinque starnuti, aprí affettuosamente le braccia e disse a Pinocchio:
— Tu
sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio. —
Pinocchio
corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del
burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla punta del naso.
— Dunque
la grazia è fatta? — domandò il povero Arlecchino, con un fil di voce che si
sentiva appena.
— La
grazia è fatta! — rispose Mangiafoco: poi soggiunse sospirando e tentennando il
capo:
— Pazienza!
Per questa sera mi rassegnerò a mangiare il montone mezzo crudo: ma un’altra
volta, guai a chi toccherà!... —
Alla
notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico e,
accesi i lumi e i lampadari come in serata di gala, cominciarono a saltare e a
ballare. Era l’alba e ballavano sempre.
XII
Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete
d’oro a Pinocchio
perché le porti al suo babbo Geppetto: e
Pinocchio,
invece, si lascia abbindolare dalla Volpe e dal
Gatto e se ne va con loro.
Il
giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:
— Come
si chiama tuo padre?
— Geppetto.
— E
che mestiere fa?
— Il
povero.
— Guadagna
molto?
— Guadagna
tanto quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per
comprarmi l’Abbecedario della scuola dové vendere l’unica casacca che aveva
addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi, era tutta una piaga.
— Povero
diavolo! Mi fa quasi compassione. Ecco qui cinque monete d’oro. Va’ subito a
portargliele e salutalo tanto da parte mia. —
Pinocchio,
com’è facile immaginarselo, ringraziò mille volte il burattinaio: abbracciò, a
uno a uno, tutti i burattini della compagnia, anche i giandarmi; e fuori di sé
dalla contentezza, si mise in viaggio per ritornarsene a casa sua.
Ma non
aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa
da un piede e un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi che se ne andavano là là,
aiutandosi fra di loro, da buoni compagni di sventura. La Volpe, che era zoppa,
camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto, che era cieco, si lasciava
guidare dalla Volpe.
— Buon
giorno, Pinocchio — gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente.
— Com’è
che sai il mio nome? — domandò il burattino.
— Conosco
bene il tuo babbo.
— Dove
l’hai veduto?
— L’ho
veduto ieri sulla porta di casa sua.
— E
che cosa faceva?
— Era
in maniche di camicia e tremava dal freddo.
— Povero
babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà piú!...
— Perché?
— Perché
io sono diventato un gran signore.
— Un
gran signore tu? — disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso sguaiato e
canzonatore: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a vedere, si
pettinava i baffi colle zampe davanti.
— C’è
poco da ridere — gridò Pinocchio impermalito. — Mi dispiace davvero di farvi
venire l’acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque
bellissime monete d’oro. —
E tirò
fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco.
Al
simpatico suono di quelle monete, la Volpe per un moto involontario allungò la
gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt’e due gli occhi che
parvero due lanterne verdi: ma poi li richiuse subito, tant’è vero che
Pinocchio non si accòrse di nulla.
— E
ora — gli domandò la Volpe — che cosa vuoi farne di codeste monete?
— Prima
di tutto — rispose il burattino — voglio comprare per il mio babbo una bella
casacca nuova, tutta d’oro e d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio
comprare un Abbecedario per me.
— Per
te?
— Davvero:
perché voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono.
— Guarda
me! — disse la Volpe. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.
— Guarda
me! — disse il Gatto. — Per la passione sciocca di studiare ho perduto la vista
di tutti e due gli occhi. —
In
quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe della
strada, fece il suo solito verso e disse:
— Pinocchio,
non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no, te ne pentirai! —
Povero
Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto, gli si
avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ohi, se lo mangiò in
un boccone, con le penne e tutto.
Mangiato
che l’ebbe e ripulitosi la bocca, chiuse gli occhi daccapo, e ricominciò a fare
il cieco come prima.
— Povero
Merlo! — disse Pinocchio al Gatto — perché l’hai trattato cosí male?
— Ho
fatto per dargli una lezione. Cosí un’altra volta imparerà a non metter bocca
nei discorsi degli altri. —
Erano
giunti piú che a mezza strada quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco,
disse al burattino:
— Vuoi
raddoppiare le tue monete d’oro?
— Cioè?
— Vuoi
tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?
— Magari!
e la maniera?
— La
maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venir con noi.
— E
dove mi volete condurre?
— Nel
paese dei Barbagianni. —
Pinocchio
ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:
— No,
non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene a casa,
dove c’è il mio babbo che m’aspetta. Chi lo sa, povero vecchio, quanto ha
sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur troppo io sono stato un figliolo
cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione quando diceva: «i ragazzi
disobbedienti non possono aver bene in questo mondo». E io l’ho provato a mie
spese, perché mi sono capitate dimolte disgrazie, e anche ieri sera in casa di
Mangiafoco, ho corso pericolo... Brrr! mi viene i bordoni soltanto a pensarci!
— Dunque
— disse la Volpe — vuoi proprio andare a casa tua? Allora va’ pure, e tanto
peggio per te.
— Tanto
peggio per te! — ripeté il Gatto.
— Pensaci
bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna.
— Alla
fortuna! — ripeté il Gatto.
— I
tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.
— Duemila!
— ripeté il Gatto.
— Ma
com’è mai possibile che diventino tanti? — domandò Pinocchio, restando a bocca
aperta dallo stupore.
— Te
lo spiego subito — disse la Volpe. — Bisogna sapere che nel paese dei
Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu
fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro, per esempio, uno
zecchino d’oro. Poi ricopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie
d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai
tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e
fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi?
Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro quanti chicchi di grano può
avere una bella spiga nel mese di giugno.
— Sicché
dunque — disse Pinocchio sempre piú sbalordito — se io sotterrassi in quel
campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini ci troverei?
— È
un conto facilissimo — rispose la Volpe — un conto che puoi farlo sulla punta
delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento
zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque, e la mattina dopo ti trovi in
tasca duemilacinquecento zecchini lampanti e sonanti.
— Oh
che bella cosa! — gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. — Appena che
questi zecchini li avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri
cinquecento di piú li darò in regalo a voialtri due.
— Un
regalo a noi? — gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. — Dio te ne
liberi!
— Te
ne liberi! — ripeté il Gatto.
— Noi
— riprese la Volpe — non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo
unicamente per arricchire gli altri.
— Gli
altri! — ripeté il Gatto.
— Che
brave persone! — pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi lí sul tamburo,
del suo babbo, della casacca nuova, dell’Abbecedario e di tutti i buoni
proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:
— Andiamo
subito, io vengo con voi. —
XIII
L’osteria del «Gambero Rosso».
Cammina,
cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti
all’osteria del Gambero Rosso.
— Fermiamoci
un po’ qui — disse la Volpe — tanto per mangiare un boccone e per riposarci
qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere domani, all’alba, nel
Campo dei miracoli. —
Entrati
nell’osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva
appetito.
Il
povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare
altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di
trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza,
si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!
La
Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il
medico le aveva ordinato una grandissima dieta, cosí dové contentarsi di una
semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre
ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre, si fece portare per
tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di
lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il
cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca.
Quello
che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un
cantuccio di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo, col
pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un’indigestione
anticipata di monete d’oro.
Quand’ebbero
cenato, la Volpe disse all’oste:
— Datemi
due buone camere, una per il signor Pinocchio e un’altra per me e per il mio
compagno. Prima di ripartire stiacceremo un sonnellino. Ricordatevi però che a
mezzanotte vogliamo essere svegliati per continuare il nostro viaggio.
— Sissignori
— rispose l’oste, e strizzò l’occhio alla Volpe e al Gatto, come dire: «Ho
mangiata la foglia e ci siamo intesi!...»
Appena
che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò a colpo e principiò a
sognare. E sognando gli pareva di essere in mezzo a un campo, e questo campo
era pieno di arboscelli carichi di grappoli, e questi grappoli erano carichi di
zecchini d’oro che, dondolandosi mossi dal vento, facevano zin, zin, zin, quasi
volessero dire «chi ci vuole, venga a prenderci». Ma quando Pinocchio fu sul
piú bello, quando, cioè, allungò la mano per prendere a manciate tutte quelle
belle monete e mettersele in tasca, si trovò svegliato all’improvviso da tre
violentissimi colpi dati nella porta di camera.
Era
l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era sonata.
— E
i miei compagni sono pronti? — gli domandò il burattino.
— Altro
che pronti! Sono partiti due ore fa.
— Perché
mai tanta fretta?
— Perché
il Gatto ha ricevuto un’imbasciata, che il suo gattino maggiore, malato di
geloni ai piedi, stava in pericolo di vita.
— E
la cena l’hanno pagata?
— Che
vi pare? Quelle lí sono persone troppo educate, perché facciano un affronto
simile alla signoria vostra.
— Peccato!
Quest’affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! — disse Pinocchio, grattandosi
il capo. Poi domandò:
— E
dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici?
— Al
Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno. —
Pinocchio
pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi compagni, e dopo partí.
Ma si
può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell’osteria c’era un buio cosí
buio che non ci si vedeva da qui a lí. Nella campagna all’intorno non si
sentiva alitare una foglia. Solamente, di tanto in tanto, alcuni uccellacci
notturni, traversando la strada da una siepe all’altra, venivano a sbattere le ali
sul naso di Pinocchio, il quale facendo un salto indietro per la paura,
gridava: — Chi va là? — e l’eco delle colline circostanti ripeteva in
lontananza: — Chi va là? chi va là? chi va là? —
Intanto,
mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto che
riluceva di una luce pallida e opaca, come un lumino da notte dentro una
lampada di porcellana trasparente.
— Chi
sei? — gli domandò Pinocchio.
— Sono
l’ombra del Grillo-parlante — rispose l’animaletto con una vocina fioca fioca,
che pareva venisse dal mondo di là.
— Che
vuoi da me? — disse il burattino.
— Voglio
darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro zecchini, che ti sono
rimasti, al tuo povero babbo, che piange e si dispera per non averti piú
veduto.
— Domani
il mio babbo sarà un gran signore, perché questi quattro zecchini diventeranno
duemila.
— Non
ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina
alla sera. Per il solito o sono matti o imbroglioni! Dài retta a me, ritorna
indietro.
— E
io invece voglio andare avanti.
— L’ora
è tarda!...
— Voglio
andare avanti.
— La
nottata è scura...
— Voglio
andare avanti.
— La
strada è pericolosa...
— Voglio
andare avanti.
— Ricordati
che i ragazzi che vogliono fare di capriccio e a modo loro, prima o poi se ne
pentono.
— Le
solite storie. Buona notte, Grillo.
— Buona
notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli
assassini. —
Appena
dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un tratto, come si
spenge un lume soffiandoci sopra, e la strada rimase piú buia di prima.
XIV
Pinocchio, per non aver dato retta ai buoni
consigli del Grillo-parlante,
s’imbatte negli assassini.
— Davvero
— disse fra sé il burattino rimettendosi in viaggio — come siamo disgraziati
noi altri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci
dànno dei consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i
nostri babbi e i nostri maestri; tutti: anche i Grilli-parlanti. Ecco qui:
perché io non ho voluto dar retta a quell’uggioso di Grillo, chi lo sa quante
disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli
assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai.
Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai
ragazzi che vogliono andar fuori la notte. E poi se anche li trovassi qui sulla
strada, mi darebbero forse soggezione? Neanche per sogno. Anderei loro sul
viso, gridando: «Signori assassini, che cosa vogliono da me? Si rammentino che
con me non si scherza! Se ne vadano dunque per i fatti loro, e zitti!» A questa
parlantina fatta sul serio, quei poveri assassini, mi par di vederli,
scapperebbero via come il vento. Caso poi fossero tanto ineducati da non volere
scappare, allora scapperei io, e cosí la farei finita... —
Ma
Pinocchio non poté finire il suo ragionamento, perché in quel punto gli parve
di sentire dietro di sé un leggerissimo fruscío di foglie.
Si
voltò a guardare, e vide nel buio due figuracce nere, tutte imbacuccate in due
sacchi da carbone, le quali correvano dietro a lui a salti e in punta di piedi,
come se fossero due fantasmi.
— Eccoli
davvero! — disse dentro di sé: e non sapendo dove nascondere i quattro
zecchini, se li nascose in bocca e precisamente sotto la lingua.
Poi si
provò a scappare. Ma non aveva ancora fatto il primo passo, che sentí
agguantarsi per le braccia e intese due voci orribili e cavernose, che gli
dissero:
— O
la borsa o la vita! —
Pinocchio
non potendo rispondere con le parole, a motivo delle monete che aveva in bocca,
fece mille salamelecchi e mille pantomime, per dare ad intendere a quei due
incappati, di cui si vedevano soltanto gli occhi attraverso i buchi dei sacchi,
che lui era un povero burattino e che non aveva in tasca nemmeno un centesimo
falso.
— Via,
via! Meno ciarle e fuori i denari! — gridarono minacciosamente i due briganti.
E il
burattino fece col capo e colle mani un segno, come dire: «Non ne ho».
— Metti
fuori i denari o sei morto — disse l’assassino piú alto di statura.
— Morto!
— ripeté l’altro.
— E
dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo padre!
— Anche
tuo padre!
— No,
no, no, il mio povero babbo no! — gridò Pinocchio con accento disperato: ma nel
gridare cosí, gli zecchini gli sonarono in bocca.
— Ah
furfante! dunque i danari te li sei nascosti sotto la lingua? Sputali
subito! —
E
Pinocchio, duro!
— Ah!
tu fai il sordo? Aspetta un po’, ché penseremo noi a farteli sputare! —
Difatti
uno di loro afferrò il burattino per la punta del naso e quell’altro lo prese
per la bazza, e lí cominciarono a tirare screanzatamente uno per in qua e
l’altro per in là, tanto da costringerlo a spalancare la bocca: ma non ci fu
verso. La bocca del burattino pareva inchiodata e ribadita.
Allora
l’assassino piú piccolo di statura, cavato fuori un coltellaccio, provò a conficcarglielo
a guisa di leva e di scalpello fra le labbra: ma Pinocchio, lesto come un
lampo, gli azzannò la mano coi denti, e dopo avergliela con un morso staccata
di netto, la sputò; e figuratevi la sua meraviglia quando, invece di una mano,
si accòrse di avere sputato in terra uno zampetto di gatto.
Incoraggito
da questa prima vittoria, si liberò a forza dalle unghie degli assassini, e
saltata la siepe della strada, cominciò a fuggire per la campagna. E gli
assassini a correre dietro a lui, come due cani dietro una lepre: e quello che
aveva perduto uno zampetto correva con una gamba sola, né si è saputo mai come
facesse.
Dopo
una corsa di quindici chilometri, Pinocchio non ne poteva piú. Allora, vistosi
perso, si arrampicò su per il fusto di un altissimo pino e si pose a sedere in
vetta ai rami. Gli assassini tentarono di arrampicarsi anche loro, ma giunti a
metà del fusto sdrucciolarono e, ricascando a terra, si spellarono le mani e i
piedi.
Non
per questo si dettero per vinti: ché anzi, raccolto un fastello di legna secche
a piè del pino, vi appiccarono il fuoco. In men che non si dice, il pino
cominciò a bruciare e a divampare come una candela agitata dal vento.
Pinocchio, vedendo che le fiamme salivano sempre piú e non volendo far la fine
del piccione arrosto, spiccò un bel salto di vetta all’albero, e via a correre
daccapo attraverso ai campi e ai vigneti. E gli assassini dietro, sempre
dietro, senza stancarsi mai.
Intanto
cominciava a baluginare il giorno e si rincorrevano sempre; quand’ecco che Pinocchio
si trovò improvvisamente sbarrato il passo da un fosso largo e profondissimo,
tutto pieno di acquaccia sudicia, color del caffè e latte. Che fare? «Una, due,
tre!» gridò il burattino, e slanciandosi con una gran rincorsa, saltò
dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma non avendo preso
bene la misura, patatunfete!... cascarono giú nel bel mezzo del fosso.
Pinocchio che sentí il tonfo e gli schizzi dell’acqua, urlò ridendo e
seguitando a correre:
— Buon
bagno, signori assassini! —
E già
si figurava che fossero bell’e affogati, quando invece, voltandosi a guardare,
si accòrse che gli correvano dietro tutti e due, sempre imbacuccati nei loro
sacchi, e grondanti acqua come due panieri sfondati.
XV
Gli assassini inseguono Pinocchio; e dopo averlo
raggiunto,
lo impiccano a un ramo della Quercia grande.
Allora
il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio sul punto di gettarsi in terra e di
darsi per vinto, quando, nel girare gli occhi all’intorno, vide fra mezzo al
verde cupo degli alberi biancheggiare in lontananza una casina candida come la
neve.
— Se
io avessi tanto fiato da arrivare fino a quella casa, forse sarei salvo! —
disse dentro di sé.
E
senza indugiare un minuto, riprese a correre per il bosco a carriera distesa. E
gli assassini sempre dietro.
Dopo
una corsa disperata di quasi due ore, finalmente, tutto trafelato, arrivò alla
porta di quella casina e bussò.
Nessuno
rispose.
Tornò
a bussare con maggior violenza, perché sentiva avvicinarsi il rumore dei passi
e il respiro grosso e affannoso de’ suoi persecutori. Lo stesso silenzio.
Avvedutosi
che il bussare non giovava a nulla, cominciò per disperazione a dare calci e
zuccate nella porta. Allora si affacciò alla finestra una bella Bambina, coi
capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e
le mani incrociate sul petto, la quale, senza muover punto le labbra, disse con
una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:
— In
questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti.
— Aprimi
almeno tu! — gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.
— Sono
morta anch’io.
— Morta?
e allora che cosa fai costí alla finestra?
— Aspetto
la bara che venga a portarmi via. —
Appena
detto cosí, la Bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore.
— O
bella Bambina dai capelli turchini, — gridava Pinocchio — aprimi per
carità. Abbi compassione di un povero ragazzo inseguito dagli assass... —
Ma non
poté finir la parola, perché sentí afferrarsi per il collo, e le solite due
vociacce che gli brontolarono minacciosamente:
— Ora
non ci scappi piú! —
Il
burattino, vedendosi balenare la morte dinanzi agli occhi, fu preso da un
tremito cosí forte, che nel tremare, gli sonavano le giunture delle sue gambe
di legno e i quattro zecchini che teneva nascosti sotto la lingua.
— Dunque? —
gli domandarono gli assassini — vuoi aprirla la bocca, sí o no? Ah! non
rispondi?... Lascia fare: ché questa volta te la faremo aprir noi!... —
E
cavati fuori due coltellacci lunghi lunghi e affilati come rasoi, zaff e
zaff..., gli affibbiarono due colpi nel mezzo alle reni.
Ma il
burattino per sua fortuna era fatto d’un legno durissimo, motivo per cui le
lame, spezzandosi, andarono in mille schegge e gli assassini rimasero col
manico dei coltelli in mano, a guardarsi in faccia.
— Ho
capito — disse allora un di loro — bisogna impiccarlo! Impicchiamolo!
— Impicchiamolo! —
ripeté l’altro.
Detto
fatto, gli legarono le mani dietro le spalle, e, passatogli un nodo scorsoio
intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta
la Quercia grande.
Poi si
posero là, seduti sull’erba, aspettando che il burattino facesse l’ultimo
sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti, la
bocca chiusa e sgambettava piú che mai.
Annoiati
finalmente di aspettare, si voltarono a Pinocchio e gli dissero sghignazzando:
— Addio
a domani. Quando domani torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di
farti trovare bell’e morto e con la bocca spalancata. —
E se
ne andarono.
Intanto
s’era levato un vento impetuoso di tramontana, che soffiando e mugghiando con
rabbia, sbatacchiava in qua e in là il povero impiccato, facendolo dondolare
violentemente come il battaglio d’una campana che suona a festa. E quel
dondolío gli cagionava acutissimi spasimi, e il nodo scorsoio, stringendosi sempre
piú alla gola, gli toglieva il respiro.
A poco
a poco gli occhi gli si appannarono; e sebbene sentisse avvicinarsi la morte,
pure sperava sempre che da un momento all’altro sarebbe capitata qualche anima
pietosa a dargli aiuto. Ma quando, aspetta aspetta, vide che non compariva
nessuno, proprio nessuno, allora gli tornò in mente il suo povero babbo... e
balbettò quasi moribondo:
— Oh
babbo mio! se tu fossi qui!... —
E non
ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprí la bocca, stirò le gambe e,
dato un grande scrollone, rimase lí come intirizzito.
XVI
La bella Bambina dai capelli turchini fa
raccogliere il burattino:
lo mette a letto, e chiama tre medici per sapere
se sia vivo o morto.
In
quel mentre che il povero Pinocchio impiccato dagli assassini a un ramo della
Quercia grande, pareva oramai piú morto che vivo, la bella Bambina dai capelli
turchini si affacciò daccapo alla finestra, e impietositasi alla vista di
quell’infelice che, sospeso per il collo, ballava il trescone alle ventate di
tramontana, batté per tre volte le mani insieme, e fece tre piccoli colpi.
A
questo segnale si sentí un gran rumore di ali che volavano con foga
precipitosa, e un grosso Falco venne a posarsi sul davanzale della finestra.
— Che
cosa comandate, mia graziosa Fata? — disse il Falco abbassando il becco in atto
di riverenza (perché bisogna sapere che la Bambina dai capelli turchini non era
altro in fin dei conti che una bonissima Fata, che da piú di mill’anni abitava
nelle vicinanze di quel bosco).
— Vedi
tu quel burattino attaccato penzoloni a un ramo della Quercia grande?
— Lo
vedo.
— Orbene:
vola subito laggiú; rompi col tuo fortissimo becco il nodo che lo tiene sospeso
in aria, e posalo delicatamente sdraiato sull’erba, a piè della Quercia. —
Il
Falco volò via e dopo due minuti tornò, dicendo:
— Quel
che mi avete comandato, è fatto.
— E
come l’hai trovato? Vivo o morto?
— A
vederlo pareva morto, ma non dev’essere ancora morto perbene, perché appena gli
ho sciolto il nodo scorsoio che lo stringeva intorno alla gola, ha lasciato
andare un sospiro, balbettando a mezza voce: «Ora mi sento meglio!...» —
Allora
la Fata, battendo le mani insieme, fece due piccoli colpi, e apparve un
magnifico Can-barbone, che camminava ritto sulle gambe di dietro, tale e quale
come se fosse un uomo.
Il
Can-barbone era vestito da cocchiere in livrea di gala. Aveva in capo un
nicchiettino a tre punte gallonato d’oro, una parrucca bianca coi riccioli che
gli scendevano giú per il collo, una giubba color di cioccolata coi bottoni di
brillanti e con due grandi tasche per tenervi gli ossi, che gli regalava a
pranzo la padrona, un paio di calzon corti di velluto cremisi, le calze di
seta, gli scarpini scollati, e di dietro una specie di fodera da ombrelli,
tutta di raso turchino, per mettervi dentro la coda, quando il tempo cominciava
a piovere.
— Su
da bravo, Medoro! — disse la Fata al Can-barbone. — Fa’ subito attaccare la piú
bella carrozza della mia scuderia e prendi la via del bosco. Arrivato che sarai
sotto la Quercia grande, troverai disteso sull’erba un povero burattino mezzo
morto. Raccoglilo con garbo, posalo pari pari su i cuscini della carrozza e
portamelo qui. Hai capito? —
Il
Can-barbone, per fare intendere che aveva capito, dimenò tre o quattro volte la
fodera di raso turchino, che aveva dietro, e partí come un barbero.
Di lí
a poco, si vide uscire dalla scuderia una bella carrozzina color dell’aria,
tutta imbottita di penne di canarino e foderata nell’interno di panna montata e
di crema coi savoiardi. La carrozzina era tirata da cento pariglie di topini
bianchi, e il Can-barbone, seduto a cassetta, schioccava la frusta a destra e a
sinistra, come un vetturino quand’ha paura di aver fatto tardi.
Non
era ancora passato un quarto d’ora, che la carrozzina tornò e la Fata, che
stava aspettando sull’uscio di casa, prese in collo il povero burattino, e
portatolo in una cameretta che aveva le pareti di madreperla, mandò subito a
chiamare i medici piú famosi del vicinato.
E i
medici arrivarono subito uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta
e un Grillo-parlante.
— Vorrei
sapere da lor signori — disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti
intorno al letto di Pinocchio — vorrei sapere da lor signori se questo
disgraziato burattino sia vivo o morto!... —
A
quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a
Pinocchio, poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e quand’ebbe
tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:
— A
mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazia non fosse morto,
allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!
— Mi
dispiace — disse la Civetta — di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico
e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non
fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero.
— E
lei non dice nulla? — domandò la Fata al Grillo-parlante.
— Io
dico che il medico prudente, quando non sa quello che dice, la miglior cosa che
possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel burattino lí, non m’è
fisonomia nuova: io lo conosco da un pezzo! —
Pinocchio,
che fin allora era stato immobile come un vero pezzo di legno, ebbe una specie
di fremito convulso, che fece scuotere tutto il letto.
— Quel
burattino lí — seguitò a dire il Grillo-parlante — è una birba matricolata... —
Pinocchio
aprí gli occhi e li richiuse subito.
— È
un monellaccio, uno svogliato, un vagabondo... —
Pinocchio
si nascose la faccia sotto i lenzuoli.
— Quel
burattino lí è un figliuolo disubbidiente, che farà morire di crepacuore il suo
povero babbo!... —
A
questo punto si sentí nella camera un suono soffocato di pianti e di
singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché, sollevati un poco i
lenzuoli, si accòrsero che quello che piangeva e singhiozzava era Pinocchio.
— Quando
il morto piange, è segno che è in via di guarigione — disse solennemente il
Corvo.
— Mi
duole di contraddire il mio illustre amico e collega — soggiunse la
Civetta — ma per me quando il morto piange, è segno che gli dispiace a
morire. —
XVII
Pinocchio mangia lo zucchero, ma non vuol
purgarsi:
però quando vede i becchini che vengono a
portarlo via, allora si purga.
Poi dice una bugia e per gastigo gli cresce il
naso.
Appena
i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo
averlo toccato sulla fronte, si accòrse che era travagliato da un febbrone da
non si dire.
Allora
sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d’acqua, e porgendolo
al burattino, gli disse amorosamente:
— Bevila,
e in pochi giorni sarai guarito. —
Pinocchio
guardò il bicchiere, storse un po’ la bocca, e poi dimandò con voce di
piagnisteo:
— È
dolce o amara?
— È
amara, ma ti farà bene.
— Se
è amara non la voglio.
— Da’
retta a me: bevila.
— A
me l’amaro non mi piace.
— Bevila:
e quando l’avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero, per rifarti la bocca.
— Dov’è
la pallina di zucchero?
— Eccola
qui — disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d’oro.
— Prima
voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell’acquaccia amara...
— Me
lo prometti?
— Sí... —
La
Fata gli dètte la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata e ingoiata in
un àttimo, disse leccandosi i labbri:
— Bella
cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!... Mi purgherei tutti i giorni.
— Ora
mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d’acqua, che ti renderanno la
salute. —
Pinocchio
prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro la punta del naso:
poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso: finalmente
disse:
— È
troppo amara! troppo amara! Io non la posso bere.
— Come
fai a dirlo se non l’hai nemmeno assaggiata?
— Me
lo figuro! L’ho sentita all’odore. Voglio prima un’altra pallina di zucchero...
e poi la beverò! —
Allora
la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in bocca un altro
po’ di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere.
— Cosí
non la posso bere! — disse il burattino, facendo mille smorfie.
— Perché?
— Perché
mi dà noia quel guanciale che ho laggiú su i piedi. —
La
Fata gli levò il guanciale.
— È
inutile! Nemmeno cosí la posso bere.
— Che
cos’altro ti dà noia?
— Mi
dà noia l’uscio di camera, che è mezzo aperto. —
La
Fata andò, e chiuse l’uscio di camera.
— Insomma
— gridò Pinocchio, dando in uno scoppio di pianto — quest’acquaccia amara, non
la voglio bere, no, no, no!...
— Ragazzo
mio, te ne pentirai...
— Non
me n’importa...
— La
tua malattia è grave...
— Non
me n’importa...
— La
febbre ti porterà in poche ore all’altro mondo...
— Non
me n’importa...
— Non
hai paura della morte?
— Nessuna
paura!... Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva. —
A
questo punto, la porta della camera si spalancò, ed entrarono dentro quattro
conigli neri come l’inchiostro, che portavano sulle spalle una piccola bara da
morto.
— Che
cosa volete da me? — gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito a sedere sul
letto.
— Siamo
venuti a prenderti — rispose il coniglio piú grosso.
— A
prendermi?... Ma io non sono ancora morto!...
— Ancora
no: ma ti restano pochi minuti di vita, avendo tu ricusato di bevere la
medicina, che ti avrebbe guarito della febbre!...
— O
Fata mia, o Fata mia! — cominciò allora a strillare il burattino — datemi
subito quel bicchiere... Spicciatevi, per carità, perché non voglio morire,
no... non voglio morire. —
E
preso il bicchiere con tutte e due le mani, lo votò in un fiato.
— Pazienza!
— dissero i conigli. — Per questa volta abbiamo fatto il viaggio a ufo. — E
tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono di camera bofonchiando
e mormorando fra i denti.
Fatto
sta che di lí a pochi minuti, Pinocchio saltò giú dal letto, bell’e guarito;
perché bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi
di rado e di guarire prestissimo.
E la
Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro come un
gallettino di primo canto, gli disse:
— Dunque
la mia medicina t’ha fatto bene davvero?
— Altro
che bene! Mi ha rimesso al mondo!...
— E
allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?
— Egli
è che noi ragazzi siamo tutti cosí! Abbiamo piú paura delle medicine che del
male.
— Vergogna!
I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso a tempo, può salvarli
da una grave malattia e fors’anche dalla morte...
— Oh!
ma un’altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di quei conigli
neri, con la bara sulle spalle... e allora piglierò subito il bicchiere in
mano, e giú!...
— Ora
vieni un po’ qui da me, e raccontami come andò che ti trovasti fra le mani
degli assassini.
— Gli
andò, che il burattinaio Mangiafoco mi dètte cinque monete d’oro, e mi disse:
«To’, portale al tuo babbo!», e io, invece, per la strada trovai una Volpe e un
Gatto, due persone molto per bene, che mi dissero: «Vuoi che codeste monete
diventino mille e duemila? Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei
miracoli». E io dissi: «Andiamo»; e loro dissero: «Fermiamoci qui all’osteria
del Gambero rosso, e dopo la mezzanotte ripartiremo». E io, quando mi svegliai,
loro non c’erano piú, perché erano partiti. Allora io cominciai a camminare di
notte, che era un buio che pareva impossibile, per cui trovai per la strada due
assassini dentro due sacchi da carbone, che mi dissero: «Metti fuori i
quattrini»; e io dissi: «non ce n’ho»; perché le monete d’oro me l’ero nascoste
in bocca, e uno degli assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con
un morso gli staccai la mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai uno
zampetto di gatto. E gli assassini a corrermi dietro, e io corri che ti corro,
finché mi raggiunsero, e mi legarono per il collo a un albero di questo bosco
col dire: «Domani torneremo qui, e allora sarai morto e colla bocca aperta, e
cosí ti porteremo via le monete d’oro che hai nascoste sotto la lingua».
— E
ora le quattro monete dove le hai messe? — gli domandò la Fata.
— Le
ho perdute! — rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perché invece le aveva in
tasca.
Appena
detta la bugia il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di
piú.
— E
dove le hai perdute?
— Nel
bosco qui vicino. —
A
questa seconda bugia, il naso seguitò a crescere.
— Se
le hai perdute nel bosco vicino — disse la Fata — le cercheremo e le
ritroveremo: perché tutto quello che si perde nel vicino bosco, si ritrova
sempre.
— Ah!
ora che mi rammento bene — replicò il burattino imbrogliandosi — le quattro
monete non le ho perdute, ma senza avvedermene, le ho inghiottite mentre bevevo
la vostra medicina. —
A
questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo cosí straordinario, che
il povero Pinocchio non poteva piú girarsi da nessuna parte. Se si voltava di
qui, batteva il naso nel letto o nei vetri della finestra, se si voltava di là,
lo batteva nelle pareti o nella porta di camera, se alzava un po’ piú il capo,
correva il rischio di ficcarlo in un occhio alla Fata.
E la
Fata lo guardava e rideva.
— Perché
ridete? — gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito di quel suo
naso che cresceva a occhiate.
— Rido
della bugia che hai detto.
— Come
mai sapete che ho detto una bugia?
— Le
bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi
sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la
tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo. —
Pinocchio,
non sapendo piú dove nascondersi per la vergogna, si provò a fuggire di camera;
ma non gli riuscí. Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava piú dalla porta.
XVIII
Pinocchio ritrova la Volpe e il Gatto, e va con
loro a seminare le quattro monete nel Campo de’ miracoli.
Come
potete immaginarvelo, la Fata lasciò che il burattino piangesse e urlasse una
buona mezz’ora, a motivo di quel suo naso che non passava piú dalla porta di
camera; e lo fece per dargli una severa lezione e perché si correggesse dal
brutto vizio di dire le bugie, il piú brutto vizio che possa avere un ragazzo.
Ma quando lo vide trasfigurato e cogli occhi fuori della testa dalla gran disperazione,
allora, mossa a pietà, batté le mani insieme, e a quel segnale entrarono in
camera dalla finestra un migliaio di grossi uccelli chiamati Picchi, i quali,
posatisi tutti sul naso di Pinocchio, cominciarono a beccarglielo tanto e poi
tanto, che in pochi minuti quel naso enorme e spropositato si trovò ridotto
alla sua grandezza naturale.
— Quanto
siete buona, Fata mia, — disse il burattino, asciugandosi gli occhi — e
quanto bene vi voglio!
— Ti
voglio bene anch’io — rispose la Fata — e se tu vuoi rimanere con me, tu sarai
il mio fratellino e io la tua buona sorellina...
— Io
resterei volentieri... ma il mio povero babbo?
— Ho
pensato a tutto. Il tuo babbo è stato digià avvertito: e prima che faccia
notte, sarà qui.
— Davvero?
— gridò Pinocchio, saltando dall’allegrezza. — Allora, Fatina mia, se vi
contentate, vorrei andargli incontro! Non vedo l’ora di poter dare un bacio a
quel povero vecchio, che ha sofferto tanto per me!
— Va’
pure, ma bada di non ti sperdere. Prendi la via del bosco, e sono sicura che lo
incontrerai. —
Pinocchio
partí: e appena entrato nel bosco, cominciò a correre come un capriòlo. Ma
quando fu arrivato a un certo punto, quasi in faccia alla Quercia grande, si
fermò, perché gli parve di aver sentito gente fra mezzo alle frasche. Difatti
vide apparire sulla strada, indovinate chi?... la Volpe e il Gatto, ossia i due
compagni di viaggio coi quali aveva cenato all’osteria del Gambero rosso.
— Ecco
il nostro caro Pinocchio! — gridò la Volpe, abbracciandolo e baciandolo.
— Come mai sei qui?
— Come
mai sei qui? — ripeté il Gatto.
— È
una storia lunga — disse il burattino — e ve la racconterò a comodo. Sappiate
però che l’altra notte, quando mi avete lasciato solo sull’osteria, ho trovato
gli assassini per la strada...
— Gli
assassini?... Oh povero amico! E che cosa volevano?
— Mi
volevano rubare le monete d’oro.
— Infami!...
— disse la Volpe.
— Infamissimi!
— ripeté il Gatto.
— Ma
io cominciai a scappare — continuò a dire il burattino — e loro sempre dietro:
finché mi raggiunsero e m’impiccarono a un ramo di quella quercia... —
E
Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lí a due passi.
— Si
può sentir di peggio? — disse la Volpe. — In che mondo siamo condannati a
vivere! Dove troveremo un rifugio sicuro noi altri galantuomini? —
Nel tempo
che parlavano cosí, Pinocchio si accòrse che il Gatto era zoppo dalla gamba
destra davanti, perché gli mancava in fondo tutto lo zampetto cogli unghioli:
per cui gli domandò:
— Che
cosa hai fatto del tuo zampetto? —
Il
Gatto voleva rispondere qualche cosa, ma s’imbrogliò. Allora la Volpe disse
subito:
— Il
mio amico è troppo modesto, e per questo non risponde. Risponderò io per lui.
Sappi dunque che un’ora fa abbiamo incontrato sulla strada un vecchio lupo,
quasi svenuto dalla fame, che ci ha chiesto un po’ d’elemosina. Non avendo noi
da dargli nemmeno una lisca di pesce, che cosa ha fatto l’amico mio, che ha
davvero un cuore di Cesare? Si è staccato coi denti uno zampetto delle sue
gambe davanti e l’ha gettato a quella povera bestia, perché potesse sdigiunarsi. —
E la
Volpe, nel dir cosí, si asciugò una lagrima.
Pinocchio,
commosso anche lui, si avvicinò al Gatto, sussurrandogli negli orecchi:
— Se
tutti i gatti ti somigliassero, fortunati i topi!...
— E
ora che cosa fai in questi luoghi? — domandò la Volpe al burattino.
— Aspetto
il mio babbo, che deve arrivare qui di momento in momento.
— E
le tue monete d’oro?
— Le
ho sempre in tasca, meno una che la spesi all’osteria del Gambero rosso.
— E
pensare che, invece di quattro monete, potrebbero diventare domani mille e
duemila! Perché non dài retta al mio consiglio? Perché non vai a seminarle nel
Campo dei miracoli?
— Oggi
è impossibile: vi anderò un altro giorno.
— Un
altro giorno sarà tardi!... — disse la Volpe.
— Perché?
— Perché
quel campo è stato comprato da un gran signore, e da domani in là non sarà piú
permesso a nessuno di seminarvi i denari.
— Quant’è
distante di qui il Campo dei miracoli?
— Due
chilometri appena. Vuoi venire con noi? Fra mezz’ora sei là: semini subito le
quattro monete: dopo pochi minuti ne raccogli duemila, e stasera ritorni qui
colle tasche piene. Vuoi venire con noi? —
Pinocchio
esitò un poco a rispondere, perché gli tornò in mente la buona Fata, il vecchio
Geppetto e gli avvertimenti del Grillo-parlante; ma poi finí col fare come
fanno tutti i ragazzi senza un fil di giudizio e senza cuore; finí, cioè, col
dare una scrollatina di capo, e disse alla Volpe e al Gatto:
— Andiamo
pure: io vengo con voi. —
E
partirono.
Dopo
aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città che aveva nome
«Acchiappa-citrulli». Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade
popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore
tosate, che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza
bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granturco, di grosse
farfalle, che non potevano piú volare, perché avevano venduto le loro
bellissime ali colorite, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano a farsi
vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro
scintillanti penne d’oro e d’argento, oramai perdute per sempre.
In
mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano di tanto in
tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche Volpe, o qualche Gazza
ladra, o qualche uccellaccio di rapina.
— E
il Campo dei miracoli dov’è? — domandò Pinocchio.
— È
qui a due passi. —
Detto
fatto traversarono la città e, usciti fuori dalle mura, si fermarono in un
campo solitario che, su per giú, somigliava a tutti gli altri campi.
— Eccoci
giunti — disse la Volpe al burattino. — Ora chinati giú a terra, scava con le
mani una piccola buca nel campo, e mettici dentro le monete d’oro. —
Pinocchio
obbedí. Scavò la buca, ci pose le quattro monete d’oro che gli erano rimaste: e
dopo ricoprí la buca con un po’ di terra.
— Ora
poi — disse la Volpe — va’ alla gora qui vicina, prendi una secchia d’acqua e
annaffia il terreno dove hai seminato. —
Pinocchio
andò alla gora, e perché non aveva lí per lí una secchia, si levò di piedi una
ciabatta e, riempitala d’acqua, annaffiò la terra che copriva la buca. Poi
domandò:
— C’è
altro da fare?
— Nient’altro
— rispose la Volpe. — Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna qui fra una
ventina di minuti, e troverai l’arboscello già spuntato dal suolo e coi rami tutti
carichi di monete. —
Il
povero burattino, fuori di sé dalla gran contentezza, ringraziò mille volte la
Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo regalo.
— Noi
non vogliamo regali — risposero que’ due malanni. — A noi ci basta di averti
insegnato il modo di arricchire senza durar fatica, e siamo contenti come
pasque. —
Ciò
detto salutarono Pinocchio, e augurandogli una buona raccolta, se ne andarono
per i fatti loro.
XIX
Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro,
e per gastigo, si busca quattro mesi di prigione.
Il
burattino, ritornato in città, cominciò a contare i minuti a uno a uno; e,
quando gli parve che fosse l’ora, riprese subito la strada che menava al Campo
dei miracoli.
E
mentre camminava con passo frettoloso, il cuore gli batteva forte e gli faceva
tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala, quando corre davvero. E intanto
pensava dentro di sé:
«E se
invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell’albero duemila?... E se
invece di duemila, ne trovassi cinquemila? e se invece di cinquemila, ne
trovassi centomila? Oh che bel signore, allora, che diventerei!... Vorrei avere
un bel palazzo, mille cavallini di legno e mille scuderie, per potermi
baloccare, una cantina di rosoli e di alchermes, e una libreria tutta piena di
canditi, di torte, di panattoni, di mandorlati e di cialdoni colla panna».
Cosí
fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lí si fermò a guardare se per
caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di monete: ma non
vide nulla. Fece altri cento passi in avanti, e nulla: entrò sul campo... andò
proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato i suoi zecchini, e nulla.
Allora diventò pensieroso e, dimenticando le regole del Galateo e della buona
creanza, tirò fuori una mano di tasca e si dètte una lunghissima grattatina di
capo.
In
quel mentre sentí fischiarsi negli orecchi una gran risata: voltatosi in su,
vide sopra un albero un grosso Pappagallo che si spollinava le poche penne che
aveva addosso.
— Perché
ridi? — gli domandò Pinocchio con voce di bizza.
— Rido,
perché nello spollinarmi mi sono fatto il solletico sotto le ali. —
Il
burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d’acqua la solita ciabatta, si
pose novamente ad annaffiare la terra, che ricopriva le monete d’oro.
Quand’ecco
che un’altra risata, anche piú impertinente della prima, si fece sentire nella
solitudine silenziosa di quel campo.
— Insomma
— gridò Pinocchio, arrabbiandosi — si può sapere, Pappagallo mal educato, di
che cosa ridi?
— Rido
di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che si lasciano
trappolare da chi è piú furbo di loro.
— Parli
forse di me?
— Sí,
parlo di te, povero Pinocchio; di te che sei cosí dolce di sale da credere che
i denari si possano seminare e raccogliere nei campi, come si seminano i fagiuoli
e le zucche. Anch’io l’ho creduto una volta, e oggi ne porto le pene. Oggi (ma
troppo tardi!) mi son dovuto persuadere che per mettere insieme onestamente
pochi soldi bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o
coll’ingegno della propria testa.
— Non
ti capisco — disse il burattino, che già cominciava a tremare dalla paura.
— Pazienza!
Mi spiegherò meglio — soggiunse il Pappagallo. — Sappi dunque che, mentre tu
eri in città, la Volpe e il Gatto sono tornati in questo campo: hanno preso le
monete d’oro sotterrate, e poi sono fuggiti come il vento. E ora chi li
raggiunge, è bravo! —
Pinocchio
restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del Pappagallo,
cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno che aveva annaffiato. E
scava, scava, scava, fece una buca cosí profonda, che ci sarebbe entrato per
ritto un pagliaio: ma le monete non c’erano piú.
Preso
allora dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in
tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato.
Il
giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione
rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i
suoi occhiali d’oro, senza vetri, che era costretto a portare continuamente, a
motivo d’una flussione d’occhi, che lo tormentava da parecchi anni.
Pinocchio,
alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui
era stato vittima; dètte il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e
finí chiedendo giustizia.
Il
giudice lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al racconto:
s’intenerí, si commosse: e quando il burattino non ebbe piú nulla da dire,
allungò la mano e sonò il campanello.
A
quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.
Allora
il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro:
— Quel
povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque, e
mettetelo subito in prigione. —
Il
burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di
princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi
inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.
E lí
v’ebbe a rimanere quattro mesi: quattro lunghissimi mesi: e vi sarebbe rimasto
anche di piú se non si fosse dato un caso fortunatissimo. Perché bisogna sapere
che il giovane Imperatore che regnava nella città di Acchiappa-citrulli, avendo
riportato una bella vittoria contro i suoi nemici, ordinò grandi feste
pubbliche, luminarie, fuochi artificiali, corse di barberi e di velocipedi, e
in segno di maggiore esultanza, volle che fossero aperte anche le carceri e
mandati fuori tutti i malandrini.
— Se
escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io — disse Pinocchio al
carceriere.
— Voi
no, — rispose il carceriere — perché voi non siete del bel numero...
— Domando
scusa; — replicò Pinocchio — sono un malandrino anch’io.
— In
questo caso avete mille ragioni — disse il carceriere; e levandosi il berretto
rispettosamente e salutandolo, gli aprí le porte della prigione e lo lasciò
scappare.
XX
Liberato dalla prigione, si avvia per tornare a
casa della Fata;
ma lungo la strada trova un serpente orribile, e
poi rimane preso alla tagliuola.
Figuratevi
l’allegrezza di Pinocchio quando si sentí libero. Senza stare a dire che è e
che non è, uscí subito fuori della città e riprese la strada, che doveva
ricondurlo alla Casina della Fata.
A
cagione del tempo piovigginoso, la strada era diventata tutta un pantano e ci
si andava fino a mezza gamba. Ma il burattino non se ne dava per inteso.
Tormentato dalla passione di rivedere il suo babbo e la sua sorellina dai
capelli turchini, correva a salti come un can levriero, e nel correre le
pillacchere gli schizzavano fin sopra il berretto. Intanto andava dicendo fra
sé e sé: «Quante disgrazie mi sono accadute... E me le merito! perché io sono
un burattino testardo e piccoso... e voglio far sempre tutte le cose a modo
mio, senza dar retta a quelli che mi voglion bene e che hanno mille volte piú
giudizio di me!... Ma da questa volta in là, faccio proponimento di cambiar
vita e di diventare un ragazzo ammodo e ubbidiente... Tanto ormai ho bell’e
visto che i ragazzi, a essere disubbidienti, ci scapitano sempre e non ne
infilano mai una per il su’ verso. E il mio babbo mi avrà aspettato?... Ce lo
troverò a casa della Fata? È tanto tempo, pover’uomo, che non lo vedo piú, che
mi struggo di fargli mille carezze e di finirlo dai baci! E la Fata mi
perdonerà la brutta azione che le ho fatta?... E pensare che ho ricevuto da lei
tante attenzioni e tante cure amorose... e pensare che se oggi son sempre vivo,
lo debbo a lei!... Ma si può dare un ragazzo piú ingrato e piú senza cuore di
me?...»
Nel
tempo che diceva cosí, si fermò tutt’a un tratto spaventato, e fece quattro passi
indietro.
Che
cosa aveva veduto?
Aveva
veduto un grosso Serpente, disteso attraverso alla strada, che aveva la pelle
verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntata, che gli fumava come una cappa di
camino.
Impossibile
immaginarsi la paura del burattino: il quale, allontanatosi piú di mezzo
chilometro, si mise a sedere sopra un monticello di sassi, aspettando che il
Serpente se ne andasse una buona volta per i fatti suoi e lasciasse libero il
passo della strada.
Aspettò
un’ora; due ore; tre ore: ma il Serpente era sempre là, e, anche di lontano, si
vedeva il rosseggiare de’ suoi occhi di fuoco e la colonna di fumo che gli
usciva dalla punta della coda.
Allora
Pinocchio, figurandosi di aver coraggio, si avvicinò a pochi passi di distanza,
e facendo una vocina dolce, insinuante e sottile, disse al Serpente:
— Scusi,
signor Serpente, che mi farebbe il piacere di tirarsi un pochino da una parte,
tanto da lasciarmi passare? —
Fu lo
stesso che dire al muro. Nessuno si mosse.
Allora
riprese colla solita vocina:
— Deve
sapere, signor Serpente, che io vado a casa, dove c’è il mio babbo che mi
aspetta e che è tanto tempo che non lo vedo piú!... Si contenta dunque che io
seguiti per la mia strada? —
Aspettò
un segno di risposta a quella dimanda: ma la risposta non venne: anzi il
Serpente, che fin allora pareva arzillo e pieno di vita, diventò immobile e
quasi irrigidito. Gli occhi gli si chiusero e la coda gli smesse di fumare.
— Che
sia morto davvero?... — disse Pinocchio, dandosi una fregatina di mani dalla
gran contentezza; e senza mettere tempo in mezzo, fece l’atto di scavalcarlo,
per passare dall’altra parte della strada. Ma non aveva ancora finito di alzare
la gamba, che il Serpente si rizzò all’improvviso come una molla scattata: e il
burattino, nel tirarsi indietro spaventato, inciampò e cadde per terra.
E per
l’appunto cadde cosí male, che restò col capo conficcato nel fango della strada
e con le gambe ritte su in aria.
Alla
vista di quel burattino, che sgambettava a capo fitto con una velocità
incredibile, il Serpente fu preso da una tal convulsione di risa, che ridi,
ridi, ridi, alla fine, dallo sforzo del troppo ridere, gli si strappò una vena
sul petto: e quella volta morí davvero.
Allora
Pinocchio ricominciò a correre per arrivare a casa della Fata avanti che si
facesse buio. Ma lungo la strada, non potendo piú reggere ai morsi terribili
della fame, saltò in un campo coll’intenzione di cogliere poche ciocche d’uva
moscadella. Non l’avesse mai fatto!
Appena
giunto sotto la vite, crac... sentí stringersi le gambe da due ferri taglienti,
che gli fecero vedere quante stelle c’erano in cielo.
Il
povero burattino era rimasto preso a una tagliuola appostata là da alcuni
contadini per beccarvi alcune grosse faine, che erano il flagello di tutti i
pollai del vicinato.
XXI
Pinocchio è preso da un contadino, il quale lo
costringe a far da can di guardia
a un pollajo.
Pinocchio,
come potete figurarvelo, si dètte a piangere, a strillare, a raccomandarsi: ma
erano pianti e grida inutili, perché lí all’intorno non si vedevano case e
dalla strada non passava anima viva.
Intanto
si fece notte.
Un po’
per lo spasimo della tagliuola che gli segava gli stinchi, e un po’ per la
paura di trovarsi solo e al buio in mezzo a quei campi, il burattino
principiava quasi a svenirsi; quando a un tratto, vedendosi passare una
lucciola di sul capo, la chiamò e le disse:
— O
Lucciolina, mi faresti la carità di liberarmi da questo supplizio?...
— Povero
figliuolo! — replicò la Lucciola, fermandosi impietosita a guardarlo. — Come
mai sei rimasto colle gambe attanagliate fra codesti ferri arrotati?
— Sono
entrato nel campo per cogliere due grappoli di quest’uva moscadella, e...
— Ma
l’uva era tua?
— No...
— E
allora chi t’ha insegnato a portar via la roba degli altri?...
— Avevo
fame...
— La
fame, ragazzo mio, non è una buona ragione per potersi appropriare la roba che
non è nostra...
— È
vero, è vero! — gridò Pinocchio piangendo — ma un’altra volta non lo farò
piú. —
A
questo punto il dialogo fu interrotto da un piccolissimo rumore di passi, che si
avvicinavano. Era il padrone del campo che veniva in punta di piedi a vedere se
qualcuna di quelle faine, che gli mangiavano di nottetempo i polli, fosse
rimasta presa al trabocchetto della tagliuola.
E la
sua maraviglia fu grandissima quando, tirata fuori la lanterna di sotto al
pastrano, s’accòrse che, invece di una faina, c’era rimasto preso un ragazzo.
— Ah,
ladracchiolo! — disse il contadino incollerito — dunque sei tu che mi porti via
le galline?
— Io
no, io no! — gridò Pinocchio, singhiozzando. — Io sono entrato nel campo per
prendere soltanto due grappoli d’uva!
— Chi
ruba l’uva è capacissimo di rubare anche i polli. Lascia fare a me, che ti darò
una lezione da ricordartene per un pezzo. —
E
aperta la tagliuola, afferrò il burattino per la collottola e lo portò di peso
fino a casa, come si porterebbe un agnellino di latte.
Arrivato
che fu sull’aia dinanzi alla casa, lo scaraventò in terra: e tenendogli un
piede sul collo, gli disse:
— Oramai
è tardi e voglio andare a letto. I nostri conti li aggiusteremo domani.
Intanto, siccome oggi m’è morto il cane che mi faceva la guardia di notte, tu
prenderai subito il suo posto. Tu mi farai da cane di guardia. —
Detto
fatto, gl’infilò al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni di
ottone, e glielo strinse in modo, da non poterselo levare passandoci la testa
di dentro. Al collare c’era attaccata una lunga catenella di ferro: e la
catenella era fissata nel muro.
— Se
questa notte — disse il contadino — cominciasse a piovere, tu puoi andare a
cuccia in quel casotto di legno, dove c’è sempre la paglia che ha servito di
letto per quattr’anni al mio povero cane. E se per disgrazia venissero i ladri,
ricordati di stare a orecchi ritti e di abbaiare. —
Dopo
quest’ultimo avvertimento, il contadino entrò in casa chiudendo la porta con
tanto di catenaccio: e il povero Pinocchio rimase accovacciato sull’aia piú
morto che vivo, a motivo del freddo, della fame e della paura. E di tanto in
tanto cacciandosi rabbiosamente le mani dentro al collare, che gli serrava la gola,
diceva piangendo:
— Mi
sta bene!... Pur troppo mi sta bene! Ho voluto fare lo svogliato, il
vagabondo... ho voluto dar retta ai cattivi compagni, e per questo la fortuna
mi perseguita sempre. Se fossi stato un ragazzino per bene, come ce n’è tanti;
se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col
mio povero babbo, a quest’ora non mi troverei qui, in mezzo ai campi, a fare il
cane di guardia alla casa di un contadino. Oh se potessi rinascere un’altra
volta! Ma oramai è tardi, e ci vuol pazienza!... —
Fatto
questo piccolo sfogo, che gli venne proprio dal cuore, entrò dentro il casotto
e si addormentò.
XXII
Pinocchio scuopre i ladri,
e in ricompensa di essere stato fedele vien posto
in libertà.
Ed era
già piú di due ore che dormiva saporitamente; quando verso la mezzanotte fu
svegliato da un bisbiglio e da un pissi-pissi di vocine strane, che gli parve
di sentire nell’aia. Messa fuori la punta del naso dalla buca del casotto, vide
riunite a consiglio quattro bestiuole di pelame scuro, che parevano gatti. Ma
non erano gatti: erano faine, animaletti carnivori, ghiottissimi specialmente
d’uova e di pollastrine giovani. Una di queste faine, staccandosi dalle sue
compagne, andò alla buca del casotto e disse sottovoce:
— Buona
sera, Melampo.
— Io
non mi chiamo Melampo — rispose il burattino.
— O
dunque chi sei?
— Io
sono Pinocchio.
— E
che cosa fai costí?
— Faccio
il cane di guardia.
— O
Melampo dov’è? dov’è il vecchio cane, che stava in questo casotto?
— È
morto questa mattina.
— Morto?
Povera bestia!... Era tanto buono!... Ma giudicandoti dalla fisonomia, anche te
mi sembri un cane di garbo.
— Domando
scusa, io non sono un cane!...
— O
chi sei?
— Io
sono un burattino.
— E
fai da cane di guardia?
— Pur
troppo: per mia punizione!...
— Ebbene,
io ti propongo gli stessi patti, che avevo col defunto Melampo: e sarai
contento.
— E
questi patti sarebbero?
— Noi
verremo una volta la settimana, come per il passato, a visitare di notte questo
pollaio, e porteremo via otto galline. Di queste galline, sette le mangeremo
noi, e una la daremo a te, a condizione, s’intende bene, che tu faccia finta di
dormire e non ti venga mai l’estro di abbaiare e di svegliare il contadino.
— E
Melampo faceva proprio cosí? — domandò Pinocchio.
— Faceva
cosí, e fra noi e lui, siamo andati sempre d’accordo. Dormi dunque
tranquillamente, e stai sicuro che prima di partire di qui, ti lasceremo sul
casotto una gallina bell’e pelata per la colazione di domani. Ci siamo intesi
bene?
— Anche
troppo bene!... — rispose Pinocchio: e tentennò il capo in un certo modo
minaccioso, come se avesse voluto dire: — Fra poco ci riparleremo!... —
Quando
le quattro faine si credettero sicure del fatto loro, andarono difilato al
pollaio, che rimaneva appunto vicinissimo al casotto del cane; e aperta a furia
di denti e di unghioli la porticina di legno, che ne chiudeva l’entrata, vi
sgusciarono dentro, una dopo l’altra. Ma non erano ancora finite d’entrare, che
sentirono la porticina richiudersi con grandissima violenza.
Quello
che l’aveva richiusa era Pinocchio; il quale, non contento di averla richiusa,
vi posò davanti per maggior sicurezza una grossa pietra, a guisa di puntello.
E poi
cominciò ad abbaiare: e, abbaiando proprio come se fosse un cane di guardia,
faceva colla voce: bú-bú-bú-bú.
A
quell’abbaiata, il contadino saltò il letto, e preso il fucile e affacciatosi
alla finestra, domandò:
— Che
c’è di nuovo?
— Ci
sono i ladri! — rispose Pinocchio.
— Dove
sono?
— Nel
pollaio.
— Ora
scendo subito. —
E
difatti, in men che si dice amen, il contadino scese: entrò di corsa nel
pollaio, e dopo avere acchiappate e rinchiuse in un sacco le quattro faine,
disse loro con accento di vera contentezza:
— Alla
fine siete cascate nelle mie mani! Potrei punirvi, ma sí vil non sono! Mi
contenterò, invece, di portarvi domani all’oste del vicino paese, il quale vi
spellerà e vi cucinerà a uso lepre dolce e forte. È un onore che non vi
meritate, ma gli uomini generosi, come me, non badano a queste
piccolezze!... —
Quindi,
avvicinatosi a Pinocchio, cominciò a fargli molte carezze, e, fra le altre
cose, gli domandò:
— Com’hai
fatto a scoprire il complotto di queste quattro ladroncelle? E dire che
Melampo, il mio fido Melampo, non s’era mai accorto di nulla!... —
Il
burattino, allora, avrebbe potuto raccontare quel che sapeva; avrebbe potuto,
cioè, raccontare i patti vergognosi che passavano fra il cane e le faine: ma
ricordatosi che il cane era morto, pensò subito dentro di sé: — A che serve
accusare i morti?... I morti son morti, e la miglior cosa che si possa fare è
quella di lasciarli in pace!...
— All’arrivo
delle faine sull’aia, eri sveglio o dormivi? — continuò a chiedergli il
contadino.
— Dormivo
— rispose Pinocchio — ma le faine mi hanno svegliato coi loro chiacchiericci, e
una è venuta fin qui al casotto per dirmi: «Se prometti di non abbaiare, e di
non svegliare il padrone, noi ti regaleremo una pollastra bell’e pelata!...»
Capite, eh? Avere la sfacciataggine di fare a me una simile proposta! Perché
bisogna sapere che io sono un burattino, che avrò tutti i difetti di questo
mondo: ma non avrò mai quello di star di balla e di reggere il sacco alla gente
disonesta! —
— Bravo
ragazzo! — gridò il contadino, battendogli sur una spalla. — Cotesti sentimenti
ti fanno onore: e per provarti la mia grande soddisfazione, ti lascio libero
fin d’ora di tornare a casa. —
E gli
levò il collare da cane.
XXIII
Pinocchio piange la morte della bella Bambina dai
capelli turchini:
poi trova un Colombo, che lo porta sulla riva del
mare, e lí si getta nell’acqua
per andare in aiuto del suo babbo Geppetto.
Appena
Pinocchio non sentí piú il peso durissimo e umiliante di quel collare intorno
al collo, si pose a scappare attraverso ai campi, e non si fermò un solo minuto
finché non ebbe raggiunta la strada maestra, che doveva ricondurlo alla Casina
della Fata.
Arrivato
sulla strada maestra, si voltò in giú a guardare nella sottoposta pianura, e
vide benissimo, a occhio nudo, il bosco, dove disgraziatamente aveva incontrato
la Volpe e il Gatto: vide, fra mezzo agli alberi, inalzarsi la cima di quella
Quercia grande, alla quale era stato appeso ciondoloni per il collo: ma, guarda
di qui, guarda di là, non gli fu possibile di vedere la piccola casa della
bella Bambina dai capelli turchini.
Allora
ebbe una specie di tristo presentimento, e datosi a correre con quanta forza
gli rimaneva nelle gambe, si trovò in pochi minuti sul prato, dove sorgeva una
volta la Casina bianca. Ma la Casina bianca non c’era piú. C’era, invece, una
piccola pietra di marmo, sulla quale si leggevano in carattere stampatello
queste dolorose parole:
QUI
GIACE
LA
BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI
MORTA
DI DOLORE
PER
ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO
FRATELLINO
PINOCCHIO
Come
rimanesse il burattino, quand’ebbe compitate alla peggio quelle parole, lo
lascio pensare a voi. Cadde bocconi a terra, e coprendo di mille baci quel
marmo mortuario, dètte in un grande scoppio di pianto. Pianse tutta la notte, e
la mattina dopo, sul far del giorno, piangeva sempre, sebbene negli occhi non
avesse piú lacrime: e le sue grida e i suoi lamenti erano cosí strazianti ed
acuti, che tutte le colline all’intorno ne ripetevano l’eco.
E
piangendo diceva:
«O
Fatina mia, perché sei morta?... perché, invece di te, non sono morto io, che
sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto buona?... E il mio babbo dove sarà? O
Fatina mia, dimmi dove posso trovarlo, ché voglio stare sempre con lui, e non
lasciarlo piú! piú! piú!... O Fatina mia, dimmi che non è vero che sei
morta!... Se davvero mi vuoi bene... se vuoi bene al tuo fratellino,
rivivisci... ritorna viva come prima!... Non ti dispiace a vedermi solo,
abbandonato da tutti?... Se arrivano gli assassini, mi attaccheranno daccapo al
ramo dell’albero... e allora morirò per sempre. Che vuoi che io faccia qui solo
in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da mangiare?
Dove anderò a dormire la notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh! sarebbe
meglio, cento volte meglio, che morissi anch’io! Sí, voglio morire! ih! ih!
ih!...»
E
mentre si disperava a questo modo, fece l’atto di volersi strappare i capelli:
ma i suoi capelli, essendo di legno, non poté nemmeno levarsi il gusto di
ficcarci dentro le dita.
Intanto
passò su per aria un grosso Colombo, il quale soffermatosi, a ali distese, gli
gridò da una grande altezza:
— Dimmi,
bambino, che cosa fai costaggiú?
— Non
lo vedi? piango! — disse Pinocchio alzando il capo verso quella voce e
strofinandosi gli occhi colla manica della giacchetta.
— Dimmi
— soggiunse allora il Colombo — non conosci per caso fra i tuoi compagni, un
burattino, che ha nome Pinocchio?
— Pinocchio?...
Hai detto Pinocchio? — ripeté il burattino saltando subito in piedi. —
Pinocchio sono io! —
Il
Colombo, a questa risposta, si calò velocemente e venne a posarsi a terra. Era
piú grosso di un tacchino.
— Conoscerai
dunque anche Geppetto! — domandò al burattino.
— Se
lo conosco! È il mio povero babbo! Ti ha forse parlato di me? Mi conduci da
lui? ma è sempre vivo? rispondimi per carità; è sempre vivo?
— L’ho
lasciato tre giorni fa sulla spiaggia del mare.
— Che
cosa faceva?
— Si
fabbricava da sé una piccola barchetta, per traversare l’Oceano. Quel
pover’uomo sono piú di quattro mesi che gira per il mondo in cerca di te: e non
avendoti potuto mai trovare, ora si è messo in capo di cercarti nei paesi
lontani del nuovo mondo.
— Quanto
c’è di qui alla spiaggia? — domandò Pinocchio con ansia affannosa.
— Piú
di mille chilometri.
— Mille
chilometri? O Colombo mio, che bella cosa potessi avere le tue ali!...
— Se
vuoi venire, ti ci porto io.
— Come?
— A
cavallo sulla mia groppa. Sei peso dimolto?
— Peso?
tutt’altro! Son leggiero come una foglia. —
E lí,
senza stare a dir altro, Pinocchio saltò sulla groppa al Colombo; e messa una
gamba di qui e l’altra di là, come fanno i cavallerizzi, gridò tutto contento:
«Galoppa, galoppa, cavallino, ché mi preme di arrivar presto!...»
Il
Colombo prese l’aíre e in pochi minuti arrivò col volo tanto in alto, che
toccava quasi le nuvole. Giunto a quell’altezza straordinaria, il burattino
ebbe la curiosità di voltarsi in giú a guardare: e fu preso da tanta paura e da
tali giracapi che, per evitare il pericolo di venir di sotto, si avviticchiò
colle braccia, stretto stretto, al collo della sua piumata cavalcatura.
Volarono
tutto il giorno. Sul far della sera, il Colombo disse:
— Ho
una gran sete!
— E
io una gran fame! — soggiunse Pinocchio.
— Fermiamoci
a questa colombaia pochi minuti; e dopo ci rimetteremo in viaggio, per essere
domattina all’alba sulla spiaggia del mare. —
Entrarono
in una colombaia deserta, dove c’era soltanto una catinella piena d’acqua e un
cestino ricolmo di vecce.
Il
burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le vecce: a sentir
lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo stomaco: ma quella sera ne mangiò
a strippapelle, e quando l’ebbe quasi finite, si voltò al Colombo e gli disse:
— Non
avrei mai creduto che le vecce fossero cosí buone!
— Bisogna
persuadersi, ragazzo mio, — replicò il Colombo — che quando la fame dice
davvero e non c’è altro da mangiare, anche le vecce diventano squisite! La fame
non ha capricci né ghiottonerie! —
Fatto
alla svelta un piccolo spuntino, si riposero in viaggio, e via! La mattina dopo
arrivarono sulla spiaggia del mare.
Il
Colombo posò a terra Pinocchio, e non volendo nemmeno la seccatura di sentirsi
ringraziare per aver fatto una buona azione, riprese subito il volo e sparí.
La
spiaggia era piena di gente che urlava e gesticolava, guardando verso il mare.
— Che
cos’è accaduto? — domandò Pinocchio a una vecchina.
— Gli
è accaduto che un povero babbo, avendo perduto il figliuolo, gli è voluto
entrare in una barchetta per andare a cercarlo di là dal mare; e il mare oggi è
molto cattivo e la barchetta sta per andare sott’acqua...
— Dov’è
la barchetta?
— Eccola
laggiú, diritta al mio dito — disse la vecchia, accennando una piccola barca
che, veduta a quella distanza, pareva un guscio di noce con dentro un omino
piccino piccino.
Pinocchio
appuntò gli occhi da quella parte, e dopo aver guardato attentamente, cacciò un
urlo acutissimo gridando:
— Gli
è il mi’ babbo! gli è il mi’ babbo! —
Intanto
la barchetta, sbattuta dall’infuriare dell’onde, ora spariva fra i grossi
cavalloni, ora tornava a galleggiare: e Pinocchio, ritto sulla punta di un alto
scoglio, non finiva piú dal chiamare il suo babbo per nome, e dal fargli molti
segnali colle mani e col moccichino da naso e perfino col berretto che aveva in
capo.
E
parve che Geppetto, sebbene fosse molto lontano dalla spiaggia, riconoscesse il
figliuolo, perché si levò il berretto anche lui e lo salutò e, a furia di
gesti, gli fece capire che sarebbe tornato volentieri indietro; ma il mare era
tanto grosso, che gl’impediva di lavorare col remo e di potersi avvicinare alla
terra.
Tutt’a
un tratto venne una terribile ondata, e la barca sparí. Aspettarono che la
barca tornasse a galla; ma la barca non si vide piú tornare.
— Pover’omo
— dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia; e brontolando
sottovoce una preghiera, si mossero per tornarsene alle loro case.
Quand’ecco
che udirono un urlo disperato, e voltandosi indietro, videro un ragazzetto che,
di vetta a uno scoglio, si gettava in mare gridando:
— Voglio
salvare il mio babbo! —
Pinocchio,
essendo tutto di legno, galleggiava facilmente e nuotava come un pesce. Ora si
vedeva sparire sott’acqua, portato dall’impeto dei flutti, ora riappariva fuori
con una gamba o con un braccio, a grandissima distanza dalla terra. Alla fine
lo persero d’occhio e non lo videro piú.
— Povero
ragazzo! — dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia; e
brontolando sottovoce una preghiera, tornarono alle loro case.
XXIV
Pinocchio arriva all’isola delle «Api
industriose» e ritrova la Fata.
Pinocchio,
animato dalla speranza di arrivare in tempo a dare aiuto al suo povero babbo,
nuotò tutta quanta la notte.
E che
orribile nottata fu quella! Diluviò, grandinò, tuonò spaventosamente e con
certi lampi, che pareva di giorno.
Sul
far del mattino, gli riuscí di vedere poco distante una lunga striscia di
terra. Era un’isola in mezzo al mare.
Allora
fece di tutto per arrivare a quella spiaggia: ma inutilmente. Le onde,
rincorrendosi e accavallandosi, se lo abballottavano fra di loro, come se fosse
stato un fuscello o un filo di paglia. Alla fine, e per sua buona fortuna,
venne un’ondata tanto prepotente e impetuosa, che lo scaraventò di peso sulla rena
del lido.
Il
colpo fu cosí forte che, battendo in terra, gli crocchiarono tutte le costole e
tutte le congiunture: ma si consolò subito col dire:
— Anche
per questa volta l’ho scampata bella! —
Intanto
a poco a poco il cielo si rasserenò; il sole apparve fuori in tutto il suo
splendore, e il mare diventò tranquillissimo e buono come un olio.
Allora
il burattino distese i suoi panni al sole per rasciugarli, e si pose a guardare
di qua e di là se per caso avesse potuto scorgere su quella immensa spianata d’acqua
una piccola barchetta con un omino dentro. Ma dopo aver guardato ben bene, non
vide altro dinanzi a sé che cielo, mare e qualche vela di bastimento, ma cosí
lontana lontana, che pareva una mosca.
— Sapessi
almeno come si chiama quest’isola! — andava dicendo. — Sapessi almeno se
quest’isola è abitata da gente di garbo, voglio dire da gente che non abbia il
vizio di attaccare i ragazzi ai rami degli alberi! ma a chi mai posso
domandarlo? a chi, se non c’è nessuno?... —
Quest’idea
di trovarsi solo, solo, solo, in mezzo a quel gran paese disabitato, gli messe
addosso tanta malinconia, che stava lí lí per piangere; quando tutt’a un tratto
vide passare, a poca distanza dalla riva, un grosso pesce, che se ne andava
tranquillamente per i fatti suoi, con tutta la testa fuori dell’acqua.
Non
sapendo come chiamarlo per nome, il burattino gli gridò a voce alta, per farsi
sentire:
— Ehi,
signor pesce, che mi permetterebbe una parola?
— Anche
due — rispose il pesce, il quale era un Delfino cosí garbato, come se ne trovano
pochi in tutti i mari del mondo.
— Mi
farebbe il piacere di dirmi se in quest’isola vi sono dei paesi dove si possa
mangiare, senza pericolo d’esser mangiati?
— Ve
ne sono sicuro — rispose il Delfino. — Anzi, ne troverai uno poco lontano di
qui.
— E
che strada si fa per andarvi?
— Devi
prendere quella viottola là, a mancina, e camminare sempre diritto al naso. Non
puoi sbagliare.
— Mi
dica un’altra cosa. Lei che passeggia tutto il giorno e tutta la notte per il
mare, non avrebbe incontrato per caso una piccola barchettina con dentro il mi’
babbo?
— E
chi è il tuo babbo?
— Gli
è il più babbo buono del mondo, come io sono il figliuolo più cattivo che si
possa dare.
— Colla
burrasca che ha fatto questa notte — rispose il Delfino — la barchetta sarà
andata sott’acqua.
— E
il mio babbo?
— A
quest’ora l’avrà inghiottito il terribile pesce-cane, che da qualche giorno è
venuto a spargere lo sterminio e la desolazione nelle nostre acque.
— Che
è grosso dimolto questo pesce-cane? — domandò Pinocchio, che di già cominciava
a tremare dalla paura.
— Se
gli è grosso!... — replicò il Delfino. — Perché tu possa fartene un’idea, ti
dirò che è piú grosso di un casamento di cinque piani, ed ha una boccaccia cosí
larga e profonda, che ci passerebbe comodamente tutto il treno della strada
ferrata colla macchina accesa.
— Mamma
mia! — gridò spaventato il burattino; e rivestitosi in fretta e furia, si voltò
al Delfino e gli disse:
— Arrivedella,
signor pesce: scusi tanto l’incomodo e mille grazie della sua
garbatezza. —
Detto
ciò, prese subito la viottola e cominciò a camminare di un passo svelto: tanto
svelto, che pareva quasi che corresse. E a ogni piú piccolo rumore che sentiva,
si voltava subito a guardare indietro, per la paura di vedersi inseguire da
quel terribile pesce-cane grosso come una casa di cinque piani e con un treno
della strada ferrata in bocca.
Dopo
aver camminato piú di mezz’ora, arrivò a un piccolo paese detto «il paese delle
Api industriose». Le strade formicolavano di persone che correvano di qua e di
là per le loro faccende: tutti lavoravano, tutti avevano qualche cosa da fare.
Non si trovava un ozioso o un vagabondo, nemmeno a cercarlo col lumicino.
— Ho
capito; — disse subito quello svogliato di Pinocchio — questo paese non è fatto
per me! Io non son nato per lavorare! —
Intanto
la fame lo tormentava; perché erano oramai passate ventiquattr’ore che non
aveva mangiato piú nulla; nemmeno una pietanza di vecce.
Che
fare?
Non
gli restavano che due modi per potersi sdigiunare: o chiedere un po’ di lavoro,
o chiedere in elemosina un soldo o un boccon di pane.
A
chiedere l’elemosina si vergognava: perché il suo babbo gli aveva predicato
sempre che l’elemosina hanno il diritto di chiederla solamente i vecchi e
gl’infermi. I veri poveri, in questo mondo, meritevoli di assistenza e di
compassione, non sono altro che quelli che, per ragione d’età o di malattia, si
trovano condannati a non potersi piú guadagnare il pane col lavoro delle
proprie mani. Tutti gli altri hanno l’obbligo di lavorare: e se non lavorano e
patiscono la fame, tanto peggio per loro.
In
quel frattempo, passò per la strada un uomo tutto sudato e trafelato, il quale
da sé solo tirava con gran fatica due carretti carichi di carbone.
Pinocchio,
giudicandolo dalla fisonomia per un buon uomo, gli si accostò e, abbassando gli
occhi dalla vergogna, gli disse sottovoce:
— Mi
fareste la carità di darmi un soldo, perché mi sento morir dalla fame?
— Non
un soldo solo — rispose il carbonaio — ma te ne do quattro, a patto che tu
m’aiuti a tirare fino a casa questi due carretti di carbone.
— Mi
meraviglio! — rispose il burattino quasi offeso; — per vostra regola io non ho
fatto mai il somaro: io non ho mai tirato il carretto!
— Meglio
per te! — rispose il carbonaio. — Allora, ragazzo mio, se ti senti davvero
morir dalla fame, mangia due belle fette della tua superbia, e bada di non
prendere un’indigestione. —
Dopo
pochi minuti passò per la via un muratore, che portava sulle spalle un corbello
di calcina.
— Fareste,
galantuomo, la carità d’un soldo a un povero ragazzo, che sbadiglia
dall’appetito?
— Volentieri;
vieni con me a portar calcina — rispose il muratore — e invece d’un soldo, te
ne darò cinque.
— Ma
la calcina è pesa — replicò Pinocchio — e io non voglio durar fatica.
— Se
non vuoi durar fatica, allora, ragazzo mio, divertiti a sbadigliare, e buon pro
ti faccia. —
In men
di mezz’ora passarono altre venti persone: e a tutte Pinocchio chiese un po’
d’elemosina, ma tutte gli risposero:
— Non
ti vergogni? Invece di fare il bighellone per la strada, va’ piuttosto a cercarti
un po’ di lavoro, e impara a guadagnarti il pane! —
Finalmente
passò una buona donnina che portava due brocche d’acqua.
— Vi
contentate, buona donna, che io beva una sorsata d’acqua dalla vostra brocca? —
disse Pinocchio, che bruciava dall’arsione della sete.
— Bevi
pure, ragazzo mio! — disse la donnina, posando le due brocche in terra.
Quando
Pinocchio ebbe bevuto come una spugna, borbottò a mezza voce, asciugandosi la
bocca:
— La
sete me la son levata! Cosí mi potessi levar la fame!... —
La
buona donnina, sentendo queste parole, soggiunse subito:
— Se
mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d’acqua, ti darò un bel pezzo
di pane. —
Pinocchio
guardò la brocca e non rispose né sí né no.
— E
insieme col pane ti darò un bel piatto di cavolfiore condito coll’olio e
coll’aceto — soggiunse la buona donna.
Pinocchio
dètte un’altra occhiata alla brocca, e non rispose né sí né no.
— E
dopo il cavolfiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio. —
Alle
seduzioni di quest’ultima ghiottoneria, Pinocchio non seppe piú resistere, e
fatto un animo risoluto, disse:
— Pazienza!
vi porterò la brocca fino a casa! —
La
brocca era molto pesa, e il burattino, non avendo forza da portarla colle mani,
si rassegnò a portarla in capo.
Arrivati
a casa, la buona donnina fece sedere Pinocchio a una piccola tavola
apparecchiata, e gli pose davanti il pane, il cavolfiore condito e il confetto.
Pinocchio
non mangiò, ma diluviò. Il suo stomaco pareva un quartiere rimasto vuoto e
disabitato da cinque mesi.
Calmati
a poco a poco i morsi rabbiosi della fame, allora alzò il capo per ringraziare
la sua benefattrice: ma non aveva ancora finito di fissarla in volto, che
cacciò un lunghissimo ohhh! di maraviglia, e rimase là incantato, cogli occhi
spalancati, colla forchetta per aria e colla bocca piena di pane e di
cavolfiore.
— Che
cos’è mai tutta questa meraviglia? — disse ridendo la buona donna.
— Egli
è... — rispose balbettando Pinocchio — egli è... egli è..., che voi mi
somigliate... voi mi rammentate... sí, sí, sí, la stessa voce... gli stessi
occhi... gli stessi capelli... sí, sí, sí... anche voi avete i capelli
turchini... come lei!... O Fatina mia!... o Fatina mia!... ditemi che siete
voi, proprio voi!... Non mi fate piú piangere! Se sapeste! Ho pianto tanto, ho
patito tanto!... —
E nel
dir cosí, Pinocchio piangeva dirottamente, e gettatosi ginocchioni per terra,
abbracciava i ginocchi di quella donnina misteriosa.
XXV
Pinocchio promette alla Fata di esser buono e di
studiare,
perché è stufo di fare il burattino e vuol diventare
un bravo ragazzo.
In
sulle prime, la buona donnina cominciò col dire che lei non era la piccola Fata
dai capelli turchini: ma poi, vedendosi oramai scoperta e non volendo mandare
piú in lungo la commedia, finí per farsi riconoscere, e disse a Pinocchio:
— Birba
d’un burattino! Come mai ti sei accorto che ero io?
— Gli
è il gran bene che vi voglio, quello che me l’ha detto.
— Ti
ricordi, eh? Mi lasciasti bambina, e ora mi ritrovi donna; tanto donna, che
potrei quasi farti da mamma.
— E
io l’ho caro dimolto, perché cosí, invece di sorellina, vi chiamerò la mia
mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come tutti gli altri
ragazzi!... Ma come avete fatto a crescere cosí presto?
— È
un segreto.
— Insegnatemelo:
vorrei crescere un poco anch’io. Non lo vedete? Sono sempre rimasto alto come
un soldo di cacio.
— Ma
tu non puoi crescere — replicò la Fata.
— Perché?
— Perché
i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini e muoiono
burattini.
— Oh!
sono stufo di far sempre il burattino! — gridò Pinocchio, dandosi uno
scappellotto. — Sarebbe ora che diventassi anch’io un uomo...
— E
lo diventerai, se saprai meritarlo...
— Davvero?
E che posso fare per meritarmelo?
— Una
cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene.
— O
che forse non sono?
— Tutt’altro!
I ragazzi perbene sono ubbidienti, e tu invece...
— E
io non ubbidisco mai.
— I
ragazzi perbene prendono amore allo studio e al lavoro, e tu...
— E
io, invece, faccio il bighellone e il vagabondo tutto l’anno.
— I
ragazzi perbene dicono sempre la verità...
— E
io sempre le bugie.
— I
ragazzi perbene vanno volentieri alla scuola...
— E
a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Ma da oggi in poi voglio mutar
vita.
— Me
lo prometti?
— Lo
prometto. Voglio diventare un ragazzino perbene, e voglio essere la
consolazione del mio babbo... Dove sarà il mio povero babbo a quest’ora?
— Non
lo so.
— Avrò
mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare?
— Credo
di sí: anzi ne sono sicura. —
A
questa risposta fu tale e tanta la contentezza di Pinocchio, che prese le mani
alla Fata e cominciò a baciargliele con tanta foga, che pareva quasi fuori di
sé. Poi, alzando il viso e guardandola amorosamente, le domandò:
— Dimmi,
mammina: dunque non è vero che tu sia morta?
— Par
di no — rispose sorridendo la Fata.
— Se
tu sapessi che dolore e che serratura alla gola che provai, quando lessi qui
giace...
— Lo
so: ed è per questo che ti ho perdonato. La sincerità del tuo dolore mi fece
conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di cuore, anche se
sono un po’ monelli e avvezzati male, c’è sempre da sperar qualcosa: ossia, c’è
sempre da sperare che rientrino sulla vera strada. Ecco perché son venuta a
cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma...
— Oh!
che bella cosa! — gridò Pinocchio saltando dall’allegrezza.
— Tu
mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò io.
— Volentieri,
volentieri, volentieri!
— Fino
da domani — soggiunse la Fata — tu comincerai coll’andare a scuola. —
Pinocchio
diventò subito un po’ meno allegro.
— Poi
sceglierai a tuo piacere un’arte o un mestiere... —
Pinocchio
diventò serio.
— Che
cosa brontoli fra i denti? — domandò la Fata con accento risentito.
— Dicevo...
— mugolò il burattino a mezza voce — che oramai per andare a scuola mi pare un
po’ tardi...
— Nossignore.
Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai tardi.
— Ma
io non voglio fare né arti né mestieri...
— Perché?
— Perché
a lavorare mi par fatica.
— Ragazzo
mio, — disse la Fata — quelli che dicono cosí, finiscono quasi sempre o in
carcere o allo spedale. L’uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è
obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a
lasciarsi prendere dall’ozio! L’ozio è una bruttissima malattia e bisogna
guarirla subito, fin da bambini: se no, quando siamo grandi, non si guarisce
piú. —
Queste
parole toccarono l’animo di Pinocchio, il quale rialzando vivacemente la testa,
disse alla Fata:
— Io
studierò, io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai, perché, insomma, la
vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare un ragazzo a tutti i
costi. Me l’hai promesso, non è vero?
— Te
l’ho promesso, e ora dipende da te. —
XXVI
Pinocchio va co’ suoi compagni di scuola in riva
al mare,
per vedere il terribile Pesce-cane.
Il
giorno dopo Pinocchio andò alla Scuola comunale.
Figuratevi
quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino!
Fu una risata, che non finiva piú. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro:
chi gli levava il berretto di mano: chi gli tirava il giubbettino di dietro;
chi si provava a fargli coll’inchiostro due grandi baffi sotto il naso, e chi
si attentava perfino a legargli dei fili ai piedi e alle mani, per farlo
ballare.
Per un
poco Pinocchio usò disinvoltura e tirò via; ma finalmente, sentendosi scappar
la pazienza, si rivolse a quelli che piú lo tafanavano e si pigliavano gioco di
lui, e disse loro a muso duro:
— Badate,
ragazzi: io non son venuto qui per essere il vostro buffone. Io rispetto gli
altri e voglio esser rispettato.
— Bravo
berlicche! Hai parlato come un libro stampato! — urlarono quei monelli,
buttandosi via dalle matte risate: e uno di loro, piú impertinente degli altri,
allungò la mano coll’idea di prendere il burattino per la punta del naso.
Ma non
fece a tempo: perché Pinocchio stese la gamba sotto la tavola e gli consegnò
una pedata negli stinchi.
— Ohi!
che piedi duri! — urlò il ragazzo stropicciandosi il livido che gli aveva fatto
il burattino.
— E
che gomiti!... anche piú duri dei piedi! — disse un altro che, per i suoi
scherzi sguaiati, s’era beccata una gomitata nello stomaco.
Fatto
sta che dopo quel calcio e quella gomitata, Pinocchio acquistò subito la stima
e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti gli facevano mille carezze
e tutti gli volevano un ben dell’anima.
E
anche il maestro se ne lodava, perché lo vedeva attento, studioso,
intelligente, sempre il primo a entrare nella scuola, sempre l’ultimo a
rizzarsi in piedi, a scuola finita.
Il
solo difetto che avesse era quello di bazzicare troppi compagni: e fra questi,
c’erano molti monelli conosciutissimi per la loro poca voglia di studiare e di
farsi onore.
Il
maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche la buona Fata non mancava di
dirgli e di ripetergli piú volte:
— Bada,
Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di scuola finiranno prima o poi col farti
perdere l’amore allo studio e, forse forse, col tirarti addosso qualche grossa
disgrazia.
— Non
c’è pericolo! — rispondeva il burattino, facendo una spallucciata, e toccandosi
coll’indice in mezzo alla fronte, come per dire: «C’è tanto giudizio qui
dentro!»
Ora
avvenne che un bel giorno, mentre camminava verso la scuola, incontrò un branco
dei soliti compagni, che, andandogli incontro, gli dissero:
— Sai
la gran notizia?
— No.
— Qui
nel mare vicino è arrivato un Pesce-cane, grosso come una montagna.
— Davvero?...
Che sia quel medesimo Pesce-cane di quando affogò il mio povero babbo?
— Noi
andiamo alla spiaggia per vederlo. Vuoi venire anche tu?
— Io
no: io voglio andare a scuola.
— Che
t’importa della scuola? Alla scuola ci anderemo domani. Con una lezione di piú
o con una di meno, si rimane sempre gli stessi somari.
— E
il maestro che dirà?
— Il
maestro si lascia dire. È pagato apposta per brontolare tutti i giorni.
— E
la mia mamma?
— Le
mamme non sanno mai nulla — risposero quei malanni.
— Sapete
che cosa farò? — disse Pinocchio. — Il Pesce-cane voglio vederlo per certe mie
ragioni... ma anderò a vederlo dopo la scuola.
— Povero
giucco! — ribatté uno del branco. — Che credi che un pesce di quella grossezza
voglia star lí a fare il comodo tuo? Appena s’è annoiato, piglia il dirizzone
per un’altra parte, e allora chi s’è visto s’è visto.
— Quanto
tempo ci vuole di qui alla spiaggia? — domandò il burattino.
— Fra
un’ora, siamo bell’e andati e tornati.
— Dunque,
via! e chi piú corre, è piú bravo! — gridò Pinocchio.
Dato
cosí il segnale della partenza, quel branco di monelli, coi loro libri e i loro
quaderni sotto il braccio, si messero a correre attraverso ai campi: e
Pinocchio era sempre avanti a tutti: pareva che avesse le ali ai piedi.
Di
tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava i suoi compagni rimasti a una
bella distanza, e nel vederli ansanti, trafelati, polverosi e con tanto di
lingua fuori, se la rideva proprio di cuore. Lo sciagurato, in quel momento,
non sapeva a quali paure e a quali orribili disgrazie andava incontro!...
XXVII
Gran combattimento fra Pinocchio e i suoi
compagni: uno de’ quali
essendo rimasto ferito, Pinocchio viene arrestato
dai carabinieri.
Giunto
che fu sulla spiaggia, Pinocchio dètte subito una grande occhiata sul mare; ma
non vide nessun Pesce-cane. Il mare era tutto liscio come un gran cristallo da
specchio.
— O
il Pesce-cane dov’è? — domandò, voltandosi ai compagni.
— Sarà
andato a far colazione — rispose uno di loro, ridendo.
— O
si sarà buttato sul letto per fare un sonnellino — aggiunse un altro, ridendo
piú forte che mai.
Da
quelle risposte sconclusionate e da quelle risatacce grulle, Pinocchio capí che
i suoi compagni gli avevano fatto una brutta celia, dandogli ad intendere una
cosa che non era vera, e pigliandosela a male, disse loro con voce di bizza:
— E
ora? che sugo ci avete trovato a darmi ad intendere la storiella del
Pesce-cane?
— Il
sugo c’è sicuro!... — risposero in coro quei monelli.
— E
sarebbe?
— Quello
di farti perdere la scuola e di farti venire con noi. Non ti vergogni a
mostrarti tutti i giorni cosí preciso e cosí diligente alla lezione? Non ti
vergogni a studiar tanto, come fai?
— E
se io studio, che cosa ve ne importa?
— A
noi ce ne importa moltissimo, perché ci costringi a fare una brutta figura col
maestro...
— Perché?
— Perché
gli scolari che studiano, fanno sempre scomparire quelli, come noi, che non
hanno voglia di studiare. E noi non vogliamo scomparire! Anche noi abbiamo il
nostro amor proprio!...
— E
allora che cosa devo fare per contentarvi?
— Devi
prendere a noia, anche tu, la scuola, la lezione e il maestro, che sono i
nostri tre grandi nemici.
— E
se io volessi seguitare a studiare?
— Noi
non ti guarderemo piú in faccia, e alla prima occasione ce la pagherai!...
— In
verità mi fate quasi ridere — disse il burattino con una scrollatina di capo.
— Ehi,
Pinocchio! — gridò allora il piú grande di quei ragazzi, andandogli sul viso. —
Non venir qui a fare lo smargiasso: non venir qui a far tanto il galletto!...
perché se tu non hai paura di noi, neanche noi abbiamo paura di te! Ricordati
che tu sei solo e noi siamo sette.
— Sette
come i peccati mortali — disse Pinocchio con una gran risata.
— Avete
sentito? Ci ha insultati tutti! Ci ha chiamato col nome di peccati mortali!...
— Pinocchio!
chiedici scusa dell’offesa... o se no, guai a te!...
— Cucú!
— fece il burattino, battendosi coll’indice sulla punta del naso, in segno di
canzonatura.
— Pinocchio!
la finisce male!...
— Cucú!
— Ne
toccherai quanto un somaro!...
— Cucú!
— Ritornerai
a casa col naso rotto!...
— Cucú!
— Ora
il cucú te lo darò io! — gridò il piú ardito di quei monelli. — Prendi intanto
quest’acconto, e serbalo per la cena di stasera. —
E nel
dir cosí gli appiccicò un pugno nel capo.
Ma fu,
come si suol dire, botta e risposta; perché il burattino, com’era da
aspettarselo, rispose subito con un altro pugno: e lí, da un momento all’altro,
il combattimento diventò generale e accanito.
Pinocchio,
sebbene fosse solo, si difendeva come un eroe. Con quei suoi piedi di legno
durissimo lavorava cosí bene, da tener sempre i suoi nemici a rispettosa
distanza. Dove i suoi piedi potevano arrivare e toccare, ci lasciavano sempre
un livido per ricordo.
Allora
i ragazzi, indispettiti di non potersi misurare col burattino a corpo a corpo,
pensarono bene di metter mano ai proiettili; e sciolti i fagotti de’ loro libri
di scuola, cominciarono a scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche,
i Giannettini, i Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il Pulcino della Baccini e altri
libri scolastici: ma il burattino, che era d’occhio svelto e ammalizzito,
faceva sempre civetta a tempo, sicché i volumi, passandogli di sopra al capo,
andavano tutti a cascare nel mare.
Figuratevi
i pesci! I pesci, credendo che quei libri fossero roba da mangiare, correvano a
frotte a fior d’acqua; ma dopo avere abboccata qualche pagina o qualche
frontespizio, la risputavano subito, facendo con la bocca una certa smorfia,
che pareva volesse dire: «Non è roba per noi: noi siamo avvezzi a cibarci molto
meglio!»
Intanto
il combattimento s’inferociva sempre piú, quand’ecco che un grosso Granchio,
che era uscito fuori dall’acqua e s’era adagio adagio arrampicato fin sulla
spiaggia, gridò con una vociaccia di trombone infreddato:
— Smettetela,
birichini che non siete altro! Queste guerre manesche fra ragazzi e ragazzi
raramente vanno a finir bene. Qualche disgrazia accade sempre!... —
Povero
Granchio! Fu lo stesso che avesse predicato al vento. Anzi quella birba di
Pinocchio, voltandosi indietro a guardarlo in cagnesco, gli disse
sgarbatamente:
— Chetati,
Granchio dell’uggia! Faresti meglio a succiare due pasticche di lichene per
guarire da codesta infreddatura di gola. Va’ piuttosto a letto e cerca di
sudare!... —
In
quel frattempo i ragazzi, che avevano finito oramai di tirare tutti i loro
libri, occhiarono lí a poca distanza il fagotto dei libri del burattino, e se
ne impadronirono in men che non si dice.
Fra
questi libri, v’era un volume rilegato in cartoncino grosso, colla costola e
colle punte di cartapecora. Era un Trattato di Aritmetica. Vi lascio immaginare
se era peso di molto!
Uno di
quei monelli agguantò quel volume, e presa di mira la testa di Pinocchio, lo
scagliò con quanta forza aveva nel braccio: ma invece di cogliere il burattino,
colse nella testa uno dei compagni; il quale diventò bianco come un panno
lavato, e non disse altro che queste parole:
— O
mamma mia, aiutatemi... perché muoio!... —
Poi
cadde disteso sulla rena del lido.
Alla
vista di quel morticino, i ragazzi spaventati si dettero a scappare a gambe, e
in pochi minuti non si videro piú.
Ma
Pinocchio rimase lí; e sebbene per il dolore e per lo spavento, anche lui fosse
piú morto che vivo, nondimeno corse a inzuppare il suo fazzoletto nell’acqua
del mare e si pose a bagnare la tempia del suo povero compagno di scuola. E
intanto piangendo dirottamente e disperandosi, lo chiamava per nome e gli
diceva:
— Eugenio!...
povero Eugenio mio!... apri gli occhi, e guardami!... Perché non mi rispondi?
Non sono stato io, sai, che ti ho fatto tanto male! Credilo, non sono stato
io!... Apri gli occhi, Eugenio... Se tieni gli occhi chiusi, mi farai morire
anche me... O Dio mio! come farò ora a tornare a casa?... Con che coraggio
potrò presentarmi alla mia buona mamma? Che sarà di me?... Dove fuggirò?... Dove
anderò a nascondermi?... Oh! quant’era meglio, mille volte meglio che fossi
andato a scuola!... Perché ho dato retta a questi compagni, che sono la mia
dannazione?... E il maestro me l’aveva detto!... e la mia mamma me l’aveva
ripetuto: — Guardati dai cattivi compagni! — Ma io sono un testardo... un
caparbiaccio... lascio dir tutti, e poi fo sempre a modo mio! E dopo mi tocca a
scontarle... E cosí, da che sono al mondo, non ho mai avuto un quarto d’ora di
bene. Dio mio! Che sarà di me, che sarà di me, che sarà di me? —
E
Pinocchio continuava a piangere, a berciare, a darsi dei pugni nel capo e a
chiamar per nome il povero Eugenio, quando sentí a un tratto un rumore sordo di
passi che si avvicinavano.
Si
voltò: erano due carabinieri.
— Che
cosa fai costí sdraiato per terra? — domandarono a Pinocchio.
— Assisto
questo mio compagno di scuola.
— Che
gli è venuto male?
— Par
di sí!...
— Altro
che male! — disse uno dei carabinieri, chinandosi e osservando Eugenio da
vicino. — Questo ragazzo è stato ferito in una tempia: chi è che l’ha ferito?
— Io
no! — balbettò il burattino che non aveva piú fiato in corpo.
— Se
non sei stato tu, chi è stato dunque che l’ha ferito?
— Io
no! — ripeté Pinocchio.
— E
con che cosa è stato ferito?
— Con
questo libro. — E il burattino raccattò di terra il Trattato di Aritmetica,
rilegato in cartone e cartapecora, per mostrarlo al carabiniere.
— E
questo libro di chi è?
— Mio.
— Basta
cosí: non occorre altro. Rizzati subito, e vien via con noi.
— Ma
io...
— Via
con noi!...
— Ma
io sono innocente...
— Via
con noi! —
Prima
di partire, i carabinieri chiamarono alcuni pescatori, che in quel momento
passavano per l’appunto colla loro barca vicino alla spiaggia, e dissero loro:
— Vi
affidiamo questo ragazzetto ferito nel capo. Portatelo a casa vostra e
assistetelo. Domani torneremo a vederlo. —
Quindi
si volsero a Pinocchio e dopo averlo messo in mezzo a loro due, gl’intimarono
con accento soldatesco:
— Avanti!
e cammina spedito! se no, peggio per te! —
Senza
farselo ripetere, il burattino cominciò a camminare per quella viottola, che
conduceva al paese. Ma il povero diavolo non sapeva piú nemmeno lui in che
mondo si fosse. Gli pareva di sognare, e che brutto sogno! Era fuori di sé. I
suoi occhi vedevano tutto doppio: le gambe gli tremavano: la lingua gli era
rimasta attaccata al palato e non poteva piú spiccicare una sola parola.
Eppure, in mezzo a quella specie di stupidità e di rintontimento, una spina
acutissima gli bucava il cuore: il pensiero, cioè, di dover passare sotto le
finestre di casa della sua buona Fata, in mezzo ai carabinieri. Avrebbe
preferito piuttosto di morire.
Erano
già arrivati e stavano per entrare in paese, quando una folata di vento
strapazzone levò di testa a Pinocchio il berretto, portandoglielo lontano una
diecina di passi.
— Si
contentano — disse il burattino ai carabinieri — che vada a riprendere il mio
berretto?
— Vai
pure; ma facciamo una cosa lesta. —
Il
burattino andò, raccattò il berretto... ma invece di metterselo in capo, se lo
mise in bocca fra i denti, e poi cominciò a correre di gran carriera verso la
spiaggia del mare. Andava via come una palla di fucile.
I
carabinieri, giudicando che fosse difficile raggiungerlo, gli aizzarono dietro
un grosso cane mastino, che aveva guadagnato il primo premio a tutte le corse
dei cani. Pinocchio correva, e il cane correva piú di lui: per cui tutta la
gente si affacciava alle finestre e si affollava in mezzo alla strada, ansiosa
di veder la fine di un palio cosí inferocito. Ma non poté levarsi questa
voglia, perché fra il can mastino e Pinocchio sollevarono lungo la strada un
tal polverone, che dopo pochi minuti non era possibile di veder piú nulla.
XXVIII
Pinocchio corre pericolo di esser fritto in
padella, come un pesce.
Durante
quella corsa disperata, vi fu un momento terribile, un momento in cui Pinocchio
si credé perduto: perché bisogna sapere che Alidoro (era questo il nome del can
mastino) a furia di correre e correre, l’aveva quasi raggiunto.
Basti
dire che il burattino sentiva dietro di sé, alla distanza d’un palmo, l’ansare
affannoso di quella bestiaccia, e ne sentiva perfino la vampa calda delle
fiatate.
Per
buona fortuna la spiaggia era oramai vicina e il mare si vedeva lí a pochi
passi.
Appena
fu sulla spiaggia, il burattino spiccò un bellissimo salto, come avrebbe potuto
fare un ranocchio, e andò a cascare in mezzo all’acqua. Alidoro invece voleva
fermarsi; ma trasportato dall’impeto della corsa, entrò nell’acqua anche lui. E
quel disgraziato non sapeva nuotare; per cui cominciò subito ad annaspare colle
zampe per reggersi a galla: ma piú annaspava e piú andava col capo sott’acqua.
Quando
tornò a rimettere il capo fuori, il povero cane aveva gli occhi impauriti e
stralunati, e, abbaiando, gridava:
— Affogo!
affogo!
— Crepa!
— gli rispose Pinocchio da lontano, il quale si vedeva oramai sicuro da ogni
pericolo.
— Aiutami,
Pinocchio mio!... salvami dalla morte!... —
A
quelle grida strazianti il burattino, che in fondo aveva un cuore eccellente,
si mosse a compassione, e voltosi al cane gli disse:
— Ma
se io ti aiuto a salvarti, mi prometti di non darmi piú noia e di non corrermi
dietro?
— Te
lo prometto! te lo prometto! Spicciati per carità, perché se indugi un altro
mezzo minuto, son bell’e morto. —
Pinocchio
esitò un poco: ma poi ricordandosi che il suo babbo gli aveva detto tante volte
che a fare una buona azione non ci si scapita mai, andò nuotando a raggiungere
Alidoro, e, presolo per la coda con tutte e due le mani, lo portò sano e salvo
sulla rena asciutta del lido.
Il
povero cane non si reggeva piú in piedi. Aveva bevuto, senza volerlo,
tant’acqua salata, che era gonfiato come un pallone. Per altro il burattino,
non volendo fare a fidarsi troppo, stimò cosa prudente di gettarsi novamente in
mare; e allontanandosi dalla spiaggia, gridò all’amico salvato:
— Addio,
Alidoro; fa’ buon viaggio e tanti saluti a casa.
— Addio,
Pinocchio — rispose il cane; — mille grazie di avermi liberato dalla morte. Tu
m’hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel che è fatto è reso. Se
capita l’occasione, ci riparleremo... —
Pinocchio
seguitò a nuotare, tenendosi sempre vicino alla terra. Finalmente gli parve di
esser giunto in un luogo sicuro; e dando un’occhiata alla spiaggia, vide sugli
scogli una specie di grotta, dalla quale usciva un lunghissimo pennacchio di
fumo.
— In
quella grotta — disse allora fra sé — ci deve essere del fuoco. Tanto meglio!
Anderò a rasciugarmi e a riscaldarmi, e poi?... e poi sarà quel che
sarà. —
Presa
questa risoluzione, si avvicinò alla scogliera; ma quando fu lí per
arrampicarsi, sentí qualche cosa sotto l’acqua che saliva, saliva, saliva e lo
portava per aria. Tentò subito di fuggire, ma oramai era tardi, perché con sua
grandissima maraviglia si trovò rinchiuso dentro una grossa rete in mezzo a un
brulichío di pesci d’ogni forma e grandezza, che scodinzolavano e si
dibattevano come tante anime disperate.
E nel
tempo stesso vide uscire dalla grotta un pescatore cosí brutto, ma tanto
brutto, che pareva un mostro marino. Invece di capelli aveva sulla testa un
cespuglio foltissimo di erba verde; verde era la pelle del suo corpo, verdi gli
occhi, verde la barba lunghissima, che gli scendeva fin quaggiú. Pareva un
grosso ramarro ritto sui piedi di dietro.
Quando
il pescatore ebbe tirata fuori la rete dal mare, gridò tutto contento:
— Provvidenza
benedetta! Anch’oggi potrò fare una bella scorpacciata di pesce!
— Manco
male, che io non sono un pesce! — disse Pinocchio dentro di sé, ripigliando un
po’ di coraggio.
La
rete piena di pesci fu portata dentro la grotta, una grotta buia e affumicata,
in mezzo alla quale friggeva una gran padella d’olio, che mandava un odorino di
moccolaia, da mozzare il respiro.
— Ora
vediamo un po’ che pesci abbiamo presi! — disse il pescatore verde; e ficcando
nella rete una manona cosí spropositata, che pareva una pala da fornai, tirò
fuori una manciata di triglie.
— Buone
queste triglie! — disse, guardandole e annusandole con compiacenza. E dopo
averle annusate, le scaraventò in una conca senz’acqua.
Poi
ripeté piú volte la solita operazione; e via via che cavava fuori gli altri
pesci, sentiva venirsi l’acquolina in bocca e gongolando diceva:
— Buoni
questi naselli!...
— Squisiti
questi muggini!...
— Deliziose
queste sogliole!...
— Prelibati
questi ragnotti!...
— Carine
queste acciughe col capo!... —
Come
potete immaginarvelo, i naselli, i muggini, le sogliole, i ragnotti e
l’acciughe, andarono tutti alla rinfusa nella conca, a tener compagnia alle
triglie.
L’ultimo
che restò nella rete fu Pinocchio.
Appena
il pescatore l’ebbe cavato fuori, sgranò dalla maraviglia i suoi occhioni
verdi, gridando quasi impaurito:
— Che
razza di pesce è questo? Dei pesci fatti a questo modo non mi ricordo di averne
mangiati mai! —
E
tornò a guardarlo attentamente, e dopo averlo guardato ben bene per ogni verso,
finí col dire:
— Ho
capito: dev’essere un granchio di mare. —
Allora
Pinocchio, mortificato di sentirsi scambiare per un granchio, disse con accento
risentito:
— Ma
che granchio e non granchio? Guardi come lei mi tratta! Io per sua regola sono
un burattino.
— Un
burattino? — replicò il pescatore. — Dico la verità, il pesce burattino è per
me un pesce nuovo! Meglio cosí! ti mangerò piú volentieri.
— Mangiarmi?
ma la vuol capire che io non sono un pesce? O non sente che parlo, e ragiono
come lei?
— È
verissimo — soggiunse il pescatore — e siccome vedo che sei un pesce, che hai
la fortuna di parlare e di ragionare, come me, cosí voglio usarti anch’io i
dovuti riguardi.
— E
questi riguardi sarebbero?...
— In
segno di amicizia e di stima particolare, lascerò a te la scelta del come vuoi
esser cucinato. Desideri esser fritto in padella, oppure preferisci di esser
cotto nel tegame con la salsa di pomidoro?
— A
dir la verità — rispose Pinocchio — se io debbo scegliere, preferisco piuttosto
di esser lasciato libero, per potermene tornare a casa mia.
— Tu
scherzi! Ti pare che io voglia perdere l’occasione di assaggiare un pesce cosí
raro? Non capita mica tutti i giorni un pesce burattino in questi mari. Lascia
fare a me: ti friggerò in padella assieme a tutti gli altri pesci, e te ne
troverai contento. L’esser fritto in compagnia è sempre una
consolazione. —
L’infelice
Pinocchio, a quest’antifona, cominciò a piangere, a strillare, a raccomandarsi:
e piangendo diceva: — Quant’era meglio, che fossi andato a scuola!... Ho voluto
dar retta ai compagni, e ora la pago! Ih!... Ih!... Ih!... —
E
perché si divincolava come un’anguilla e faceva sforzi incredibili, per
isgusciare dalle grinfie del pescatore verde, questi prese una bella buccia di
giunco, e dopo averlo legato per le mani e per i piedi, come un salame, lo
gettò in fondo alla conca cogli altri.
Poi,
tirato fuori un vassoiaccio di legno, pieno di farina, si dètte a infarinare
tutti quei pesci: e man mano che gli aveva infarinati, li buttava a friggere
dentro la padella.
I
primi a ballare nell’olio bollente furono i poveri naselli: poi toccò ai
ragnotti, poi ai muggini, poi alle sogliole e alle acciughe, e poi venne la
volta di Pinocchio. Il quale, a vedersi cosí vicino alla morte (e che brutta
morte!) fu preso da tanto tremito e da tanto spavento, che non aveva piú né
voce né fiato per raccomandarsi.
Il
povero figliuolo si raccomandava cogli occhi! Ma il pescatore verde, senza
badarlo neppure, lo avvoltolò cinque o sei volte nella farina, infarinandolo
cosí bene dal capo ai piedi, che pareva diventato un burattino di gesso.
Poi lo
prese per il capo, e...
XXIX
Ritorna a casa della Fata, la quale gli promette
che il giorno dopo
non sarà piú un burattino, ma diventerà un
ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte per festeggiare questo grande
avvenimento.
Mentre
il pescatore era proprio sul punto di buttar Pinocchio nella padella, entrò
nella grotta un grosso cane condotto là dall’odore acutissimo e ghiotto della
frittura.
— Passa
via! — gli gridò il pescatore minacciandolo e tenendo sempre in mano il
burattino infarinato.
Ma il
povero cane aveva una fame per quattro, e mugolando e dimenando la coda, pareva
che dicesse:
— Dammi
un boccone di frittura e ti lascio in pace.
— Passa
via, ti dico! — gli ripeté il pescatore; e allungò la gamba per tirargli una
pedata.
Allora
il cane che, quando aveva fame davvero, non era avvezzo a lasciarsi posar
mosche sul naso, si rivoltò ringhioso al pescatore, mostrandogli le sue
terribili zanne.
In
quel mentre si udí nella grotta una vocina fioca fioca che disse:
— Salvami,
Alidoro! Se non mi salvi, son fritto!... —
Il
cane riconobbe subito la voce di Pinocchio, e si accòrse con sua grandissima
maraviglia che la vocina era uscita da quel fagotto infarinato che il pescatore
teneva in mano.
Allora
che cosa fa? Spicca un gran lancio da terra, abbocca quel fagotto infarinato e
tenendolo leggermente coi denti, esce correndo dalla grotta, e via come un
baleno!
Il
pescatore, arrabbiatissimo di vedersi strappar di mano un pesce, che egli
avrebbe mangiato tanto volentieri, si provò a rincorrere il cane; ma fatti
pochi passi, gli venne un nodo di tosse e dové tornarsene indietro.
Intanto
Alidoro, ritrovata che ebbe la viottola che conduceva al paese, si fermò e posò
delicatamente in terra l’amico Pinocchio.
— Quanto
ti debbo ringraziare! — disse il burattino.
— Non
c’è bisogno — replicò il cane — tu salvasti me, e quel che è fatto è reso. Si
sa: in questo mondo bisogna tutti aiutarsi l’uno coll’altro.
— Ma
come mai sei capitato in quella grotta?
— Ero
sempre qui disteso sulla spiaggia piú morto che vivo, quando il vento mi ha
portato da lontano un odorino di frittura. Quell’odorino mi ha stuzzicato
l’appetito, e io gli sono andato dietro. Se arrivavo un minuto piú tardi!...
— Non
me lo dire! — urlò Pinocchio che tremava ancora dalla paura — Non me lo dire!
Se tu arrivavi un minuto piú tardi, a quest’ora io ero bell’e fritto, mangiato
e digerito. Brrr! mi vengono i brividi soltanto a pensarvi!... —
Alidoro,
ridendo, stese la zampa destra verso il burattino, il quale gliela strinse
forte forte in segno di grande amicizia: e dopo si lasciarono.
Il
cane riprese la strada di casa: e Pinocchio, rimasto solo, andò a una capanna
lí poco distante, e domandò a un vecchietto che stava sulla porta a scaldarsi
al sole:
— Dite,
galantuomo, sapete nulla di un povero ragazzo ferito nel capo e che si chiamava
Eugenio?
— Il
ragazzo è stato portato da alcuni pescatori in questa capanna, e ora...
— Ora
sarà morto!... — interruppe Pinocchio, con gran dolore.
— No:
ora è vivo, ed è già ritornato a casa sua.
— Davvero?...
davvero?... — gridò il burattino, saltando dall’allegrezza — Dunque la ferita
non era grave?...
— Ma
poteva riuscire gravissima e anche mortale, — rispose il vecchietto — perché
gli tirarono nel capo un grosso libro rilegato in cartone.
— E
chi glielo tirò?
— Un
suo compagno di scuola: un certo Pinocchio...
— E
chi è questo Pinocchio? — domandò il burattino facendo lo gnorri.
— Dicono
che sia un ragazzaccio, un vagabondo, un vero rompicollo...
— Calunnie!
Tutte calunnie!
— Lo
conosci tu questo Pinocchio?
— Di
vista! — rispose il burattino.
— E
tu che concetto ne hai? — gli chiese il vecchietto.
— A
me mi pare un gran buon figliuolo, pieno di voglia di studiare, ubbidiente,
affezionato al suo babbo e alla sua famiglia... —
Mentre
il burattino sfilava a faccia fresca tutte queste bugie, si toccò il naso e si
accòrse che il naso gli era allungato piú d’un palmo. Allora tutto impaurito
cominciò a gridare:
— Non
date retta, galantuomo, a tutto il bene che ve ne ho detto; perché conosco
benissimo Pinocchio e posso assicurarvi anch’io che è davvero un ragazzaccio,
un disubbidiente e uno svogliato, che invece di andare a scuola, va coi
compagni a fare lo sbarazzino! —
Appena
ebbe pronunziate queste parole, il suo naso raccorcí e tornò della grandezza
naturale, come era prima.
— E
perché sei tutto bianco a codesto modo? — gli domandò a un tratto il
vecchietto.
— Vi
dirò... senza avvedermene, mi sono strofinato a un muro, che era imbiancato di
fresco — rispose il burattino, vergognandosi a raccontare che lo avevano infarinato
come un pesce, per poi friggerlo in padella.
— O
della tua giacchetta, de’ tuoi calzoncini e del tuo berretto, che cosa ne hai
fatto?
— Ho
incontrato i ladri e mi hanno spogliato. Dite, buon vecchio, non avreste per
caso da darmi un po’ di vestituccio, tanto perché io possa ritornare a casa?
— Ragazzo
mio; in quanto a vestiti, io non ho che un piccolo sacchetto, dove ci tengo i
lupini. Se lo vuoi, piglialo: eccolo là. —
E
Pinocchio non se lo fece dire due volte: prese subito il sacchetto dei lupini che
era vuoto, e dopo averci fatto colle forbici una piccola buca nel fondo e due
buche dalle parti, se lo infilò a uso camicia. E vestito leggerino a quel modo,
si avviò verso il paese.
Ma,
lungo la strada, non si sentiva punto tranquillo; tant’è vero che faceva un
passo avanti e uno indietro e, discorrendo da sé solo, andava dicendo:
— Come
farò a presentarmi alla mia buona Fatina? Che dirà quando mi vedrà?... Vorrà
perdonarmi questa seconda birichinata?... Scommetto che non me la perdona!...
oh! non me la perdona di certo... E mi sta il dovere: perché io sono un monello
che prometto sempre di correggermi, e non mantengo mai!... —
Arrivò
al paese che era già notte buia; e perché faceva tempaccio e l’acqua veniva giú
a catinelle, andò diritto diritto alla casa della Fata coll’animo risoluto di
bussare alla porta e di farsi aprire.
Ma,
quando fu lí, sentí mancarsi il coraggio, e invece di bussare, si allontanò,
correndo, una ventina di passi. Poi tornò una seconda volta alla porta, e non
concluse nulla: poi si avvicinò una terza volta, e nulla: la quarta volta
prese, tremando, il battente di ferro in mano e bussò un piccolo colpettino.
Aspetta,
aspetta, finalmente dopo mezz’ora si aprí una finestra dell’ultimo piano (la
casa era di quattro piani) e Pinocchio vide affacciarsi una grossa lumaca, che
aveva un lumicino acceso sul capo, la quale disse:
— Chi
è a quest’ora?
— La
Fata è in casa? — domandò il burattino.
— La
Fata dorme e non vuol essere svegliata: ma tu chi sei?
— Sono
io!
— Chi
io?
— Pinocchio.
— Chi
Pinocchio?
— Il
burattino, quello che sta in casa colla Fata.
— Ah!
ho capito; — disse la Lumaca — aspettami costí, ché ora scendo giú e ti apro
subito.
— Spicciatevi,
per carità, perché io muoio dal freddo.
— Ragazzo
mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta. —
Intanto
passò un’ora, ne passarono due, e la porta non si apriva: per cui Pinocchio,
che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso, si fece
cuore e bussò una seconda volta, e bussò piú forte.
A quel
secondo colpo si aprí una finestra del piano di sotto e si affacciò la solita
lumaca.
— Lumachina
bella — gridò Pinocchio dalla strada — sono due ore che aspetto! E due ore, a
questa serataccia, diventano piú lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità.
— Ragazzo
mio, — gli rispose dalla finestra quella bestiòla tutta pace e tutta flemma —
ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta. —
E la
finestra si richiuse.
Di lí
a poco sonò la mezzanotte: poi il tocco, poi le due dopo mezzanotte, e la porta
era sempre chiusa.
Allora
Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia il battente della porta per
bussare un colpo da far rintronare tutto il casamento: ma il battente che era
di ferro, diventò a un tratto un’anguilla viva, che sgusciandogli dalle mani
sparí in un rigagnolo d’acqua che scorreva in mezzo alla strada.
— Ah!
sí? — gridò Pinocchio sempre piú accecato dalla collera. — Se il battente è
sparito, io seguiterò a bussare a furia di calci. —
E
tiratosi un poco indietro, lasciò andare una solennissima pedata nell’uscio
della casa. Il colpo fu cosí forte, che il piede penetrò nel legno fino a
mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta fatica
inutile: perché il piede c’era rimasto conficcato dentro, come un chiodo
ribadito.
Figuratevi
il povero Pinocchio! Dové passare tutto il resto della notte con un piede in
terra e con quell’altro per aria.
La
mattina, sul far del giorno, finalmente la porta si aprí. Quella brava bestiòla
della Lumaca, a scendere dal quarto piano fino all’uscio di strada, ci aveva
messo solamente nove ore. Bisogna proprio dire che avesse fatto una sudata.
— Che
cosa fate con codesto piede conficcato nell’uscio? — domandò ridendo al
burattino.
— È
stata una disgrazia. Vedete un po’, Lumachina bella, se vi riesce di liberarmi
da questo supplizio.
— Ragazzo
mio, costí ci vuole un legnaiolo, e io non ho fatto mai la legnaiola.
— Pregate
la Fata da parte mia!...
— La
Fata dorme e non vuol essere svegliata.
— Ma
che cosa volete che io faccia inchiodato tutto il giorno a questa porta?
— Divertiti
a contare le formicole che passano per la strada.
— Portatemi
almeno qualche cosa da mangiare, perché mi sento rifinito.
— Subito!
— disse la Lumaca.
Difatti
dopo tre ore e mezzo, Pinocchio la vide tornare con un vassoio d’argento in
capo. Nel vassoio c’era un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche
mature.
— Ecco
la colazione che vi manda la Fata — disse la Lumaca.
Alla
vista di quella grazia di Dio, il burattino sentí consolarsi tutto. Ma quale fu
il suo disinganno, quando incominciando a mangiare, si dové accorgere che il
pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di
alabastro, colorite, come se fossero vere.
Voleva
piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva buttar via il vassoio e quel
che c’era dentro; ma invece, o fosse il gran dolore o la gran languidezza di
stomaco, fatto sta che cadde svenuto.
Quando
si riebbe, si trovò disteso sopra un sofà, e la Fata era accanto a lui.
— Anche
per questa volta ti perdono — gli disse la Fata — ma guai a te, se me ne fai
un’altra delle tue!...
Pinocchio
promise e giurò che avrebbe studiato, e che si sarebbe condotto sempre bene. E
mantenne la parola per tutto il resto dell’anno. Difatti agli esami delle
vacanze, ebbe l’onore di essere il piú bravo della scuola; e i suoi portamenti,
in generale, furono giudicati cosí lodevoli e soddisfacenti, che la Fata, tutta
contenta, gli disse:
— Domani
finalmente il tuo desiderio sarà appagato!
— Cioè?
— Domani
finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo
perbene. —
Chi
non ha veduto la gioia di Pinocchio, a questa notizia tanto sospirata, non
potrà mai figurarsela. Tutti i suoi amici e compagni di scuola dovevano essere
invitati per il giorno dopo a una gran colazione in casa della Fata, per festeggiare
insieme il grande avvenimento: e la Fata aveva fatto preparare dugento tazze di
caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di dentro e di fuori. Quella
giornata prometteva di riuscire molto bella e molto allegra: ma...
Disgraziatamente,
nella vita dei burattini, c’è sempre un ma, che sciupa ogni cosa.
XXX
Pinocchio, invece di diventare un ragazzo,
parte di nascosto col suo amico Lucignolo per il
«Paese dei balocchi».
Com’è
naturale, Pinocchio chiese subito alla Fata il permesso di andare in giro per
la città a fare gl’inviti: e la Fata gli disse:
— Va’
pure a invitare i tuoi compagni per la colazione di domani: ma ricordati di
tornare a casa prima che faccia notte. Hai capito?
— Fra
un’ora prometto di esser bell’e ritornato — replicò il burattino.
— Bada,
Pinocchio! I ragazzi fanno presto a promettere, ma il piú delle volte, fanno
tardi a mantenere.
— Ma
io non sono come gli altri: io, quando dico una cosa, la mantengo.
— Vedremo.
Caso poi tu disubbidissi, tanto peggio per te.
— Perché?
— Perché
i ragazzi che non dànno retta ai consigli di chi ne sa piú di loro, vanno
sempre incontro a qualche disgrazia.
— E
io l’ho provato! — disse Pinocchio. — Ma ora non ci ricasco piú!
— Vedremo
se dici il vero. —
Senza
aggiungere altre parole, il burattino salutò la sua buona Fata, che era per lui
una specie di mamma, e cantando e ballando uscí fuori dalla porta di casa.
In
poco piú d’un’ora, tutti i suoi amici furono invitati. Alcuni accettarono
subito e di gran cuore: altri, da principio, si fecero un po’ pregare: ma
quando seppero che i panini da inzuppare nel caffè-e-latte sarebbero stati
imburrati anche dalla parte di fuori, finirono tutti col dire: — «Verremo anche
noi, per farti piacere».
Ora
bisogna sapere che Pinocchio, fra i suoi amici e compagni di scuola, ne aveva
uno prediletto e carissimo, il quale si chiamava di nome Romeo: ma tutti lo
chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del suo personalino asciutto,
secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da
notte.
Lucignolo
era il ragazzo piú svogliato e piú birichino di tutta la scuola: ma Pinocchio
gli voleva un bran bene. Difatti andò subito a cercarlo a casa, per invitarlo
alla colazione, e non lo trovò: tornò una seconda volta, e Lucignolo non c’era:
tornò una terza volta, e fece la strada invano.
Dove
poterlo ripescare? Cerca di qua, cerca di là, finalmente lo vide nascosto sotto
il portico di una casa di contadini.
— Che
cosa fai costí? — gli domandò Pinocchio, avvicinandosi.
— Aspetto
[di] partire...
— Dove
vai?
— Lontano,
lontano, lontano!
— E
io che son venuto a cercarti a casa tre volte!...
— Che
cosa volevi da me?
— Non
sai il grande avvenimento? Non sai la fortuna che mi è toccata?
— Quale?
— Domani
finisco di essere un burattino e divento un ragazzo come te, e come tutti gli
altri.
— Buon
pro ti faccia.
— Domani,
dunque, ti aspetto a colazione a casa mia.
— Ma
se ti dico che parto questa sera.
— A
che ora?
— Fra
poco.
— E
dove vai?
— Vado
ad abitare in un paese... che è il piú bel paese di questo mondo: una vera
cuccagna!...
— E
come si chiama?
— Si
chiama il «Paese dei balocchi». Perché non vieni anche tu?
— Io?
no davvero!
— Hai
torto, Pinocchio! Credilo a me che, se non vieni, te ne pentirai. Dove vuoi
trovare un paese piú sano per noialtri ragazzi? Lí non vi sono scuole: lí non
vi sono maestri: lí non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia
mai. Il giovedí non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedí e
di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di
gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace
veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!...
— Ma
come si passano le giornate nel «Paese dei balocchi»?
— Si
passano baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va
a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo. Che te ne pare?
— Uhm!...
— fece Pinocchio; e tentennò leggermente il capo, come dire: — «È una vita che
la farei volentieri anch’io!»
— Dunque,
vuoi partire con me? Sí o no? Risolviti.
— No,
no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo
per bene, e voglio mantenere la promessa. Anzi, siccome vedo che il sole va
sotto, cosí ti lascio subito e scappo via. Dunque addio, e buon viaggio.
— Dove
corri con tanta furia?
— A
casa. La mia buona Fata vuole che ritorni prima di notte.
— Aspetta
altri due minuti.
— Faccio
troppo tardi.
— Due
minuti soli.
— E
se poi la Fata mi grida?
— Lasciala
gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà — disse quella birba di
Lucignolo.
— E
come fai? Parti solo o in compagnia?
— Solo?
Saremo piú di cento ragazzi.
— E
il viaggio lo fate a piedi?
— Fra
poco passerà di qui il carro che mi deve prendere e condurre fin dentro ai
confini di quel fortunatissimo paese.
— Che
cosa pagherei che il carro passasse ora!...
— Perché?
— Per
vedervi partire tutti insieme.
— Rimani
qui un altro poco e ci vedrai.
— No,
no: voglio ritornare a casa.
— Aspetta
altri due minuti.
— Ho
indugiato anche troppo. La Fata starà in pensiero per me.
— Povera
Fata! Che ha paura forse che ti mangino i pipistrelli?
— Ma
dunque — soggiunse Pinocchio — tu sei veramente sicuro che in quel paese non ci
sono punte scuole?...
— Neanche
l’ombra.
— E
nemmeno i maestri?
— Nemmen
uno.
— E
non c’è mai l’obbligo di studiare?
— Mai,
mai, mai!
— Che
bel paese! — disse Pinocchio, sentendo venirsi l’acquolina in bocca. — Che bel
paese! Io non ci sono stato mai, ma me lo figuro!...
— Perché
non vieni anche tu?
— È
inutile che tu mi tenti! Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un
ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola.
— Dunque
addio, e salutami tanto le scuole ginnasiali!... e anche quelle liceali, se le
incontri per la strada.
— Addio,
Lucignolo: fa’ buon viaggio, divertiti e rammentati qualche volta degli
amici. —
Ciò
detto, il burattino fece due passi in atto di andarsene: ma poi, fermandosi e
voltandosi all’amico, gli domandò:
— Ma
sei proprio sicuro che in quel paese tutte le settimane sieno composte di sei
giovedí e di una domenica?
— Sicurissimo.
— Ma
lo sai di certo che le vacanze abbiano principio col primo di gennaio e
finiscano coll’ultimo di dicembre?
— Di
certissimo!
— Che
bel paese! — ripeté Pinocchio, sputando dalla soverchia consolazione. Poi,
fatto un animo risoluto, soggiunse in fretta e furia:
— Dunque,
addio davvero: e buon viaggio.
— Addio.
— Fra
quanto partirete?
— Fra
poco!
— Sarei
quasi quasi capace di aspettare.
— E
la Fata?...
— Oramai
ho fatto tardi!... e tornare a casa un’ora prima o un’ora dopo, è lo stesso.
— Povero
Pinocchio! E se la Fata ti grida?
— Pazienza!
La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà. —
Intanto
si era già fatta notte e notte buia: quando a un tratto videro muoversi in
lontananza un lumicino... e sentirono un suono di bubboli e uno squillo di
trombetta, cosí piccolino e soffocato, che pareva il sibilo di una zanzara!
— Eccolo!
— gridò Lucignolo, rizzandosi in piedi.
— Chi
è? — domandò sottovoce Pinocchio.
— È
il carro che viene a prendermi. Dunque, vuoi venire, sí o no?
— Ma
è proprio vero — domandò il burattino — che in quel paese i ragazzi non hanno
mai l’obbligo di studiare?
— Mai,
mai, mai!
— Che
bel paese!... che bel paese!... che bel paese!... —
XXXI
Dopo cinque mesi di cuccagna, Pinocchio con sua
gran maraviglia,
sente spuntarsi un bel pajo d’orecchie asinine,
e diventa un ciuchino, con la coda e tutto.
Finalmente
il carro arrivò: e arrivò senza fare il piú piccolo rumore, perché le sue ruote
erano fasciate di stoppa e di cenci.
Lo
tiravano dodici pariglie di ciuchini, tutti della medesima grandezza, ma di
diverso pelame.
Alcuni
erano bigi, altri bianchi, altri brizzolati a uso pepe e sale, e altri rigati
da grandi strisce gialle e turchine.
Ma la
cosa piú singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei
ventiquattro ciuchini, invece di esser ferrati come tutte le altre bestie da
tiro o da soma, avevano in piedi degli stivaletti da uomo fatti di pelle
bianca.
E il
conduttore del carro?...
Figuratevi
un omino piú largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un
visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e
carezzevole, come quella d’un gatto, che si raccomanda al buon cuore della
padrona di casa.
Tutti
i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel
montare sul suo carro, per esser condotti da lui in quella vera cuccagna
conosciuta nella carta geografica col seducente nome di «Paese de’ balocchi».
Difatti
il carro era già tutto pieno di ragazzetti fra gli otto e i dodici anni,
ammonticchiati gli uni sugli altri come tante acciughe nella salamoia. Stavano
male, stavano pigiati, non potevano quasi respirare: ma nessuno diceva ohi!
nessuno si lamentava. La consolazione di sapere che fra poche ore sarebbero
giunti in un paese, dove non c’erano né libri, né scuola, né maestri, li
rendeva cosí contenti e rassegnati, che non sentivano né i disagi, né gli
strapazzi, né la fame, né la sete, né il sonno.
Appena
che il carro si fu fermato, l’Omino si volse a Lucignolo, e con mille smorfie e
mille manierine, gli domandò sorridendo:
— Dimmi,
mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu in quel fortunato paese?
— Sicuro
che ci voglio venire.
— Ma
ti avverto, carino mio, che nel carro non c’è piú posto. Come vedi, è tutto
pieno!...
— Pazienza!
— replicò Lucignolo — se non c’è posto dentro, mi adatterò a star seduto sulle
stanghe del carro. —
E
spiccato un salto, montò a cavalcioni sulle stanghe.
— E
tu, amor mio — disse l’Omino volgendosi tutto complimentoso a Pinocchio — che
intendi fare? Vieni con noi o rimani?...
— Io
rimango — rispose Pinocchio. — Io voglio tornarmene a casa mia: voglio studiare
e voglio farmi onore alla scuola, come fanno tutti i ragazzi perbene.
— Buon
pro ti faccia!
— Pinocchio!
— disse allora Lucignolo. — Da’ retta a me: vieni con noi, e staremo allegri.
— No,
no, no!
— Vieni
con noi e staremo allegri — gridarono altre quattro voci di dentro al carro.
— Vieni
con noi e staremo allegri — urlarono tutte insieme un centinaio di voci.
— E
se vengo con voi, che cosa dirà la mia buona Fata? — disse il burattino che
cominciava a intenerirsi e a ciurlar nel manico.
— Non
ti fasciare il capo con tante malinconie. Pensa che andiamo in un paese dove
saremo padroni di fare il chiasso dalla mattina alla sera! —
Pinocchio
non rispose, ma fece un sospiro: poi fece un altro sospiro: poi un terzo
sospiro: finalmente disse:
— Fatemi
un po’ di posto: voglio venire anch’io!...
— I
posti son tutti pieni — replicò l’Omino — ma per mostrarti quanto sei gradito,
posso cederti il mio posto a cassetta...
— E
voi?...
— E
io farò la strada a piedi.
— No
davvero, che non lo permetto. Preferisco piuttosto di salire in groppa a
qualcuno di questi ciuchini! — gridò Pinocchio.
Detto
fatto, si avvicinò al ciuchino manritto della prima pariglia, e fece l’atto di
volerlo cavalcare: ma la bestiòla, voltandosi a secco, gli dètte una gran
musata nello stomaco e lo gettò a gambe all’aria.
Figuratevi
la risatona impertinente e sgangherata di tutti quei ragazzi presenti alla
scena.
Ma
l’Omino non rise. Si accostò pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle, e,
facendo finta di dargli un bacio, gli staccò con un morso la metà dell’orecchio
destro.
Intanto
Pinocchio, rizzatosi da terra tutto infuriato, schizzò con un salto sulla
groppa di quel povero animale. E il salto fu cosí bello, che i ragazzi, smesso
di ridere, cominciarono a urlare: viva Pinocchio! e a fare una smanacciata di
applausi, che non finivano piú.
Quand’ecco
che all’improvviso il ciuchino alzò tutte e due le gambe di dietro, e dando una
fortissima sgropponata, scaraventò il povero burattino in mezzo alla strada,
sopra un monte di ghiaia.
Allora
grandi risate daccapo: ma l’Omino, invece di ridere, si sentí preso da tanto
amore per quell’irrequieto asinello che, con un bacio, gli portò via di netto
la metà di quell’altro orecchio. Poi disse al burattino:
— Rimonta
pure a cavallo, e non aver paura. Quel ciuchino aveva qualche grillo per il
capo: ma io gli ho detto due paroline negli orecchi, e spero di averlo reso
mansueto e ragionevole. —
Pinocchio
montò: e il carro cominciò a muoversi: ma nel tempo che i ciuchini galoppavano
e che il carro correva sui ciottoli della via maestra, gli parve al burattino
di sentire una voce sommessa e appena intelligibile, che gli disse:
— Povero
gonzo! Hai voluto fare a modo tuo, ma te ne pentirai! —
Pinocchio,
quasi impaurito, guardò di qua e di là, per conoscere da qual parte venissero
queste parole; ma non vide nessuno: i ciuchini galoppavano, il carro correva, i
ragazzi dentro al carro dormivano, Lucignolo russava come un ghiro e l’Omino
seduto a cassetta, canterellava fra i denti:
Tutti
la notte dormono
E io
non dormo mai...
Fatto
un altro mezzo chilometro, Pinocchio sentí la solita vocina fioca che gli
disse:
— Tienlo
a mente, grullerello! I ragazzi che smettono di studiare e voltano le spalle ai
libri, alle scuole e ai maestri, per darsi interamente ai balocchi e ai
divertimenti, non possono far altro che una fine disgraziata!... Io lo so per
prova!... e te lo posso dire! Verrà un giorno che piangerai anche tu, come oggi
piango io... ma allora sarà tardi!... —
A
queste parole bisbigliate sommessamente, il burattino, spaventato piú che mai,
saltò giú dalla groppa della cavalcatura, e andò a prendere il suo ciuchino per
il muso.
E
immaginatevi come restò, quando s’accòrse che il suo ciuchino piangeva... e
piangeva proprio come un ragazzo!
— Ehi,
signor Omino, — gridò allora Pinocchio al padrone del carro — sapete che cosa
c’è di nuovo? Questo ciuchino piange.
— Lascialo
piangere: riderà quando sarà sposo.
— Ma
che forse gli avete insegnato anche a parlare?
— No:
ha imparato da sé a borbottare qualche parola, essendo stato tre anni in una
compagnia di cani ammaestrati.
— Povera
bestia!...
— Via,
via — disse l’Omino — non perdiamo il nostro tempo a veder piangere un ciuco.
Rimonta a cavallo, e andiamo: la nottata è fresca e la strada è lunga. —
Pinocchio
obbedí senza rifiatare. Il carro riprese la sua corsa: e la mattina, sul far
dell’alba, arrivarono felicemente nel «Paese dei balocchi».
Questo
paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione era
tutta composta di ragazzi. I piú vecchi avevano
anni: i piú giovani ne avevano
appena. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillío da levar di
cervello! Branchi di monelli da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle
piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra un cavallino di
legno: questi facevano a mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano: altri,
vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava,
chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e
colle gambe in aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da
generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi
urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso
alla gallina quando ha fatto l’ovo: insomma un tal pandemonio, un tal
passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli
orecchi per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si vedevano teatrini di
tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle
case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: viva i
balocci! (invece di balocchi): non vogliamo piú schole (invece di non vogliamo
piú scuole): abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori
consimili.
Pinocchio,
Lucignolo e tutti gli altri ragazzi, che avevano fatto il viaggio coll’Omino,
appena ebbero messo il piede dentro la città, si ficcarono subito in mezzo alla
gran baraonda, e in pochi minuti, com’è facile immaginarselo, diventarono gli
amici di tutti. Chi piú felice, chi piú contento di loro?
In
mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, i giorni, le
settimane passavano come tanti baleni.
— Oh!
che bella vita! — diceva Pinocchio tutte le volte che per caso s’imbatteva in
Lucignolo.
— Vedi,
dunque, se avevo ragione? — ripigliava quest’ultimo. — E dire che tu non volevi
partire! E pensare che t’eri messo in capo di tornartene a casa dalla tua Fata,
per prendere il tempo a studiare!... Se oggi ti sei liberato dalla noia dei
libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli, alle mie premure, ne
convieni? Non vi sono che i veri amici che sappiano rendere di questi grandi
favori.
— È
vero, Lucignolo! Se oggi io sono un ragazzo veramente contento, è tutto merito
tuo. E il maestro, invece, sai che cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva
sempre: — Non praticare quella birba di Lucignolo, perché Lucignolo è un
cattivo compagno e non può consigliarti altro che a far del male!...
— Povero
maestro! — replicò l’altro tentennando il capo. — Lo so pur troppo che mi aveva
a noia, e che si divertiva sempre a calunniarmi; ma io sono generoso e gli
perdono!
— Anima
grande! — disse Pinocchio, abbracciando affettuosamente l’amico e dandogli un
bacio in mezzo agli occhi.
Intanto
era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di
divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia né un libro, né una
scuola; quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire,
una gran brutta sorpresa, che lo messe proprio di malumore.
XXXII
A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco,
e poi diventa un ciuchino vero e comincia a
ragliare.
— E
questa sorpresa quale fu?
— Ve
lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che a Pinocchio,
svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel
grattarsi il capo si accòrse...
Indovinate
un po’ di che cosa si accòrse?
Si
accòrse con suo grandissimo stupore, che gli orecchi gli erano cresciuti piú
d’un palmo.
Voi
sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini piccini:
tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure! Immaginatevi dunque
come restò, quando dové toccar con mano che i suoi orecchi, durante la notte,
erano cosí allungati, che parevano due spazzole di padule.
Andò
subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando uno
specchio, empí d’acqua la catinella del lavamano, e specchiandovisi dentro,
vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la sua immagine
abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini.
Lascio
pensare a voi il dolore, la vergogna, e la disperazione del povero Pinocchio!
Cominciò
a piangere, a strillare, a battere la testa nel muro: ma quanto piú si
disperava, e piú i suoi orecchi crescevano, crescevano, crescevano e
diventavano pelosi verso la cima.
Al
rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella Marmottina, che
abitava al piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in cosí grandi
smanie, gli domandò premurosamente:
— Che
cos’hai, mio caro casigliano?
— Sono
malato, Marmottina mia, molto malato... e malato d’una malattia che mi fa
paura! Te ne intendi tu del polso?
— Un
pochino.
— Senti
dunque se per caso avessi la febbre. —
La
Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso a
Pinocchio, gli disse sospirando:
— Amico
mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!...
— Cioè?
— Tu
hai una gran brutta febbre!
— E
che febbre sarebbe?
— È
la febbre del somaro.
— Non
la capisco questa febbre! — rispose il burattino, che l’aveva pur troppo
capita.
— Allora
te la spiegherò io — soggiunse la Marmottina. — Sappi dunque che fra due o tre
ore tu non sarai piú né un burattino, né un ragazzo...
— E
che cosa sarò?
— Fra
due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano
il carretto e che portano i cavoli e l’insalata al mercato.
— Oh!
povero me! povero me! — gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt’e due gli
orecchi, e tirandoli e strapazzandoli rabbiosamente, come se fossero gli
orecchi di un altro.
— Caro
mio, — replicò la Marmottina per consolarlo — che cosa ci vuoi tu fare? Oramai
è destino. Oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi
svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro
giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi
col trasformarsi in tanti piccoli somari.
— Ma
davvero è proprio cosí? — domandò singhiozzando il burattino.
— Pur
troppo è cosí! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima!
— Ma
la colpa non è mia: la colpa, credilo, Marmottina, è tutta di Lucignolo!...
— E
chi è questo Lucignolo?
— Un
mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente:
io volevo seguitare a studiare e a farmi onore... ma Lucignolo mi disse: —
«Perché vuoi tu annoiarti a studiare? perché vuoi andare alla scuola?... Vieni
piuttosto con me, nel Paese dei balocchi: lí non studieremo piú; lí ci
divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri».
— E
perché seguisti il consiglio di quel falso amico? di quel cattivo compagno?
— Perché?...
perché, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio... e senza cuore.
Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonata quella buona
Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!... e a
quest’ora non sarei piú un burattino... ma sarei invece un ragazzino ammodo,
come ce n’è tanti! Oh!... ma se incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio
dire un sacco e una sporta!... —
E fece
l’atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò che aveva gli
orecchi d’asino, e vergognandosi di mostrarli in pubblico, che cosa inventò?
Prese un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in testa, se lo ingozzò fin
sotto la punta del naso.
Poi
uscí: e si dètte a cercare Lucignolo da per tutto. Lo cercò nelle strade, nelle
piazze, nei teatrini, in ogni luogo: ma non lo trovò. Ne chiese notizia a
quanti incontrò per la via, ma nessuno l’aveva veduto.
Allora
andò a cercarlo a casa: e arrivato alla porta, bussò.
— Chi
è? — domandò Lucignolo di dentro.
— Sono
io! — rispose il burattino.
— Aspetta
un poco, e ti aprirò. —
Dopo
mezz’ora la porta si aprí: e figuratevi come restò Pinocchio quando, entrando
nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con un gran berretto di cotone in
testa, che gli scendeva fin sotto il naso.
Alla
vista di quel berretto, Pinocchio sentí quasi consolarsi e pensò subito dentro
di sé:
— Che
l’amico sia malato della mia medesima malattia? Che abbia anche lui la febbre
del ciuchino?... —
E
facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo:
— Come
stai, mio caro Lucignolo?
— Benissimo:
come un topo in una forma di cacio parmigiano.
— Lo
dici proprio sul serio?
— E
perché dovrei dirti una bugia?
— Scusami,
amico: e allora perché tieni in capo codesto berretto di cotone che ti cuopre
tutti gli orecchi?
— Me
l’ha ordinato il medico, perché mi son fatto male a un ginocchio. E tu, caro
Pinocchio, perché porti codesto berretto di cotone ingozzato fin sotto il naso?
— Me
l’ha ordinato il medico, perché mi sono sbucciato un piede.
— Oh!
povero Pinocchio!...
— Oh!
povero Lucignolo!...
A
queste parole tenne dietro un lunghissimo silenzio, durante il quale i due
amici non fecero altro che guardarsi fra loro in atto di canzonatura.
Finalmente
il burattino, con una vocina melliflua e flautata, disse al suo compagno:
— Levami
una curiosità, mio caro Lucignolo: hai mai sofferto di malattia agli orecchi?
— Mai!...
E tu?
— Mai!
Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio che mi fa spasimare.
— Ho
lo stesso male anch’io.
— Anche
tu?... E qual è l’orecchio che ti duole?
— Tutti
e due. E tu?
— Tutti
e due. Che sia la medesima malattia?
— Ho
paura di sí.
— Vuoi
farmi un piacere, Lucignolo?
— Volentieri!
Con tutto il cuore.
— Mi
fai vedere i tuoi orecchi?
— Perché
no? Ma prima voglio vedere i tuoi, caro Pinocchio.
— No:
il primo devi essere tu.
— No,
carino! Prima tu, e dopo io!
— Ebbene,
— disse allora il burattino — facciamo un patto da buoni amici.
— Sentiamo
il patto.
— Leviamoci
tutti e due il berretto nello stesso tempo: accetti?
— Accetto.
— Dunque
attenti!
E
Pinocchio cominciò a contare a voce alta:
— Uno!
Due! Tre! —
Alla
parola tre! i due ragazzi presero i loro berretti di capo e li gettarono in
aria.
E
allora avvenne una scena, che parrebbe incredibile, se non fosse vera. Avvenne,
cioè, che Pinocchio e Lucignolo, quando si videro colpiti tutti e due dalla
medesima disgrazia, invece di restar mortificati e dolenti, cominciarono ad
ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti, e dopo mille sguaiataggini
finirono col dare in una bella risata.
E
risero, risero, risero da doversi reggere il corpo: se non che, sul piú bello
del ridere, Lucignolo tutt’a un tratto si chetò, e barcollando e cambiando di
colore, disse all’amico:
— Aiuto,
aiuto, Pinocchio!
— Che
cos’hai?
— Ohimè!
non mi riesce piú di star ritto sulle gambe.
— Non
mi riesce piú neanche a me — gridò Pinocchio, piangendo e traballando.
E
mentre dicevano cosí, si piegarono tutti e due carponi a terra e, camminando
con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E
intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si
allungarono e diventarono musi, e le loro schiene si coprirono di un pelame
grigiolino chiaro brizzolato di nero.
Ma il
momento piú brutto per que’ due sciagurati sapete quando fu? Il momento piú
brutto e piú umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi di dietro la coda.
Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi
del loro destino.
Non
l’avessero mai fatto! Invece di gemiti e di lamenti, mandavano fuori dei ragli
asinini; e ragliando sonoramente, facevano tutti e due in coro: j-a, j-a, j-a.
In
quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:
— Aprite!
Sono l’Omino, sono il conduttore del carro che vi portò in questo paese. Aprite
subito, o guai a voi! —
XXXIII
Diventato un ciuchino vero, è portato a vendere,
e lo compra il Direttore di una compagnia di
pagliacci,
per insegnargli a ballare e a saltare i cerchi:
ma una sera azzoppisce e allora lo ricompra un
altro,
per far con la sua pelle un tamburo.
Vedendo
che la porta non si apriva, l’Omino la spalancò con un violentissimo calcio: ed
entrato nella stanza, disse col suo solito risolino a Pinocchio e a Lucignolo:
— Bravi
ragazzi! Avete ragliato bene, e io vi ho subito riconosciuti alla voce. E per
questo eccomi qui. —
A tali
parole, i due ciuchini rimasero mogi mogi, colla testa giú, con gli orecchi
bassi e con la coda fra le gambe.
Da
principio l’Omino li lisciò, li accarezzò, li palpeggiò: poi, tirata fuori la
striglia, cominciò a strigliarli per bene. E quando a furia di strigliarli, li
ebbe fatti lustri come due specchi, allora messe loro la cavezza e li condusse
sulla piazza del mercato, con la speranza di venderli e di beccarsi un discreto
guadagno.
E i
compratori, difatti, non si fecero aspettare.
Lucignolo
fu comprato da un contadino, a cui era morto il somaro il giorno avanti, e
Pinocchio fu venduto al Direttore di una compagnia di pagliacci e di saltatori
di corda, il quale lo comprò per ammaestrarlo e per farlo poi saltare e ballare
insieme con le altre bestie della compagnia.
E ora
avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva
l’Omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva la fisonomia tutta di latte e
miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare per il mondo: strada
facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i ragazzi svogliati, che
avevano a noia i libri e le scuole: e dopo averli caricati sul suo carro, li
conduceva nel «Paese dei balocchi» perché passassero tutto il loro tempo in
giochi, in chiassate e in divertimenti. Quando poi quei poveri ragazzi illusi,
a furia di baloccarsi sempre e di non studiar mai, diventavano tanti ciuchini,
allora tutto allegro e contento s’impadroniva di loro e li portava a vendere
sulle fiere e su i mercati. E cosí in pochi anni aveva fatto fior di quattrini
ed era diventato milionario.
Quel
che accadesse di Lucignolo, non lo so: so, per altro, che Pinocchio andò incontro
fin dai primi giorni a una vita durissima e strapazzata.
Quando
fu condotto nella stalla, il nuovo padrone gli empí la greppia di paglia: ma
Pinocchio, dopo averne assaggiata una boccata, la risputò.
Allora
il padrone, brontolando, gli empí la greppia di fieno: ma neppure il fieno gli
piacque.
— Ah!
non ti piace neppure il fieno? — gridò il padrone imbizzito. — Lascia fare,
ciuchino bello, che se hai dei capricci per il capo, penserò io a
levarteli!... —
E a
titolo di correzione, gli affibbiò subito una frustata nelle gambe.
Pinocchio,
dal gran dolore, cominciò a piangere e a ragliare, e ragliando disse:
— J-a,
j-a, la paglia non la posso digerire!...
— Allora
mangia il fieno! — replicò il padrone, che intendeva benissimo il dialetto
asinino.
— J-a,
j-a, il fieno mi fa dolere il corpo!...
— Pretenderesti,
dunque, che un somaro, par tuo, lo dovessi mantenere a petti di pollo e cappone
in galantina? — soggiunse il padrone arrabbiandosi sempre piú, e affibbiandogli
una seconda frustata.
A
quella seconda frustata Pinocchio, per prudenza, si chetò subito e non disse
altro.
Intanto
la stalla fu chiusa e Pinocchio rimase solo: e perché erano molte ore che non
aveva mangiato, cominciò a sbadigliare dal grande appetito. E, sbadigliando,
spalancava la bocca che pareva un forno.
Alla
fine, non trovando altro nella greppia, si rassegnò a masticare un po’ di
fieno: e dopo averlo masticato ben bene, chiuse gli occhi e lo tirò giú.
— Questo
fieno non è cattivo — poi disse dentro di sé — ma quanto sarebbe stato meglio che
avessi continuato a studiare!... A quest’ora, invece di fieno, potrei mangiare
un cantuccio di pan fresco e una bella fetta di salame! Pazienza!... —
La
mattina dopo, svegliandosi, cercò subito nella greppia un altro po’ di fieno;
ma non lo trovò, perché l’aveva mangiato tutto nella notte.
Allora
prese una boccata di paglia tritata; e in quel mentre che la stava masticando,
si dové persuadere che il sapore della paglia tritata non somigliava punto né
al risotto alla milanese né ai maccheroni alla napoletana.
— Pazienza!
— ripeté, continuando a masticare. — Che almeno la mia disgrazia possa servire
di lezione a tutti i ragazzi disobbedienti e che non hanno voglia di studiare.
Pazienza!... pazienza!...
— Pazienza
un corno! — urlò il padrone, entrando in quel momento nella stalla. — Credi
forse, mio bel ciuchino, ch’io ti abbia comprato unicamente per darti da bere e
da mangiare? Io ti ho comprato perché tu lavori e perché tu mi faccia
guadagnare molti quattrini. Su, dunque, da bravo! Vieni con me nel Circo e là
ti insegnerò a saltare i cerchi, a rompere col capo le botti di foglio e a
ballare il valzer e la polca, stando ritto sulle gambe di dietro. —
Il
povero Pinocchio, o per amore o per forza, dové imparare tutte queste
bellissime cose; ma, per impararle, gli ci vollero tre mesi di lezioni, e molte
frustate da levare il pelo.
Venne
finalmente il giorno, in cui il suo padrone poté annunziare uno spettacolo
veramente straordinario. I cartelloni di vario colore, attaccati alle cantonate
delle strade, dicevano cosí:
Quella
sera, come potete figurarvelo, un’ora prima che cominciasse lo spettacolo, il
teatro era pieno stipato.
Non si
trovava piú né una poltrona, né un posto distinto, né un palco, nemmeno a
pagarlo a peso d’oro.
Le
gradinate del Circo formicolavano di bambini, di bambine e di ragazzi di tutte
le età, che avevano la febbre addosso per la smania di veder ballare il famoso
ciuchino Pinocchio.
Finita
la prima parte dello spettacolo, il Direttore della compagnia, vestito in
giubba nera, calzoni bianchi a coscia e stivaloni di pelle fin sopra ai
ginocchi, si presentò all’affollatissimo pubblico e, fatto un grande inchino,
recitò con molta solennità il seguente sprositato discorso:
«Rispettabile
pubblico, cavalieri e dame!
«L’umile
sottoscritto essendo di passaggio per questa illustre metropolitana, ho voluto
procrearmi l’onore nonché il piacere di presentare a questo intelligente e
cospicuo uditorio un celebre ciuchino, che ebbe già l’onore di ballare al
cospetto di Sua Maestà l’imperatore di tutte le principali Corti d’Europa.
«E col
ringraziandoli, aiutateci della vostra animatrice presenza e compatiteci!»
Questo
discorso fu accolto da molte risate e da molti applausi; ma gli applausi
raddoppiarono e diventarono una specie di uragano alla comparsa del ciuchino
Pinocchio in mezzo al Circo. Egli era tutto agghindato a festa. Aveva una
briglia nuova di pelle lustra, con fibbie e borchie d’ottone; due camelie
bianche agli orecchi: la criniera divisa in tanti riccioli legati con
fiocchettini di seta rossa: una gran fascia d’oro e d’argento attraverso alla
vita, e la coda tutta intrecciata con nastri di velluto paonazzo e celeste. Era
insomma un ciuchino da innamorare!
Il
Direttore, nel presentarlo al pubblico, aggiunse queste parole:
«Miei
rispettabili auditori! Non starò qui a farvi menzogna delle grandi difficoltà
da me soppressate per comprendere e soggiogare questo mammifero, mentre
pascolava liberamente di montagna in montagna nelle pianure della zona torrida.
Osservate, vi prego, quanta selvaggina trasudi da’ suoi occhi, conciossiaché
essendo riusciti vanitosi tutti i mezzi per addomesticarlo al vivere dei
quadrupedi civili, ho dovuto piú volte ricorrere all’affabile dialetto della
frusta. Ma ogni mia gentilezza, invece di farmi da lui benvolere, me ne ha maggiormente
cattivato l’animo. Io però, seguendo il sistema di Galles, trovai nel suo
cranio una piccola cartagine ossea, che la stessa Facoltà medicea di Parigi
riconobbe esser quello il bulbo rigeneratore dei capelli e della danza pirrica.
E per questo io lo volli ammaestrare nel ballo, nonché nei relativi salti dei
cerchi e delle botti foderate di foglio. Ammiratelo! e poi giudicatelo! Prima
però di prendere cognato da voi, permettete, o signori, che io vi inviti al
diurno spettacolo di domani sera: ma nell’apoteosi che il tempo piovoso
minacciasse acqua, allora lo spettacolo, invece di domani sera, sarà
posticipato a domattina, alle ore
antimeridiane del pomeriggio».
E qui
il Direttore fece un’altra profondissima riverenza: quindi volgendosi a
Pinocchio, gli disse:
— Animo,
Pinocchio! Avanti di dar principio ai vostri esercizi, salutate questo
rispettabile pubblico, cavalieri, dame e ragazzi! —
Pinocchio,
ubbidiente, piegò subito i due ginocchi davanti, e rimase inginocchiato fino a
tanto che il Direttore, schioccando la frusta, non gli gridò:
— Al
passo! —
Allora
il ciuchino si rizzò sulle quattro gambe, e cominciò a girare intorno al Circo,
camminando sempre di passo.
Dopo
un poco il Direttore gridò:
— Al
trotto! — e Pinocchio, ubbidiente al comando, cambiò il passo in trotto.
— Al
galoppo! — e Pinocchio staccò il galoppo.
— Alla
carriera! — e Pinocchio si dètte a correre di gran carriera. Ma in quella che
correva come un barbero, il Direttore, alzando il braccio in aria, scaricò un
colpo di pistola.
A quel
colpo il ciuchino, fingendosi ferito, cadde disteso nel Circo, come se fosse
moribondo davvero.
Rizzatosi
da terra in mezzo a uno scoppio di applausi, d’urli e di battimani, che
andavano alle stelle, gli venne fatto naturalmente di alzare la testa e di guardare
in su... e guardando, vide in un palco una bella signora, che aveva al collo
una grossa collana d’oro dalla quale pendeva un medaglione. Nel medaglione
c’era dipinto il ritratto d’un burattino.
— Quel
ritratto è il mio!... quella signora è la Fata! — disse dentro di sé Pinocchio,
riconoscendola subito: e lasciandosi vincere dalla gran contentezza, si provò a
gridare:
— Oh
Fatina mia! oh Fatina mia!... —
Ma
invece di queste parole, gli uscí dalla gola un raglio cosí sonoro e
prolungato, che fece ridere tutti gli spettatori, e segnatamente tutti i
ragazzi che erano in teatro.
Allora
il Direttore, per insegnargli e per fargli intendere che non è buona creanza di
mettersi a ragliare in faccia al pubblico, gli diè col manico della frusta una
bacchettata sul naso.
Il
povero ciuchino, tirato fuori un palmo di lingua, durò a leccarsi il naso
almeno cinque minuti, credendo forse cosí di rasciugarsi il dolore che aveva
sentito.
Ma
quale fu la sua disperazione quando, voltandosi in su una seconda volta, vide
che il palco era vuoto e che la Fata era sparita!...
Si
sentí come morire: gli occhi gli si empirono di lacrime e cominciò a piangere
dirottamente. Nessuno però se ne accòrse, e, meno degli altri, il Direttore, il
quale, anzi, schioccando la frusta, gridò:
— Da
bravo, Pinocchio! Ora farete vedere a questi signori con quanta grazia sapete
saltare i cerchi. —
Pinocchio
si provò due o tre volte: ma ogni volta che arrivava davanti al cerchio, invece
di attraversarlo, ci passava piú comodamente di sotto. Alla fine spiccò un
salto e l’attraversò: ma le gambe di dietro gli rimasero disgraziatamente
impigliate nel cerchio: motivo per cui ricadde in terra dall’altra parte tutto
in un fascio.
Quando
si rizzò, era azzoppito, e a malapena poté ritornare alla scuderia.
— Fuori
Pinocchio! Vogliamo il ciuchino! Fuori il ciuchino! — gridavano i ragazzi dalla
platea, impietositi e commossi al tristissimo caso.
Ma il
ciuchino per quella sera non si fece piú rivedere.
La
mattina dopo il veterinario, ossia il medico delle bestie, quando l’ebbe
visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita.
Allora
il Direttore disse al suo garzone di stalla:
— Che
vuoi tu che mi faccia d’un somaro zoppo? Sarebbe un mangiapane a ufo. Portalo
dunque in piazza e rivendilo. —
Arrivati
in piazza, trovarono subito il compratore, il quale domandò al garzone di
stalla:
— Quanto
vuoi di codesto ciuchino zoppo?
— Venti
lire.
— Io
ti do venti soldi. Non credere che io lo compri per servirmene: lo compro
unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la pelle molto dura, e con la sua
pelle voglio fare un tamburo per la banda musicale del mio paese. —
Lascio
pensare a voi, ragazzi, il bel piacere che fu per il povero Pinocchio, quando
sentí che era destinato a diventare un tamburo!
Fatto
sta che il compratore, appena pagati i venti soldi, condusse il ciuchino sulla
riva del mare; e messogli un sasso al collo e legatolo per una zampa con una
fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente uno spintone e lo gettò
nell’acqua.
Pinocchio,
con quel macigno al collo, andò subito a fondo: e il compratore, tenendo sempre
stretta in mano la fune, si pose a sedere sopra uno scoglio, aspettando che il
ciuchino avesse tutto il tempo di morire affogato, per poi scorticarlo e
levargli la pelle.
XXXIV
Pinocchio, gettato in mare, è mangiato dai pesci
e ritorna ad essere un burattino come prima:
ma mentre nuota per salvarsi, è ingojato dal
terribile Pesce-cane.
Dopo
cinquanta minuti che il ciuchino era sott’acqua, il compratore disse,
discorrendo da sé solo:
— A
quest’ora il mio povero ciuchino zoppo deve essere bell’e affogato. Ritiriamolo
dunque su, e facciamo con la sua pelle questo bel tamburo. —
E
cominciò a tirare la fune, con la quale lo aveva legato per una gamba: e tira,
tira, tira, alla fine vide apparire a fior d’acqua... indovinate? Invece di un
ciuchino morto, vide apparire a fior d’acqua un burattino vivo, che
scodinzolava come un’anguilla.
Vedendo
quel burattino di legno, il pover’uomo credé di sognare e rimase lí intontito,
a bocca aperta e con gli occhi fuori della testa.
Riavutosi
un poco dal suo primo stupore, disse piangendo e balbettando:
— E
il ciuchino che ho gettato in mare dov’è?...
— Quel
ciuchino son io! — rispose il burattino, ridendo.
— Tu?
— Io.
— Ah!
mariuolo! Pretenderesti forse di burlarti di me?
— Burlarmi
di voi? Tutt’altro, caro padrone: io vi parlo sul serio.
— Ma
come mai tu, che poco fa eri un ciuchino, ora stando nell’acqua, sei diventato
un burattino di legno?...
— Sarà
effetto dell’acqua del mare. Il mare ne fa di questi scherzi.
— Bada
burattino, bada!... Non credere di divertirti alle mie spalle! Guai a te, se mi
scappa la pazienza!
— Ebbene,
padrone; volete sapere tutta la vera storia? Scioglietemi questa gamba e io ve
la racconterò. —
Quel
buon pasticcione del compratore, curioso di conoscere la vera storia, gli
sciolse subito il nodo della fune, che lo teneva legato: e allora Pinocchio,
trovandosi libero come un uccello nell’aria, prese a dirgli cosí:
— Sappiate
dunque che io ero un burattino di legno, come sono oggi: ma mi trovavo a tocco
e non tocco di diventare un ragazzo, come in questo mondo ce n’è tanti: se non
che per la mia poca voglia di studiare e per dar retta ai cattivi compagni,
scappai di casa... e un bel giorno, svegliandomi, mi trovai cambiato in un
somaro con tanto d’orecchi... e con tanto di coda!... Che vergogna fu quella
per me!... Una vergogna, caro padrone, che Sant’Antonio benedetto non la faccia
provare neppure a voi! Portato a vendere sul mercato degli asini, fui comprato
dal Direttore di una compagnia equestre, il quale si messe in capo di far di me
un gran ballerino e un gran saltatore di cerchi: ma una sera, durante lo
spettacolo, feci in teatro una brutta cascata e rimasi zoppo da tutt’e due le
gambe. Allora il Direttore, non sapendo che cosa farsi d’un asino zoppo, mi
mandò a rivendere, e voi mi avete comprato!...
— Pur
troppo! E ti ho pagato venti soldi. E ora chi mi rende i miei poveri venti
soldi?
— E
perché mi avete comprato? Voi mi avete comprato per fare con la mia pelle un
tamburo!... un tamburo!...
— Pur
troppo! E ora dove troverò un’altra pelle?...
— Non
vi date alla disperazione, padrone. Dei ciuchini ce n’è tanti in questo mondo!
— Dimmi,
monello impertinente; e la tua storia finisce qui?
— No
— rispose il burattino — ci sono altre due parole, e poi è finita. Dopo avermi
comprato, mi avete condotto in questo luogo per uccidermi, ma poi, cedendo a un
sentimento pietoso d’umanità, avete preferito di legarmi un sasso al collo e di
gettarmi in fondo al mare. Questo sentimento di delicatezza vi onora moltissimo
e io ve ne serberò eterna riconoscenza. Per altro, caro padrone, questa volta
avete fatto i vostri conti senza la Fata...
— E
chi è questa Fata?
— È
la mia mamma, la quale somiglia a tutte quelle buone mamme, che vogliono un
gran bene ai loro ragazzi, e non li perdono mai d’occhio, e li assistono
amorosamente in ogni disgrazia, anche quando questi ragazzi, per le loro
scapataggini e per i loro cattivi portamenti, meriterebbero di esser
abbandonati e lasciati in balía a sé stessi. Dicevo, dunque, che la buona Fata,
appena mi vide in pericolo di affogare, mandò subito intorno a me un branco
infinito di pesci, i quali credendomi davvero un ciuchino bell’e morto,
cominciarono a mangiarmi! E che bocconi che facevano! Non avrei mai creduto che
i pesci fossero piú ghiotti anche dei ragazzi!... Chi mi mangiò gli orecchi,
chi mi mangiò il muso, chi il collo e la criniera, chi la pelle delle zampe,
chi la pelliccia della schiena... e, fra gli altri, vi fu un pesciolino cosí
garbato, che si degnò perfino di mangiarmi la coda.
— Da
oggi in poi — disse il compratore inorridito — faccio giuro di non assaggiar
piú carne di pesce. Mi dispiacerebbe troppo di aprire una triglia o un nasello
fritto e di trovargli in corpo una coda di ciuco!
— Io
la penso come voi — replicò il burattino, ridendo. — Del resto, dovete sapere
che quando i pesci ebbero finito di mangiarmi tutta quella buccia asinina, che
mi copriva dalla testa ai piedi, arrivarono, com’è naturale, all’osso... o per
dir meglio, arrivarono al legno, perché, come vedete, io son fatto di legno
durissimo. Ma dopo dati i primi morsi, quei pesci ghiottoni si accòrsero subito
che il legno non era ciccia per i loro denti, e nauseati da questo cibo
indigesto se ne andarono chi in qua, chi in là, senza voltarsi nemmeno a dirmi
grazie. Ed eccovi raccontato come qualmente voi, tirando su la fune, avete
trovato un burattino vivo, invece d’un ciuchino morto.
— Io
mi rido della tua storia — gridò il compratore imbestialito. — Io so che ho
speso venti soldi per comprarti, e rivoglio i miei quattrini. Sai che cosa
farò? Ti porterò daccapo al mercato, e ti rivenderò a peso di legno stagionato
per accendere il fuoco nel caminetto.
— Rivendetemi
pure: io sono contento — disse Pinocchio.
Ma nel
dir cosí, fece un bel salto e schizzò in mezzo all’acqua. E nuotando
allegramente e allontanandosi dalla spiaggia, gridava al povero compratore:
— Addio,
padrone; se avete bisogno di una pelle per fare un tamburo, ricordatevi di
me. —
E poi
rideva e seguitava a nuotare: e dopo un poco, rivoltandosi indietro, urlava piú
forte:
— Addio,
padrone; se avete bisogno di un po’ di legno stagionato per accendere il
caminetto, ricordatevi di me. —
Fatto
sta che in un batter d’occhio si era tanto allontanato, che non si vedeva quasi
piú; ossia, si vedeva solamente sulla superficie del mare un puntolino nero,
che di tanto in tanto rizzava le gambe fuori dell’acqua e faceva capriòle e
salti, come un delfino in vena di buon umore.
Intanto
che Pinocchio nuotava alla ventura, vide in mezzo al mare uno scoglio che
pareva di marmo bianco, e su in cima allo scoglio, una bella caprettina che
belava amorosamente e gli faceva segno di avvicinarsi.
La
cosa piú singolare era questa: che la lana della caprettina, invece di esser
bianca, o nera, o pallata di piú colori, come quella delle altre capre, era
invece tutta turchina, ma d’un turchino cosí sfolgorante, che rammentava
moltissimo i capelli della bella Bambina.
Lascio
pensare a voi se il cuore del povero Pinocchio cominciò a battere piú forte!
Raddoppiando di forza e di energia si diè a nuotare verso lo scoglio bianco: ed
era già a mezza strada, quand’ecco uscir fuori dell’acqua e venirgli incontro
un’orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata come una voragine,
e tre filari di zanne, che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte.
E
sapete chi era quel mostro marino?
Quel
mostro marino era né piú né meno quel gigantesco Pesce-cane ricordato piú volte
in questa storia, e che per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità,
veniva soprannominato «l’Attila dei pesci e dei pescatori».
Immaginatevi
lo spavento del povero Pinocchio, alla vista del mostro. Cercò di scansarlo, di
cambiare strada: cercò di fuggire: ma quella immensa bocca spalancata gli
veniva sempre incontro con la velocità di una saetta.
— Affrettati,
Pinocchio, per carità! — gridava belando la bella caprettina.
E
Pinocchio nuotava disperatamente con le braccia, col petto, con le gambe e coi
piedi.
— Corri,
Pinocchio, perché il mostro si avvicina!... —
E
Pinocchio, raccogliendo tutte le sue forze, raddoppiava di lena nella corsa.
— Bada,
Pinocchio!... il mostro ti raggiunge!... Eccolo!... Eccolo!... Affrettati per
carità, o sei perduto!... —
E
Pinocchio a nuotare piú lesto che mai, e via, e via, e via, come anderebbe una
palla di fucile. E già si accostava allo scoglio, e già la caprettina,
spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine davanti per aiutarlo a
uscir fuori dell’acqua... Ma!...
Ma
oramai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto. Il mostro, tirando il fiato a
sé, si bevve il povero burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina, e lo
inghiottí con tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giú
in corpo al Pesce-cane, batté un colpo cosí screanzato da restarne sbalordito
per un quarto d’ora.
Quando
ritornò in sé da quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui,
in che mondo si fosse. Intorno a sé c’era da ogni parte un gran buio: ma un
buio cosí nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un
calamaio pieno d’inchiostro.
Stette
in ascolto e non sentí nessun rumore: solamente di tanto in tanto sentiva
battersi nel viso alcune grandi buffate di vento. Da principio non sapeva
intendere da dove quel vento uscisse: ma poi capí che usciva dai polmoni del
mostro. Perché bisogna sapere che il Pesce-cane soffriva moltissimo d’asma, e
quando respirava, pareva proprio che soffiasse la tramontana.
Pinocchio,
sulle prime, s’ingegnò di farsi un po’ di coraggio: ma quand’ebbe la prova e la
riprova di trovarsi chiuso in corpo al mostro marino, allora cominciò a
piangere e a strillare; e piangendo diceva:
— Aiuto!
aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi?
— Chi
vuoi che ti salvi, disgraziato?... — disse in quel buio una vociaccia fessa di
chitarra scordata.
— Chi
è che parla cosí? — domandò Pinocchio, sentendosi gelare dallo spavento.
— Sono
io! sono un povero Tonno, inghiottito dal Pesce-cane insieme con te. E tu che
pesce sei?
— Io
non ho che veder nulla coi pesci. Io sono un burattino.
— E
allora, se non sei un pesce, perché ti sei fatto inghiottire dal mostro?
— Non
son io, che mi son fatto inghiottire: gli è lui che mi ha inghiottito! Ed ora
che cosa dobbiamo fare qui al buio?...
— Rassegnarsi
e aspettare che il Pesce-cane ci abbia digeriti tutti e due!...
— Ma
io non voglio esser digerito! — urlò Pinocchio, ricominciando a piangere.
— Neppure
io vorrei esser digerito! — soggiunse il Tonno — ma io sono abbastanza filosofo
e mi consolo pensando che, quando si nasce Tonni, c’è piú dignità a morir
sott’acqua che sott’olio!...
— Scioccherie!
— gridò Pinocchio.
— La
mia è un’opinione — replicò il Tonno — e le opinioni, come dicono i Tonni
politici, vanno rispettate!
— Insomma...
io voglio andarmene di qui... io voglio fuggire...
— Fuggi,
se ti riesce!...
— È
molto grosso questo Pesce-cane che ci ha inghiottiti? — domandò il burattino.
— Figurati
che il suo corpo è piú lungo di un chilometro senza contare la coda. —
Nel
tempo che facevano questa conversazione al buio, parve a Pinocchio di veder
lontan lontano una specie di chiarore.
— Che
cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? — disse Pinocchio.
— Sarà
qualche nostro compagno di sventura, che aspetterà come noi il momento di esser
digerito!...
— Voglio
andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce
capace d’insegnarmi la strada per fuggire?
— Io
te l’auguro di cuore, caro burattino.
— Addio,
Tonno.
— Addio,
burattino: e buona fortuna.
— Dove
ci rivedremo?...
— Chi
lo sa?... È meglio non pensarci neppure! —
XXXV
Pinocchio ritrova in corpo al Pesce-cane... chi
ritrova?
Leggete questo capitolo e lo saprete.
Pinocchio,
appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in
mezzo a quel bujo, e camminando a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, si
avviò un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare
lontano lontano.
E nel
camminare sentí che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa
e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore cosí acuto di pesce fritto,
che gli pareva d’essere a mezza quaresima.
E piú
andava avanti, e piú il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché,
cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato... che cosa trovò? Ve
lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una
candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola
un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il
quale se ne stava lí biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che
alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.
A
quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza cosí grande e cosí
inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva
piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e
balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscí di
cacciar fuori un grido di gioja, e spalancando le braccia e gettandosi al collo
del vecchietto, cominciò a urlare:
— Oh!
babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio piú, mai piú,
mai piú!
— Dunque
gli occhi mi dicono il vero? — replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi
— Dunque tu se’ proprio il mi’ caro Pinocchio?
— Sí,
sí, sono io, proprio io! E voi mi avete digià perdonato, non è vero? Oh! babbino
mio, come siete buono!... e pensare che io, invece... Oh! ma se sapeste quante
disgrazie mi son piovute sul capo e quante cose mi sono andate a traverso!
Figuratevi che il giorno che voi, povero babbino, col vendere la vostra
casacca, mi compraste l’Abbecedario per andare a scuola, io scappai a vedere i
burattini, e il burattinajo mi voleva mettere sul fuoco perché gli cocessi il
montone arrosto, che fu quello poi che mi dètte cinque monete d’oro, perché le
portassi a voi, ma io trovai la Volpe e il Gatto, che mi condussero all’Osteria
del Gambero Rosso, dove mangiarono come lupi, e partito solo di notte incontrai
gli assassini che si messero a corrermi dietro, e io via, e loro dietro, e io
via, e loro sempre dietro, e io via, finché m’impiccarono a un ramo della
Quercia Grande, dovecché la bella Bambina dai capelli turchini mi mandò a
prendere con una carrozzina, e i medici, quando m’ebbero visitato, dissero
subito: — «Se non è morto, è segno che è sempre vivo» — e allora mi scappò
detta una bugia, e il naso cominciò a crescermi e non mi passava piú dalla
porta di camera, motivo per cui andai con la Volpe e col Gatto a sotterrare le
quattro monete d’oro, che una l’avevo spesa all’Osteria, e il pappagallo si
messe a ridere, e viceversa di duemila monete non trovai piú nulla, la quale il
Giudice quando seppe che ero stato derubato, mi fece subito mettere in
prigione, per dare una soddisfazione ai ladri, di dove, col venir via, vidi un
bel grappolo d’uva in un campo, che rimasi preso alla tagliola e il contadino
di santa ragione mi messe il collare da cane perché facessi la guardia al
pollajo, che riconobbe la mia innocenza e mi lasciò andare, e il Serpente,
colla coda che gli fumava, cominciò a ridere e gli si strappò una vena sul
petto, e cosí ritornai alla casa della bella Bambina, che era morta, e il
Colombo vedendo che piangevo mi disse: — «Ho visto il tu’ babbo che si
fabbricava una barchettina per venirti a cercare» — e io gli dissi — «Oh! se
avessi l’ali anch’io» — e lui mi disse — «Vuoi venire dal tuo babbo?» — e io
gli dissi — «Magari! ma chi mi ci porta?» — e lui mi disse — «Ti ci porto io» —
e io gli dissi — «Come?» — e lui mi disse — «Montami sulla groppa» — e cosí
abbiamo volato tutta la notte, poi la mattina tutti i pescatori che guardavano
verso il mare mi dissero — «C’è un pover’omo in una barchetta che sta per
affogare» — e io da lontano vi riconobbi subito, perché me lo diceva il core, e
vi feci segno di tornare alla spiaggia...
— Ti
riconobbi anch’io — disse Geppetto — e sarei volentieri tornato alla spiaggia:
ma come fare? Il mare era grosso e un cavallone m’arrovesciò la barchetta.
Allora un orribile Pesce-cane che era lí vicino, appena che m’ebbe visto
nell’acqua corse subito verso di me, e tirata fuori la lingua, mi prese pari
pari, e m’inghiottí come un tortellino di Bologna.
— E
quant’è che siete chiuso qui dentro? — domandò Pinocchio.
— Da
quel giorno in poi, saranno oramai due anni: due anni, Pinocchio mio, che mi
son parsi due secoli!
— E
come avete fatto a campare? E dove avete trovata la candela? E i fiammiferi per
accenderla, chi ve li ha dati?
— Ora
ti racconterò tutto. Devi dunque sapere che quella medesima burrasca, che
rovesciò la mia barchetta, fece anche affondare un bastimento mercantile. I
marinaj si salvarono tutti, ma il bastimento calò a fondo e il solito
Pesce-cane che quel giorno aveva un appetito eccellente, dopo avere inghiottito
me, inghiottí anche il bastimento...
— Come?
Lo inghiottí tutto in un boccone?... — domandò Pinocchio maravigliato.
— Tutto
in un boccone: e risputò solamente l’albero maestro, perché gli era rimasto fra
i denti come una lisca. Per mia gran fortuna, quel bastimento era carico non
solo di carne conservata in cassette di stagno, ma di biscotto, ossia di pane
abbrostolito, di bottiglie di vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di
zucchero, di candele steariche e di scatole di fiammiferi di cera. Con tutta
questa grazia di Dio ho potuto campare due anni: ma oggi sono agli ultimi
sgoccioli: oggi nella dispensa non c’è piú nulla, e questa candela, che vedi
accesa, è l’ultima candela che mi sia rimasta...
— E
dopo?...
— E
dopo, caro mio, rimarremo tutt’e due al bujo.
— Allora,
babbino mio — disse Pinocchio — non c’è tempo da perdere. Bisogna pensar subito
a fuggire...
— A
fuggire?... e come?
— Scappando
dalla bocca del Pesce-cane e gettandosi a nuoto in mare.
— Tu
parli bene: ma io, caro Pinocchio, non so nuotare.
— E
che importa?... Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle e io, che sono un
buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia.
— Illusioni,
ragazzo mio! — replicò Geppetto, scotendo il capo e sorridendo
malinconicamente. — Ti par egli possibile che un burattino, alto appena un
metro, come sei tu, possa aver tanta forza da portarmi a nuoto sulle spalle?
— Provatevi
e vedrete! A ogni modo se sarà scritto in cielo che dobbiamo morire, avremo
almeno la gran consolazione di morire abbracciati insieme. —
E
senza dir altro, Pinocchio prese in mano la candela, e andando avanti per far
lume, disse al suo babbo:
— Venite
dietro a me, e non abbiate paura. —
E cosí
camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto il corpo e tutto lo stomaco del
Pesce-cane. Ma giunti al punto dove cominciava la spaziosa gola del mostro,
pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e cogliere il momento opportuno
alla fuga.
Ora
bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di
palpitazione di cuore, era costretto a dormire a bocca aperta: per cui
Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere
al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e
un bellissimo lume di luna.
— Questo
è il vero momento di scappare — bisbigliò allora voltandosi al suo babbo. — Il
Pesce-cane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo e ci si vede come di
giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me, e fra poco saremo salvi. —
Detto
fatto, salirono su per la gola del mostro marino, e arrivati in quell’immensa
bocca, cominciarono a camminare in punta di piedi sulla lingua; una lingua cosí
larga e cosí lunga, che pareva il viottolone d’un giardino. E già stavano lí lí
per fare il gran salto e per gettarsi a nuoto nel mare, quando, sul piú bello,
il Pesce-cane starnutí, e nello starnutire, dètte uno scossone cosí violento,
che Pinocchio e Geppetto si trovarono rimbalzati all’indietro e scaraventati
novamente in fondo allo stomaco del mostro.
Nel
grand’urto della caduta la candela si spense, e padre e figliuolo rimasero al
bujo.
— E
ora?... — domandò Pinocchio facendosi serio.
— Ora,
ragazzo mio, siamo bell’e perduti.
— Perché
perduti? Datemi la mano, babbino, e badate di non sdrucciolare!...
— Dove
mi conduci?
— Dobbiamo
ritentare la fuga. Venite con me e non abbiate paura. —
Ciò
detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano: e camminando sempre in punta
di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro: poi traversarono tutta
la lingua e scavalcarono i tre filari di denti. Prima però di fare il gran
salto, il burattino disse al suo babbo:
— Montatemi
a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso
io. —
Appena
Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle del figliolo, il bravo
Pinocchio, sicuro del fatto suo, si gettò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il
mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in tutto il suo chiarore e
il Pesce-cane seguitava a dormire di un sonno cosí profondo, che non l’avrebbe
svegliato nemmeno una cannonata.
XXXVI
Finalmente Pinocchio cessa d’essere un burattino
e diventa un ragazzo.
Mentre
Pinocchio nuotava alla svelta per raggiungere la spiaggia, si accòrse che il
suo babbo, il quale gli stava a cavalluccio sulle spalle e aveva le gambe mezze
nell’acqua, tremava fitto fitto, come se al pover’uomo gli battesse la febbre
terzana.
Tremava
di freddo o di paura? Chi lo sa?... Forse un po’ dell’uno e un po’ dell’altra.
Ma Pinocchio, credendo che quel tremito fosse di paura, gli disse per
confortarlo:
— Coraggio,
babbo! Fra pochi minuti arriveremo a terra e saremo salvi.
— Ma
dov’è questa spiaggia benedetta? — domandò il vecchietto, diventando
sempre piú inquieto, e appuntando gli occhi, come fanno i sarti quando infilano
l’ago. — Eccomi qui, che guardo da tutte le parti e non vedo altro che
cielo e mare.
— Ma
io vedo anche la spiaggia — disse il burattino. — Per vostra regola
io sono come i gatti: ci vedo meglio di notte che di giorno. —
Il
povero Pinocchio faceva finta di esser di buon umore: ma invece... invece
cominciava a scoraggirsi: le forze gli scemavano, il suo respiro diventava
grosso e affannoso... insomma non ne poteva piú, e la spiaggia era sempre
lontana.
Nuotò
finché ebbe fiato: poi si voltò col capo verso Geppetto, e disse con parole
interrotte:
— Babbo
mio... ajutatevi... perché io muojo!... —
E
padre e figliuolo erano oramai sul punto di affogare, quando udirono una voce
di chitarra scordata che disse:
— Chi
è che muore?
— Sono
io e il mio povero babbo!
— Questa
voce la riconosco! Tu sei Pinocchio!...
— Preciso:
e tu?
— Io
sono il Tonno, il tuo compagno di prigionia in corpo al Pesce-cane.
— E
come hai fatto a scappare?
— Ho
imitato il tuo esempio. Tu sei quello che mi hai insegnato la strada, e dopo
te, sono fuggito anch’io.
— Tonno
mio, tu capiti proprio a tempo! Ti prego per l’amore che porti ai Tonnini tuoi
figliuoli: ajutaci, o siamo perduti.
— Volentieri
e con tutto il cuore. Attaccatevi tutti e due alla mia coda, e lasciatevi
guidare. In quattro minuti vi condurrò alla riva. —
Geppetto
e Pinocchio, come potete immaginarvelo, accettarono subito l’invito: ma invece
di attaccarsi alla coda, giudicarono piú comodo di mettersi addirittura a
sedere sulla groppa del Tonno.
— Siamo
troppo pesi? — gli domandò Pinocchio.
— Pesi?
Neanche per ombra; mi par di avere addosso due gusci di conchi- glia — rispose il Tonno, il quale era
di una corporatura cosí grossa e robusta, da parere un vitello di due anni.
Giunti
alla riva, Pinocchio saltò a terra il primo, per ajutare il suo babbo a fare
altrettanto: poi si voltò al Tonno, e con voce commossa gli disse:
— Amico
mio, tu hai salvato il mio babbo! Dunque non ho parole per ringraziarti
abbastanza! Permetti almeno che ti dia un bacio, in segno di riconoscenza
eterna!... —
Il
Tonno cacciò il muso fuori dell’acqua, e Pinocchio, piegandosi coi ginocchi a
terra, gli posò un affettuosissimo bacio sulla bocca. A questo tratto di
spontanea e vivissima tenerezza, il povero Tonno, che non c’era avvezzo, si
sentí talmente commosso, che vergognandosi a farsi veder piangere come un
bambino, ricacciò il capo sott’acqua e sparí.
Intanto
s’era fatto giorno.
Allora
Pinocchio, offrendo il suo braccio a Geppetto, che aveva appena il fiato di
reggersi in piedi, gli disse:
— Appoggiatevi
pure al mio braccio, caro babbino, e andiamo. Cammineremo pian pianino come le
formicole, e quando saremo stanchi, ci riposeremo lungo la via.
— E
dove dobbiamo andare? — domandò Geppetto.
— In
cerca di una casa o d’una capanna, dove ci diano per carità un boccon di pane e
un po’ di paglia che ci serva da letto. —
Non
avevano ancora fatti cento passi, che videro seduti sul ciglione della strada
due brutti ceffi, i quali stavano lí in atto di chiedere l’elemosina.
Erano
il Gatto e la Volpe: ma non si riconoscevano piú da quelli di una volta.
Figuratevi che il Gatto, a furia di fingersi cieco, aveva finito coll’accecare
davvero: e la Volpe invecchiata, intignata e tutta perduta da una parte, non
aveva piú nemmeno la coda. Cosí è. Quella trista ladracchiola, caduta nella piú
squallida miseria, si trovò costretta un bel giorno a vendere perfino la sua
bellissima coda a un merciajo ambulante, che la comprò per farsene uno
scacciamosche.
— O
Pinocchio — gridò la Volpe con voce di piagnisteo — fai un po’ di
carità a questi due poveri infermi.
— Infermi!
— ripeté il Gatto.
— Addio,
mascherine! — rispose il burattino. — Mi avete ingannato una volta, e
ora non mi ripigliate piú.
— Credilo,
Pinocchio, che oggi siamo poveri e disgraziati davvero!
— Davvero!
— ripeté il Gatto.
— Se
siete poveri, ve lo meritate. Ricordatevi del proverbio che dice: «I quattrini
rubati non fanno mai frutto». Addio, mascherine!
— Abbi
compassione di noi!...
— Di
noi!
— Addio,
mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «La farina del diavolo va tutta
in crusca».
— Non
ci abbandonare!
— ...are!
— ripeté il Gatto.
— Addio,
mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «Chi ruba il mantello al suo
prossimo, per il solito muore senza camicia». —
E cosí
dicendo, Pinocchio e Geppetto seguitarono tranquillamente per la loro strada:
finché, fatti altri cento passi, videro in fondo a una viottola, in mezzo ai
campi, una bella capanna tutta di paglia, e col tetto coperto d’embrici e di
mattoni.
— Quella
capanna dev’essere abitata da qualcuno — disse Pinocchio. —Andiamo là, e
bussiamo. —
Difatti
andarono, e bussarono alla porta.
— Chi
è? — disse una vocina di dentro.
— Siamo
un povero babbo e un povero figliuolo, senza pane e senza tetto —rispose il
burattino.
— Girate
la chiave, e la porta si aprirà — disse la solita vocina.
Pinocchio
girò la chiave, e la porta si aprí. Appena entrati dentro, guardarono di qua,
guardarono di là, e non videro nessuno.
— O
il padrone della capanna dov’è? — disse Pinocchio maravigliato.
— Eccomi
quassú! —
Babbo
e figliuolo si voltarono subito verso il soffitto, e videro sopra un travicello
il Grillo-parlante.
— Oh!
mio caro Grillino — disse Pinocchio salutandolo garbatamente.
— Ora
mi chiami il «Tuo caro Grillino», non è vero? Ma ti rammenti di quando, per
cacciarmi di casa tua, mi tirasti un manico di martello?...
— Hai
ragione, Grillino! Scaccia anche me... tira anche a me un manico di martello:
ma abbi pietà del mio povero babbo...
— Io
avrò pietà del babbo e anche del figliuolo: ma ho voluto rammentarti il brutto
garbo ricevuto, per insegnarti che in questo mondo, quando si può, bisogna
mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo esser ricambiati con pari cortesia nei
giorni del bisogno.
— Hai
ragione, Grillino, hai ragione da vendere e io terrò a mente la lezione che mi
hai data. Ma mi dici come hai fatto a comprarti questa bella capanna?
— Questa
capanna mi è stata regalata jeri da una graziosa capra, che aveva la lana d’un
bellissimo colore turchino.
— E
la capra dov’è andata? — domandò Pinocchio, con vivissima curiosità.
— Non
lo so.
— E
quando ritornerà?...
— Non
ritornerà mai. Ieri è partita tutta afflitta, e, belando, pareva che dicesse:
— «Povero Pinocchio... oramai non lo rivedrò piú... il Pesce-cane a
quest’ora l’avrà bell’e divorato!...»
— Ha
detto proprio cosí?... Dunque era lei!... era lei!... era la mia cara
Fati- na!... — cominciò a urlare
Pinocchio, singhiozzando e piangendo dirottamente.
Quand’ebbe
pianto ben bene, si rasciugò gli occhi e, preparato un buon lettino di paglia,
vi distese sopra il vecchio Geppetto. Poi domandò al Grillo-parlante:
— Dimmi,
Grillino: dove potrei trovare un bicchiere di latte per il mio povero babbo?
— Tre
campi distante di qui c’è l’ortolano Giangio, che tiene le mucche. Va’ da lui e
troverai il latte che cerchi. —
Pinocchio
andò di corsa a casa dell’ortolano Giangio: ma l’ortolano gli disse:
— Quanto
ne vuoi del latte?
— Ne
voglio un bicchiere pieno.
— Un
bicchiere di latte costa un soldo. Comincia intanto a darmi un soldo.
— Non
ho nemmeno un centesimo — rispose Pinocchio tutto mortificato e dolente.
— Male,
burattino mio — replicò l’ortolano. — Se tu non hai nemmeno un
centesimo, io non ho nemmeno un dito di latte.
— Pazienza!
— disse Pinocchio, e fece l’atto di andarsene.
— Aspetta
un po’ — disse Giangio. — Fra te e me ci possiamo accomodare. Vuoi
adattarti a girare il bindolo?
— Che
cos’è il bindolo?
— Gli
è quell’ordigno di legno, che serve a tirar su l’acqua dalla cisterna per
annaffiare gli ortaggi.
— Mi
proverò...
— Dunque,
tirami su cento secchie d’acqua, e io ti regalerò in compenso un bicchiere di
latte.
— Sta
bene. —
Giangio
condusse il burattino nell’orto e gl’insegnò la maniera di girare il bindolo.
Pinocchio si pose subito al lavoro; ma prima di aver tirato su le cento secchie
d’acqua, era tutto grondante di sudore dalla testa ai piedi. Una fatica a quel
modo non l’aveva durata mai.
— Finora
questa fatica di girare il bindolo — disse l’ortolano — l’ho fatta
fare al mio ciuchino: ma oggi quel povero animale è in fin di vita.
— Mi
menate a vederlo? — disse Pinocchio.
— Volentieri. —
Appena
che Pinocchio fu entrato nella stalla vide un bel ciuchino disteso sulla
paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro. Quando l’ebbe guardato fisso
fisso, disse dentro di sé, turbandosi:
— Eppure
quel ciuchino lo conosco! Non mi è fisonomia nuova! —
E
chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto asinino:
— Chi
sei? —
A
questa domanda, il ciuchino aprí gli occhi moribondi, e rispose balbettando nel
medesimo dialetto:
— Sono
Lu...ci...gno...lo... —
E dopo
richiuse gli occhi e spirò.
— Oh!
povero Lucignolo! — disse Pinocchio a mezza voce: e presa una manciata di
paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava giú per il viso.
— Ti
commuovi tanto per un asino che non ti costa nulla? — disse l’ortolano.
— Che cosa dovrei far io che lo comprai a quattrini contanti?
— Vi
dirò... era un mio amico!...
— Tuo
amico?
— Un
mio compagno di scuola!...
— Come?!
— urlò Giangio dando in una gran risata. — Come?! avevi dei somari
per compagni di scuola?... Figuriamoci i begli studi che devi aver
fatto!... —
Il
burattino, sentendosi mortificato da quelle parole, non rispose: ma prese il
suo bicchiere di latte quasi caldo, e se ne tornò alla capanna.
E da
quel giorno in poi, continuò piú di cinque mesi a levarsi ogni mattina, prima
dell’alba, per andare a girare il bindolo, e guadagnare cosí quel bicchiere di
latte, che faceva tanto bene alla salute cagionosa del suo babbo. Né si
contentò di questo: perché a tempo avanzato, imparò a fabbricare anche i
canestri e i panieri di giunco: e coi quattrini che ne ricavava, provvedeva con
moltissimo giudizio a tutte le spese giornaliere. Fra le altre cose, costruí da
sé stesso un elegante carrettino per condurre a spasso il suo babbo nelle belle
giornate, e per fargli prendere una boccata d’aria.
Nelle
veglie poi della sera, si esercitava a leggere e a scrivere. Aveva comprato nel
vicino paese per pochi centesimi un grosso libro, al quale mancavano il
frontespizio e l’indice, e con quello faceva la sua lettura. Quanto allo
scrivere, si serviva di un fuscello temperato a uso penna; e non avendo né
calamajo né inchiostro, lo intingeva in una boccettina ripiena di sugo di more
e di ciliege.
Fatto
sta, che con la sua buona volontà d’ingegnarsi, di lavorare e di tirarsi
avanti, non solo era riuscito a mantenere quasi agiatamente il suo genitore
sempre malaticcio, ma per di piú aveva potuto mettere da parte anche quaranta
soldi per comprarsi un vestitino nuovo.
Una
mattina disse a suo padre:
— Vado
qui al mercato vicino, a comprarmi una giacchettina, un berrettino e un pajo di
scarpe. Quando tornerò a casa — soggiunse ridendo — sarò vestito cosí
bene, che mi scambierete per un gran signore. —
E
uscito di casa, cominciò a correre tutto allegro e contento. Quando a un tratto
sentí chiamarsi per nome: e voltandosi, vide una bella lumaca che sbucava fuori
dalla siepe.
— Non
mi riconosci? — disse la Lumaca.
— Mi
pare e non mi pare...
— Non
ti ricordi di quella Lumaca, che stava per cameriera con la Fata dai capelli
turchini? non ti rammenti di quella volta, quando scesi a farti lume e che tu
rimanesti con un piede confitto nell’uscio di casa?
— Mi
rammento di tutto — gridò Pinocchio. — Rispondimi subito, Lumachina
bella: dove hai lasciato la mia buona Fata? che fa? mi ha perdonato? si ricorda
sempre di me? mi vuol sempre bene? è molto lontana di qui? potrei andare a
trovarla? —
A
tutte queste domande, fatte precipitosamente e senza ripigliar fiato, la Lumaca
rispose con la sua solita flemma.
— Pinocchio
mio! La povera Fata giace in un fondo di letto allo spedale!...
— Allo
spedale?...
— Pur
troppo. Colpita da mille disgrazie, si è gravemente ammalata, e non ha piú da
comprarsi un boccon di pane.
— Davvero?...
Oh! che gran dolore che mi hai dato! Oh! povera Fatina! povera Fatina! povera
Fatina!... Se avessi un milione, correrei a portarglielo... Ma io non ho che
quaranta soldi... eccoli qui: andavo giusto a comprarmi un vestito nuovo.
Prendili, Lumaca, e va’ a portarli subito alla mia buona Fata.
— E
il tuo vestito nuovo?...
— Che
m’importa del vestito nuovo? Venderei anche questi cenci che ho addosso, per
poterla ajutare! Va’, Lumaca, e spicciati: e fra due giorni ritorna qui, ché
spero di poterti dare qualche altro soldo. Finora ho lavorato per mantenere il
mio babbo: da oggi in là, lavorerò cinque ore di piú per mantenere anche la mia
buona mamma. Addio, Lumaca, e fra due giorni ti aspetto. —
La
Lumaca, contro il suo costume, cominciò a correre come una lucertola nei grandi
solleoni d’agosto.
Quando
Pinocchio tornò a casa, il suo babbo gli domandò:
— E
il vestito nuovo?
— Non
m’è stato possibile di trovarne uno che mi tornasse bene. Pazienza!... Lo
comprerò un’altra volta. —
Quella
sera Pinocchio, invece di vegliare fino alle dieci, vegliò fino alla mezzanotte
sonata: e invece di far otto canestri di giunco, ne fece sedici.
Poi
andò a letto e si addormentò. E nel dormire, gli parve di vedere in sogno la
Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato un bacio, gli disse
cosí:
— «Bravo
Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore, io ti perdono tutte le monellerie che
hai fatto fino a oggi. I ragazzi che assistono amorosamente i propri genitori
nelle loro miserie e nelle loro infermità, meritano sempre gran lode e grande
affetto, anche se non possono esser citati come modelli d’ubbidienza e di buona
condotta. Metti giudizio per l’avvenire, e sarai felice». —
A
questo punto il sogno finí, e Pinocchio si svegliò con tanto d’occhi
spalancati.
Ora
immaginatevi voi quale fu la sua meraviglia quando, svegliandosi, si accòrse
che non era piú un burattino di legno: ma che era diventato, invece, un ragazzo
come tutti gli altri. Dètte un’occhiata all’intorno e invece delle solite
pareti di paglia della capanna, vide una bella camerina ammobiliata e
agghindata con una semplicità quasi elegante. Saltando giú dal letto, trovò
preparato un bel vestiario nuovo, un berretto nuovo e un pajo di stivaletti di
pelle, che gli tornavano una vera pittura.
Appena
si fu vestito, gli venne fatto naturalmente di mettere le mani nelle tasche e
tirò fuori un piccolo portamonete d’avorio, sul quale erano scritte queste
parole: «La Fata dai capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i
quaranta soldi e lo ringrazia tanto del suo buon cuore». Aperto il portafoglio,
invece dei soldi di rame, vi luccicavano
quaranta zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca.
Dopo
andò a guardarsi allo specchio, e gli parve d’essere un altro. Non vide piú
riflessa la solita immagine della marionetta di legno, ma vide l’immagine vispa
e intelligente di un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e
con un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose.
In
mezzo a tutte queste meraviglie, che si succedevano le une alle altre,
Pinocchio non sapeva piú nemmeno lui se era desto davvero o se sognava sempre a
occhi aperti.
— E
il mio babbo dov’è? — gridò tutt’a un tratto: ed entrato nella stanza
accanto trovò il vecchio Geppetto sano, arzillo e di buon umore, come una
volta, il quale, avendo ripreso subito la sua professione d’intagliatore, stava
appunto disegnando una bellissima cornice ricca di fogliami, di fiori e di
testine di diversi animali.
— Levatemi
una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento improvviso?
— gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci.
— Questo
improvviso cambiamento in casa nostra è tutto merito tuo — disse Geppetto.
— Perché
merito mio?...
— Perché
quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtú di far prendere un
aspetto nuovo e sorridente anche all’interno delle loro famiglie.
— E
il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?
— Eccolo
là — rispose Geppetto: e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una
seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le
gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.
Pinocchio
si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé
con grandissima compiacenza:
— Com’ero
buffo, quand’ero un burattino! e come ora son contento di esser diventato un
ragazzino perbene!... —