I
Il melodramma: dalle origini a Verdi
Corso di cultura musicale
Introduzione all'ascolto dell'opera lirica
guidato da Gius. Berretta
nel programma
dell'Università Popolare di Latina (UPTEL)
Anno Accademico 2015-2016
7 lezioni di 90 minuti ca.
da lunedì 28 ottobre 2015
presso la sede UPTEL
Scuola C. Goldoni, via Sezze 25 - Latina
IL PERCORSO
Le origini del melodramma
L’opera polisemica (poesia, musica, teatro)
Dal libretto alla rappresentazione
La voce e
l’orchestra
I Grandi compositori del primo Ottocento: Rossini,
Bellini, Donizzetti
Giuseppe Verdi e l’evoluzione del melodramma romantico
Giacomo Puccini e l’Opera del Novecento
Il teatro musicale oggi
* * *
Esercizi di ascolto
guidato
* * *
Recondita armonia
Recondita armonia di bellezze diverse!
È bruna Floria, l'ardente amante mia.
E te, beltade ignota, cinta di chiome bionde,
Tu azzurro hai l'occhio, Tosca ha l'occhio nero!
L'arte nel suo mistero,
le diverse bellezze insiem confonde...
Ma nel ritrar costei,
Il mio solo pensiero,
Il mio sol pensier sei tu,
Tosca, sei tu!
(dal film "Tosca" di Carmine Gallone, 1956)
* * *
Introduzione
* * *
Recondita armonia
E' la prima romanza dell'opera lirica Tosca di Giacomo Puccini su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. È
cantata, nella terza scena del primo atto, dal pittore Mario
Cavaradossi, che descrive il suo amore per la bellezza, quella bruna di
Tosca e quella algida di una ragazza notata mentre pregava in Chiesa, a
cui si ispira per il suo dipinto di Maria Maddalena che sta eseguendo nella chiesa di Sant'Andrea della Valle in Roma dove si svolge l'azione del primo atto.
È bruna Floria, l'ardente amante mia.
E te, beltade ignota, cinta di chiome bionde,
Tu azzurro hai l'occhio, Tosca ha l'occhio nero!
L'arte nel suo mistero,
le diverse bellezze insiem confonde...
Ma nel ritrar costei,
Il mio solo pensiero,
Il mio sol pensier sei tu,
Tosca, sei tu!
* * *
Introduzione
Nel 1581 Vincenzo Galilei, padre di Galileo, scriveva il “Dialogo
della musica antica e moderna”, nel quale affermava che la polifonia
era oramai un’espressione musicale che apparteneva al passato, e che il
musicista moderno doveva tornare all’antica monodia accompagnata dal “favellar
cantando”.
Le forme musicali tipiche del XVI secolo che già avevano insite in loro una trama teatrale, come i madrigali polifonici e drammatici e le commedie armoniche, si organizzarono mano a mano nel melodramma, spettacolo dove musica, poesia e scenografia si fusero in un unico evento. È interessante vedere come la ricerca di forme teatrali e musicali d’avanguardia, operata soprattutto a Firenze nell’ambito del cenacolo della Corte dei Bardi, si realizzi nel ritorno all’antichità, nella riproposta di quel rapporto tra parola e musica che si supponeva esistesse nella drammaturgia greca.
Le forme musicali tipiche del XVI secolo che già avevano insite in loro una trama teatrale, come i madrigali polifonici e drammatici e le commedie armoniche, si organizzarono mano a mano nel melodramma, spettacolo dove musica, poesia e scenografia si fusero in un unico evento. È interessante vedere come la ricerca di forme teatrali e musicali d’avanguardia, operata soprattutto a Firenze nell’ambito del cenacolo della Corte dei Bardi, si realizzi nel ritorno all’antichità, nella riproposta di quel rapporto tra parola e musica che si supponeva esistesse nella drammaturgia greca.
"Recitar cantando" (Caravaggio, Il suonatore di liuto) |
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Le origini del melodramma
Il melodramma è una rappresentazione scenica,
in uno o più atti, di un'azione tragica o comica, i cui personaggi non sono
solo cantanti ma anche attori. Veniva anche detto "opera lirica" o semplicemente
"opera".
I precedenti storici di questo genere
musicale sono antichissimi: già nella tragedia greca la musica veniva unita
alla parola. E anche nel medioevo esistevano combinazioni di musica e azione
drammatica. Nella sacra rappresentazione
gli argomenti tratti dall'Antico o dal Nuovo testamento venivano recitati a
dialogo in forma cantata dal celebrante e dal clero, dapprima all'interno delle
chiese, poi sul sagrato.
In epoca moderna l'origine del melodramma va ricercata alla
fine del Cinquecento, per merito di un gruppo di intellettuali, poeti e
musicisti, chiamato Camerata fiorentina, che
discuteva sulla possibilità di creare un nuovo genere monodico, affidato a una
sola voce, in contrasto con le forme polifoniche allora dominanti.
Due aspetti tipici della scrittura musicale polifonica
iniziarono, verso la fine del Cinquecento, ad essere messi in discussione:
- *
l’intreccio polifonico di più voci autonome rendeva
quasi impossibile comprendere il testo che veniva cantato;
* nella musica polifonica si rilevava la difficoltà di
comunicare le emozioni (o, come venivano chiamate allora, gli affetti), giacché l’affetto,
essendo legato alla sfera individuale, personale, soggettiva, difficilmente
poteva essere veicolato da un intreccio di voci distinte, appartenenti a un gruppo composto da persone diverse:
l’interiorità di ogni individuo ha infatti un suo specifico affetto, un suo
proprio modo di vivere quell’emozione, diverso da quello di ogni altro
individuo.
I camerati volevano che l'artista recitasse cantando, in forma lirica e
drammatica, con l'accompagnamento di strumenti musicali. La riscoperta del
mondo classico greco-romano ebbe in questo notevole influenza.
All’epoca, le due opere principali ispirate a
questi principi furono quelle di Jacopo Peri, il Dafne,
rappresentato a Firenze nel 1598, e il dramma Euridice,
rappresentato, sempre a Firenze, in occasione delle nozze di Maria De' Medici
con Enrico IV di Francia. I libretti (i componimenti letterari in versi o in
prosa, scritti per essere musicati) erano di Ottavio Rinuccini. Allora il libretto
veniva letto agli spettatori prima dell'esecuzione musicale, per poter meglio
seguire il testo cantato e lo sviluppo della vicenda scenica.
Ma è solo con l'opera Orfeo (1607) di Claudio
Monteverdi, rappresentante della Scuola Veneta, che il melodramma, coi
suoi recitativi, le arie e i cori, assume la sua struttura definitiva. Il
melodramma diventa organico e rigorosamente logico nei rapporti tra poesia e
musica.
È significativo che molte delle prime opere
avessero come argomento (basti pensare alle due Euridice composte nel 1600 e
poi all’opera di Monteverdi del 1609) il mito di ‘Orfeo e Euridice’: scelta non
casuale giacché si tratta del mito che più di ogni altro celebra la musica e la
capacità della musica di comunicare e suscitare sentimenti. Euridice è morta e
Orfeo riesce grazie alla musica a compiere ciò che nessun uomo è mai riuscito a
fare: sconfiggere la morte, attraversare la barriera che separa la vita e morte (Orfeo è un
cantore ed è col proprio canto che riesce a convincere il guardiano degli Inferi a lasciarlo
entrare nel regno dei morti per riportare in vita l’amata Euridice).
Quando i teatri cominciarono ad aprirsi anche
a un pubblico pagante, si diffusero in molte città non solo le tragedie e le
commedie semplicemente recitate, ma anche il melodramma, al punto che le prime
compagnie di cantanti itineranti, al seguito di un impresario, cominciarono ad
esibirsi anche presso le corti europee, usando la lingua italiana. Il
cosiddetto "belcanto",
frutto di una perfetta educazione della voce, entusiasmava il pubblico, per
quanto gli artisti fossero più che altro dei virtuosisti canori, senza
particolari abilità recitative.
Sotto questo aspetto, anzi, fu il napoletano Alessandro
Scarlatti (1660-1725) a elaborare dei brani melodici in grado di esprimere i
diversi sentimenti e gli stati d'animo dei personaggi.
La Scuola Napoletana, che ebbe un successo
incredibile, creò anche vivaci e leggeri intermezzi, consistenti in
brevi bozzetti di carattere comico, i cui personaggi (di solito due),
rappresentavano borghesi e popolani contemporanei, della realtà quotidiana. Questi
intermezzi, posti tra un atto e l'altro del melodramma serio, fondandosi con la
commedia dell'arte, ricca di brio e comicità, assumeranno ad un certo punto
vita autonoma, diventando una vera e propria opera buffa, i cui maggiori
esponenti saranno Giovan Battista Pergolesi (La serva padrona), Giovanni
Paisiello (Nina, ossia la pazza per amore), Domenico Cimarosa (Il matrimonio segreto) e Niccolò
Piccinni (La Cecchina ossia La buona
figliuola).
Chi invece cercò di riportare l'opera alla
sua originale impostazione, sulla base dei canoni della tragedia greca, fu il
compositore tedesco C. W. Gluck (1714-95), che lavorando insieme al poeta e
librettista italiano Ranieri de' Calzabigi, eliminò il virtuosismo vocale,
assecondando con la musica lo sviluppo drammatico, nel rappresentare situazioni
credibili.
La ricerca di una realtà più umana e
interiorizzata, l'approfondimento dello studio psicologico dei personaggi e
delle situazioni di una vicenda letteraria (il cui massimo protagonista era
stato in letteratura il Manzoni), viene raccolta in campo musicale da quattro
grandissimi compositori: Rossini, Bellini, Donizetti e
soprattutto Verdi, che
supereranno decisamente gli schemi dell'opera seria e buffa settecentesca.
A questi seguirono i cosiddetti
"veristi" tra Ottocento e Novecento, tra cui Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Giordano e Cilea, che tendenzialmente preferivano comporre
opere ispirate a fatti realmente accaduti o comunque rappresentati con senso
realistico.
In Germania i più importanti operisti furono Wagner e Meyerbeer, oltre al preromantico Beethoven; in Russia Borodin,
Mussorgskij, Ciaikovskij e Rimskij-Korsakov,
in Francia Bizet e Massenet.
Il tramonto dell'opera lirica si ebbe nel XX
secolo, con gli ultimi melodrammi di Berg
(Wozzeck, 1925 e Lulu,
1937), di Stravinskij (Carriera di
un libertino, 1951) e di Schönberg (Mosè e
Aronne, 1957).
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L'opera polisemica
Il melodramma è una delle forme di spettacolo
musicale più complesse. Alla sua realizzazione infatti concorrono
fondamentalmente tre ordini di elementi linguistici:
- 1. la poesia (la trama letteraria, coi dialoghi e i monologhi, elaborata dal librettista, che può trarre l'argomento da un romanzo, da una storia, da una tragedia da un dramma o da una commedia);
- 2. la musica (la partitura musicale, l’orchestrazione, il canto e i cantanti, i cori, le danze);
- 3. la fabula teatrale (dalla vicenda narrata alla sua rappresentazione: la regia, la recitazione dei cantanti e dei figuranti, la scenografia e i costumi, l’azione sinergica dei tecnici delle arti figurative, audiovisive e architettoniche).
Il melodramma fu il genere preferito dai
compositori italiani, anche perché potevano lasciarsi guidare non solo da una
trama letteraria (una storia o una situazione), ma anche da una sorta di
avventura interiore, una trama di sentimenti liberamente concatenati.
Il carattere della musica poteva essere gioioso o
triste, a seconda che si trattasse di opera buffa o seria. L'opera seria poteva
contenere storie con risvolti tragici, commoventi, drammatici, con riferimenti
a singoli
personaggi o a popoli interi, in cui il conflitto tra bene e male appariva
con una certa evidenza.
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L'opera nella prima metà del XIX secolo
I libretti d'Opera
Gaetano Donizetti (Bergamo 1797 – 1848), fu autore di
più di 70 opere, tra cui Anna
Bolena, Lucia di Lammermoor, La Favorita.
Norma è un'opera in due atti su libretto di Felice Romani. Composta in meno di tre mesi, fu rappresentata per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano il 26 dicembre 1832.
La Traviata è un'opera in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave. È basata su La signora delle camelie, opera teatrale di Alexandre Dumas (figlio).
La prima rappresentazione avvenne al Teatro
La Fenice di Venezia nel 1853 ma, forse a causa del soggetto allora considerato
scabroso, non ebbe il successo che Verdi si attendeva; fu ripresa l’anno
successivo, ancora a Venezia, diretta dallo stesso compositore, e riscosse il
meritato successo.
Nel preludio la tonalità di Si minore rappresenta la morte, quella di Mi maggiore l’amore di Violetta, un’analogia che riflette l’intenzione originale di Verdi di intitolare l’opera “Amore e Morte” (prima del parere negativo della censura). Nel II atto l’amore è rappresentato dalla tonalità di Fa maggiore (“Amami Alfredo”).
In Traviata è portante la tonalità di Fa maggiore, che rappresenta la tonalità delle scene d'amore. Tutti i punti salienti in cui emerge l’amore tra Alfredo e Violetta sono in questa tonalità: "Sempre Alfredo a voi pensa" (Gastone), "Un dì, felice, eterea" (Alfredo), "È strano..." "Ah, fors’è lui..." (Violetta) nel I Atto, "Più non esiste, or amo Alfredo..." e "Amami Alfredo" (Violetta) nel II Atto.
Il terzo Verdi: il 'Grand-Opéra"
Dio, fulgor della bufera!
Dio, sorriso della duna!
Salva l'arca e la bandiera
della veneta fortuna!
Tu, che reggi gli astri e il Fato!
Tu, che imperi al mondo e al ciel!
Fa che in fondo al mar placato
posi l'àncora fedel.
Richard Wagner e l’Opera tedesca
L'Ottocento, il secolo d'oro dell'opera in Europa
I grandi compositori di opere liriche del primo Ottocento
furono Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti, Vincenzo Bellini.
I libretti d'Opera
Il libretto
è il testo verbale, quasi sempre
steso in versi, utilizzato
per la composizione di un lavoro musicale. Il libretto nasce per il melodramma, e come tale
può altresì identificare anche il genere letterario, e in virtù
della sua efficacia e mole, menziona anche quei testi verbali che vengono
adoperati per le grandi forme vocali musicali successive, l'oratorio, la cantata, l'operetta, e anche il balletto.
Oltre alle parole destinate ad essere cantate, il testo del libretto include
anche le didascalie e talvolta una
prefazione e delle note.
Il termine "libretto" è utilizzato così
com'è in quasi tutte le lingue.
La funzione del libretto nell'economia di un'opera
musicale è molto vario. Alcuni compositori, ad esempio Richard Wagner, scrissero da
soli i libretti per le proprie opere, ma la maggior parte si è affidata a letterati
professionisti. La gran parte dei libretti deriva da opere letterarie preesistenti,
talvolta classici della letteratura. Ma il
libretto è anche una creazione originale, concepita in stretta collaborazione
con il compositore.
I grandi letterati che puntualizzarono pienamente il
genere letterario del melodramma e quindi della librettistica furono Ottavio Rinuccini, Apostolo Zeno, Ranieri de' Calzabigi e soprattutto Pietro Metastasio (1698–1782) (pseudonimo di Pietro
Trapassi). I suoi libretti furono utilizzati in diverse occasioni da diversi
compositori.
Un altro librettista affermato del XVIII secolo fu Lorenzo da Ponte, che scrisse
il libretto per tre delle maggiori opere di Mozart.
Eugène Scribe fu uno dei più
prolifici librettisti del secolo successivo, fornendo le
parole a Meyerbeer, Auber, Bellini, Donizetti, Rossini e Verdi. Il duo francese costituito dagli scrittori Henri Meilhac e Ludovic Halévy scrisse un
vasto numero di libretti per opera e operetta,
apprezzati da Jacques
Offenbach, Jules
Massenet e Georges Bizet.
Cesare Sterbini, Felice Romani e Salvatore
Cammarano furono librettisti assai apprezzati da Rossini, da Donizzetti
e dal primo Verdi. Il Verdi della maturità si affidò - per quasi metà delle sue
produzioni operistiche - all’abilità letteraria di un elegante librettista
dotato di felice intuito teatrale, il veneto Francesco Maria Piave. Arrigo Boito, scrisse
libretti, tra gli altri, per Giuseppe Verdi e Amilcare
Ponchielli, compose anche due opere per proprio conto.
A cavallo tra Ottocento e Novecento è da ricordare la
coppia composta da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, che fornì a Puccini i libretti di
alcune tra le sue opere più famose.
Oggi, l'importanza del libretto è generalmente
ritenuta minore rispetto a quella della musica, ma per un lungo tratto della
storia dell'opera - fino a buona parte del XVIII secolo - il libretto era
considerato almeno importante quanto la musica, ed era normalmente l'unico testo
dell’Opera ad essere pubblicato. La Casa Editrice Ricordi, divenne quasi
monopolista internazionale dei libretti d'opera, riuscendo ad acquisire i
diritti dei principali musicisti e dei loro librettisti.
In alcuni casi, l'adattamento per l'opera è divenuto
più famoso del testo letterario su cui si basava, come ad esempio l’Otello e il Falstaff di Verdi, la Turandot
di Puccini, il Pelléas et Mélisande da un'opera di Maurice
Maeterlinck, musicata poi da Claude Debussy.
Le vocalità
Durante
l'Ottocento si stabilì un preciso rapporto tra il ruolo del cantante e la sua
voce:
- scomparve la voce del castrato, le parti del quale vennero affidate ad un contralto
- al tenore non vennero più affidate le parti da antagonista, anzi, egli incarnò sempre più spesso l'ideale dell'eroe innamorato ed estremamente passionale
- al basso vennero affidate parti solenni, arie miste di saggezza e moralità
- si diede grande importanza al baritono, antagonista in amore del tenore (come lo è del soprano il suo corrispondente femminile - il mezzosoprano)
- la voce del soprano fu ormai inscindibilmente associata a delicatissime quanto idealizzate e angeliche figure femminili, fragili ma forti dei valori della pudicitia e della castità.
Gioacchino
Rossini (Pesaro 1792 – Parigi 1868) rappresenta il momento di passaggio dal
Classicismo verso il Romanticismo. Egli infatti rimase per tutta la vita legato
alla tradizione settecentesca, ma nelle ultime opere affrontò alcuni temi che
saranno tipici dei musicisti romantici.
L’arte e la musica, diceva Rossini, non devono coinvolgere troppo, non devono lanciare messaggi, ma debbono piuttosto divertire, al massimo commuovere un po', ma solo superficialmente. La sua musica è perciò ricca di ottimismo, gioiosa, chiara e semplice come quella “classica” del Settecento.
Sono queste le caratteristiche che ritroviamo nella sua opera più famosa, “Il barbiere di Siviglia”. Il successo di quest’opera è dovuto senza dubbio alla musica rapida, vivacissima, piena di vita e di allegria, ma anche al protagonista, il barbiere Figaro, “il factotum della città”; Figaro è il simbolo dell’uomo moderno che con la sua intraprendenza riesce a ottenere tutto quello che vuole, pur non essendo né nobile né ricco.
L’arte e la musica, diceva Rossini, non devono coinvolgere troppo, non devono lanciare messaggi, ma debbono piuttosto divertire, al massimo commuovere un po', ma solo superficialmente. La sua musica è perciò ricca di ottimismo, gioiosa, chiara e semplice come quella “classica” del Settecento.
Sono queste le caratteristiche che ritroviamo nella sua opera più famosa, “Il barbiere di Siviglia”. Il successo di quest’opera è dovuto senza dubbio alla musica rapida, vivacissima, piena di vita e di allegria, ma anche al protagonista, il barbiere Figaro, “il factotum della città”; Figaro è il simbolo dell’uomo moderno che con la sua intraprendenza riesce a ottenere tutto quello che vuole, pur non essendo né nobile né ricco.
(Tito Gobbi interpreta Figaro nel Barbiere di Siviglia)
(Cecilia Bartoli interpreta Rosina nel Barbiere di Siviglia)
(Ferruccio Furlanetto interpreta don Basilio nel Barbiere di Siviglia)
Nelle ultime
opere di Rossini emergono però degli elementi nuovi. Per esempio nel “Guglielmo
Tell” sono narrate le vicende dell’eroe nazionale svizzero, un tema
nazionalistico tipicamente romantico.
(Antonio Salvadori interpreta Guglielmo nel Guglielmo Tell)
DONIZZETTI e BELLINI
i primi autori di melodrammi romantici
Si tratta di
opere drammatiche: il Romanticismo italiano preferiva quindi vicende che si concludevano
con la morte dei protagonisti, con trame ambientate in tetri castelli medievali
o in antichi palazzi nobiliari.
Quasi sempre
le storie ruotavano attorno a un amore impossibile, complicato per di più da
questioni politiche, dalla lotta fra due partiti, da fazioni avverse, ecc.
Naturalmente l’opera buffa non era scomparsa del tutto, anche se la sua importanza era ormai ridotta rispetto al secolo precedente. Donizetti, per esempio, scrisse L’elisir d’amore e Don Pasquale, due opere buffe a lieto fine, con molte scene decisamente comiche, ma nelle quali il compositore, da bravo romantico, inserì anche molte scene patetiche e sentimentali.
Lucia incarna pienamente il significato che la voce di soprano ha avuto nel
melodramma romantico: è innanzitutto il personaggio al centro della vicenda.
Donizetti le conferisce una scrittura di ampio respiro che va dagli slanci
drammatici d'una vocalità spianata fino allo sfogo di una vocalità melismatica
e virtuosistica. Le colorature di Lucia sono tutte mirate ad esaltare la sua
gentilezza, la grazia ed il suo candore, ma anche a sottolineare la fragilità
della sua indole, esprimendo il distacco dal mondo concreto, sensibile e reale,
attraverso l'esibizione continua di gorgheggi in alta tessitura, di trilli, di eleganti
vocalizzi. La vocalità di Lucia è racchiusa nella locuzione moderna di soprano
drammatico di agilità.
La fortuna della
Lucia di Lammermoor, dai tempi
del debutto trionfale a Napoli nel 1835, non ha mai conosciuto appannamenti
presso il pubblico. Delle oltre settanta opere di Donizetti, solo cinque sono
rimaste indimenticate: in primo luogo la Lucia
di Lammermoor, poi L'elisir d'amore, il Don Pasquale, l’Anna Bolena, e infine La Favorita.
Lucia di Lammermoor,
opera portata a termine in una Napoli colpita dall’epidemia di colera, fin dal
suo apparire fu considerata come un capolavoro assoluto del genio musicale di
Donizetti e come una tappa fondamentale per il melodramma romantico
dell’Ottocento, soprattutto per lo straordinario lirismo della protagonista
che, alla meschinità degli uomini, trovava
riparo e riscatto nell’allucinata follia.
Il
musicista bergamasco, che approdò alla Lucia dopo aver già composto oltre 40
opere, e dopo aver a lungo
inseguito il favore del pubblico e della critica nei teatri dell’Italia
settentrionale, proprio a Napoli riuscì
a conseguire il meritato riconoscimento, incoronato da quel pubblico partenopeo
che aveva sempre seguito favorevolmente
la sua carriera di operista.
La
composizione della Lucia fu molto rapida, com’era nelle abitudini del
musicista; in soli due mesi, infatti, tra maggio e luglio del 1835, musicò il
testo del librettista Salvatore Cammarano che si era ispirato al romanzo The Bride of Lammermoor di Walter Scott.
Nella
Lucia di Lammermoor sono presenti tutti gli elementi tipici
romantici: l’amore contrastato ed
impossibile, le rivalità tra le famiglie, la separazione, il matrimonio
forzato, l’uxoricidio, il delirio, la pazzia ed infine la morte, in un
crescendo di eventi drammatici che si
sviluppano in un’atmosfera allucinante.
Tutta
l’opera si può considerare come un ritratto musicale della fragile e sofferente
figura femminile, in un passaggio di stati d’animo dagli accenti toccanti e
struggenti, ben sottolineati dal suono dell’arpa, per le speranze dell’amore,
dall’oboe, nel colloquio tra Lucia e suo fratello Enrico, dai
violoncelli, all’entrata di Lucia nel salone
per le detestate nozze, e poi il flauto, nel registro acuto, che
accompagnerà la fuga nella follia di Lucia, persa nel delirio e nelle allucinazioni, giacché sarà quello l’unico suo modo
possibile per sfuggire alla realtà e riscattarsi del
delitto commesso.
Lucia di Lammermoor - "Verranno a te sull'aura..."
(Pietro Ballo, tenore - Katleen Cassello, soprano)
Lucia di Lammermoor - Scena della Pazzia
(Nino Machaidze, soprano)
Naturalmente l’opera buffa non era scomparsa del tutto, anche se la sua importanza era ormai ridotta rispetto al secolo precedente. Donizetti, per esempio, scrisse L’elisir d’amore e Don Pasquale, due opere buffe a lieto fine, con molte scene decisamente comiche, ma nelle quali il compositore, da bravo romantico, inserì anche molte scene patetiche e sentimentali.
Elisir d'Amore - Scena di Dulcamara
(Erwin Schrott, baritono)
Vincenzo Bellini (Catania, 1801 - Puteaux, Francia, 1835), fu tra i
più celebri operisti del primo Ottocento.
Dotato di una prodigiosa vena melodica, e di un particolare talento nel cesellare melodie della più limpida bellezza, e legato ad una concezione musicale basata sul primato del canto, vocale o strumentale, Bellini portò prima a Milano e poi a Parigi un'eco di quella cultura mediterranea che l'Europa romantica aveva idealizzato nel mito della classicità.
Il giovane Wagner ne fu tanto abbagliato, da considerare la purezza del canto belliniano come un modello assoluto per i giovani musicisti tedeschi.
La carriera di Bellini fu bruscamente interrotta dalla sua morte prematura. Il musicista si spense, a meno di 34 anni (forse per un attacco di colera), a Puteaux, presso Parigi, e fu sepolto nel cimitero Père Lachaise, vicino a Frédéric Chopin ed a Luigi Cherubini; nel 1876 la salma di Vincenzo Bellini fu traslata nel Duomo di Catania, sua città natale.
Dotato di una prodigiosa vena melodica, e di un particolare talento nel cesellare melodie della più limpida bellezza, e legato ad una concezione musicale basata sul primato del canto, vocale o strumentale, Bellini portò prima a Milano e poi a Parigi un'eco di quella cultura mediterranea che l'Europa romantica aveva idealizzato nel mito della classicità.
Il giovane Wagner ne fu tanto abbagliato, da considerare la purezza del canto belliniano come un modello assoluto per i giovani musicisti tedeschi.
La carriera di Bellini fu bruscamente interrotta dalla sua morte prematura. Il musicista si spense, a meno di 34 anni (forse per un attacco di colera), a Puteaux, presso Parigi, e fu sepolto nel cimitero Père Lachaise, vicino a Frédéric Chopin ed a Luigi Cherubini; nel 1876 la salma di Vincenzo Bellini fu traslata nel Duomo di Catania, sua città natale.
Le sue opere più famose e rappresentate "La
sonnambula", "Norma" ed "I
Puritani".
La
sonnambula è un'opera
in due atti su libretto di Felice Romani, considerata uno dei capolavori di Bellini.
Il tema del tenero e contrastato
amore tra Amina ed Elvino offrì a Bellini il destro per esaltare la propria
vena lirica: l’arco melodico si coniuga col soggetto con un andamento languido e
divagante, mentre l'orchestra si limita ad accompagnare la voce con mirabile
semplicità. L'opera culmina in una delle più sublimi arie
per soprano:
la celebre “Ah, non credea mirarti”, che Amina - la protagonista - canta in
stato di sonnambulismo.
Ah!
non credea mirarti
Sì
presto estinto, o fiore;
Passasti
al par d'amore,
Che
un giorno sol durò.
Potria
novel vigore
il
pianto mio recarti...
Ma
ravvivar l'amore
Il
pianto mio non può.
La Sonnambula - "Ah, non credea mirarti"
(Eva Mei, soprano)
Norma è un'opera in due atti su libretto di Felice Romani. Composta in meno di tre mesi, fu rappresentata per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano il 26 dicembre 1832.
Il soggetto è ambientato nelle Gallie al tempo dell'antica Roma, e presenta
espliciti legami con il mito di Medea.
"Casta Diva" è il cantabile della cavatina della protagonista. È la pagina più
celebre composta da Bellini. E’ la preghiera che la sacerdotessa gallica
eleva alla luna, durante il rito di raccolta del sacro vischio.
Casta Diva che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante
Senza nube e senza vel.
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante
Senza nube e senza vel.
Tempra o Diva,
Tempra tu de' cori ardenti,
Tempra ancor lo zelo audace,
Spargi in terra quella pace
Che regnar tu fai nel ciel.
Tempra tu de' cori ardenti,
Tempra ancor lo zelo audace,
Spargi in terra quella pace
Che regnar tu fai nel ciel.
Le prime 10 battute della melodia
sono anticipate dalla voce del primo flauto, raddoppiato nelle battute finali dal
primo oboe. Tra le due strofe si colloca una sezione
intermedia, in cui il coro ripete sottovoce
i versi di Norma su una melodia che fa da sfondo ai vocalizzi del
soprano. La melodia principale è un tipico esempio di stile belliniano,
in cui le fioriture presentano carattere di arabesco anziché di passaggio di agilità.
Maria Callas, in concerto interpreta "Casta Diva" dalla Norma di Bellini
4
La vocalità lirica
L’estensione vocale
Uno strumento qualunque ha una particolare
estensione, che lo contraddistingue da quella degli altri.
Anche un cantante ha una sua estensione, che lo
contraddistingue da quella di tutti gli altri.
Per estensione
vocale si intende l'intervallo massimo raggiungibile con la voce dalla
nota più bassa alla nota più acuta. Una buona estensione vocale deve
comprendere almeno 2 ottave.
Estensione cantabile ed
estensione totale
Definiamo subito cosa si intende con questi
termini:
L’estensione totale di un cantante è
quella che comprende tutte le note che è in grado di produrre, per esempio, in
sede di vocalizzo.
L’estensione cantabile è, invece,
quella che è in grado di utilizzare per cantare, con facilità, espressività e
in modo alquanto dignitoso, una canzone, un’aria, un lied o una romanza.
Un cantante lirico dispone di un’estensione
cantabile media di due ottave. La sua estensione totale può anche raggiungere
le tre ottave. Con gli
esercizi di vocalizzazione e di impostazione della voce si riesce infatti ad
aumentare l'estensione sia in alto che in basso.
Tessitura e timbro
Per tessitura si intende l'intervallo in
cui le note possono essere cantate bene e senza sforzo, la tessitura è
praticamente la parte estensione vocale in cui a voce può esprimersi al meglio
sfruttare a pieno gli armonici ed essere emessa più facilmente. Naturalmente
non si canta solo nell'ambito dell'estensione compresa nella propria
"tessitura", alcune volte si sfrutta l'estensione vocale totale per
dare più incisività al brano e per introdurre degli abbellimenti e virtuosismi,
ma cantare sempre al massimo dell'estensione a lungo andare può essere dannoso,
tanto più se si sfruttano solo le note in acuto.
Il timbro invece è la sfumatura
altamente personale che si imprime al suono, può essere il vostro timbro
naturale o volutamente "nasale" o "sottile" o
"rauco" "sussurrato" ecc.
La voce impostata ha un timbro omogeneo e molto
simile per ciascuna categoria. Nella musica leggera, invece, il timbro è
assolutamente personale, e varia da persona a persona.
Voci impostate e voci non
impostate
Si definiscono con il termine “voci impostate” le
voci tipiche della lirica. Sono voci che utilizzano la tecnica diaframmatica,
che le rende potenti, duttili ed espressive, oltre a conferire ad ognuna di
esse un timbro che le può caratterizzare.
Queste voci si suddividono in maschili (Basso,
Baritono, Tenore) e femminili (Contralto, Mezzo-soprano, Soprano). A queste si
aggiungono le voci dei bambini, dette, per il timbro indifferenziato tra maschi
e femmine, voci bianche.
Osserviamo l’estensione media cantabile delle voci
impostate:
BASSO
|
Da Mi1 a Mi3
|
BARITONO
|
Da La1 a Sol3
|
TENORE
|
Da Do2 a Do4
|
VOCI BIANCHE
|
Da Sol2 a Re4
|
CONTRALTO
|
Da Fa2 a Fa4
|
MEZZO – SOPRANO
|
Da La2 a La4
|
SOPRANO
|
Da Do3 a Do5
|
Il registro
La voce umana si compone di vari registri:
1.
PETTO
La voce di petto utilizza le vibrazioni del torace.
2. FALSETTO
Si dice falsetto quel "colore" di
voce o timbro che, a livello laringeo, prepara il passaggio dalla voce di petto a quella di testa. Lavorare sul
passaggio è importante perché la voce deve raggiungere un solo colore per
entrambi i registri.
Il falsetto è
quindi la 'saldatura'o mediazione corretta tra registro acuto, di testa e
quello grave o di petto, quindi il falsetto non è altro che una forma di
protezione che la laringe attua per poter passare indenne da un registro
all'altro, che si traduce in una limitazione dei danni provocati dalla
voce 'spinta' nei registri acuti.
I falsetti artificiali:
sono utilizzati dai cantanti uomini che usano un meccanismo naturale che
permette alla voce maschile di produrre i suoni ad una ottava superiore
rispetto alla voce vera, più simile a quella femminile.
3.
TESTA
La voce di testa è un'emissione dal timbro sottile ottenuto
utilizzando le sole vibrazioni della scatola cranica.
4. FALSETTO-TESTA
Caratterizza il timbro formato da due registri, (il più basso
“falsetto” e il più acuto di “testa”); le due voci sono assolutamente
interconnesse, o migliorano o peggiorano insieme.
5.
VOCE BIANCA
Nella fanciullezza, dall’età più tenera a quella della
pubertà, la voce umana è identica per i maschi e per la femmine. La voce perde
la sua natura debole e gracile, man mano che si cresce con l'età, quindi
l’organo si rinforza e, giunta la pubertà, si manifesta quel fenomeno che
chiamiamo mutazione Dopo la mutazione
della voce, si potrà cominciare uno studio serio del canto, nelle donne, dai 14
ai 16 anni, negli uomini, dai 17 ai 19.
Nelle donne la voce avrà conquistato la giusta consistenza,
l'adeguato spessore, e l'esatta estensione anche se suscettibile di modifiche
fino a trent'anni circa; ma nell’uomo subirà un cambiamento più completo,
acquistando l'importanza maschile, ed essendosi abbassata di un’ottava.
Timbro, colore, vibrato
Il timbro rappresenta
il colore che distingue un suono da un altro. Il timbro di un suono è dato
dalla presenza di tanti altri suoni particolari detti armonici, che si generano assieme al
suono principale. Infatti ogni sorgente acustica che produce un suono, genera
con esso, tanti altri suoni concomitanti o armonici dando a quel suono, un
particolare colore. La voce umana si compone anche di due colori
principali: colore chiaro e colore scuro e può avere diversi gradi di intensità e di volume.
Il vibrato è una
sorta di rapido tremolo, caratterizzato dalla variazione di
esecuzione di una stessa nota, (aspetto tipico del canto lirico). Il
vibrato è tipico di alcune vocalità, ma bisogna controllarne la frequenza, dato
che un uso eccessivo a volte è sintomatico di uno scarso appoggio
diaframmatico o di una scarsa tensione della muscolatura pelvica.
4
GIUSEPPE VERDI
Giuseppe Verdi è stato il grande compositore italiano
dell'Ottocento. Con uno stile vigoroso e passionale, Verdi compose delle opere
che mettono in scena un grande spettacolo, ma anche i sentimenti più segreti
dell'animo umano.
Giuseppe Verdi (ritratto di Giovanni Boldini, 1873) |
Giuseppe Fortunino Francesco Verdi nasce a Roncole di
Busseto, nel Ducato di Parma, il 10 ottobre 1813 da Luigia Uttini e Carlo
Verdi, oste.
Giuseppe fin da bambino prende lezioni di musica
dall'organista della chiesa, Pietro Baistrocchi, esercitandosi su una vecchia
spinetta che gli ha regalato il padre. Gli studi musicali proseguono in maniera
irregolare fino a quando Antonio Barezzi , commerciante, amante della musica e
presidente della locale Filarmonica, affezionato alla famiglia Verdi e al
piccolo Giuseppe, lo accoglie in casa sua, pagandogli studi più regolari e
accademici.
Aiutato da Barezzi, decide di iscriversi al Conservatorio di
Milano. Non riesce tuttavia a superare l’esame di ammissione per "scorretta posizione della mano nel suonare e
per raggiunti limiti di età" (ha 18 anni!). Non si dà per vinto e
grazie a una borsa di studio e all’aiuto economico di Barezzi, comincia a
frequentare il mondo della Scala prendendo lezioni private e assistendo alle
rappresentazioni.
Nel 1836 rientra a Busseto come vincitore del concorso per
Maestro di musica del Comune. Lo stesso anno sposa la figlia del suo
benefattore, Margherita Barezzi , da cui ha due figli: Virginia e Icilio. Il
lavoro fisso si rivela però d'intralcio al sogno milanese, tanto che Verdi
decide di lasciare tutto e di tornare a Milano, questa volta con la famiglia.
* * *
Sulla vita di Verdi si intrecciano molti
episodi leggendari ed altri realmente accaduti.
Verdi trascorse i suoi primi anni
nella casetta a lato della chiesa parrocchiale dove imparò a servire
all'altare, e a cantare i Vespri e le Messe nelle feste solenni. Il parroco, in
ricambio gli faceva scuola; scuola che comprendeva anche i primi elementi di
latino per il canto ed il servizio in Chiesa.
Nel territorio delle Roncole sorgeva
allora il Santuario della Madonna dei Prati e un Oratorio con una Cappellina
della B. V. della Pietà dove si tenevano le funzioni serali del mese Mariano
allietate da canti alla Vergine in aperta campagna, nelle tepide serate di
primavera. Il piccolo Verdi avrà sentito fermentare nell’anima, proprio in quei
luoghi, la passione per la musica e per il canto.
Tra gli episodi sulla fanciullezza del
musicista, uno racconta che il piccolo Verdi, un giorno, servendo all'altare,
si era talmente distratto al suono dell'organo che non si accorse più di avere le ampolle in mano per somministrare il vino
al celebrante, il quale pensò di richiamarlo alla realtà dandogli uno spintone.
Forse gli caddero le ampolle, forse inciampò, e cadde ruzzolando sui gradini
dell’altare, picchiò la fronte e svenne. Una volta rianimato, non pianse; ma tanta
fu la sua umiliazione. Verdi, in seguito,
raccontando l'episodio, confessò di aver gridato al prete, mentre ruzzolava,
“Dio t’manda ‘na sajetta!”. E aggiungeva scherzosamente: «Ma poi quel prete fu
castigato severamente, perché mori fulminato al Santuario pochi anni dopo». In
realtà il sacerdote morì appunto fulminato il giorno 14 settembre 1828, durante
il canto dei Vespri, per l’improvviso temporale che si scatenò sulla pianura
padana, quando un fulmine colpì e uccise
due sacerdoti officianti e due persone di Roncole.
In Verdi sarebbe rimasta indelebile
l’impressione della morte violenta del prete, come se si fosse realizzata la fatale punizione invocata dalla
maledizione del piccolo chierichetto.
(Da: Ferruccio Botti – GIUSEPPE VERDI – Ist.
Missionario Pia Soc. San Paolo, 1941)
* * *
Il primo Verdi
Giuseppe
Verdi incominciò la sua
carriera imitando Bellini e Donizetti, ma manifestando fin dalle prime opere
una personalità decisamente originale.
Del 1839 è la rappresentazione al Teatro alla Scala
della sua prima opera, Oberto Conte di
San Bonifacio è la sua
prima opera, rappresentata con un discreto successo al Teatro alla Scala,
successo offuscato irrimediabilmente dalla morte dei figli e poi di Margherita,
a cui Verdi era legato da un profondo affetto. In quei giorni così tristi il
Maestro porta tuttavia a compimento la commissione per un’opera comica Un giorno di regno, che si rivela un
clamoroso fiasco. Verdi decide allora di non comporre più musica.
E' un libretto, una storia che funziona, a fargli cambiare
idea. L’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, gli fa leggere il Nabucco, di Temistocle Solera. Verdi rimane conquistato da una pagina di forte impatto lirico: “Va’
pensiero sull’ali dorate…”. E’ il canto appassionato e nostalgico degli
Ebrei schiavi in Babilonia che ricordano i salici lungo le rive del Giordano e
le “aure dolci del suolo natal”. In pochissimo tempo l’opera è
pronta ed è trionfo (1842). Il coro ha un successo popolare strepitoso tanto da
venir cantato e suonato perfino per le strade. In quell’anno Verdi conosce due
donne importantissime nella sua vita: la soprano e pianista Giuseppina
Strepponi (già amante del Merelli), che sarebbe diventata sua compagna e poi
sua seconda moglie, e la contessa Clarina Maffei, grazie alla quale gli
si aprono le porte dei salotti milanesi.
"Va pensiero sull'ali dorate" (Coro degli schiavi ebrei, dal Nabucco)
Va, pensiero, sull'ali dorate;
Va, ti posa sui clivi, sui colli,
Ove olezzano tepide e molli
L'aure dolci del suolo natal!
Del Giordano le rive saluta,
Di Sïonne le torri atterrate...
Oh mia patria sì bella e perduta!
Oh membranza sì cara e fatal!
Arpa d'or dei fatidici vati,
Perché muta dal salice pendi?
Le memorie nel petto riaccendi,
Ci favella del tempo che fu!
O simile di Solima ai fati
Traggi un suono di crudo lamento,
O t'ispiri il Signore un concento
Che ne infonda al patire virtù!
Va, ti posa sui clivi, sui colli,
Ove olezzano tepide e molli
L'aure dolci del suolo natal!
Del Giordano le rive saluta,
Di Sïonne le torri atterrate...
Oh mia patria sì bella e perduta!
Oh membranza sì cara e fatal!
Arpa d'or dei fatidici vati,
Perché muta dal salice pendi?
Le memorie nel petto riaccendi,
Ci favella del tempo che fu!
O simile di Solima ai fati
Traggi un suono di crudo lamento,
O t'ispiri il Signore un concento
Che ne infonda al patire virtù!
Iniziano anni di lavoro durissimo e indefesso, grazie alle
continue richieste e al sempre poco tempo a disposizione per soddisfarle, anni
che Verdi chiamerà "gli anni di
galera". Dal 1842 al 1848 compone a ritmi serratissimi. I Lombardi alla Prima Crociata (1843)
è un altro successo, duramente censurato dal governo austriaco poiché, con il Nabucco,
era stato letto in chiave patriottica dagli italiani. E poi, Ernani (1844), I due Foscari (1844), Macbeth (1847), I Masnadieri (1847) e Luisa Miller (1849). In questo periodo si consolida la sua
discussa relazione con Giuseppina Strepponi. Dopo Giovanna d’Arco (1845), Verdi si allontana dalla Scala e da Milano
e si stabilisce a Parigi, dove per l’Opéra trasforma I Lombardi in Jérusalem (1847), confrontandosi con le esigenze ma anche con gli
imponenti mezzi del grand opéra francese.
Il secondo Verdi e la “trilogia popolare”
Solo nel 1849 torna a Busseto insieme a Giuseppina. Molte le
voci dissenzienti su questo rapporto (la soprano aveva avuto due figli dalla
precedente relazione col Merelli) e sulla convivenza, poi ufficializzata con il
matrimonio nel 1859. Nel 1851 è finalmente pronta la villa
di Sant’Agata, a Villanova d’Arda,
dove Verdi e Giuseppina si trasferiscono definitivamente: una dimora circondata
da un grande parco, curato da Verdi stesso.
In questi anni, nella calma della pianura padana, Verdi
scrive Rigoletto
(1851), Il Trovatore (1853),
e La Traviata (1853). Il
successo è clamoroso.
In Rigoletto, Il trovatore e La
traviata (che costituiscono la cosiddetta “trilogia popolare”) egli approfondsce la psicologia dei personaggi,
concentrando la sua attenzione sui protagonisti; di conseguenza la struttura
tradizionale del melodramma viene da Verdi trasformata a seconda delle
esigenze. Per esempio, in Rigoletto l’aria con cui di solito il cantante si
presentava al pubblico manca del tutto, ed è sostituita da un recitativo, che
più si presta alla descrizione del protagonista. Inoltre quest’ultimo è un
baritono, mentre di solito nel melodramma il protagonista era un tenore.
Partitura musicale d'epoca di Rigoletto |
Nel 1850, Verdi
propone al poeta-librettista Francesco Maria Piave la sua
intenzione di musicare un soggetto particolare, con personaggi che avevano già
destato scandalo nella Parigi del 1832: Le Roi s’amuse di
Victor Hugo. Ma la censura austriaca vieta di rappresentare un re come un
cinico libertino. Il librettista e il compositore devono così accettare di
apporre alcuni cambiamenti all’originale francese: il protagonista, Francesco I
re di Francia, viene trasformato in un anonimo Duca di Mantova. Verdi però non
vuole il duca come protagonista della sua opera, ma il suo buffone di corte. Di
qui la scelta definitiva del titolo Rigoletto (dal francese Tribolet), cambiato sempre a
causa della censura.
"Questa o quella per me pari sono"
(Vittorio Grigolo interpreta il Duca nel "Rigoletto a Mantova", 2015)
La sera
dell’11 marzo 1851 la prima al Teatro La Fenice di Venezia fu un grande successo. Intenso dramma
di passione, tradimenti, amore paterno e filiale, Rigoletto è un’opera
di mirabile ricchezza melodica e di grande potenza drammatica.
"Veglia, o donna, questo fiore"
(Placido Domingo e Julia Novikova nel "Rigoletto a Mantova", 2015)
Intensa – e nuova
nel melodramma dell’Ottocento – la caratterizzazione psicologica dei
personaggi, disegnati a tutto tondo mediante il canto, nell’intreccio del
racconto teatrale. Nella partitura musicale, fin dal preludio, è presente il
tema della maledizione, piuttosto frequente nelle opere verdiane.
"Povero Rigoletto!... Cortigiani, vil razza dannata"
(Ingvar Wixell nel film "Rigoletto", 1982)
"La donna è mobile"
(Mario Lanza interpreta il duca di Mantova nel film "Il Grande Caruso", 1951)
La Traviata è un'opera in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave. È basata su La signora delle camelie, opera teatrale di Alexandre Dumas (figlio).
Ritratto della giovane cortigiana che ispirò "La dame aux camelias" di A.Dumas figlio |
La Traviata - Il brindisi
(Kristine Opolais - Pavel Cernoch, Riga 2007)
La Traviata - "Un dì felice, eterea..."
(Kristine Opolais - Pavel Cernoch, Riga 2007)
Il dramma lirico de La Traviata racconta la storia d'amore fra un giovane di onorata
famiglia ed una cortigiana di dubbi costumi.
I pregiudizi sociali divideranno i due amanti, riuniti dalla verità e dall'amore poco tempo prima della morte di tisi di Violetta.
I pregiudizi sociali divideranno i due amanti, riuniti dalla verità e dall'amore poco tempo prima della morte di tisi di Violetta.
La Traviata - "E' strano... Sempre libera..."
(Svetla Vassileva, Parma 2007)
Annotazioni musicali sulla 'Traviata'
Due sono i cardini del dramma: amore e morte, e intorno a questi s'aggira l'ispirazione del musicista che forse non salì mai tanto in alto nell'esprimerne la pena e i tormenti.
La morte è già negli estenuanti accordi con cui si apre il preludio. Il preludio comincia in Si minore e vi resta per sedici battute. Le restanti trentatré sono in Mi maggiore e anticipano, dilatandola, il leit-motiv dell'opera, quell’ "Amami, Alfredo" che compare nel secondo atto.
Il preludio disegna il ritratto della
protagonista: la frivolezza della cortigiana è rappresentata dal controcanto
lieve e frivolo dei violini, mentre la sofferenza amorosa della donna, che
sacrifica la sua vita mondana per Alfredo, trova nel timbro dei violoncelli,
una contrapposizione che rispecchia il contrasto interiore di Violetta: per
questo autore il preludio è dunque il ritratto musicale della protagonista dell'opera. Due sono i cardini del dramma: amore e morte, e intorno a questi s'aggira l'ispirazione del musicista che forse non salì mai tanto in alto nell'esprimerne la pena e i tormenti.
La Traviata - Preludio atto I
(Concerto di capodanno a La Fenice di Venezia, 2013)
La morte è già negli estenuanti accordi con cui si apre il preludio. Il preludio comincia in Si minore e vi resta per sedici battute. Le restanti trentatré sono in Mi maggiore e anticipano, dilatandola, il leit-motiv dell'opera, quell’ "Amami, Alfredo" che compare nel secondo atto.
Nel preludio la tonalità di Si minore rappresenta la morte, quella di Mi maggiore l’amore di Violetta, un’analogia che riflette l’intenzione originale di Verdi di intitolare l’opera “Amore e Morte” (prima del parere negativo della censura). Nel II atto l’amore è rappresentato dalla tonalità di Fa maggiore (“Amami Alfredo”).
In Traviata è portante la tonalità di Fa maggiore, che rappresenta la tonalità delle scene d'amore. Tutti i punti salienti in cui emerge l’amore tra Alfredo e Violetta sono in questa tonalità: "Sempre Alfredo a voi pensa" (Gastone), "Un dì, felice, eterea" (Alfredo), "È strano..." "Ah, fors’è lui..." (Violetta) nel I Atto, "Più non esiste, or amo Alfredo..." e "Amami Alfredo" (Violetta) nel II Atto.
La Traviata - "Amami, Alfredo ..."
(Angela Gheorghiu - Franck Lopardo, Londra 2001) Il terzo Verdi: il 'Grand-Opéra"
Nel 1861 Verdi, chiamato all'impegno politico da Cavour, viene eletto deputato del primo Parlamento
italiano e nel 1874 è nominato senatore.
In questi anni compone La forza del destino (1862), nel 1865 riscrive Macbeth per il teatro francese e per l’Opéra compone il Don Carlos (1867). Nel 1862 compone, per l' Esposizione Universale di Londra, l'Inno delle Nazioni, su testo di Boito.
"La Vergine degli Angeli - da "La Forza del Destino" (atto II)
L’impegno successivo di Verdi è con l’Opéra di Parigi. In questa occasione (dopo aver sperato di lavorare al “Re Lear” di Shakespeare, progetto a cui tornava periodicamente senza concretizzarlo mai) decide di dedicarsi al “Don Carlos” di Shiller. Il libretto è dei francesi Joseph Méry e Camille Du Locle e si inscrive nel genere del grand-opéra, in cui i conflitti personali si intrecciano al grande affresco storico.
E’ l'alba. Nella solitudine delle sue stanze, re Filippo, come trasognato, medita sul fatto che la consorte Elisabetta non lo ha mai amato e sui tradimenti del figlio don Carlo; e pensa che solo nella tomba che lo accoglierà nei sotterranei dell’Escorial potrà ritrovare finalmente il sonno e la pace.
In questi anni compone La forza del destino (1862), nel 1865 riscrive Macbeth per il teatro francese e per l’Opéra compone il Don Carlos (1867). Nel 1862 compone, per l' Esposizione Universale di Londra, l'Inno delle Nazioni, su testo di Boito.
Nel mese di
gennaio 1861, Verdi riceve un invito dal teatro Imperiale di San Pietroburgo,
per scrivere un’opera nuova che avrebbe dovuto debuttare nella stagione
successiva. La fonte tematica è nel dramma spagnolo “Don Álvaro” o “La
fuerza del sino” di Ángel Saavedra de Rivas (1835), dramma dalle complicate
vicissitudini dei personaggi, rappresentate in un grande affresco dai toni
epici. F.M. Piave ne cura l’adattamento per
la stesura del libretto.
“La forza del destino” debutta a San Pietroburgo il 10 novembre del 1862, con un successo sensazionale. Verdi però non è totalmente soddisfatto del finale dell’opera, che termina con il suicidio di don Álvaro. Ispirandosi al Manzoni - che ha conosciuto nel 1868 - decide di concludere la storia sul filo della rassegnazione cristiana: don Álvaro non maledice più il Cielo, ma accetta la volontà divina e il peso del suo destino. In questa versione, che inoltre si arricchisce con la celebre Sinfonia, “La forza del destino” viene rappresentata con successo nel 1869 nel Teatro alla Scala, dove il maestro aveva ottenuto i suoi primi successi.
“La forza del destino” debutta a San Pietroburgo il 10 novembre del 1862, con un successo sensazionale. Verdi però non è totalmente soddisfatto del finale dell’opera, che termina con il suicidio di don Álvaro. Ispirandosi al Manzoni - che ha conosciuto nel 1868 - decide di concludere la storia sul filo della rassegnazione cristiana: don Álvaro non maledice più il Cielo, ma accetta la volontà divina e il peso del suo destino. In questa versione, che inoltre si arricchisce con la celebre Sinfonia, “La forza del destino” viene rappresentata con successo nel 1869 nel Teatro alla Scala, dove il maestro aveva ottenuto i suoi primi successi.
La Forza del Destino - Sinfonia d'apertura
(Dir. Riccardo Chailly, Berlino, 1983)
“La vergine degli angeli” è la preghiera in sol maggiore che conclude il
II atto, ambientato nella chiesa del convento della Madonna degli Angeli,
presso Hornachuelos,
in Andalusìa.
La Vergine degli Angeli
vi copra del suo manto,
e voi protegga vigile
di Dio l’Angelo santo.
vi copra del suo manto,
e voi protegga vigile
di Dio l’Angelo santo.
La Vergine degli Angeli
mi copra del suo manto,
e me protegga vigile
di Dio l’Angelo santo.
mi copra del suo manto,
e me protegga vigile
di Dio l’Angelo santo.
La Vergine degli Angeli
vi copra del suo manto,
e voi protegga vigile
l’Angiol di Dio.
vi copra del suo manto,
e voi protegga vigile
l’Angiol di Dio.
È intonata prima dal coro dei frati,
con le voci del Padre Guardiano (basso) e di fra Melitone (baritono) e
accompagnata dai violoncelli, e poi da Leonora (soprano), accompagnata dall'arpa.
(Leontyne Price e coro, 1984)
* * *
L’impegno successivo di Verdi è con l’Opéra di Parigi. In questa occasione (dopo aver sperato di lavorare al “Re Lear” di Shakespeare, progetto a cui tornava periodicamente senza concretizzarlo mai) decide di dedicarsi al “Don Carlos” di Shiller. Il libretto è dei francesi Joseph Méry e Camille Du Locle e si inscrive nel genere del grand-opéra, in cui i conflitti personali si intrecciano al grande affresco storico.
Qui il
musicista riesce a ricreare l’atmosfera cupa della corte spagnola di Filippo
II, dove i destini individuali dei protagonisti sono schiacciati dal peso del
dovere, della ragione di Stato e della gerarchia sociale. Verdi, che si
entusiasma all’argomento, si dedica con fervore alla composizione, ma alla fine
l’opera risulta troppo lunga, persino per le dimensioni tradizionalmente colossali
del grand-opéra francese. Verdi, consapevole che la lunghezza del “Don Carlos”
ne avrebbe ostacolato la rappresentazione nei teatri italiani, decide di rimaneggiare la partitura dell'opera. La
nuova versione italiana andrà in scena nel 1884 nel Teatro alla Scala.
Don Carlos, Infante di Spagna, e il padre Re Filippo II (ritratti) |
E’ l'alba. Nella solitudine delle sue stanze, re Filippo, come trasognato, medita sul fatto che la consorte Elisabetta non lo ha mai amato e sui tradimenti del figlio don Carlo; e pensa che solo nella tomba che lo accoglierà nei sotterranei dell’Escorial potrà ritrovare finalmente il sonno e la pace.
"Ella giammai m'amò - da "Don Carlos"
(Ildar Abdrazakov nella parte di Filippo II, 2013)
Nel 1869,
Verdi riceve dal Viceré d’Egitto, Ismail Pachà, l’incarico di comporre un’opera
per celebrare solennemente l’inaugurazione del Canale di Suez. Per l’occasione,
Isamil Pachà fece costruire il teatro dell’Opera del Cairo. Inizialmente Verdi
rifiuta la proposta, ma quando esamina lo schema del libretto, con una storia d’amore ambientata nell’Antico Egitto, si
lascia tentare e accetta di scrivere la musica. Il testo viene affidato al
letterato Antonio Ghislanzoni, che segue fedelmente le indicazioni del
compositore. Si crea una cornice spettacolare che ricorda la struttura del
grand-opéra; al suo interno si scontrano le passioni individuali dei
protagonisti. “Aida” debutta al Cairo il 24 dicembre del 1871. Il
successo è straordinario, anche se alcuni critici sottolineano che nell’ “Aida”
si fondono le nuove tendenze musicali con il persistere di stilemi
tradizionali. A dire il vero, il linguaggio di Verdi si evolve pur nella
sostanziale fedeltà allo stile classico italiano.
"Celeste Aida"
(Roberto Alagna nella parte di Radamés, 2006)
In Aida l’ambiguità delle situazioni consente
un profondo scavo psicologico, perché l’accento è posto non sui caratteri dei
personaggi ma sulle situazioni ed i conflitti interiori che suscitano
nell’animo dei protagonisti.
In tutta l’opera si dipana una serie di duetti (particolarmente intenso quello del III atto tra Aida e Amonasro, suo padre, che ripropone un luogo drammatico ricorrente nelle opere verdiane)
concatenati fra loro da richiami tematici, e tutto è essenziale per lo sviluppo
del dramma, compresi la marcia trionfale scandita dal suono delle trombe d'argento e il balletto del II atto. Il recitativo tradizionale è sostituito da un
libero fluire di idee melodiche, e la parola scenica lega un tema all’altro,
una sezione all’altra. I numerosi temi ricorrenti, come in nessun altra opera
di Verdi, intessono una trama fitta di relazioni semantiche tra i vari atti e
affidano all’orchestra una funzione narrativa, assumendo una rilevanza
strutturale nell’articolazione drammatica e contribuendo a creare
un’impressione di profonda unità.
AIDA - Marcia trionfale e danze (atto II)
(Metropolitan, New York, 1989)
AIDA - "Rivedrai le foreste imbalsamate" (atto III)
(Aida: Leyla Gencer - Amonasro: G.Giacomo Guelfi)
Documento storico 1963 - Arena di Verona
AIDA - "O terra addio"(atto IV)
(Aida: Dragana Radakovic - Radames: Kamen Chanev)
Timisoara (Romania), 2015
AIDA - "Rivedrai le foreste imbalsamate" (atto III)
(Aida: Leyla Gencer - Amonasro: G.Giacomo Guelfi)
Documento storico 1963 - Arena di Verona
(Aida: Dragana Radakovic - Radames: Kamen Chanev)
Timisoara (Romania), 2015
Una rappresentazione di "Aida" all'Arena di Verona |
Dopo il
successo di Aida, Verdi si ritirò per un lungo periodo dal teatro
d'opera. Non smise
tuttavia di comporre e il lavoro più importante di questo periodo è appunto la Messa
di Requiem.
In realtà egli
pensava da tempo ad una composizione di questo tipo, tanto che nel 1869 aveva
promosso l'organizzazione di una messa di requiem a più mani per la morte di Gioachino
Rossini.
L’idea di un
Requiem per un grande italiano si sarebbe concretizzata con la morte di Alessandro Manzoni, verso il quale Verdi provò sempre una vera
e propria venerazione. L’incontro con lo scrittore, avvenuto a Milano nei
salotti di Clarina Maffei, fu per Verdi una delle esperienze più commoventi della
sua vita e questo spiega il bisogno che sentiva di rendere omaggio alla sua
memoria, con la “Messa da Requiem”. “È un impulso, o meglio, un bisogno
del cuore che mi spinge a onorare, nella misura delle mie possibilità, questo
Grande che ho stimato tanto come scrittore e che ho venerato tanto come uomo
modello, di virtù e di patriottismo”.
Il requiem fu eseguito in occasione del primo
anniversario della morte di Manzoni, il 22 maggio 1874, nella Chiesa di San
Marco a Milano. Fu diretto dallo stesso Verdi. Il successo fu enorme e
la fama della composizione superò presto i confini nazionali.
Antica pagina di canto gregoriano con l'incipit del "Dies irae" |
Il Dies
irae è una sequenza in lingua latina, attribuita a Tommaso da Celano.
Sono in molti a ritenerla una composizione poetica medievale tra le più
riuscite. Il testo descrive il giorno del giudizio, l'ultima tromba che
raccoglie le anime davanti al trono di Dio, dove i buoni saranno salvati e i
cattivi condannati al fuoco eterno.
Probabilmente
l'ispirazione dell'inno è biblica, dalla versione latina del I libro del
profeta Sofonia (vv. 15-16).
Dies
irae, dies illa
solvet saeclum in favilla,
teste David cum Sybilla.
solvet saeclum in favilla,
teste David cum Sybilla.
Quantus tremor est futurus,
quando judex est venturus,
cuncta stricte discussurus.
quando judex est venturus,
cuncta stricte discussurus.
Tuba mirum spargens sonum
per sepulchra regionum,
coget omnes ante thronum.
per sepulchra regionum,
coget omnes ante thronum.
Giorno
d'ira sarà quel giorno
il fuoco distruggerà il mondo,
lo dissero Davide e la Sibilla.
il fuoco distruggerà il mondo,
lo dissero Davide e la Sibilla.
Quanto
terrore ci sarà,
quando verrà il giudice,
per giudicare tutti severamente.
quando verrà il giudice,
per giudicare tutti severamente.
Una
tromba che diffonderà un suono mirabile
per i sepolcreti del mondo,
chiamerà tutti davanti al trono.
per i sepolcreti del mondo,
chiamerà tutti davanti al trono.
Verdi - Messa di Requiem - Dies irae
(Dir. Daniel Barenboim, 2013 )
L’ultimo Verdi
Verdi si trova all’apice della sua fama, anche se a volte è il
bersaglio delle nuove generazioni che aspirano a una musica
italiana rinnovata, che entri in contatto con le correnti più avanzate della
cultura europea, in generale, e con Wagner in particolare. Mentre in
Germania Wagner stava rivoluzionando il melodramma in una direzione del tutto
particolare (vedi, più avanti, l'articolo "Richard Wagner e l'Opera tedesca"), Verdi decise di portare avanti una sua riforma personale del teatro d'opera, che
culminerà nella composizione di Otello e Falstaff.
Intanto Verdi trova anche il modo e il tempo di dedicarsi agli
altri, di pensare a chi ha più bisogno: nel 1888 inaugura un ospedale a Villanova
D’Arda, da lui interamente finanziato, e compra il terreno per
costruire quella che ancora oggi è la Casa di Riposo per musicisti, la
sua "opera più bella", dirà, terminata nel 1899 ma chiusa finché
Verdi, che non desidera essere ringraziato da nessuno, è in vita.
Nel 1887, a poco meno di ottant'anni, scrive Otello, confrontandosi ancora una
volta con Shakespeare. Nel 1893 dà l’addio al teatro con la sua unica opera
comica, il Falstaff. In queste opere Verdi
elimina la distinzione tradizionale tra arie (cioè momenti lirici, melodici,
cantabili) e recitativi (cioè momenti d’azione, in cui la linea musicale si
avvicina molto al parlato).
In Otello, rispetto alle altre opere verdiane, i collegamenti tra i singoli
episodi non avvengono più per cesure nette, ma il tessuto musicale appare in
continua evoluzione, anche grazie al sapiente uso dell'orchestra,
che viene a costituire una sorta di substrato unificante. Nei passaggi tra le
singole scene, Verdi elabora i materiali tematici in modo da
creare transizioni impeccabili, come nel duetto d'amore ("Già nella notte densa...") che chiude il primo atto. Allo
stesso modo, alcuni brani a struttura apparentemente chiusa evolvono
inaspettatamente in passaggi dialogici, come nel caso del celebre "Credo"
di Jago. L'abilità verdiana a giocare con le
convenzioni, evocandole per stravolgerle, è testimoniata anche dal brano con
cui Otello si presenta in scena, poco dopo l'inizio dell'opera: il famoso "Esultate!",
che costituisce quasi una minuscola cavatina di sole 12 battute.
È sera, infuria un violento temporale. Gli ufficiali, i soldati e il popolo
di Cipro assistono atterriti al difficile attracco della nave di Otello, il
generale dell'Armata Veneta. Dagli spalti si leva al cielo un'accorata invocazione:
Dio, fulgor della bufera!
Dio, sorriso della duna!
Salva l'arca e la bandiera
della veneta fortuna!
Tu, che reggi gli astri e il Fato!
Tu, che imperi al mondo e al ciel!
Fa che in fondo al mar placato
posi l'àncora fedel.
La nave raggiunge finalmente il porto. Appena messo piede a terra, il Moro proclama la
sua vittoria contro il nemico musulmano:
Esultate! L'orgoglio musulmano sepolto è in mar;
nostra e del ciel è gloria!
Dopo l'armi lo vinse l'uragano.
nostra e del ciel è gloria!
Dopo l'armi lo vinse l'uragano.
L' "Esultate" di Mario Del Monaco
nell'Otello televisivo di F. Enriquez (1958)
Dopo la tempesta in mare e un improvviso tumulto scoppiato nel cuore della sera festosa, per i subdoli incitamenti di Jago alla rissa, Otello interviene per placare gli animi. Poi rimane solo con Desdemona. Lei lo condurrà, per le vie del "ricordare insieme", nelle atmosfere incantate in cui "si estingue ogni clamor" e le anime si fondono nell'estasi d'amore.
"Già nella notte densa..." - duetto finale atto I
(Placido Domingo nella parte di Otello - Barbara Frittoli nella parte di Desdemona)
Otello
è
l'opera in cui Verdi è riuscito a scavare più in profondità nella psiche umana. Il compositore si concentra sull'evoluzione dei sentimenti del
Moro, generale al servizio della Repubblica veneziana. Otello nei confronti della moglie Desdemona, che passano
dall'amore sconfinato alla gelosia mortale. A scatenare la follia di Otello è il suo
alfiere Jago, risentito nei suoi confronti per avergli preferito Cassio per la promozione al
grado di capitano. Un fondamentale cambiamento rispetto a Shakespeare è che la figura di Jago, nell'opera di Verdi assume un’importanza molto
maggiore. Nell'opera
egli diventa la personificazione stessa del Male, una figura satanica che prova
gioia nel distruggere il Bene.
Il grande, demoniaco, Credo, scritto da Boito
in versi sciolti, ci presenta Jago come «un
malvagio senza ragione ma come conseguenza naturale del suo esistere». Nel Credo Iago viene presentato come un personaggio diabolico. Jago - che Verdi aveva destinato a essere il protagonista
dell’opera - è musicalmente quasi il personaggio principale. II carattere di Jago ci appare nella sua piena nudità in un
monologo di intensa introspezione: «Credo in un Dio crudel, che m’ha
creato simile a sé, e che nell’ira io
nomo».
"Credo" - atto II
(Tito Gobbi nella parte di Jago)
Otello, per il quale è sacro il vincolo dell’amicizia, ripone piena fiducia nei suoi due amici, Cassio e Jago,
tanto da non accorgersi del doppio gioco di quest’ultimo. Ciò dimostra anche l’ingenuità disarmata di
Otello di fronte agli infingimenti e alla fatale macchinazione di Jago.
"Ciò m'accora" - atto II
(Tito Gobbi nella parte di Jago, Mario Del Monaco nella parte di Otello)
(documento storico: live, Tokyo, 1959)
Desdemona è un agnello sacrificale,
vittima inconsapevole del suo eroe brutalizzato dal veleno demoniaco di
Iago.Nel quarto atto la tragedia esplode in tutta la sua violenza. Desdemona tuttavia
continua a nutrire fiducia:il suo uomo l’ha maltrattata e vilipesa perché oppresso dalle
difficoltose strategie militari. Neppure la sfiora il
pensiero che il disastro sia stato causato dalla malvagità. Desdemona non è soltanto l’espressione della purezza
personale, ma è soprattutto la personificazione dell’amore, che non può e non sa vedere il male. Di
questo si ha prova nella stupenda Ave Maria, dove l’eterea fiducia palesa
profondi sentimenti religiosi. L’Ave Maria di Desdemona è preghiera di
fede. Una preghiera che dissipa le spaventose nubi dell’atto precedente, grevi di
violenza e rabbia; una preghiera accompagnata da autentica armonia divina, che, senza rispettare
schemi convenzionali, trasporta l’orante in un’atmosfera di completa libertà e
amore. L’amplissimo repertorio lessicale del Boito qui si frena e presenta una
preghiera di straordinaria semplicità e delicatezza:
Ave
Maria,
piena
di grazia, eletta
fra
le spose e le vergini sei tu;
sia
benedetto il frutto,
o
benedetta,
di
tue materne viscere, Gesù.
Prega
per chi adorando
a te si prostra,
prega
pel peccator, per
l’innocente,
e
pel debole oppresso e
pel possente,
misero
anch’esso, tua
pietà dimostra.
Prega
per chi sotto l’oltraggio piega
la fronte,
e
sotto la malvagia sorte;
per
noi tu prega sempre
nell’ora
della morte.
"Ave Maria" - atto IV
(Ainhoa Arteta nella parte di Desdemona, 2010)
Come in tutte le grandi tragedie, rese ancor più
vicine a noi dall’immediatezza musicale e dalla semplificazione teatrale, Otello abbatte ed
insieme esalta. Ciò che alla fine resta, nonostante il terrificante corso degli
avvenimenti, è un senso di elevatezza d’animo, di grande dignità dell’uomo che soffre. L’Ave Maria costituisce
l’invocazione alla Madre che ha raccolto in sé tutta la sofferenza
umana, e la presenta al trono dell’Altissimo. Il "prega per noi", ripetuto quattro
volte con intensità crescente, indica la gratuità dell’amore che entra nella nostra vita. L’odio esiste, non viene meno, e
nella tragedia, come nell’opera, Jago non perisce; periscono Otello e Desdemona, ma
per entrambi splende la luce dell’amore come garanzia della capacità della coscienza di
risorgere e avviarsi sul cammino della pace.
L'atto finale, dopo la malinconica Canzone del salice e l'Ave Maria, vede Otello,
omicida di Desdemona, scoprire la verità dalla bocca di Emilia e uccidersi
sotto gli occhi di tutti, in preda a una nobile ma ormai rassegnata
disperazione finale.
"Niun mi tema!" - Finale atto IV
(Mario del Monaco nella parte di Otello, nel film "G. Verdi" di R. Matarazzo, 1953)
Racchiuso in una partitura che oscilla tra l'estrema
violenza e una malinconica dolcezza, lo scintillante linguaggio musicale di
Verdi è, in Otello, tutto impregnato di vita scenica; il trattamento del
recitativo, fatto oggetto di ogni possibile inflessione da parte di voci e
strumenti si congiunge con un reticolo d'intrecci, citazioni, esitazioni e trasalimenti
del formicolante tessuto orchestrale, e giunge così al perfetto connubio tra
vocalità e strumentalità, traguardo finale della genialità verdiana.
Francesco Tamagno, primo interprete di "Otello" |
Mario Del Monaco, il più noto interprete di "Otello" del Novecento |
* * *
Un Verdi quasi ottantenne esprime il
desiderio, coltivato da più di quarant’anni, di comporre un’opera comica, e pensa a Le
allegre comari di Windsor di Shakespeare.
Ecco quindi che
nel 1889 Arrigo Boito inizia a lavorare al libretto di Falstaff (personaggio apparso per la prima volta nell'Enrico IV dello stesso Shakespeare, e poi nelle Allegre Comari).
Verdi inizia a musicare l’opera quasi per
passatempo, in atteggiamento di totale libertà.
Lavora in modo spensierato ma meticoloso e nel 1892 può pubblicarne la
partitura. Il 9 febbraio 1893 si ha la prima alla Scala di Milano. Il pubblico è
quello delle grandi occasioni, ma questa volta si tratta di un pubblico d’eccezione che vede tra gli
spettatori personalità del mondo della cultura come, tra gli altri, Carducci,
Giacosa, Puccini e Mascagni.
In Falstaff, Verdi e Boito raggiungono una sapiente
fusione tra il mondo fiabesco e quello comico, in modo che l' esistenza sveli i
suoi lati più seri e profondi in un quadro incantato e sorridente.
È
soprattutto nella condizione dell'ambivalenza di tragico e comico, dei limiti
fluttuanti di queste due forme del genere drammatico che l'anziano Verdi si
avvicinò a Shakespeare. Fin dai primi
tempi il genio drammatico di Shakespeare aveva costituito per Verdi l'ideale al
quale si era orientata la sua attività compositiva e si erano formate le sue idee
sull'opera d'arte teatrale. Verdi coronava ora con una commedia musicale la sua
immensa produzione, che era stata espressione di una tragica visione del mondo,
con tutte le sue vette e i suoi abissi.
L'eccezionalità
di Falstaff è data dal fatto che la sua schiacciante serenità non è mai
caratterizzata da un ottimismo piatto e spensierato, ma appare invece come il
rovescio del tragico, con cui si lega indissolubilmente.
La
musica di Falstaff si distingue per ricchezza d'inventiva, brio e per un accento
di giovanile freschezza, e al tempo stesso per una straordinaria maturità
tecnica e maestria compositiva.
Da
ogni battuta di questa partitura trapela l'immensa esperienza artistica di un
compositore che per tutta una vita aveva vagliato le potenzialità teatrali del
linguaggio musicale; ma d'altra parte Falstaff porta anche tutti i segni della novità assoluta,
rappresentando nella produzione verdiana e quindi nella storia dell'opera
comica italiana un inizio nuovo, quasi privo di premesse storiche.
È un
caso unico e senza paragone nella storia della musica: la creazione di un nuovo
stile non riusciva qui per un intervento di giovanile audacia, ma si poneva
come il risultato di un'altissima maturità umana ed artistica, e per questo
come una creazione di straordinaria compiutezza.
Al
centro dell'opera sta il grasso cavaliere Sir John Falstaff, che non è affatto
una figura comica; non è solo il cavaliere decaduto del declinante Medioevo
che, ridottosi ormai a vivente anacronismo, tenta di condurre un'esistenza parassitaria
a carico dei borghesi arricchiti, ma è anche un filosofo dalla tragica
saggezza, che è consapevole delle dubbiezze della vita e della sostanziale debolezza delle nozioni etiche
convenzionali (Il vostro Onor!... Che é
dunque? Una parola. Che c'é in questa
parola? C'é dell'aria che vola...)
"Falstaff - "L'onore! Ladri!" - dall'atto I
(Tito Gobbi nella parte di Fastaff, 1970)
In
questa ultima opera Verdi, il grande tragico del teatro musicale, volle far
proprio un atteggiamento di ridente superiorità, che intende l'intera vita come
una commedia e la risata come l'ultima risorsa del saggio. E il vecchio Sir John, alla fine, con ironia superiore e filosofia sorridente
ravvisa nella follia una prerogativa universale: "Tutto nel mondo è burla, l'uom è nato burlone, nel suo cervello ciurla
sempre la sua ragione".
"Falstaff - "Tutto nel mondo è burla!" - Finale
Falstaff fu l’ultima opera composta da Giuseppe Verdi.
Quattro anni dopo la prima del Falstaff muore Giuseppina Strepponi.
Nella tarda maturità, Verdi compone quattro
pezzi sacri pubblicati nel
1898: Stabat Mater, Laudi alla Vergine e Te
Deum.
Verdi si spegne il 27 gennaio 1901. E' al “Grand Hotel
et De Milan”, in un appartamento dove era solito alloggiare durante l'inverno.
Colto da malore spira dopo sei giorni di agonia, giorni in cui le strade
di Milano sono state cosparse di paglia perché il rumore degli zoccoli dei
cavalli non disturbi gli ultimi giorni del Maestro. I suoi funerali si svolgono
come aveva chiesto, senza sfarzo né musica, semplici come era sempre stata la
sua vita. Una folla silenziosa segue il feretro. Un mese dopo i corpi di Verdi
e della Strepponi vengono portati alla Casa di Riposo per Musicisti.
Arturo Toscanini in testa all’orchestra della Scala e ad un
coro di ottocento persone disposte sulla gradinata, intona il “Va pensiero” del Nabucco. E’ l'addio
dell'Italia al ‘Cigno di Busseto’.
* * *
Richard Wagner (ritratto di G. Tivoli) |
Richard
Wagner rivoluzionò l'opera lirica nella seconda metà dell'Ottocento dal Der
fliegende Holländer del 1843 al Parsifal del 1882, con al
centro le quattro opere del famoso Ring des Nibelungen (1869-1876).
Wagner combinava insieme la musica, il teatro, la poesia e la regia in quello
che egli chiamava "dramma in musica", nel quale anche l'orchestra era
protagonista. Wagner ha creato il leitmotiv, ovvero una specifica frase
musicale associata a un personaggio, a un evento o a un'idea.
La carriera
di Wagner (Lipsia 1813 – Venezia 1883) fu meno prudente di quella di Verdi, che
rinnovò l’opera e riuscì a cambiare i gusti del pubblico italiano poco per volta.
Intenzionato a rivoluzionare il melodramma, Wagner stentò inizialmente a
trovare ascolto e incominciò a riscuotere interesse solo abbastanza tardi.
L’ideale di
Wagner era quello di creare l’opera d’arte totale, cioè un’opera in cui fossero
presenti tutte le arti: la musica, la poesia, il teatro. Wagner scriveva quindi
i propri libretti, li musicava e si occupava della messa in scena, come un
moderno regista.
Le
innovazioni teatrali di Wagner riguardano la disposizione dell’orchestra e il
comportamento del pubblico. A questo scopo Wagner si fece addirittura costruire
un teatro apposito, a Bayreuth, diverso da tutti gli altri: egli fu infatti il
primo a nascondere l’orchestra, sistemandola sotto il palcoscenico (nel
cosiddetto golfo mistico) poiché trovava insopportabile che, accanto a un
cantante in abiti antichi, vi fosse un violinista o un direttore d’orchestra in
abiti moderni.
Wagner fu il
primo a pretendere che in sala, durante l’esecuzione, vi fosse assoluto
silenzio. Tradizionalmente infatti nei teatri si andava anche per
chiacchierare, per incontrare gli amici, e durante la rappresentazione era
normale girare tra i palchi, parlare ad alta voce, addirittura mangiare. Per
Wagner tutto questo era assolutamente inconcepibile: il pubblico doveva
partecipare alla rappresentazione, concentrarsi sul palcoscenico (per questo
venivano spente le luci in sala), rimanere in silenzio come di fronte a un
rito.
Wagner
apportò grandi cambiamenti anche alla struttura musicale dell’opera. Vediamo
brevemente i principali.
Il
melodramma tradizionale si basava su episodi separati
l’uno dall'altro prima un’aria, poi un recitativo, poi un’altra aria
ecc. Wagner decise invece di creare delle melodie infinite, cioè aperte a
continui sviluppi, senza interruzioni tra un episodio e l’altro. Wagner
arricchì di molti strumenti l’orchestra e le attribuì particolare importanza:
essa non doveva più semplicemente accompagnare i cantanti, dato che la voce era
considerata solo uno strumento fra i tanti, per quanto importante.
Wagner
inserì poi nelle sue opere i cosiddetti leit-motive: si tratti di melodie
abbinate a un personaggio, a un tema o a una situazione, che ritornano ogni
volta che compare quel personaggio, quel tema o quella situazione.
* * *
L'Ottocento, il secolo d'oro dell'opera in Europa
La Russia e l'Europa dell'Est svilupparono una loro
tradizione, ispirata alla storia (Boris Godounov,Moussorgski, 1874) o
alla loro letteratura nazionale (Eugène Onéguine, Tchaïkovski, 1879). In
Francia fiorì « le grand opéra » che mescola grandi effetti scenici, azione e
balletto. Anche il genere più leggero dell'opéra comique (opera comica) aveva
molto successo. Esso comprendeva dei dialoghi parlati e, malgrado il nome,
presentava a volte dei temi tragici come nella Carmen di Bizet
(1875).
5
TRA OTTOCENTO
E NOVECENTO
Sullo
scorcio dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento i maggiori compositori
di melodrammi furono: Pietro Mascagni, Ruggero Leoncavallo, Umberto Giordano, Francesco Cilea, e soprattutto Giacomo Puccini.
Puccini è
stato l'ultimo grande compositore italiano, autore di dodici opere liriche, tra
cui Manon
Lescaut (1893), La Bohéme (1896), Tosca (1900), Madame Butterfly (1904) e Turandot (1926).
L’Opera nel Novecento
I librettisti di questo periodo prendono spunto dal
romanticismo d'oltralpe; dalla scapigliatura (tra i più noti Arrigo Boito); dal naturalismo francese di Émile Zola; dal verismo di Verga. I soggetti e il linguaggio sono
quelli della vita quotidiana, nella riproduzione della quale gli spettatori
possano identificarsi. L'opera verista è caratterizzata da una passionalità
drammatica e straziante, da storie truculente di intrighi familiari e gelosie.
Si hanno anche opere con soggetti storici o esotici. Nei libretti, lo
sperimentalismo si fa sempre più forte: la metrica è assolutamente flessibile,
e mutante.
Dal punto di vista musicale la struttura dell’Opera è
estremamente scorrevole, le arie sono concise, i periodi melodici spesso
interrotti. La vocalità è stentorea e spinta, le note acute vengono prese di
scatto e spesso subito interrotte, per ottenere un effetto più naturalistico,
più vicino al parlato. Notevole è l'impiego delle masse orchestrali, spesso
dedite a far traspirare melodie esotiche o dal colore locale (in questa
tendenza si nota molto l'influsso di opere francesi, come la Carmen di Bizet).
Tra i melodrammi di autori stranieri del Novecento, sono
notevoli Pelléas et Mélisande di Debussy (1902), Salomé di
Strauss (1905), e La Piccola Volpe Astuta di Janáček (1924). E
ancora le opere fosche di Alban Berg (Wozzeck, 1925), che si
contrappongono alle opere ispirate al jazz e alla musica popolare di Kurt Weill
(L’Opera da tre soldi, 1928) e le
opere tradizionali di Benjamin Britten (Peter Grimes, 1945), e
l’opera-musical di Leonard Bernstein (West
Side Story, 1957).