Recondite Armonie I





 
Il melodramma: dalle origini a Verdi 
 


Corso di cultura musicale
Introduzione all'ascolto dell'opera lirica
guidato da Gius. Berretta

nel programma
dell'Università Popolare di Latina (UPTEL)
Anno Accademico 2015-2016 

7 lezioni di 90 minuti ca.
da lunedì 28 ottobre 2015
presso la sede UPTEL
Scuola C. Goldoni, via Sezze 25 - Latina 


 IL PERCORSO

Le origini del melodramma 

L’opera polisemica (poesia, musica, teatro)

Dal libretto alla rappresentazione

 La voce e l’orchestra

I Grandi compositori del primo Ottocento: Rossini, Bellini, Donizzetti

Giuseppe Verdi e l’evoluzione del melodramma romantico

Giacomo Puccini e l’Opera del Novecento

Il teatro musicale oggi



*  *  *

Esercizi di ascolto guidato


 *  *  * 


Recondita armonia 


E' la prima romanza dell'opera lirica Tosca di Giacomo Puccini su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. È cantata, nella terza scena del primo atto, dal pittore Mario Cavaradossi, che descrive il suo amore per la bellezza, quella bruna di Tosca e quella algida di una ragazza notata mentre pregava in Chiesa, a cui si ispira per il suo dipinto di Maria Maddalena che sta eseguendo nella chiesa di Sant'Andrea della Valle in Roma dove si svolge l'azione del primo atto.

Recondita armonia di bellezze diverse!  
È bruna Floria, l'ardente amante mia. 
E te, beltade ignota, cinta di chiome bionde,  
Tu azzurro hai l'occhio, Tosca ha l'occhio nero!
L'arte nel suo mistero,
le diverse bellezze insiem confonde...
Ma nel ritrar costei,
Il mio solo pensiero,
Il mio sol pensier sei tu,
Tosca, sei tu!
 


(dal film "Tosca" di Carmine Gallone, 1956)

*  *  *


Introduzione

Nel 1581 Vincenzo Galilei, padre di Galileo, scriveva il “Dialogo della musica antica e moderna”, nel quale affermava che la polifonia era oramai un’espressione musicale che apparteneva al passato, e che il musicista moderno doveva tornare all’antica monodia accompagnata dal “favellar cantando”.
Le forme musicali tipiche del XVI secolo che già avevano insite in loro una trama teatrale, come i madrigali polifonici e drammatici e le commedie armoniche, si organizzarono mano a mano nel melodramma, spettacolo dove musica, poesia e scenografia si fusero in un unico evento. È interessante vedere come la ricerca di forme teatrali e musicali d’avanguardia, operata soprattutto a Firenze nell’ambito del cenacolo della Corte dei Bardi, si realizzi nel ritorno all’antichità, nella riproposta di quel rapporto tra parola e musica che si supponeva esistesse nella drammaturgia greca. 

"Recitar cantando" (Caravaggio, Il suonatore di liuto)

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Le origini del melodramma 

Il melodramma è una rappresentazione scenica, in uno o più atti, di un'azione tragica o comica, i cui personaggi non sono solo cantanti ma anche attori. Veniva anche detto "opera lirica" o semplicemente "opera".

I precedenti storici di questo genere musicale sono antichissimi: già nella tragedia greca la musica veniva unita alla parola. E anche nel medioevo esistevano combinazioni di musica e azione drammatica. Nella sacra rappresentazione gli argomenti tratti dall'Antico o dal Nuovo testamento venivano recitati a dialogo in forma cantata dal celebrante e dal clero, dapprima all'interno delle chiese, poi sul sagrato.

In epoca moderna  l'origine del melodramma va ricercata alla fine del Cinquecento, per merito di un gruppo di intellettuali, poeti e musicisti, chiamato Camerata fiorentina, che discuteva sulla possibilità di creare un nuovo genere monodico, affidato a una sola voce, in contrasto con le forme polifoniche allora dominanti.



Due aspetti tipici della scrittura musicale polifonica iniziarono, verso la fine del Cinquecento, ad essere messi in discussione:
-       *  l’intreccio polifonico di più voci autonome rendeva quasi impossibile comprendere il testo che veniva cantato;
 *  nella musica polifonica si rilevava la difficoltà di comunicare le emozioni (o, come venivano chiamate allora, gli affetti), giacché l’affetto, essendo legato alla sfera individuale, personale, soggettiva, difficilmente poteva essere veicolato da un intreccio di voci distinte, appartenenti a un gruppo composto da persone diverse: l’interiorità di ogni individuo ha infatti un suo specifico affetto, un suo proprio modo di vivere quell’emozione, diverso da quello di ogni altro individuo. 



I camerati volevano che l'artista recitasse cantando, in forma lirica e drammatica, con l'accompagnamento di strumenti musicali. La riscoperta del mondo classico greco-romano ebbe in questo notevole influenza.

All’epoca, le due opere principali ispirate a questi principi furono quelle di Jacopo Peri, il Dafne, rappresentato a Firenze nel 1598, e il dramma Euridice, rappresentato, sempre a Firenze, in occasione delle nozze di Maria De' Medici con Enrico IV di Francia. I libretti (i componimenti letterari in versi o in prosa, scritti per essere musicati) erano di Ottavio Rinuccini. Allora il libretto veniva letto agli spettatori prima dell'esecuzione musicale, per poter meglio seguire il testo cantato e lo sviluppo della vicenda scenica.

Ma è solo con l'opera Orfeo (1607) di Claudio Monteverdi, rappresentante della Scuola Veneta, che il melodramma, coi suoi recitativi, le arie e i cori, assume la sua struttura definitiva. Il melodramma diventa organico e rigorosamente logico nei rapporti tra poesia e musica. 



È significativo che molte delle prime opere avessero come argomento (basti pensare alle due Euridice composte nel 1600 e poi all’opera di Monteverdi del 1609) il mito di ‘Orfeo e Euridice’: scelta non casuale giacché si tratta del mito che più di ogni altro celebra la musica e la capacità della musica di comunicare e suscitare sentimenti. Euridice è morta e Orfeo riesce grazie alla musica a compiere ciò che nessun uomo è mai riuscito a fare: sconfiggere la morte, attraversare  la barriera che separa la vita e morte (Orfeo è un cantore ed è col proprio canto che riesce a convincere il guardiano degli Inferi a lasciarlo entrare nel regno dei morti per riportare in vita l’amata Euridice).  



Orfeo ed Euridice (E. Pointer, 1850)



Quando i teatri cominciarono ad aprirsi anche a un pubblico pagante, si diffusero in molte città non solo le tragedie e le commedie semplicemente recitate, ma anche il melodramma, al punto che le prime compagnie di cantanti itineranti, al seguito di un impresario, cominciarono ad esibirsi anche presso le corti europee, usando la lingua italiana. Il cosiddetto "belcanto", frutto di una perfetta educazione della voce, entusiasmava il pubblico, per quanto gli artisti fossero più che altro dei virtuosisti canori, senza particolari abilità recitative.

Sotto questo aspetto, anzi, fu il napoletano Alessandro Scarlatti (1660-1725) a elaborare dei brani melodici in grado di esprimere i diversi sentimenti e gli stati d'animo dei personaggi.

La Scuola Napoletana, che ebbe un successo incredibile, creò anche vivaci e leggeri intermezzi, consistenti in brevi bozzetti di carattere comico, i cui personaggi (di solito due), rappresentavano borghesi e popolani contemporanei, della realtà quotidiana. Questi intermezzi, posti tra un atto e l'altro del melodramma serio, fondandosi con la commedia dell'arte, ricca di brio e comicità, assumeranno ad un certo punto vita autonoma, diventando una vera e propria opera buffa, i cui maggiori esponenti saranno Giovan Battista Pergolesi (La serva padrona), Giovanni Paisiello (Nina, ossia la pazza per amore), Domenico Cimarosa (Il matrimonio segreto) e Niccolò Piccinni (La Cecchina ossia La buona figliuola).

Chi invece cercò di riportare l'opera alla sua originale impostazione, sulla base dei canoni della tragedia greca, fu il compositore tedesco C. W. Gluck (1714-95), che lavorando insieme al poeta e librettista italiano Ranieri de' Calzabigi, eliminò il virtuosismo vocale, assecondando con la musica lo sviluppo drammatico, nel rappresentare situazioni credibili.
 
La ricerca di una realtà più umana e interiorizzata, l'approfondimento dello studio psicologico dei personaggi e delle situazioni di una vicenda letteraria (il cui massimo protagonista era stato in letteratura il Manzoni), viene raccolta in campo musicale da quattro grandissimi compositori: Rossini, Bellini, Donizetti e soprattutto Verdi, che supereranno decisamente gli schemi dell'opera seria e buffa settecentesca.

A questi seguirono i cosiddetti "veristi" tra Ottocento e Novecento, tra cui Puccini, Mascagni, Leoncavallo, Giordano e Cilea, che tendenzialmente preferivano comporre opere ispirate a fatti realmente accaduti o comunque rappresentati con senso realistico.

In Germania i più importanti operisti furono Wagner e Meyerbeer, oltre al preromantico Beethoven; in Russia Borodin, Mussorgskij, Ciaikovskij e Rimskij-Korsakov, in Francia Bizet e Massenet.

Il tramonto dell'opera lirica si ebbe nel XX secolo, con gli ultimi melodrammi di Berg (Wozzeck, 1925 e Lulu, 1937), di Stravinskij (Carriera di un libertino, 1951) e di Schönberg (Mosè e Aronne, 1957).


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L'opera polisemica

Il melodramma è una delle forme di spettacolo musicale più complesse. Alla sua realizzazione infatti concorrono fondamentalmente tre ordini di elementi linguistici:
  • 1.   la poesia (la trama letteraria, coi dialoghi e i monologhi, elaborata dal librettista, che può trarre l'argomento da un romanzo, da una storia,  da una tragedia da un dramma o  da una commedia);
  • 2.   la musica (la partitura musicale, l’orchestrazione, il canto e i cantanti, i cori, le danze);
  • 3.   la fabula teatrale (dalla vicenda narrata alla sua rappresentazione:  la regia, la recitazione dei cantanti e dei figuranti, la scenografia e i costumi, l’azione sinergica dei tecnici delle arti figurative, audiovisive e architettoniche).  


Il melodramma fu il genere preferito dai compositori italiani, anche perché potevano lasciarsi guidare non solo da una trama letteraria (una storia o una situazione), ma anche da una sorta di avventura interiore, una trama di sentimenti liberamente concatenati.
Il carattere della musica poteva essere gioioso o triste, a seconda che si trattasse di opera buffa o seria. L'opera seria poteva contenere storie con risvolti tragici, commoventi, drammatici, con riferimenti a singoli personaggi o a popoli interi, in cui il conflitto tra bene e male appariva con una certa evidenza.

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L'opera nella prima metà del XIX secolo

I grandi compositori di opere liriche del primo Ottocento furono Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti, Vincenzo Bellini.

I libretti d'Opera

Il libretto è il testo verbale, quasi sempre steso in versi, utilizzato per la composizione di un lavoro musicale. Il libretto nasce per il melodramma, e come tale può altresì identificare anche il genere letterario, e in virtù della sua efficacia e mole, menziona anche quei testi verbali che vengono adoperati per le grandi forme vocali musicali successive, l'oratorio, la cantata, l'operetta, e anche il balletto.

Oltre alle parole destinate ad essere cantate, il testo del libretto include anche le didascalie e talvolta una prefazione e delle note.

Il termine "libretto" è utilizzato così com'è in quasi tutte le lingue

La funzione del libretto nell'economia di un'opera musicale è molto vario. Alcuni compositori, ad esempio Richard Wagner, scrissero da soli i libretti per le proprie opere, ma la maggior parte si è affidata a letterati professionisti. La gran parte dei libretti deriva da opere letterarie preesistenti, talvolta classici della letteratura. Ma il libretto è anche una creazione originale, concepita in stretta collaborazione con il compositore.

Libretto di "Tosca" (1899)

I grandi letterati che puntualizzarono pienamente il genere letterario del melodramma e quindi della librettistica furono Ottavio Rinuccini, Apostolo Zeno, Ranieri de' Calzabigi e soprattutto Pietro Metastasio (16981782) (pseudonimo di Pietro Trapassi). I suoi libretti furono utilizzati in diverse occasioni da diversi compositori.

Un altro librettista affermato del XVIII secolo fu Lorenzo da Ponte, che scrisse il libretto per tre delle maggiori opere di Mozart.

Eugène Scribe fu uno dei più prolifici librettisti del secolo successivo, fornendo le parole a Meyerbeer, Auber, Bellini, Donizetti, Rossini e Verdi.  Il duo francese costituito dagli scrittori Henri Meilhac e Ludovic Halévy scrisse un vasto numero di libretti per opera e operetta, apprezzati da Jacques Offenbach, Jules Massenet e Georges Bizet.

Cesare Sterbini, Felice Romani e Salvatore Cammarano furono librettisti assai apprezzati da Rossini, da Donizzetti e dal primo Verdi. Il Verdi della maturità si affidò - per quasi metà delle sue produzioni operistiche - all’abilità letteraria di un elegante librettista dotato di felice intuito teatrale, il veneto Francesco Maria Piave. Arrigo Boito, scrisse libretti, tra gli altri, per Giuseppe Verdi e Amilcare Ponchielli, compose anche due opere per proprio conto.

A cavallo tra Ottocento e Novecento è da ricordare la coppia composta da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, che fornì a Puccini i libretti di alcune tra le sue opere più famose.

Oggi, l'importanza del libretto è generalmente ritenuta minore rispetto a quella della musica, ma per un lungo tratto della storia dell'opera - fino a buona parte del XVIII secolo - il libretto era considerato almeno importante quanto la musica, ed era normalmente l'unico testo dell’Opera ad essere pubblicato. La Casa Editrice Ricordi, divenne quasi monopolista internazionale dei libretti d'opera, riuscendo ad acquisire i diritti dei principali musicisti e dei loro librettisti.

In alcuni casi, l'adattamento per l'opera è divenuto più famoso del testo letterario su cui si basava, come ad esempio l’Otello e il Falstaff di Verdi, la Turandot di Puccini, il Pelléas et Mélisande da un'opera di Maurice Maeterlinck, musicata poi da Claude Debussy.

Le vocalità
Durante l'Ottocento si stabilì un preciso rapporto tra il ruolo del cantante e la sua voce:
  • scomparve la voce del castrato, le parti del quale vennero affidate ad un contralto
  • al tenore non vennero più affidate le parti da antagonista, anzi, egli incarnò sempre più spesso l'ideale dell'eroe innamorato ed estremamente passionale
  • al basso vennero affidate parti solenni, arie miste di saggezza e moralità
  • si diede grande importanza al baritono, antagonista in amore del tenore (come lo è del soprano il suo corrispondente femminile - il mezzosoprano)
  • la voce del soprano fu ormai inscindibilmente associata a delicatissime quanto idealizzate e angeliche figure femminili, fragili ma forti dei valori della pudicitia e della castità.
 
GIOACCHINO ROSSINI
l’ultimo “classico” del melodramma

 Gioacchino Rossini (V. D'Ancona, 1874)

Gioacchino Rossini (Pesaro 1792 – Parigi 1868) rappresenta il momento di passaggio dal Classicismo verso il Romanticismo. Egli infatti rimase per tutta la vita legato alla tradizione settecentesca, ma nelle ultime opere affrontò alcuni temi che saranno tipici dei musicisti romantici.

L’arte e la musica, diceva Rossini, non devono coinvolgere troppo, non devono lanciare messaggi, ma debbono piuttosto divertire, al massimo commuovere un po', ma solo superficialmente. La sua musica è perciò ricca di ottimismo, gioiosa, chiara e semplice come quella “classica” del Settecento.


Sono queste le caratteristiche che ritroviamo nella sua opera più famosa, “Il barbiere di Siviglia”. Il successo di quest’opera è dovuto senza dubbio alla musica rapida, vivacissima, piena di vita e di allegria, ma anche al protagonista, il barbiere Figaro, “il factotum della città”; Figaro è il simbolo dell’uomo moderno che con la sua intraprendenza riesce a ottenere tutto quello che vuole, pur non essendo né nobile né ricco.


(Tito Gobbi interpreta Figaro nel Barbiere di Siviglia)

(Cecilia Bartoli interpreta Rosina nel Barbiere di Siviglia)


(Ferruccio Furlanetto interpreta don Basilio nel Barbiere di Siviglia)

Nelle ultime opere di Rossini emergono però degli elementi nuovi. Per esempio nel “Guglielmo Tell” sono narrate le vicende dell’eroe nazionale svizzero, un tema nazionalistico tipicamente romantico.

 (Antonio Salvadori interpreta Guglielmo nel Guglielmo Tell)

DONIZZETTI e BELLINI
i  primi autori di melodrammi romantici

Gaetano Donizetti (Bergamo 1797 – 1848), fu autore di  più di 70 opere, tra cui Anna Bolena, Lucia di Lammermoor, La Favorita.

  Gaetano Donizzetti (N. Schiavone, 1850 ca.)

Si tratta di opere drammatiche: il Romanticismo italiano preferiva quindi vicende che si concludevano con la morte dei protagonisti, con trame ambientate in tetri castelli medievali o in antichi palazzi nobiliari.
Quasi sempre le storie ruotavano attorno a un amore impossibile, complicato per di più da questioni politiche, dalla lotta fra due partiti, da fazioni avverse, ecc.


Lucia incarna pienamente il significato che la voce di soprano ha avuto nel melodramma romantico: è innanzitutto il personaggio al centro della vicenda. Donizetti le conferisce una scrittura di ampio respiro che va dagli slanci drammatici d'una vocalità spianata fino allo sfogo di una vocalità melismatica e virtuosistica. Le colorature di Lucia sono tutte mirate ad esaltare la sua gentilezza, la grazia ed il suo candore, ma anche a sottolineare la fragilità della sua indole, esprimendo il distacco dal mondo concreto, sensibile e reale, attraverso l'esibizione continua di gorgheggi in alta tessitura, di trilli, di eleganti vocalizzi. La vocalità di Lucia è racchiusa nella locuzione moderna di soprano drammatico di agilità.

La fortuna della Lucia di Lammermoor, dai tempi del debutto trionfale a Napoli nel 1835, non ha mai conosciuto appannamenti presso il pubblico. Delle oltre settanta opere di Donizetti, solo cinque sono rimaste indimenticate: in primo luogo la Lucia di Lammermoor, poi L'elisir d'amore, il Don Pasquale, l’Anna Bolena, e infine La Favorita.

Lucia di Lammermoor, opera portata a termine in una Napoli colpita dall’epidemia di colera, fin dal suo apparire fu considerata come un capolavoro assoluto del genio musicale di Donizetti e come una tappa fondamentale per il melodramma romantico dell’Ottocento, soprattutto per lo straordinario lirismo della protagonista che, alla meschinità degli uomini, trovava  riparo e riscatto nell’allucinata follia.

Il musicista bergamasco, che approdò alla Lucia dopo aver già composto oltre 40 opere, e  dopo  aver a lungo  inseguito il favore del pubblico e della critica nei teatri dell’Italia settentrionale, proprio a Napoli  riuscì a conseguire il meritato riconoscimento, incoronato da quel pubblico partenopeo che aveva  sempre seguito favorevolmente la sua carriera di operista.

La composizione della Lucia fu molto rapida, com’era nelle abitudini del musicista; in soli due mesi, infatti, tra maggio e luglio del 1835, musicò il testo del librettista Salvatore Cammarano che si era ispirato al romanzo The Bride of Lammermoor di Walter Scott.

Nella Lucia di Lammermoor  sono presenti tutti gli elementi tipici romantici: l’amore  contrastato ed impossibile, le rivalità tra le famiglie, la separazione, il matrimonio forzato, l’uxoricidio, il delirio, la pazzia ed infine la morte, in un crescendo di eventi drammatici  che si sviluppano in un’atmosfera allucinante.

Tutta l’opera si può considerare come un ritratto musicale della fragile e sofferente figura femminile, in un passaggio di stati d’animo dagli accenti toccanti e struggenti, ben sottolineati dal suono dell’arpa, per le speranze dell’amore, dall’oboe, nel  colloquio  tra Lucia e suo fratello Enrico, dai violoncelli, all’entrata di Lucia nel salone  per le detestate nozze, e poi il flauto, nel registro acuto, che accompagnerà la fuga nella  follia  di Lucia, persa nel delirio e  nelle allucinazioni, giacché sarà  quello l’unico suo  modo  possibile  per  sfuggire alla realtà e riscattarsi del delitto commesso.



 
Lucia di Lammermoor - "Verranno a te sull'aura..." 
(Pietro Ballo, tenore - Katleen Cassello, soprano)

 

Lucia di Lammermoor - Scena della Pazzia
(Nino Machaidze, soprano)


Naturalmente l’opera buffa non era scomparsa del tutto, anche se la sua importanza era ormai ridotta rispetto al secolo precedente. Donizetti, per esempio, scrisse L’elisir d’amore e Don Pasquale, due opere buffe a lieto fine, con molte scene decisamente comiche, ma nelle quali il compositore, da bravo romantico, inserì anche molte scene patetiche e sentimentali.

Elisir d'Amore - Scena di Dulcamara
(Erwin Schrott, baritono)



Vincenzo Bellini (Catania, 1801 - Puteaux, Francia, 1835), fu tra i più celebri operisti del primo Ottocento.

Dotato di una prodigiosa vena melodica, e di un particolare talento nel cesellare melodie della più limpida bellezza, e legato ad una concezione musicale basata sul primato del canto, vocale o strumentale, Bellini portò prima a Milano e poi a Parigi un'eco di quella cultura mediterranea che l'Europa romantica aveva idealizzato nel mito della classicità.

Il giovane Wagner ne fu tanto abbagliato, da considerare la purezza del canto belliniano come un modello assoluto per i giovani musicisti tedeschi.

La carriera di Bellini fu bruscamente interrotta dalla sua morte prematura. Il musicista si spense, a meno di 34 anni (forse per un attacco di colera), a Puteaux, presso  Parigi, e  fu sepolto nel cimitero Père Lachaise, vicino a Frédéric Chopin ed a Luigi Cherubini; nel 1876 la salma di Vincenzo Bellini fu traslata nel Duomo di Catania, sua città natale.

  Vincenzo Bellini

Le sue opere più  famose e rappresentate "La sonnambula", "Norma" ed "I Puritani".



La sonnambula è un'opera in due atti su libretto di Felice Romani,  considerata  uno dei  capolavori di Bellini.

Il tema del tenero e contrastato amore tra Amina ed Elvino offrì a Bellini il destro per esaltare la propria vena lirica: l’arco melodico si coniuga col soggetto con un andamento languido e divagante, mentre l'orchestra si limita ad accompagnare la voce con mirabile semplicità. L'opera culmina in una delle più sublimi arie per soprano: la celebre  “Ah, non credea mirarti”, che Amina - la protagonista - canta in stato di sonnambulismo.
Ah! non credea mirarti
Sì presto estinto, o fiore;
Passasti al par d'amore,
Che un giorno sol durò.
Potria novel vigore
il pianto mio recarti...
Ma ravvivar l'amore
Il pianto mio non può.

 
 La Sonnambula - "Ah, non credea mirarti"
(Eva Mei, soprano)

Norma è un'opera in due atti su libretto di Felice Romani. Composta in meno di tre mesi, fu rappresentata per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano il 26 dicembre 1832. 

Il soggetto è ambientato nelle Gallie al tempo dell'antica Roma, e presenta espliciti legami con il mito di Medea. 

"Casta Diva" è il cantabile della cavatina della protagonista. È la pagina più celebre composta da Bellini. E’ la preghiera che la sacerdotessa gallica eleva alla luna, durante il rito di raccolta del sacro vischio.
 Casta Diva che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante
Senza nube e senza vel.

Tempra o Diva,
Tempra tu de' cori ardenti,
Tempra ancor lo zelo audace,
Spargi in terra quella pace
Che regnar tu fai nel ciel.


Le prime 10 battute della melodia sono anticipate dalla voce del primo flauto, raddoppiato nelle battute finali dal primo oboe. Tra le due strofe si colloca una sezione intermedia, in cui il coro ripete sottovoce i versi di Norma su una melodia che fa da sfondo ai vocalizzi del soprano. La melodia principale è un tipico esempio di stile belliniano, in cui le fioriture presentano carattere di arabesco anziché di passaggio di agilità. 
 
Maria Callas, in concerto interpreta "Casta Diva" dalla Norma di Bellini


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La vocalità lirica


L’estensione vocale

Uno strumento qualunque ha una particolare estensione, che lo contraddistingue da quella degli altri.
Anche un cantante ha una sua estensione, che lo contraddistingue da quella di tutti gli altri.
Per estensione vocale si intende l'intervallo massimo raggiungibile con la voce dalla nota più bassa alla nota più acuta. Una buona estensione vocale deve comprendere almeno 2 ottave.

Estensione cantabile ed estensione totale

Definiamo subito cosa si intende con questi termini:
L’estensione totale di un cantante è quella che comprende tutte le note che è in grado di produrre, per esempio, in sede di vocalizzo.
L’estensione cantabile è, invece, quella che è in grado di utilizzare per cantare, con facilità, espressività e in modo alquanto dignitoso, una canzone, un’aria, un lied o una romanza.
Un cantante lirico dispone di un’estensione cantabile media di due ottave. La sua estensione totale può anche raggiungere le tre ottave. Con gli esercizi di vocalizzazione e di impostazione della voce si riesce infatti ad aumentare l'estensione sia in alto che in basso.

Tessitura e timbro

Per tessitura si intende l'intervallo in cui le note possono essere cantate bene e senza sforzo, la tessitura è praticamente la parte estensione vocale in cui a voce può esprimersi al meglio sfruttare a pieno gli armonici ed essere emessa più facilmente. Naturalmente non si canta solo nell'ambito dell'estensione compresa nella propria "tessitura", alcune volte si sfrutta l'estensione vocale totale per dare più incisività al brano e per introdurre degli abbellimenti e virtuosismi, ma cantare sempre al massimo dell'estensione a lungo andare può essere dannoso, tanto più se si sfruttano solo le note in acuto.

Il timbro invece è la sfumatura altamente personale che si imprime al suono, può essere il vostro timbro naturale o volutamente "nasale" o "sottile" o "rauco" "sussurrato" ecc.
La voce impostata ha un timbro omogeneo e molto simile per ciascuna categoria. Nella musica leggera, invece, il timbro è assolutamente personale, e varia da persona a persona.

Voci impostate e voci non impostate

Si definiscono con il termine “voci impostate” le voci tipiche della lirica. Sono voci che utilizzano la tecnica diaframmatica, che le rende potenti, duttili ed espressive, oltre a conferire ad ognuna di esse un timbro che le può caratterizzare.
Queste voci si suddividono in maschili (Basso, Baritono, Tenore) e femminili (Contralto, Mezzo-soprano, Soprano). A queste si aggiungono le voci dei bambini, dette, per il timbro indifferenziato tra maschi e femmine, voci bianche.
Osserviamo l’estensione media cantabile delle voci impostate:

BASSO
Da Mi1 a Mi3
BARITONO
Da La1 a Sol3
TENORE
Da Do2 a Do4
VOCI BIANCHE
Da Sol2 a Re4
CONTRALTO
Da Fa2 a Fa4
MEZZO – SOPRANO
Da La2 a La4
SOPRANO
Da Do3 a Do5


Il registro

La voce umana si compone di vari registri:

1.      PETTO
La voce di petto utilizza le vibrazioni del torace.

2.      FALSETTO
Si dice falsetto quel "colore" di voce o timbro che, a livello laringeo, prepara il passaggio dalla voce di petto a quella di testa. Lavorare sul passaggio è importante perché la voce deve raggiungere un solo colore per entrambi i registri.
Il  falsetto è quindi la 'saldatura'o mediazione corretta tra  registro acuto, di testa e quello grave o di petto, quindi il falsetto non è altro che una forma di protezione che la laringe attua per poter passare indenne da un registro all'altro, che si traduce in una  limitazione dei danni provocati dalla voce 'spinta' nei registri acuti.
I falsetti  artificiali: sono utilizzati dai cantanti uomini che usano un meccanismo naturale che permette alla voce maschile di produrre i suoni ad una ottava superiore rispetto alla voce vera, più simile  a quella femminile.

3.      TESTA
La voce di testa è un'emissione dal timbro sottile ottenuto utilizzando le sole vibrazioni della scatola cranica.

4.      FALSETTO-TESTA
Caratterizza il timbro formato da due registri, (il più basso “falsetto” e il più acuto di “testa”); le due voci sono assolutamente interconnesse, o migliorano o peggiorano insieme.

5.      VOCE   BIANCA
Nella fanciullezza, dall’età più tenera a quella della pubertà, la voce umana è identica per i maschi e per la femmine. La voce perde la sua natura debole e gracile, man mano che si cresce con l'età, quindi l’organo si rinforza e, giunta la  pubertà, si manifesta quel fenomeno che chiamiamo mutazione Dopo la mutazione della voce, si potrà cominciare uno studio serio del canto, nelle donne, dai 14 ai 16 anni, negli uomini, dai 17 ai 19.
Nelle donne la voce avrà conquistato la giusta consistenza, l'adeguato spessore, e l'esatta estensione anche se suscettibile di modifiche fino a trent'anni circa; ma nell’uomo subirà un cambiamento più completo, acquistando l'importanza maschile, ed essendosi abbassata di un’ottava.

Timbro, colore, vibrato

Il timbro rappresenta il colore che distingue un suono da un altro. Il timbro di un suono è dato dalla presenza di tanti altri  suoni particolari detti armonici, che si generano assieme al suono principale. Infatti ogni sorgente acustica che produce un suono, genera con esso, tanti altri suoni concomitanti o armonici dando a quel suono, un particolare colore. La voce umana si compone anche di due colori principali: colore chiaro e colore scuro e può avere diversi gradi di intensità e di volume.

Il vibrato è una sorta  di  rapido tremolo, caratterizzato dalla  variazione di esecuzione di una stessa nota, (aspetto tipico del canto lirico).  Il vibrato è tipico di alcune vocalità, ma bisogna controllarne la frequenza, dato che un uso eccessivo a volte è sintomatico di uno scarso  appoggio diaframmatico o di una scarsa tensione della muscolatura pelvica.



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GIUSEPPE VERDI

Giuseppe Verdi è stato il grande compositore italiano dell'Ottocento. Con uno stile vigoroso e passionale, Verdi compose delle opere che mettono in scena un grande spettacolo, ma anche i sentimenti più segreti dell'animo umano.

Giuseppe Verdi (ritratto di Giovanni Boldini, 1873)
Giuseppe Fortunino Francesco Verdi nasce a Roncole di Busseto, nel Ducato di Parma, il 10 ottobre 1813 da Luigia Uttini e Carlo Verdi, oste.



Giuseppe fin da bambino prende lezioni di musica dall'organista della chiesa, Pietro Baistrocchi, esercitandosi su una vecchia spinetta che gli ha regalato il padre. Gli studi musicali proseguono in maniera irregolare fino a quando Antonio Barezzi , commerciante, amante della musica e presidente della locale Filarmonica, affezionato alla famiglia Verdi e al piccolo Giuseppe, lo accoglie in casa sua, pagandogli studi più regolari e accademici. 

 

Aiutato da Barezzi, decide di iscriversi al Conservatorio di Milano. Non riesce tuttavia a superare l’esame di ammissione per "scorretta posizione della mano nel suonare e per raggiunti limiti di età" (ha 18 anni!). Non si dà per vinto e grazie a una borsa di studio e all’aiuto economico di Barezzi, comincia a frequentare il mondo della Scala prendendo lezioni private e assistendo alle rappresentazioni.



Nel 1836 rientra a Busseto come vincitore del concorso per Maestro di musica del Comune. Lo stesso anno sposa la figlia del suo benefattore, Margherita Barezzi , da cui ha due figli: Virginia e Icilio. Il lavoro fisso si rivela però d'intralcio al sogno milanese, tanto che Verdi decide di lasciare tutto e di tornare a Milano, questa volta con la famiglia. 

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Sulla vita di Verdi si intrecciano molti episodi leggendari ed altri realmente accaduti.



Verdi trascorse i suoi primi anni nella casetta a lato della chiesa parrocchiale dove imparò a servire all'altare, e a cantare i Vespri e le Messe nelle feste solenni. Il parroco, in ricambio gli faceva scuola; scuola che comprendeva anche i primi elementi di latino per il canto ed il servizio in Chiesa.



Nel territorio delle Roncole sorgeva allora il Santuario della Madonna dei Prati e un Oratorio con una Cappellina della B. V. della Pietà dove si tenevano le funzioni serali del mese Mariano allietate da canti alla Vergine in aperta campagna, nelle tepide serate di primavera. Il piccolo Verdi avrà sentito fermentare nell’anima, proprio in quei luoghi, la passione per la musica e per il canto.



Tra gli episodi sulla fanciullezza del musicista, uno racconta che il piccolo Verdi, un giorno, servendo all'altare, si era talmente distratto al suono dell'organo che non si accorse più di avere  le ampolle in mano per somministrare il vino al celebrante, il quale pensò di richiamarlo alla realtà dandogli uno spintone. Forse gli caddero le ampolle, forse inciampò, e cadde ruzzolando sui gradini dell’altare, picchiò la fronte e svenne. Una volta rianimato, non pianse; ma tanta fu la sua umiliazione.  Verdi, in seguito, raccontando l'episodio, confessò di aver gridato al prete, mentre ruzzolava, “Dio t’manda ‘na sajetta!”. E aggiungeva scherzosamente: «Ma poi quel prete fu castigato severamente, perché mori fulminato al Santuario pochi anni dopo». In realtà il sacerdote morì appunto fulminato il giorno 14 settembre 1828, durante il canto dei Vespri, per l’improvviso temporale che si scatenò sulla pianura padana, quando un fulmine colpì e  uccise due sacerdoti officianti e due persone di Roncole.



In Verdi sarebbe rimasta indelebile l’impressione della morte violenta del prete, come se si fosse realizzata  la fatale punizione invocata dalla maledizione del piccolo chierichetto.



(Da: Ferruccio Botti – GIUSEPPE VERDI – Ist. Missionario Pia Soc. San Paolo, 1941)

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Il primo Verdi 
Giuseppe Verdi incominciò la sua carriera imitando Bellini e Donizetti, ma manifestando fin dalle prime opere una personalità decisamente originale. 


Del 1839 è la rappresentazione al  Teatro alla Scala della sua prima opera, Oberto Conte di San Bonifacio è la sua prima opera, rappresentata con un discreto successo al Teatro alla Scala, successo offuscato irrimediabilmente dalla morte dei figli e poi di Margherita, a cui Verdi era legato da un profondo affetto. In quei giorni così tristi il Maestro porta tuttavia a compimento la commissione per un’opera comica Un giorno di regno, che si rivela un clamoroso fiasco. Verdi decide allora di non comporre più musica. 

 

E' un libretto, una storia che funziona, a fargli cambiare idea. L’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, gli fa leggere il Nabucco, di Temistocle Solera. Verdi rimane conquistato da una pagina di forte impatto lirico: “Va’ pensiero sull’ali dorate…”. E’ il canto appassionato e nostalgico degli Ebrei schiavi in Babilonia che ricordano i salici lungo le rive del Giordano e le “aure dolci del suolo natal”. In pochissimo tempo l’opera è pronta ed è trionfo (1842). Il coro ha un successo popolare strepitoso tanto da venir cantato e suonato perfino per le strade. In quell’anno Verdi conosce due donne importantissime nella sua vita: la soprano e pianista Giuseppina Strepponi (già amante del Merelli), che sarebbe diventata sua compagna e poi sua seconda moglie, e la contessa Clarina Maffei,  grazie alla quale gli si aprono le porte dei salotti milanesi. 




 "Va pensiero sull'ali dorate" (Coro degli schiavi ebrei, dal Nabucco) 

Va, pensiero, sull'ali dorate;
Va, ti posa sui clivi, sui colli,
Ove olezzano tepide e molli
L'aure dolci del suolo natal!

Del Giordano le rive saluta,
Di Sïonne le torri atterrate...
Oh mia patria sì bella e perduta!
Oh membranza sì cara e fatal!

Arpa d'or dei fatidici vati,
Perché muta dal salice pendi?
Le memorie nel petto riaccendi,
Ci favella del tempo che fu!

O simile di Solima ai fati
Traggi un suono di crudo lamento,
O t'ispiri il Signore un concento
Che ne infonda al patire virtù!

Iniziano anni di lavoro durissimo e indefesso, grazie alle continue richieste e al sempre poco tempo a disposizione per soddisfarle, anni che Verdi chiamerà "gli anni di galera". Dal 1842 al 1848 compone a ritmi serratissimi.  I Lombardi alla Prima Crociata (1843) è un altro successo, duramente censurato dal governo austriaco poiché, con il Nabucco, era stato letto in chiave patriottica dagli italiani. E poi, Ernani (1844), I due Foscari (1844),  Macbeth (1847), I Masnadieri (1847) e Luisa Miller (1849). In questo periodo si consolida la sua discussa relazione con Giuseppina Strepponi. Dopo Giovanna d’Arco (1845), Verdi si allontana dalla Scala e da Milano e si stabilisce a Parigi, dove per l’Opéra trasforma I Lombardi in Jérusalem (1847), confrontandosi con le esigenze ma anche con gli imponenti mezzi del grand opéra francese. 


 
Il secondo Verdi e la “trilogia popolare”  


Solo nel 1849 torna a Busseto insieme a Giuseppina. Molte le voci dissenzienti su questo rapporto (la soprano aveva avuto due figli dalla precedente relazione col Merelli) e sulla convivenza, poi ufficializzata con il matrimonio nel 1859. Nel 1851 è finalmente pronta la villa di Sant’Agata, a Villanova d’Arda, dove Verdi e Giuseppina si trasferiscono definitivamente: una dimora circondata da un grande parco, curato da Verdi stesso.
 

In questi anni, nella calma della pianura padana, Verdi scrive Rigoletto (1851),  Il Trovatore (1853), e  La Traviata (1853). Il successo è clamoroso. 
In Rigoletto, Il trovatore e La traviata (che costituiscono la cosiddetta “trilogia popolare”) egli approfondsce la psicologia dei personaggi, concentrando la sua attenzione sui protagonisti; di conseguenza la struttura tradizionale del melodramma viene da Verdi trasformata a seconda delle esigenze. Per esempio, in Rigoletto l’aria con cui di solito il cantante si presentava al pubblico manca del tutto, ed è sostituita da un recitativo, che più si presta alla descrizione del protagonista. Inoltre quest’ultimo è un baritono, mentre di solito nel melodramma il protagonista era un tenore.

Partitura musicale d'epoca di Rigoletto


Nel 1850, Verdi propone al poeta-librettista Francesco Maria Piave la sua intenzione di musicare un soggetto particolare, con personaggi che avevano già destato scandalo nella Parigi del 1832: Le Roi s’amuse di Victor Hugo. Ma la censura austriaca vieta di rappresentare un re come un cinico libertino. Il librettista e il compositore devono così accettare di apporre alcuni cambiamenti all’originale francese: il protagonista, Francesco I re di Francia, viene trasformato in un anonimo Duca di Mantova. Verdi però non vuole il duca come protagonista della sua opera, ma il suo buffone di corte. Di qui la scelta definitiva del titolo Rigoletto (dal francese Tribolet), cambiato sempre a causa della censura. 
 
 "Questa o quella per me pari sono"
(Vittorio Grigolo interpreta il Duca nel "Rigoletto a Mantova", 2015) 


La sera dell’11 marzo 1851 la prima al Teatro La Fenice di Venezia fu un grande successo. Intenso dramma di passione, tradimenti, amore paterno e filiale, Rigoletto è un’opera di mirabile ricchezza melodica e di grande potenza drammatica.

  "Veglia, o donna, questo fiore"
(Placido Domingo e Julia Novikova nel "Rigoletto a Mantova", 2015) 

Intensa – e nuova nel melodramma dell’Ottocento – la caratterizzazione psicologica dei personaggi, disegnati a tutto tondo mediante il canto, nell’intreccio del racconto teatrale. Nella partitura musicale, fin dal preludio, è presente il tema della maledizione, piuttosto frequente nelle opere verdiane.

   "Povero Rigoletto!... Cortigiani, vil razza dannata"
(Ingvar Wixell nel film "Rigoletto", 1982)

  "La donna è mobile"
(Mario Lanza interpreta il duca di Mantova nel film "Il Grande Caruso", 1951)


La Traviata è un'opera in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave. È basata su La signora delle camelie, opera teatrale di Alexandre Dumas (figlio).

Ritratto della giovane cortigiana che ispirò "La dame aux camelias" di A.Dumas figlio

La prima rappresentazione avvenne al Teatro La Fenice di Venezia nel 1853 ma, forse a causa del soggetto allora considerato scabroso, non ebbe il successo che Verdi si attendeva; fu ripresa l’anno successivo, ancora a Venezia, diretta dallo stesso compositore, e riscosse il meritato successo.

La Traviata - Il brindisi
(Kristine Opolais - Pavel Cernoch, Riga 2007) 

La Traviata - "Un dì felice, eterea..."
(Kristine Opolais - Pavel Cernoch, Riga 2007)

Il dramma lirico de La Traviata racconta la storia d'amore fra un giovane di onorata famiglia ed una cortigiana di dubbi costumi.
I pregiudizi sociali divideranno i due amanti, riuniti dalla verità e dall'amore poco tempo prima della morte di tisi di Violetta.


La Traviata - "E' strano... Sempre libera..."
(Svetla Vassileva, Parma 2007)


Annotazioni musicali sulla 'Traviata'
 
Due sono i cardini del dramma: amore e morte, e intorno a questi s'aggira l'ispirazione del musicista che forse non salì mai tanto in alto nell'esprimerne la pena e i tormenti.



La Traviata - Preludio atto I
(Concerto di capodanno a La Fenice di Venezia, 2013)

La morte è già negli estenuanti accordi con cui si apre il preludio. Il preludio comincia in Si minore e vi resta per sedici battute. Le restanti trentatré sono in Mi maggiore e anticipano, dilatandola, il leit-motiv dell'opera, quell’ "Amami, Alfredo" che compare nel secondo atto.
Il preludio disegna il ritratto della protagonista: la frivolezza della cortigiana è rappresentata dal controcanto lieve e frivolo dei violini, mentre la sofferenza amorosa della donna, che sacrifica la sua vita mondana per Alfredo, trova nel timbro dei violoncelli, una contrapposizione che rispecchia il contrasto interiore di Violetta: per questo autore il preludio è dunque il ritratto musicale della protagonista dell'opera.
Nel preludio la tonalità di Si minore rappresenta la morte, quella di Mi maggiore l’amore di Violetta, un’analogia che riflette l’intenzione originale di Verdi di intitolare l’opera Amore e Morte” (prima del parere negativo della censura). Nel II atto l’amore è rappresentato dalla tonalità di Fa maggiore (“Amami Alfredo”).
In Traviata è portante la tonalità di Fa maggiore, che rappresenta la tonalità delle scene d'amore. Tutti i punti salienti in cui emerge l’amore tra Alfredo e Violetta sono in questa tonalità: "Sempre Alfredo a voi pensa" (Gastone), "Un dì, felice, eterea" (Alfredo), "È strano..." "Ah, fors’è lui..." (Violetta) nel I Atto, "Più non esiste, or amo Alfredo..." e "Amami Alfredo" (Violetta) nel II Atto.


La Traviata - "Amami, Alfredo ..."
(Angela Gheorghiu - Franck Lopardo, Londra 2001)


Il terzo Verdi:  il 'Grand-Opéra"


Nel 1861 Verdi, chiamato all'impegno politico da Cavour, viene eletto deputato del primo Parlamento italiano e nel 1874 è nominato senatore. 
In questi anni compone  La forza del destino (1862), nel 1865 riscrive Macbeth per il teatro francese e per l’Opéra compone il  Don Carlos (1867). Nel 1862 compone, per l' Esposizione Universale di Londra, l'Inno delle Nazioni, su testo di Boito. 


Nel mese di gennaio 1861, Verdi riceve un invito dal teatro Imperiale di San Pietroburgo, per scrivere un’opera nuova che avrebbe dovuto debuttare nella stagione successiva. La fonte tematica è nel dramma spagnolo “Don Álvaro” o “La fuerza del sino” di Ángel Saavedra de Rivas (1835), dramma dalle complicate vicissitudini dei personaggi, rappresentate in un grande affresco dai toni epici.  F.M. Piave ne cura l’adattamento per la stesura del libretto.


 “La forza del destino” debutta a San Pietroburgo il 10 novembre del 1862, con un successo sensazionale. Verdi però non è totalmente soddisfatto del finale dell’opera, che termina con il suicidio di don Álvaro.  Ispirandosi al Manzoni - che ha conosciuto nel 1868 - decide di concludere la storia sul filo della rassegnazione cristiana: don Álvaro non maledice più il Cielo, ma accetta la volontà divina e il peso del suo destino. In questa versione, che inoltre si arricchisce con la celebre Sinfonia, “La forza del destino” viene rappresentata con successo nel 1869 nel Teatro alla Scala, dove il maestro aveva ottenuto i suoi primi successi.


La Forza del Destino - Sinfonia d'apertura
(Dir. Riccardo Chailly, Berlino, 1983)



“La vergine degli angeli”  è la preghiera in sol maggiore che conclude il II atto, ambientato nella chiesa del convento della Madonna degli Angeli, presso Hornachuelos, in Andalusìa.


La Vergine degli Angeli
vi copra del suo manto,
e voi protegga vigile
di Dio l’Angelo santo.

La Vergine degli Angeli
mi copra del suo manto,
e me protegga vigile
di Dio l’Angelo santo.

La Vergine degli Angeli
vi copra del suo manto,
e voi protegga vigile
l’Angiol di Dio.

È intonata prima dal coro dei frati, con le voci del Padre Guardiano (basso) e di fra Melitone (baritono) e accompagnata dai violoncelli, e poi da Leonora (soprano), accompagnata dall'arpa.

 "La Vergine degli Angeli - da "La Forza del Destino" (atto II)
(Leontyne Price e coro, 1984)


La scena della battaglia di Velletri, nel III atto de "La Forza del Destino"
  *     *     *

L’impegno successivo di Verdi è con l’Opéra di Parigi. In questa occasione (dopo aver sperato di lavorare al “Re Lear” di Shakespeare, progetto a cui tornava periodicamente senza concretizzarlo mai) decide di dedicarsi al “Don Carlos” di Shiller. Il libretto è dei francesi Joseph Méry e Camille Du Locle e si inscrive nel genere del grand-opéra, in cui i conflitti personali si intrecciano al grande affresco storico.


Qui il musicista riesce a ricreare l’atmosfera cupa della corte spagnola di Filippo II, dove i destini individuali dei protagonisti sono schiacciati dal peso del dovere, della ragione di Stato e della gerarchia sociale. Verdi, che si entusiasma all’argomento, si dedica con fervore alla composizione, ma alla fine l’opera risulta troppo lunga, persino per le dimensioni tradizionalmente colossali del grand-opéra francese. Verdi, consapevole che la lunghezza del Don Carlos ne avrebbe ostacolato la rappresentazione nei teatri italiani,  decide di rimaneggiare la partitura dell'opera. La nuova versione italiana andrà in scena nel 1884 nel Teatro alla Scala.


Don Carlos, Infante di Spagna, e il padre Re Filippo II  (ritratti)

E’ l'alba. Nella solitudine delle sue stanze,  re Filippo, come trasognato, medita sul fatto che la consorte Elisabetta non lo ha mai amato e sui tradimenti del figlio don Carlo; e pensa che solo nella tomba che lo accoglierà nei sotterranei dell’Escorial potrà ritrovare finalmente il sonno e la pace.

  "Ella giammai m'amò - da "Don Carlos"

(Ildar Abdrazakov nella parte di Filippo II, 2013)




Nel 1869, Verdi riceve dal Viceré d’Egitto, Ismail Pachà, l’incarico di comporre un’opera per celebrare solennemente l’inaugurazione del Canale di Suez. Per l’occasione, Isamil Pachà fece costruire il teatro dell’Opera del Cairo. Inizialmente Verdi rifiuta la proposta, ma quando esamina lo schema del libretto, con una storia d’amore ambientata nell’Antico Egitto, si lascia tentare e accetta di scrivere la musica. Il testo viene affidato al letterato Antonio Ghislanzoni, che segue fedelmente le indicazioni del compositore. Si crea una cornice spettacolare che ricorda la struttura del grand-opéra; al suo interno si scontrano le passioni individuali dei protagonisti. “Aida” debutta al Cairo il 24 dicembre del 1871. Il successo è straordinario, anche se alcuni critici sottolineano che nell’ “Aida” si fondono le nuove tendenze musicali con il persistere di stilemi tradizionali. A dire il vero, il linguaggio di Verdi si evolve pur nella sostanziale fedeltà allo stile classico italiano. 

"Celeste Aida" 
(Roberto Alagna nella parte di Radamés, 2006


In Aida l’ambiguità delle situazioni consente un profondo scavo psicologico, perché l’accento è posto non sui caratteri dei personaggi ma sulle situazioni ed i conflitti interiori che suscitano nell’animo dei protagonisti.
In tutta l’opera si dipana una serie di duetti (particolarmente intenso quello del III atto tra Aida e Amonasro, suo padre, che ripropone un luogo drammatico ricorrente nelle opere verdiane) concatenati fra loro da richiami tematici, e tutto è essenziale per lo sviluppo del dramma, compresi la marcia trionfale scandita dal suono delle trombe d'argento e il balletto del II atto. Il recitativo tradizionale è sostituito da un libero fluire di idee melodiche, e la parola scenica lega un tema all’altro, una sezione all’altra. I numerosi temi ricorrenti, come in nessun altra opera di Verdi, intessono una trama fitta di relazioni semantiche tra i vari atti e affidano all’orchestra una funzione narrativa, assumendo una rilevanza strutturale nell’articolazione drammatica e contribuendo a creare un’impressione di profonda unità.

  AIDA - Marcia trionfale e danze (atto II)
(Metropolitan, New York, 1989


  AIDA - "Rivedrai le foreste imbalsamate" (atto III)
(Aida: Leyla Gencer - Amonasro: G.Giacomo Guelfi)
Documento storico 1963 - Arena di Verona

 AIDA - "O terra addio"(atto IV)
(Aida: Dragana Radakovic - Radames: Kamen Chanev)
Timisoara (Romania), 2015

Una rappresentazione di "Aida" all'Arena di Verona


Dopo il successo di Aida, Verdi si ritirò per un lungo periodo dal teatro d'opera. Non smise tuttavia di comporre e il lavoro più importante di questo periodo è appunto la Messa di Requiem.  
In realtà egli pensava da tempo ad una composizione di questo tipo, tanto che nel 1869 aveva promosso l'organizzazione di una messa di requiem a più mani per la morte di Gioachino Rossini. 

L’idea di un Requiem per un grande italiano si sarebbe concretizzata con la morte di Alessandro Manzoni, verso il quale Verdi provò sempre una vera e propria venerazione. L’incontro con lo scrittore, avvenuto a Milano nei salotti di Clarina Maffei, fu per Verdi una delle esperienze più commoventi della sua vita e questo spiega il bisogno che sentiva di rendere omaggio alla sua memoria, con la “Messa da Requiem”. “È un impulso, o meglio, un bisogno del cuore che mi spinge a onorare, nella misura delle mie possibilità, questo Grande che ho stimato tanto come scrittore e che ho venerato tanto come uomo modello, di virtù e di patriottismo”. 

Il requiem fu eseguito in occasione del primo anniversario della morte di Manzoni, il 22 maggio 1874, nella Chiesa di San Marco a Milano. Fu diretto dallo stesso Verdi. Il successo fu enorme e la fama della composizione superò presto i confini nazionali.

Antica pagina di canto gregoriano con l'incipit del "Dies irae"
 Il Dies irae è una sequenza in lingua latina, attribuita a Tommaso da Celano. Sono in molti a ritenerla una composizione poetica medievale tra le più riuscite. Il testo descrive il giorno del giudizio, l'ultima tromba che raccoglie le anime davanti al trono di Dio, dove i buoni saranno salvati e i cattivi condannati al fuoco eterno.
Probabilmente l'ispirazione dell'inno è biblica, dalla versione latina del I libro del profeta  Sofonia  (vv. 15-16).                    

Dies irae, dies illa
solvet saeclum in favilla,
teste David cum Sybilla.

Quantus tremor est futurus,
quando judex est venturus,
cuncta stricte discussurus.

Tuba mirum spargens sonum
per sepulchra regionum,
coget omnes ante thronum.

Giorno d'ira sarà quel giorno
il fuoco distruggerà il mondo,
lo dissero Davide e la Sibilla.

Quanto terrore ci sarà,
quando verrà il giudice,
per giudicare tutti severamente.

Una tromba che diffonderà un suono mirabile
per i sepolcreti del mondo,
chiamerà tutti davanti al trono.


Verdi - Messa di Requiem - Dies irae
(Dir. Daniel Barenboim, 2013 )

L’ultimo Verdi
Verdi si trova all’apice della sua fama, anche se a volte è il bersaglio delle nuove generazioni che aspirano a una musica italiana rinnovata, che entri in contatto con le correnti più avanzate della cultura europea, in generale, e con Wagner in particolare. Mentre in Germania Wagner stava rivoluzionando il melodramma in una direzione del tutto particolare (vedi, più avanti, l'articolo "Richard Wagner e l'Opera tedesca"), Verdi decise di portare avanti una sua riforma personale del teatro d'opera, che culminerà nella composizione di Otello e Falstaff

Intanto Verdi trova anche il modo e il tempo di dedicarsi agli altri, di pensare a chi ha più bisogno: nel 1888 inaugura un ospedale a Villanova D’Arda, da lui interamente finanziato, e  compra il terreno per costruire quella che ancora oggi è la Casa di Riposo per musicisti,  la sua "opera più bella", dirà, terminata nel 1899 ma chiusa finché Verdi, che non desidera essere ringraziato da nessuno, è in vita.

Nel 1887, a poco meno di ottant'anni, scrive Otello, confrontandosi ancora una volta con Shakespeare. Nel 1893 dà l’addio al teatro con la sua unica opera comica, il FalstaffIn queste opere Verdi elimina la distinzione tradizionale tra arie (cioè momenti lirici, melodici, cantabili) e recitativi (cioè momenti d’azione, in cui la linea musicale si avvicina molto al parlato). 

In Otello, rispetto alle altre opere verdiane, i collegamenti tra i singoli episodi non avvengono più per cesure nette, ma il tessuto musicale appare in continua evoluzione, anche grazie al sapiente uso dell'orchestra, che viene a costituire una sorta di substrato unificante. Nei passaggi tra le singole scene, Verdi elabora i materiali tematici in modo da creare transizioni impeccabili, come nel duetto d'amore ("Già nella notte densa...") che chiude il primo atto. Allo stesso modo, alcuni brani a struttura apparentemente chiusa evolvono inaspettatamente in passaggi dialogici, come nel caso del celebre "Credo" di Jago. L'abilità verdiana a giocare con le convenzioni, evocandole per stravolgerle, è testimoniata anche dal brano con cui Otello si presenta in scena, poco dopo l'inizio dell'opera: il famoso "Esultate!", che costituisce quasi una minuscola cavatina di sole 12 battute.
È sera, infuria un violento temporale. Gli ufficiali, i soldati e il popolo di Cipro assistono atterriti al difficile attracco della nave di Otello, il generale dell'Armata Veneta.  Dagli spalti si leva al cielo un'accorata invocazione: 

 Dio, fulgor della bufera!
Dio, sorriso della duna!
Salva l'arca e la bandiera
della veneta fortuna!
Tu, che reggi gli astri e il Fato!
Tu, che imperi al mondo e al ciel!
Fa che in fondo al mar placato
posi l'àncora fedel.


La nave raggiunge finalmente il porto. Appena messo piede a terra, il Moro proclama la sua vittoria contro il nemico musulmano:
 
Esultate! L'orgoglio musulmano sepolto è in mar;
nostra e del ciel è gloria!
Dopo l'armi lo vinse l'uragano.

 L' "Esultate" di Mario Del Monaco
nell'Otello televisivo di F. Enriquez (1958)

Dopo la tempesta in mare e un improvviso tumulto scoppiato nel cuore della sera festosa, per i subdoli incitamenti di Jago alla rissa, Otello interviene per placare gli animi.  Poi rimane solo con Desdemona.  Lei lo condurrà, per le vie del "ricordare insieme", nelle atmosfere incantate in cui "si estingue ogni clamor" e le anime si fondono nell'estasi d'amore.

"Già nella notte densa..." - duetto finale atto I
  (Placido Domingo nella parte di Otello - Barbara Frittoli nella parte di Desdemona)


Otello è l'opera in cui Verdi è riuscito a scavare più in profondità nella psiche umana. Il compositore si concentra sull'evoluzione dei sentimenti del Moro, generale al servizio della Repubblica veneziana. Otello nei confronti della moglie Desdemona, che passano dall'amore sconfinato alla gelosia mortale. A scatenare la follia di Otello è il suo alfiere Jago, risentito nei suoi confronti per avergli preferito Cassio per la promozione al grado di capitano. Un fondamentale cambiamento rispetto a Shakespeare è che la figura di Jago, nell'opera di Verdi assume un’importanza molto maggiore. Nell'opera egli diventa la personificazione stessa del Male, una figura satanica che prova gioia nel distruggere il Bene.


Il grande, demoniaco, Credo, scritto da Boito in versi sciolti, ci presenta Jago come «un malvagio  senza ragione ma come conseguenza naturale del suo esistere».  Nel Credo Iago viene presentato come un personaggio diabolico. Jago - che Verdi aveva destinato a essere il protagonista dell’opera -  è musicalmente quasi il personaggio principale. II carattere di Jago ci appare nella sua piena nudità in un monologo di intensa introspezione: «Credo in un Dio crudel, che m’ha creato simile a sé, e che nell’ira io nomo». 

"Credo" atto II
  (Tito Gobbi nella parte di Jago)


Otello, per il quale è sacro il vincolo dell’amicizia, ripone piena fiducia nei suoi due amici, Cassio e Jago, tanto da non accorgersi del doppio gioco di quest’ultimo. Ciò dimostra anche l’ingenuità disarmata di Otello di fronte agli infingimenti e alla fatale macchinazione di Jago.

"Ciò m'accora" atto II
  (Tito Gobbi nella parte di Jago, Mario Del Monaco nella parte di Otello)
(documento storico: live, Tokyo, 1959)



Desdemona è un agnello sacrificale, vittima inconsapevole del suo eroe brutalizzato dal veleno demoniaco di Iago.Nel quarto atto la tragedia esplode in tutta la sua violenza. Desdemona tuttavia continua a nutrire fiducia:il suo uomo l’ha maltrattata e vilipesa perché oppresso dalle difficoltose strategie militari. Neppure la sfiora il pensiero che il disastro sia stato causato dalla malvagità. Desdemona non è soltanto l’espressione della purezza personale, ma è soprattutto la personificazione dell’amore, che non può e non sa vedere il male. Di questo si ha prova nella stupenda Ave Maria, dove l’eterea fiducia palesa profondi sentimenti religiosi. L’Ave Maria di Desdemona è preghiera di fede. Una preghiera che dissipa le spaventose nubi dell’atto precedente, grevi di violenza e rabbia; una preghiera accompagnata da autentica armonia divina, che, senza rispettare schemi convenzionali, trasporta l’orante in un’atmosfera di completa libertà e amore. L’amplissimo repertorio lessicale del Boito qui si frena e presenta una preghiera di straordinaria semplicità e delicatezza: 
 
Ave Maria,

piena di grazia, eletta

fra le spose e le vergini sei tu;

sia benedetto il frutto,

o benedetta,

di tue materne viscere, Gesù.

Prega per chi adorando a te si prostra,

prega pel peccator, per l’innocente,

e pel debole oppresso e pel possente,

misero anch’esso, tua pietà dimostra.

Prega per chi sotto l’oltraggio piega la fronte,

e sotto la malvagia sorte;

per noi tu prega sempre

nell’ora della morte.

 
"Ave Maria" atto IV
  (Ainhoa Arteta nella parte di Desdemona, 2010)

Come in tutte le grandi tragedie, rese ancor più vicine a noi dall’immediatezza musicale e dalla semplificazione teatrale, Otello abbatte ed insieme esalta. Ciò che alla fine resta, nonostante il terrificante corso degli avvenimenti, è un senso di elevatezza d’animo, di grande dignità dell’uomo che soffre. L’Ave Maria costituisce l’invocazione alla Madre che ha raccolto in sé tutta la sofferenza umana, e la presenta al trono dell’Altissimo. Il "prega per noi", ripetuto quattro volte con intensità crescente, indica la gratuità dell’amore che entra  nella nostra vita. L’odio esiste, non viene meno, e nella tragedia, come nell’opera, Jago non perisce; periscono Otello e Desdemona, ma per entrambi splende la luce dell’amore come garanzia della capacità della coscienza di risorgere e avviarsi sul cammino della pace.
 
L'atto finale, dopo la malinco­nica Canzone del salice e l'Ave Maria, vede Otello, omici­da di Desdemona, scoprire la verità dalla bocca di Emilia e uccidersi sotto gli occhi di tutti, in preda a una nobile ma ormai rasse­gnata disperazione finale. 

 "Niun mi tema!" Finale atto IV
  (Mario del Monaco nella parte di Otello, nel film "G. Verdi" di R. Matarazzo, 1953)
 
Racchiuso in una partitura che oscilla tra l'estrema violenza e una malinconica dol­cezza, lo scintillante linguaggio musicale di Verdi è, in Otello, tutto impregnato di vita scenica; il trattamento del recitativo, fatto oggetto di ogni possibile inflessione da par­te di voci e strumenti si congiunge con un reticolo d'intrecci, citazioni, esitazioni e tra­salimenti del formicolante tessuto orche­strale, e giunge così al perfetto connubio tra vocalità e strumentalità, traguardo fina­le della genialità verdiana.

Francesco Tamagno, primo interprete di "Otello"

Mario Del Monaco, il più noto interprete di "Otello" del Novecento

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Un Verdi quasi ottantenne esprime il desiderio, coltivato da più di quarant’anni, di comporre un’opera comica, e pensa a Le allegre comari di Windsor di Shakespeare.
Ecco quindi che nel 1889 Arrigo Boito inizia a lavorare al libretto di Falstaff (personaggio apparso per la prima volta nell'Enrico IV dello stesso Shakespeare, e poi nelle Allegre Comari). Verdi inizia a musicare l’opera quasi per passatempo, in atteggiamento di totale libertà. Lavora in modo spensierato ma meticoloso e nel 1892 può pubblicarne la partitura. Il 9 febbraio 1893 si ha la prima alla Scala di Milano. Il pubblico è quello delle grandi occasioni, ma questa volta si tratta di un pubblico d’eccezione che vede tra gli spettatori personalità del mondo della cultura come, tra gli altri, Carducci, Giacosa, Puccini e Mascagni. 

In Falstaff, Verdi e Boito raggiungono una sapiente fusione tra il mondo fiabesco e quello comico, in modo che l' esistenza sveli i suoi lati più seri e profondi in un quadro incantato e sorridente. 
È soprattutto nella condizione dell'ambivalenza di tragico e comico, dei limiti fluttuanti di queste due forme del genere drammatico che l'anziano Verdi si avvicinò a Shakespeare.  Fin dai primi tempi il genio drammatico di Shakespeare aveva costituito per Verdi l'ideale al quale si era orientata la sua attività compositiva e si erano formate le sue idee sull'opera d'arte teatrale. Verdi coronava ora con una commedia musicale la sua immensa produzione, che era stata espressione di una tragica visione del mondo, con tutte le sue vette e i suoi abissi.
L'eccezionalità di Falstaff è data dal fatto che la sua schiacciante serenità non è mai caratterizzata da un ottimismo piatto e spensierato, ma appare invece come il rovescio del tragico, con cui si lega indissolubilmente.
La musica di Falstaff si distingue per ricchezza d'inventiva, brio e per un accento di giovanile freschezza, e al tempo stesso per una straordinaria maturità tecnica e maestria compositiva.
Da ogni battuta di questa partitura trapela l'immensa esperienza artistica di un compositore che per tutta una vita aveva vagliato le potenzialità teatrali del linguaggio musicale; ma d'altra parte Falstaff porta anche tutti i segni della novità assoluta, rappresentando nella produzione verdiana e quindi nella storia dell'opera comica italiana un inizio nuovo, quasi privo di premesse storiche.
È un caso unico e senza paragone nella storia della musica: la creazione di un nuovo stile non riusciva qui per un intervento di giovanile audacia, ma si poneva come il risultato di un'altissima maturità umana ed artistica, e per questo come una creazione di straordinaria compiutezza.

Al centro dell'opera sta il grasso cavaliere Sir John Falstaff, che non è affatto una figura comica; non è solo il cavaliere decaduto del declinante Medioevo che, ridottosi ormai a vivente anacronismo, tenta di condurre un'esistenza parassitaria a carico dei borghesi arricchiti, ma è anche un filosofo dalla tragica saggezza, che è consapevole delle dubbiezze della vita e della sostanziale debolezza delle nozioni etiche convenzionali  (Il vostro Onor!... Che é dunque? Una parola. Che c'é in questa parola? C'é dell'aria che vola...)
        
"Falstaff - "L'onore! Ladri!" dall'atto I
  (Tito Gobbi nella parte di Fastaff, 1970)

In questa ultima opera Verdi, il grande tragico del teatro musicale, volle far proprio un atteggiamento di ridente superiorità, che intende l'intera vita come una commedia e la risata come l'ultima risorsa del saggio. E il vecchio Sir John, alla fine, con ironia superiore e filosofia sorridente ravvisa nella follia una prerogativa universale: "Tutto nel mondo è burla, l'uom è nato burlone, nel suo cervello ciurla sempre la sua ragione".

 "Falstaff - "Tutto nel mondo è burla!" Finale 
  (Paul Pliska nella parte di Fastaff, 2010)


Tito Gobbi, un celebre Falstaff

Falstaff fu l’ultima opera composta da Giuseppe Verdi.
Quattro anni dopo la prima del Falstaff muore Giuseppina Strepponi.
Nella tarda maturità, Verdi compone  quattro pezzi sacri pubblicati nel 1898:  Stabat Mater, Laudi alla Vergine e Te Deum.
Verdi si spegne il 27 gennaio 1901.  E' al “Grand Hotel et De Milan”, in un appartamento dove era solito alloggiare durante l'inverno. Colto da malore spira dopo sei giorni di agonia, giorni in cui le strade di Milano sono state cosparse di paglia perché il rumore degli zoccoli dei cavalli non disturbi gli ultimi giorni del Maestro. I suoi funerali si svolgono come aveva chiesto, senza sfarzo né musica, semplici come era sempre stata la sua vita. Una folla silenziosa segue il feretro. Un mese dopo i corpi di Verdi e della Strepponi vengono portati alla Casa di Riposo per Musicisti.
Arturo Toscanini in testa all’orchestra della Scala e ad un coro di ottocento persone disposte sulla gradinata, intona il “Va pensiero” del Nabucco. E’ l'addio dell'Italia al ‘Cigno di Busseto’.

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Richard Wagner e l’Opera tedesca

Richard Wagner (ritratto di G. Tivoli)
Richard Wagner rivoluzionò l'opera lirica nella seconda metà dell'Ottocento dal Der fliegende Holländer del 1843 al Parsifal del 1882, con al centro le quattro opere del famoso Ring des Nibelungen (1869-1876). Wagner combinava insieme la musica, il teatro, la poesia e la regia in quello che egli chiamava "dramma in musica", nel quale anche l'orchestra era protagonista. Wagner ha creato il leitmotiv, ovvero una specifica frase musicale associata a un personaggio, a un evento o a un'idea.
La carriera di Wagner (Lipsia 1813 – Venezia 1883) fu meno prudente di quella di Verdi, che rinnovò l’opera e riuscì a cambiare i gusti del pubblico italiano poco per volta. Intenzionato a rivoluzionare il melodramma, Wagner stentò inizialmente a trovare ascolto e incominciò a riscuotere interesse solo abbastanza tardi.
L’ideale di Wagner era quello di creare l’opera d’arte totale, cioè un’opera in cui fossero presenti tutte le arti: la musica, la poesia, il teatro. Wagner scriveva quindi i propri libretti, li musicava e si occupava della messa in scena, come un moderno regista.
Le innovazioni teatrali di Wagner riguardano la disposizione dell’orchestra e il comportamento del pubblico. A questo scopo Wagner si fece addirittura costruire un teatro apposito, a Bayreuth, diverso da tutti gli altri: egli fu infatti il primo a nascondere l’orchestra, sistemandola sotto il palcoscenico (nel cosiddetto golfo mistico) poiché trovava insopportabile che, accanto a un cantante in abiti antichi, vi fosse un violinista o un direttore d’orchestra in abiti moderni.
Wagner fu il primo a pretendere che in sala, durante l’esecuzione, vi fosse assoluto silenzio. Tradizionalmente infatti nei teatri si andava anche per chiacchierare, per incontrare gli amici, e durante la rappresentazione era normale girare tra i palchi, parlare ad alta voce, addirittura mangiare. Per Wagner tutto questo era assolutamente inconcepibile: il pubblico doveva partecipare alla rappresentazione, concentrarsi sul palcoscenico (per questo venivano spente le luci in sala), rimanere in silenzio come di fronte a un rito.
Wagner apportò grandi cambiamenti anche alla struttura musicale dell’opera. Vediamo brevemente i principali.
Il melodramma tradizionale si basava su episodi separati l’uno dall'altro  prima un’aria, poi un recitativo, poi un’altra aria ecc. Wagner decise invece di creare delle melodie infinite, cioè aperte a continui sviluppi, senza interruzioni tra un episodio e l’altro. Wagner arricchì di molti strumenti l’orchestra e le attribuì particolare importanza: essa non doveva più semplicemente accompagnare i cantanti, dato che la voce era considerata solo uno strumento fra i tanti, per quanto importante.
Wagner inserì poi nelle sue opere i cosiddetti leit-motive: si tratti di melodie abbinate a un personaggio, a un tema o a una situazione, che ritornano ogni volta che compare quel personaggio, quel tema o quella situazione.


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L'Ottocento, il secolo d'oro dell'opera in Europa
La Russia e l'Europa dell'Est svilupparono una loro tradizione, ispirata alla storia (Boris Godounov,Moussorgski, 1874) o alla loro letteratura nazionale (Eugène Onéguine, Tchaïkovski, 1879). In Francia fiorì « le grand opéra » che mescola grandi effetti scenici, azione e balletto. Anche il genere più leggero dell'opéra comique (opera comica) aveva molto successo. Esso comprendeva dei dialoghi parlati e, malgrado il nome, presentava a volte dei temi tragici come nella Carmen di Bizet (1875).


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TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

Sullo scorcio dell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento i maggiori compositori di melodrammi furono: Pietro Mascagni, Ruggero Leoncavallo, Umberto Giordano, Francesco Cilea, e soprattutto Giacomo Puccini.
Puccini è stato l'ultimo grande compositore italiano, autore di dodici opere liriche, tra cui Manon Lescaut (1893), La Bohéme (1896), Tosca (1900), Madame Butterfly (1904) e Turandot (1926).

L’Opera nel Novecento
I librettisti di questo periodo prendono spunto dal romanticismo d'oltralpe; dalla scapigliatura (tra i più noti Arrigo Boito); dal naturalismo francese di Émile Zola; dal verismo di Verga. I soggetti e il linguaggio sono quelli della vita quotidiana, nella riproduzione della quale gli spettatori possano identificarsi. L'opera verista è caratterizzata da una passionalità drammatica e straziante, da storie truculente di intrighi familiari e gelosie. Si hanno anche opere con soggetti storici o esotici. Nei libretti, lo sperimentalismo si fa sempre più forte: la metrica è assolutamente flessibile, e mutante.
Dal punto di vista musicale la struttura dell’Opera è estremamente scorrevole, le arie sono concise, i periodi melodici spesso interrotti. La vocalità è stentorea e spinta, le note acute vengono prese di scatto e spesso subito interrotte, per ottenere un effetto più naturalistico, più vicino al parlato. Notevole è l'impiego delle masse orchestrali, spesso dedite a far traspirare melodie esotiche o dal colore locale (in questa tendenza si nota molto l'influsso di opere francesi, come la Carmen di Bizet).
Tra i melodrammi di autori stranieri del Novecento, sono notevoli Pelléas et Mélisande di Debussy (1902), Salomé di Strauss (1905), e La Piccola Volpe Astuta di Janáček (1924). E ancora le opere fosche di Alban Berg (Wozzeck, 1925), che si contrappongono alle opere ispirate al jazz e alla musica popolare di Kurt Weill (L’Opera da tre soldi, 1928)  e le opere tradizionali di Benjamin Britten (Peter Grimes, 1945), e l’opera-musical di Leonard Bernstein (West Side Story, 1957).