OASI 2025
Anno Sociale 2024-25
I
(7 - 14 - 21 ottobre 2024)
Il nostro lungo ‘secolo breve’
Il Novecento è stato definito "il secolo “breve” (E. Hobsbawm, 2011), quello della nascita del villaggio globale, il secolo che avrebbe segnato la fine della storia, di quella storia che gli antichi chiamavano “magistra vitae" e da cui, nel suo svolgersi, non sembra che l'uomo abbia imparato molto. Se leggiamo Erodoto e Tucidide, o Livio e Tacito, ci rendiamo conto che i motori che spingono l'agire dell'umanità sono da sempre gli stessi: il desiderio, l'avidità e la sete di potere, le invidie e le gelosie, l'odio, la crudeltà... Rispetto ai secoli lontani, è mutata solo la tecnologia: oggi disponiamo di potenti strumenti di distruzione di massa, ma l'homo sapiens è rimasto sempre lo stesso.
Il XX secolo è stato forse il più terribile della storia: due guerre mondiali, due dittature che hanno provocato lo sterminio di milioni di persone, lo stalinismo russo, la Shoà del popolo ebraico, l'atomica su Hiroshima e Nagasaki, il Vietnam, i perenni focolai di guerra nel vicino Oriente, l'avanzata della Cina e dell'India, lo smacco delle Torri gemelle e il tramonto del sogno americano... Eppure, anche negli ultimi cento anni del primo millennio dell'era cristiana, la gracile pianticella uomo non è appassita, non è stata strappata o annientata: si è piegata quando il vento soffiava più violento e terribile: poi, con determinata ostinazione, è tornata a sollevare la testa.
Nel primo ciclo di incontri all'OASI di quest'anno', con "RIFLESSI DEL NOVECENTO. Il nostro lungo secolo breve'", sulla traccia degli eventi che ne hanno caratterizzato il periodo, abbiamo provato a ripercorrere la memoria del tempo attraverso i risvolti della cultura, dell'arte, della letteratura e del cinema, della scienza e della tecnologia, della moda e del costume, dello sport e dello spettacolo ... Su questi scenari, tornando a incontrare i personaggi-icona dell'immaginario collettivo (come Sartre, Calvino, Beckett , Fo, Marcuse, Eco, Popper, Sturzo, Moro, Hitchkook, Fellini, Pacelli, Woitjla, Caruso, Callas, Bongiorno, ...), lasciando parlare i fatti e i protagonisti, abbiamo offerto alla nostra riflessione lo spazio 'storico' per comprendere e giudicare che cosa sia stato il secolo di cui noi siamo figli.
Perchè tutte le vite - quelle generose o infami, quelle dei giganti o delle semplici comparse - tutte hanno voce per raccontare le loro storie, filigrane del dramma di ideologie che hanno marcato il destino di milioni di persone, ma anche della passione di esseri eccezionali che hanno speso la vita per il progresso e il bene dell’umanità. In quelle storie, troveremo le idee, le illusioni, i successi che hanno fatto la 'storia' del Novecento, un secolo "lungo e breve", come un labirinto dal quale tocca oggi a noi - e soltanto a noi - cercare l’uscita, o rileggere il passato per ravivare la progettualità del futuro con la famma della speranza.
E’ l’economia la forza motrice della vita politica dello scorcio dell’Ottocento, dominato da un forte sviluppo della grande industria che determina una crescente competizione economica tra le potenze per il controllo dei mercati; dall’intensificarsi dell’espansione coloniale che scatena pericolosi imperialismi; dall’affermazione dei partiti popolari e dei sindacati in cui convergono le masse popolari sempre più coscienti del loro peso sociale e dei loro diritti.
Lo sviluppo della grande industria diventa l’asse portante di tutta l’economia europea: le nuove fonti di energia, la rapidità dei mezzi di comunicazione, i primi esperimenti di volo, il telefono, il cinematografo, le conquiste della tecnica applicate al mondo della produzione.
In Germania, la politica del cancelliere Bismarck favorisce lo sviluppo industriale con la produzione dell’acciaio e delle armi, ed è in questa forza economica che si consolidano i principi di nazionalismo e di competizione.
In Inghilterra lo sviluppo industriale è all’avanguardia e la sua politica liberale assicura ampi riconoscimenti dei diritti dei lavoratori ma anche una incontrastata supremazia nel controllo dei mercati europei.
La Francia e l’Italia sono impegnati, dopo le vicende del 1870, a ristabilire la loro politica interna.
La Francia, riaffermando i principi liberali della tradizione repubblicana con la Terza Repubblica, si adopera con un grande sforzo per il riassetto economico nel settore industriale, tanto da poter poi competere con le altre potenze.
In Italia, nel programma del governo della sinistra, che ha preso il potere dal 1876, è contemplato un impulso all’industrializzazione, come svolta verso la modernità nel campo dell’economia. Purtroppo per incoraggiare le industrie è necessaria una politica protezionistica che scoraggi l’introduzione di prodotti stranieri e un aiuto da parte dello Stato. Tutto ciò favorisce il Nord ma accresce le discordanze con il Sud che presenta ancora una misera agricoltura, e lotta con la disoccupazione e la fame. Nasce così il fenomeno dell’emigrazione verso le Americhe dove gli Stati Uniti, fortissimi economicamente, offrono lavoro alla mano d’opera dei più poveri paesi europei.
La forte crescita economica che caratterizzò questi anni fece emergere il bisogno di nuove fonti di materie prime e di più ampi mercati, nonché la smodata ambizione di possedimenti territoriali. Le Nazioni intrapresero infatti una vera e propria gara espansionistica per affermare il proprio prestigio e la propria potenza contraffatti nelle sembianze di “missioni di civiltà” Questa gara si trasformerà ben presto in aperta rivalità tra gli Stati.
L’avventura imperialista interessò tutte le grandi potenze mondiali, frutto anche di un sentimento nazionalista sempre più esasperato, spesso accompagnato da pericolose teorie di superiorità e inferiorità razziale. Furono conquiste che richiesero guerre, sacrifici, massacri.
Anche l’Italia fu coinvolta nelle conquiste coloniali, non sempre con fortuna, dall’acceso nazionalismo del governo Crispi e poi del governo Giolitti.
Dalle trasformazioni della vita sociale intervenute con la rivoluzione industriale nacquero le idee portanti del socialismo, nel quale il proletariato urbano aveva trovato la sua più chiara espressione politica. Il partito socialista si era affermato in tutti i paesi europei, dove i lavoratori avevano potuto acquisire consapevolezza dei loro diritti all’interno della società industriale. Quando si manifestò la forte impennata dell’economia con l’ascesa dell’industria in seguito al colonialismo, si intensificarono i problemi relativi all’affollamento delle città, agli estenuanti orari di lavoro, all’esiguità dei salari, alla mancanza di assistenza, e alle inevitabili tensioni con la classe padronale. La “questione sociale” (1892-93) divenne un problema talmente scottante che anche la Chiesa fece sentire la sua voce attraverso l’enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII, in cui fu riconosciuta la legittimità delle lotte operaie per la difesa delle condizioni di lavoro. Rimanevano tuttavia fuori da ogni conquista sociale le popolazioni rurali e contadine
La Letteratura
Ma è proprio in questo periodo che cominciano ad affiorare, nell’universo letterario, dubbi, turbamenti, incertezze. La natura ritorna a popolarsi di mistero, dietro ai fenomeni che la scienza spiega e la tecnica domina sembra esserci qualcos’altro, di immotivato, di arbitrario, di inconoscibile: catastrofi imprevedibili, vicende cosmiche, fatti complessi e straordinari della vita umana e animale, la morte. Negli scritti di Rimbaud, Mallarmé, Pascoli, D’Annunzio serpeggia una polemica più o meno evidente contro una civiltà che pretende di sapere tutto e a quella rivelazione si contrappone un’inquietudine, un’angoscia che colpisce l’uomo quando getta uno sguardo al di là delle troppo superficiali spiegazioni della scienza, nel mistero di sé, dei propri sensi, dei propri sentimenti, o nella natura che lo circonda, da quella esotica a quella cosmica a quella più semplice delle più domestiche e familiari campagne o infine, in quello della storia dove vicende e personaggi appaiono coinvolti nelle stesse ambiguità, nello stesso alone di ombra e di incertezza. La letteratura viene considerata allora uno strumento molto più importante della scienza per conoscere la condizione dell’uomo, la sua natura, la sua storia e per rispondere alle domande sull’esistenza umana e sul destino delle civiltà. La letteratura si rivela uno strumento molto più acuto della scienza. I mezzi che adopera non sono oggettivi e razionali, ma quelli della sensibilità, dell’intuizione che fanno cogliere analogie, legami segreti fra situazioni, vicende, fatti, oggetti apparentemente lontani e diversi. L’universo non è impenetrabile e dominabile dalla ragione scientifica ma è un’enorme compagine di simboli, che soltanto la letteratura sa leggere, per mezzo di facoltà irrazionali e la parola. La letteratura in particolare, a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, non accetta più un modo d’arte strettamente legato con la fiducia nella conoscibilità del reale, e Freud offre i fondamenti per quell’indagine dell’interiorità dell’uomo che diventerà il tema essenziale della letteratura del nuovo secolo.
La narrativa si risolve dunque nell’analisi interiore dei personaggi. L’unica realtà è quella che si esperimenta nell’intimo e gli oggetti, la natura, i fatti non sono considerati se non in quanto suscitano reazioni nell’interiorità dell’uomo, lo modificano, lo colpiscono. La coscienza o la memoria sono le uniche misure del mondo. Lo scrittore rappresenta l’uomo in crisi angosciato, solo, privo o incapace di contatti autentici con la realtà (Svevo). La protesta contro la civiltà borghese che appare sinonimo di volgarità, ottusità, materialista è compiuta in nome dell’arte come supremo valore contro il denaro e l’interesse (D’Annunzio), o dell’eroe solitario - il superuomo di Nietzsche - che opera al di fuori di ogni rapporto o legame sociale con altri uomini.
(Maria Tallerico)
Proprio in quell’anno, nel 1937, si era aperta a Parigi, in un’atmosfera tesa e politicamente instabile, la grande Esposizione Internazionale. Picasso aveva già accettato l’incarico di realizzare un dipinto murale per il padiglione spagnolo, voluto dal governo repubblicano impegnato nella guerra civile. Quando si diffusero la notizia del bombardamento e, soprattutto, le prime drammatiche fotografie del massacro, l’artista decise di cambiare il soggetto dell’opera. Così dipinse la tela di Guernica, con un febbrile lavoro durato poche settimane, facendo precedere la versione definitiva da un centinaio di studi preparatori (dei quali solo quarantacinque si sono conservati) e da ben sei versioni consecutive.
Spedita nel 1939 a New York per esplicito volere dell’artista, Guernica rimase in America quarant’anni; Picasso, infatti, richiese che il quadro fosse inviato in Spagna solo al ripristino della democrazia. Nel 1981, dopo la morte di Francisco Franco, e valutando che tali condizioni fossero pienamente soddisfatte, gli eredi del pittore autorizzarono il trasferimento dell’opera a Madrid. Picasso avrebbe tanto voluto che Guernica venisse esposta al Prado, ma in quel museo non c’era spazio sufficiente. Per questo, l’opera si trova oggi al Reina Sofia, in una sala ad essa dedicata.
Guernica è sicuramente una delle opere più conosciute e commentate degli ultimi 100 anni. La prima monografia è contemporanea alla sua realizzazione, una delle ultime è stata pubblicata nel 2017, in occasione del suo ottantesimo anniversario. Attualmente il quadro è esposto a Madrid, al museo Reina Sofia, in una sala dedicata.

Pablo Picasso, Guernica, 1937 - Tempera su tela, 3,51 x 7,82 m. Madrid, Centro de Arte Reina Sofia.
La scena può essere divisa in tre parti: al centro un triangolo che ha come vertice la figura a mandorla e due ali a destra e sinistra.
Il triangolo contiene il cavallo e il combattente morto a terra, la zona a destra due donne e una figura avvolta dalle fiamme, la zona a sinistra un toro e una madre disperata e nel buio un uccello .
Siamo in uno spazio aperto, una piazza; a destra e sullo sfondo vediamo degli edifici. La scena è colta in orizzontale, la prospettiva è scarsa, vediamo contemporaneamente tutte le figure e gli ambienti.
Ciò corrisponde alla poetica cubista, anche se il periodo cubista di Picasso è molto precedente. Coerente con la poetica cubista è anche la frantumazione dei corpi nel triangolo centrale, che è comunque anche pertinente al tema ( bombardamento e quindi corpi fatti a pezzi ). Mancano però le spigolosità tipiche del cubismo, sostituite da linee più morbide, arrotondate.
Leggiamo il quadro da destra a sinistra, seguendo la direzione del movimento dei corpi.
A destra abbiamo una figura in una casa incendiata, che alza disperata le braccia al cielo invocando aiuto. Poi due figure femminili, la prima sporge testa e braccio da una finestra, la seconda fugge da una casa.
Al centro in alto una figura a forma di mandorla con una lampadina al centro. Un cavallo agonizzante, collo teso e bocca aperta in un urlo di dolore. In basso un combattente morto con una spada spezzata stretta nella mano destra.
A sinistra una madre disperata, con un bambino morto in grembo, e un toro fermo, impassibile , i cui occhi guardano negli occhi noi che guardiamo lui. Vicino al toro un uccello con un’ala rotta.
Il quadro raffigura il bombardamento di Guernica. Il toro rappresenta la brutalità della guerra, il cavallo il popolo ferito (unica interpretazione data dallo stesso Picasso). L’uccello può essere la colomba, simbolo della pace colpita. Le altre figure sono vittime della guerra. E la figura in alto? Un lampadario? C’è una lampadina. O l’occhio di un dio? La tecnologia come nuova divinità dell’uomo. O l’occhio dell’artista che guarda?
Alcune analogie:
· Figura a destra con le braccia alzate: “ La fucilazione “ di Goya - “L’incendio di Borgo
· Muso del cavallo: “ Il trionfo della morte” del Palazzo Abatellis a Palermo
· Madre dolente: la “Pietà” di Michelangelo
Genesi dell’Opera
Nel gennaio 1937 il governo spagnolo legittimamente eletto, incarica Picasso, autore già famoso, di eseguire un’opera per l’Expo di Parigi. Gli viene dato un anticipo di 50.000 franchi.
Il giorno 26 aprile, nel pomeriggio, la cittadina di Guernica, centro importante del territorio basco, viene bombardata dalla Legione Condor tedesca e dall’Aviazione legionaria italiana. Non era un obiettivo militare: si tratta perciò del primo bombardamento terroristico in territorio europeo. Per tre ore vengono sganciate su Guernica bombe esplosive e bombe incendiarie; viene distrutta gran parte della cittadina; muoiono circa 1500 persone, con circa 1000 feriti, su una popolazione di 6.000 persone. La notizia viene pubblicata sui giornali francesi dopo 2 giorni, Picasso ne rimane sconvolto ed inizia a lavorare alla sua opera con furore creativo.
La genesi dell’opera è documentata giorno per giorno dalla fotografa Dora Maar. Restano inoltre 45 disegni preparatori dei 150 circa eseguiti dal pittore.
· 1° disegno il 1° maggio
· 2° disegno il 5 maggio: compaiono le figure principali
· 1° cartone: al centro il braccio alzato del guerriero caduto, con il pugno chiuso
· 2° cartone: nel pugno ci sono spighe di grano e in alto il sole
· 3° cartone: il guerriero è a terra, manca il fulcro del dipinto
· 4° cartone: al centro del quadro un cavallo con collo teso e bocca spalancata
· 5° cartone: compare la forma a mandorla a posto del sole
Nei ‘disegni preparatori’ Picasso parte dal colore: lo testimoniano le versioni della madre dolente; addirittura nel secondo attacca capelli veri sulla figura. Poi sceglie il non-colore e le linee più essenziali : “un dipinto - egli afferma - è la somma delle sue distruzioni”.
Gli ’Arazzi’L’arazzo realizzato nel 1955 su commessa di Nelson Rockefeller, nella bottega della textile artist francese Jacqueline de la Baume Dürrbach, con la supervisione e la direzione di Picasso, ha le stesse dimensione del dipinto, ed è composto da 6 strisce tessute al telaio.
Picasso scelse personalmente le undici tonalità cromatiche utilizzate per l’arazzo, rendendolo così diverso rispetto al dipinto, creato in bianco e nero. Picasso firma tutti i cartoni e gli arazzi accanto al logo di Cavalaire, l’atelier di Jacqueline de la Baume Durrbach.
In realtà gli arazzi realizzati sullo stesso modello sono tre: uno esposto nella sede ONU di New York, uno in Francia nel museo di Colmar, uno in Giappone.
Il disegno originale utilizzato per la realizzazione degli arazzi fu eseguito su carta da pacchi, in 6 strisce.
“Tessere la pace”
Il progetto espositivo ‘Tessere la pace’ nasce da un’idea del MAN (Museo d’Arte - Nuoro), che per la prima volta ha esposto gli arazzi nell’ambito dell’importante mostra: “Picasso e Guernica. Genesi di un capolavoro. Contro tutte le guerre” (2022 -2023).
Al MAN sono esposti gli scatti di Dora Maar, fotografa e per molti anni compagna dell’artista, assieme al grande manifesto che accompagna l’esposizione di Guernica a Milano del 1953, e gli arazzi in lana di pecora sarda.
Le cinque maestre dell’arte tessile originarie di Sarule, paese custode di questa antica tradizione, hanno un’età compresa tra 70 e 84 anni. Le tessitrici hanno composto sei arazzi di grande impatto visivo, allineati nelle sale del MAN. Tessuti in bianco e nero, questi nuovi arazzi sono rigorosamente fedeli al capolavoro picassiano. Si tratta di sei opere monumentali che riproducono alcuni dettagli simbolo di Guernica come il cavallo, il soldato ucciso, la donna che piange, l’allegoria della luce, il pugnale spezzato accanto a un fiore di speranza, il toro.
Recentemente lo stesso Museo Reina Sofia ha deciso di inserire gli arazzi nella sezione digitale ‘Rethinking Guernica’, dedicata proprio alle citazioni contemporanee del capolavoro di Picasso.
'Guernica'
Guernica ha un carattere fortemente simbolico: denunciare con forza e vigore le barbarie della guerra e la violenza che distrugge senza alcuna distinzione. L’opera esce così dai confini storici nei quali viene progettata e si erge a messaggio di repulsione per i conflitti, come un appello all’intelligenza e alla coscienza collettiva per evitare che l’essere umano continui ad autodistruggersi e riacquisti quel senso etico e quella bontà che possono ribaltare il fosco orizzonte degli eventi.
Le varie parti di Guernica concorrono a narrare questo racconto di dolore e inutile distruzione. Una donna urla al cielo tenendo tra le braccia il corpo straziato del figlio il cui silenzio assordante contrasta il grido materno; un’altra figura umana viene inghiottita dalle fiamme della distruzione che assumono la forma di aguzzi e spietati denti che la masticano senza sosta. Guernica è in preda al caos e un cavaliere caduto – veicolo dell’ideale di una guerra persa - stringe senza arrendersi l’elsa della propria spada con la mano destra, dalla quale spunta un fiore.
Per Picasso, solo nella perseveranza e nella volontà di opporsi all’insensata mentalità della guerra risiedono dunque tutte le nostre speranze per un futuro migliore.
* * *
III
(4 - 11 novembre 2024)
"come un filo d'erba assetato d'amore ..."
Diciassette secoli fa - nel novembre del 354 d. C. - nasceva a Tagaste nell’antica Numidia, Aurelio Agostino, destinato a diventare un faro di luce nella cultura dei secoli seguenti.
Agostino appare ancora oggi un personaggio straordinario, per le sue dimensioni di uomo, di pensatore, di maestro, di cristiano. La sua sorprendete modernità lo rende affascinante, perché così vicino a ognuno di noi che viviamo l’assillo del perenne conflitto tra la carne e lo spirito, tra l’ideale e il reale.
Il terzo quadro (in due tempi) degli incontri dell’OASI è dedicato ad Agostino. Nel primo tempo rifaremo il suo percorso terreno, i suoi smarrimenti, la sua appassionata ricerca d’amore e di verità; nel secondo il suo itinerario spirituale e intellettuale, la sua filosofia, la sua visione dell’uomo e di Dio.
L’uomo, l’anima e la carne
La madre di Agostino, Monica, é cristiana e sarà la figura dominante nella vita del figlio. Il padre, pur avendo scarsi mezzi, gli fa impartire un'educazione letteraria e retorica. Agostino studia a Cartagine, ma non apprende il greco. In questo periodo si lega con una donna, con la quale convive per 15 anni. Appena diciottenne, Agostino ha da lei un figlio, cui dà il nome di Adeodato.
Respinto dalla rozzezza dei racconti e dello stile della Bibbia, legge un'opera perduta di Cicerone, l'Ortensio, dove trova teorizzato il primato della vita filosofica. Si avvicina allora al manicheismo. Per 9 anni Agostino, suscitando la contrarietà della madre, aderisce al manicheismo come uditore. Il manicheismo era una dottrina assai confacente alla psicologia di Agostino, che sentiva forte il senso del peccato, giacché essa dava al male consistenza ontologica: da giovane Agostino aveva condotto una vita piuttosto dissoluta.
A 21 anni si reca a Cartagine per continuare i suoi studi e insegnare la retorica. Deluso tanto dal cristianesimo della madre, ritenuto rozzo e irrazionale, quanto dal manicheismo, si dà alla filosofia scettica, e arriva alla conclusione di sapere di non sapere.
Nel 382 - a 28 anni - decide di trasferirsi con la madre, la concubina e il figlio a Roma, dove insegna retorica. Dopo due anni si reca a Milano e può ascoltare le prediche del vescovo Ambrogio. Sorrette dall'interpretazione allegorica e spirituale delle Scritture, pervase dalla presenza di dottrine neoplatoniche, dal riconoscimento della superiorità dell’anima sul corpo e del suo destino ultraterreno, le parole di Ambrogio lo predispongono alla lettura della Bibbia. Nel 385 decide di farsi catecumeno, abbandona la sua concubina e, insieme ad alcuni amici, legge le opere di Plotino. In esse egli trova argomentata la supremazia e l'autonomia del mondo incorporeo e spirituale. Neoplatonismo e cristianesimo gli appaiono allora conciliabili, ed egli rimane affascinato dal cristianesimo riletto in chiave platonica. Agostino scopre che ciò che dice il vangelo di Giovanni é affine a ciò che dicevano i neoplatonici e in particolare Plotino : “In principio era il Logos” .
Nel 386 avviene la sua conversione, che egli racconterà più tardi nelle sue Confessioni. Ricevuto il battesimo a Milano da Ambrogio, prende la decisione di tornare in Africa a condurre una vita cristiana di meditazione. Durante il tragitto, muore a Ostia la madre Monica, a 56 anni. Due anni dopo, muore anche il figlio diciottenne Adeodato. Alla fine del 388 Agostino arriva in Africa e si stabilisce a Tagaste, vivendo per due anni con un piccolo gruppo di persone al modo delle comunità monastiche. In questo periodo compone opere di rilevanza filosofica, come "Sul maestro", "Sul libero arbitrio" e "Sulla vera religione", dove é elaborata la tesi del cristianesimo come vera religione, fondata sulla concezione di un unico Dio creatore. Questa tesi segna anche l'ormai netto distacco dalle posizioni manichee, contro le quali egli scrive in questi anni una serie di libri polemici, in particolare sull'interpretazione della Genesi.
Nel 391 si reca a Ippona dove é fatto prete per aiutare il vescovo della città, Valerio, che gli consente di predicare: inizia così l'attività pastorale di Agostino, che durerà sino alla fine della sua vita. Nel 396, alla morte di Valerio, è nominato vescovo di Ippona. A 43 anni inizia la composizione della sua opera letterariamente più originale, le “Confessioni”, in 13 libri, terminate verso il 400. Nell' agosto del 410 i goti, guidati da Alarico, saccheggiano Roma. Girolamo si chiede: "Se Roma può perire, che cosa può esservi di sicuro?". Agostino comincia a comporre, nel 413, la "Città di Dio". L’opera sarà completata nel 426. In essa Agostino tenta di dimostrare la superiorità del cristianesimo su tutta la cultura pagana e sugli pseudo-valori che la sorreggono. Nell' agosto del 430 Agostino é colpito da febbre e poco dopo muore, a 76 anni di età.
L’itinerario dello spirito
Agostino presentò una caratteristica, che non ha riscontro in nessuna altra personalità della storia del pensiero: possedette un ingegno spettacolosamente acuto e penetrante e nel contempo una indole traboccante di affetto, un cuore ardente e capace di squisite delicatezze, un'anima dotata di una infinita capacità di amare. L'ingegno speculativo non lo rese, come di solito accade, astratto e impassibile, un «mero cervello che ragiona» (come può dirsi, ad es., di Aristotele): non gli tolse nulla dalla sua umanità, anzi la rafforzò e la acuì in una capacità,di autoanalisi psicologica di una chiarezza talora allucinante e di una finezza sbalorditiva, che sa di divinazione. E quello che più commuove, specie il lettore moderno, è il fatto che la sua passionalità non ha nulla di eccessivo, di orgiastico, di esagerato o esasperato, come era ad es. nel culto dionisiaco pagano, baccanale che si nutriva di sè stesso e si auto-montava: era la passionalità umile, materiata di debolezza e di peccato, che costituisce il ritmo quotidiano della nostra misera umanità, impastata di fragilità e di autocondiscendenza. Per questo motivo ognuno di noi che lo legga è indotto ad amarlo senza riserve: più che il filosofo e il santo, sentiamo in lui il fratello della nostra carne.
Di qui il carattere singolare e commovente della sua religiosità: la sua preghiera non è la richiesta orgogliosa del fariseo conscio della sua virtù, nè il brontolio tra irato e confuso d'i chi non vuole riconoscersi in colpa, nè la domanda insistente della petulanza fastidiosa, bensì è la voce sincera della debolezza conscia di sè, conscia delle attenuanti che essa fornisce a sè stessa, la quale chiede perdono di essere quello che è e spera in ogni indulgenza, poiché sa di essere non ribelle, ma umile, bisognosa di aiuto, onesta nel chiederlo, sicura di riceverlo. Conosce la dolcezza della carne, ma pur vuole uscirne, poiché Dio così vuole: «forse» gli è riservata una dolcezza maggiore, una dolcezza «omnicomprensiva». Questo è l'uomo, e questo è riuscito ad esprimere meglio di qualsiasi altro pensatore o psicologo Agostino. «O Signore, dammi quello che amo; io amo infatti, e anche questo me l'hai dato Tu. Non lasciar cadere i tuoi doni, non disprezzare questo tuo' filo d'erba assetato!» (cfr. Conf., XI, 2, 3): in questa frase è espresso incisivamente l'atteggiamento della sua psiche. Tu mi hai fatto, perchè fossi felice: fammici dunque!
Tutto ciò spiega per un verso la genesi di quel capolavoro, unico nella letteratura mondiale, delle Confessioni, in cui Agostino anela a comunicare a tutti le sue esperienze, e spiega per l'altro verso perchè mai l'influenza di una personalità così complessa come la sua abbia potuto esercitarsi su spiriti tanto diversi, come i «razionalisti» Cartesio e Leibniz e gli «emotivi» Lutero e Pascal. Il segreto sta nel fatto che, attraverso la sua voce, l'umanità parla all'umanità, nel profondo. E il tono del suo dialogo con Dio, affettuosamente confidenziale e profondamente umile a un tempo, quale si realizza nelle Confessioni, è il tono del figlio che parla al Padre, dal quale soltanto attende tutto ciò che può renderlo felice e al quale non sa come cantare il suo inno di gratitudine e di amore indefettibile.
Aggiungete a tutto questo una capacità dialettica a tutta prova sposata a un'anima di poeta, una cultura immensa nel campo sia filosofico che teologico che abbracciava l'antichità pagana, la teologia occidentale e la teologia orientale, particolarmente per le sistemazioni dottrinali dei Luminari di Cappadocia, una sicurezza di intuito che cade raramente in fallo, uno zelo apostolico inesauribile, una profonda bontà nel tratto, una dolcezza nell'espressione che rifugge da ogni violenza e da ogni asprezza, e avrete delineata a pieno la personalità di uno dei filosofi più letti .e sopra-tutto «più amati» dai suoi lettori.
La .filosofia di Agostino è stata definita: la «filosofia dell'amore», il «canto dell'amore», l'esaltazione cioè di quella forza che come portò dalle sue profondità misteriose e insondabili la natura divina a diffondersi fuori di sè nel miracolo della creazione, come fa brulicare di vita tutto l'universo fin negli abissi dei mari, come nelle immensità dei cieli « muove il sole e l'altre stelle » (Par., XXXII', 145), così spinge l'una creatura nelle braccia dell'altra, e lega insieme i cuori e dà tenerezza per i miseri, per gli afflitti, per i malati, per i peccatori, per gli uomini di tutte le razze, per tutti «i fratelli in Gesù Cristo», e tutti gli esseri animati e inanimati abbraccia in un unico palpito, e dà al cuore la forza di dimenticare e di perdonare le offese, e di amare finanche i propri nemici. La filosofia di Agostino è certamente tutto questo: è l'inno alla gioia indicibile del dare, alla tenerezza di chi è pago non della sua, ma dell'altrui gioia, di colui che scioglie sè stesso nell'oceano divino della carità. In questo senso essa è la più calzante espressione della religione di Gesù, della dolcezza più grande di cui abbiano mai avuto sentore gli uomini, e che solo gli idioti e i mentecatti non comprendono.
Ma è anche qualche altra cosa : è l'espressione riflessa
della sete di felicità dell'uomo, è « il canto della gioia e della
gratitudine»
oltre che «il canto dell'amore». lo non ero, e nosiran diritto potevo accampare ad essere; Tu ml hal fatto, e mi hal fatto
soltanto perchè volevi farmi felice.
Un doppio dono mi hai dato: di essere e di essere felice, infinitamente felice. Come,
e dove, potrò trovare le parole per ringraziarTi? Tutto il mio
essere, effuso in parole, non basterebbe. A cantare le Tue lodi, il Tuo
« valore », non basterebbe l'infinita distesa dei secoli.
(C. Ottaviano)
L’estasi di Ostia
(dalle “Confessioni”, c. 10)
Si avvicinava il giorno in cui lei sarebbe uscita da questa vita. Allora accadde che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati al davanzale di una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava, presso Ostia Tiberina, lontani dai rumori della folla, intenti a ristorarci dalla fatica di un lungo viaggio in vista della traversata del mare. Conversavamo, con grande dolcezza, dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle future, cercando insieme di capire quale sarebbe stata la vita eterna dei santi. E dicevamo: il piacere dei sensi, per quanto grande e pieno di luce, non è paragonabile alla gioia della vita eterna … Poi, elevandoci con impeto ardente verso la dimora di Dio, attraversammo tutte le cose corporee e il cielo dove il sole, la luna e le stelle brillano sulla terra, giungendo fino ai confini delle nostre anime …
E d’improvviso con un pensiero fulmineo cogliemmo la vita eterna come simile all’estasi di quel momento, e sospirammo: non è questo forse il senso dell’invito “Entra nel gaudio del tuo Signore”? E quando si realizzerà compiutamente? Forse il giorno in cui tutti risorgeremo?"
E mentre il mondo con tutte le sue fascinazioni svaniva davanti ai nostri occhi, disse mia madre: “Figlio mio, per me, nulla più mi attrae in questa vita. Non so che cosa faccio ancora qui. Le mie speranze sulla terra sono ormai esaurite. C’era una cosa sola che mi faceva desiderare di rimanere quaggiù ancora un poco: il vederti cristiano prima di morire. Il mio Dio mi ha soddisfatto ampiamente, poiché ora ti vedo disprezzare la felicità terrena per servire lui. Cosa dunque faccio qui?" Fra poco andrò via per sempre. Seppellisci questo corpo dove vuoi, senza dartene pena. Ma ti prego: ricordati di me, dovunque tu sia, innanzi all'altare del Signore”.
Una tristezza immensa gravava sul mio cuore. Privata della grandissima consolazione che trovava in lei, la mia anima rimaneva ferita, e la mia vita, che era stata tutt'una con la sua, rimaneva come lacerata.
* * *
IV
(18 novembre 2024)
Le prime comunicazioni 'a distanza'
“Fu sempre sentito tra gli uomini il bisogno di trasmettere in lontano e con celerità i regolamenti e le notizie. L’arte dei segnali dev’essere perciò così antica come antica è la sociale comunanza”.
È l’incipit di un libro, edito nel 1838, che tratta di telegrafia; l’autore è Luigi Magrini, un professore di fisica realizzatore anche di un tipo di telegrafo elettromagnetico; egli inizia con questa affermazione che vuole evidenziare una necessità sempre esistita dalla quale nello scorrere dei tempi non si è potuto mai prescindere. In effetti comunicare a distanza una notizia non v’è dubbio che sia stata una esigenza sempre necessaria e particolarmente sentita dall’essere umano e che è andata, peraltro, aumentando con la crescita e l’espandersi dei popoli. Quando possibile, e le distanze lo permettevano, vi erano dei segnali convenuti che con svariati mezzi e nelle diverse forme segnalavano tra due punti del territorio un accadimento o comunque un’informazione la quale, in questo modo, poteva giungere perfino in tempo reale.
Un esempio di “telegrafo” per grandi distanze e “rapido” nell’informazione è quello “idraulico” ideato da Enea il Tattico, un Generale greco, intorno al IV secolo AC. La “stazione” trasmittente e quella ricevente erano costituite da due contenitori di acqua identici; con un segnale stabilito, per esempio uno sfiaccolamento, veniva aperto il rubinetto del trasmettitore facendo scendere un galleggiante con al centro un’asta sulla quale vi erano dei segni o simboli con significati concordati; un altro sfiaccolamento indicava la chiusura del rubinetto. La notizia da trasmettere era quella indicata sull’asta tra quelle segnate e che a causa dell’abbassamento del livello dell’acqua era all’altezza di un punto convenuto. Sulla stazione ricevente un operatore apriva e chiudeva il rubinetto secondo le sfiaccolate della stazione trasmittente, ed anche lì il galleggiante sarebbe sceso allo stesso punto, replicando quanto segnato sul trasmettitore, ovvero permetteva di interpretare la notizia trasmessa. Con questo sistema potevano essere scambiate esclusivamente notizie con formule già concordate che la posizione del galleggiante avrebbe poi indicato.
La telegrafia ottica di Enea il Tattico
Seguirono altri sistemi formati da scacchiere sulle quali erano riportate lettere degli alfabeti e numeri; con sfiaccolamenti particolari si indicavano righe e colonne della scacchiera le cui lettere avrebbero composto il messaggio. Tra corrieri e fiaccole si è andati avanti nel tempo, fino a quando in Francia, alla fine del XVIII secolo, Claude Chappe ideò un telegrafo molto pratico, siamo alla telegrafia semaforica. Sulla sommità di una torre, generalmente posta in altura, veniva montata un’asta con delle barre le quali potevano assumere molti assetti diversi; ogni assetto, che veniva visto dagli operatori della stazione ricevente, indicava lettere e numeri che davano su vari dizionari indirizzamenti per poter leggere il messaggio. Sui dizionari, ognuno per un certo tipo o classe di interesse, vi erano messaggi standardizzati e già preparati in elevatissimo numero. La velocità di trasmissione raggiunse i 500 Km/h, e la rete si diffuse moltissimo in Francia, in altre nazioni ed anche in Italia.
Il telegrafo
La svolta decisiva ci fu nei primi anni del XIX secolo, con la pila di Volta. Iniziò l’impiego di telegrafi elettrici. I primi realizzati sfruttavano l’effetto della deviazione dell’ago magnetico quando era prossimo ad un filo su cui circolava corrente elettrica. La corrente elettrica, infatti, permetteva la soluzione alla necessità di trasmettere a distanza una informazione; di fatto si creava un fenomeno fisico da una parte il cui effetto si poteva vedere da un’altra, anche molto lontano; in mezzo i fili, la linea.
L’attesa della evoluzione dei telegrafi elettrici non fu eccessivamente lunga; sempre nella prima metà del XIX secolo vediamo lo sviluppo del telegrafo per eccellenza, quello Morse. Le linee si moltiplicano, nascono delle reti, i messaggi rimangono impressi su una strisciolina di carta e sono leggibili da un operatore perfino assente nel momento dell’arrivo. La rete telegrafica, realizzata con varie specie di apparecchiature, tutte tendenti ad abbreviare i tempi di trasmissione, raggiunge distanze enormi; di fatto nei vari continenti tutte le città possono essere collegate, i messaggi arrivano in tempi brevi. Come naturale evoluzione della telegrafia elettrica si va alla telegrafia elettrochimica, ovvero si possono trasmettere segnali che sono dei disegni, documenti, spartiti musicali. Un sistema telegrafico di questo tipo è dell’italiano Giovanni Caselli: il Pantelegrafo; siamo nel 1855, di fatto siamo ad un prototipo di Fax; è questo anche il periodo in cui iniziano ad essere posati cavi sottomarini; i continenti sono collegati per una comunicazione rapida ed efficace.
Il telefono
Ma intanto nella seconda metà del secolo un altro sistema di comunicazione era nato e con questo la possibilità di trasmettere il suono, la voce umana: era nato il telefono. Parlando di telefono il pensiero va indubbiamente ad Antonio Meucci, ma “inventore del telefono” è riportato sull’epitaffio di almeno una decina di personaggi. Meucci, indubbiamente, è il primo di costoro ad aver ufficialmente reso noto agli organi preposti la realizzazione di un sistema per trasmettere la voce a distanza, tuttavia egli non presentò una richiesta di brevetto, ma, nel Dicembre 1871, un “caveat”, ovvero una richiesta di garanzia preventiva per poter poi completare con tutta la documentazione prevista la richiesta di brevetto… che non avvenne mai. Meucci non era un fisico, non un ingegnere, egli aveva cercato qualcuno, anche in Italia che illustrasse bene, secondo la fisica, il funzionamento del suo “telettrofono”, ma non lo trovò. Il caveat fu rinnovato per qualche anno poi… fu lasciato decadere.
Una richiesta di brevetto per il telefono fu presentata nel 1876 da Alexander Graham Bell, appena due ore prima di un altro scieziato, Elisha Gray. Bell erra un ingegnere e studiava da tempo la possibilità di poter trasmettere il suono a distanza; insegnò in varie scuole per sordomuti che istruiva alla pratica del “visibile speech”; insegnava anche la lettura labiale affinché i non udenti potessero seguire un discorso di una persona che fosse loro innanzi. Bell si dedicò sempre allo studio del suono ed alla sua percezione da parte dei sensi della persona; realizzò vari sistemi per la trasmissione a distanza di suoni e note musicali. Il 14 Febbraio 1876 Bell presentò una richiesta di brevetto per un sistema di trasmissione di suoni ed anche, come descritto alla fine, della voce umana. Il sistema era molto simile a quello di Meucci e Bell allega un’ampia descrizione del funzionamento con ogni dettaglio scientifico.
Elisha Gray presentò invece una richiesta di un sistema diverso da quello di Bell e di Meucci; egli inserì nel circuito un vero microfono a liquido che poi anche Bell sperimenterà, ma non lo adotterà in quanto molto critico. Bell presentò il suo telefono in varie esposizioni e prestissimo fu commercializzato. Il telefono aveva rivoluzionato il mondo della comunicazione, non occorreva più che per trasmettere e ricevere messaggi ci fosse personale che conoscesse l’alfabeto Morse, quell’oggetto “sopra alla scrivania” permetteva a chiunque la gestione autonoma; tutti gli utenti di una città erano collegati ad una centrale le operatrici delle quali connettevano coloro che volevano comunicare.
A proposito di inventori del telefono è opportuno citare Innocenzo Manzetti, di Aosta. Costui, oltre a varie realizzazioni innovative, aveva costruito un automa che si alzava dalla sedia, faceva un inchino, suonava il flauto, appunto il “Suonatore di flauto”; Manzetti voleva che l’automa parlasse, per cui ideò il “Telegrafo parlante”, era il 1865. Tale realizzazione fu pubblicata su vari giornali tra cui “La Verità” di Novara. Su questo giornale è riportato in modo chiarissimo che il Manzetti aveva realizzato un “telegrafo a voce” con il quale ognuno poteva far sentire la propria “… in quanti punti d’arrivo si vogliano…” Manzetti non lo brevettò e oggi questa sua invenzione, prima di tutti gli altri, è ricordata solo in un museo a lui dedicato nella città di Aosta.
La realizzazione degli apparecchi telefonici è andata continuamente incrementando con applicazioni che ne hanno di molto migliorato le qualità e l’impiego, così il microfono a carbone, poi il disco combinatore per la telefonia automatica. Il telefono aveva trovato nel mondo della comunicazione un grande successo, addirittura si pensò anche di utilizzare le linee telefoniche per intrattenimento, infatti in locali di aggregazione, in talune abitazioni, negli alberghi, tramite le linee telefoniche potevano essere ascoltate opere liriche, commedie, e tutto ciò che veniva rappresentato in un teatro. In Ungheria, quest’impiego prese il nome di “Telephon Hirmondò”, in Italia, un po’ più tardi, “Araldo Telefonico”.

L'"Araldo Telefonico", antenato delle trasmissioni-radio in Italia (Roma 1909)
Nella prima metà del XX secolo, dopo la telefonia automatica e l’applicazione di componentistica sempre più affidabile, nei collegamenti non ci furono sostanziali migliorie, a metà del secolo le città erano servite da centrali automatiche, solo nei piccoli centri era rimasto il sistema manuale . Nel 1956 fu posto il primo cavo transatlantico che aveva una capacità di 36 comunicazioni simultanee; successivamente furono impiegati cavi con capacità di gran lunga superiori, grazie anche alla tecnologia delle frequenze vettrici. Un passo molto importante che rivoluzionò il sistema di comunicazione telefonica fu fatto nell’Ottobre 1970, quando fu attivata su tutto il territorio nazionale la teleselezione; ogni utente poteva chiamare un altro direttamente in qualsivoglia città italiana fosse, bastava porre innanzi al numero il relativo prefisso. Le comunicazioni telefoniche furono “instradate” anche su satelliti, soprattutto per comunicazioni intercontinentali. Oggi la comunicazione telefonica avviene tramite la fibra ottica, con un aumento considerevole di comunicazioni simultanee, come peraltro la comunicazione di dati, per esempio internet. Le connessioni in fibra permettono la trasmissione di migliaia di canali simultaneamente.
Il telefono 'cellulare'
Uno dei passi fondamentali della comunicazione telefonica è quello della telefonia mobile. Le sperimentazioni iniziarono agli inizi degli anni ’70 con il servizio RTMI (Radio Telefono Mobile Integrato). Il servizio era assicurato da delle “celle” a cui un utente mobile era connesso. Se l’utente però transitava da una cella ad un’altra avrebbe dovuto riconnettersi nuovamente. L’utente RTMI non poteva essere chiamato, ma poteva utilizzare il suo apparecchio solo, in uscita. L’RTMI si sviluppò in RTMS (Radio Telephone Mobile System); con questo sistema l’utente poteva transitare da una cella all’altra senza dover chiamare di nuovo il corrispondente. Agli inizi degli anni ’90 si ebbe in Italia una svolta sulla comunicazione telefonica mobile con l’implementazione del sistema TACS (Total Access Communication System). Con questo sistema il telefono divenne realmente portatile, assolutamente integrato nella rete; si poteva chiamare e ricevere chiunque in qualunque città fosse.

Lo sviluppo più importante certamente ci fu con il sistema GSM (Global System for Mobile Communications) che prevedeva l’utilizzo di una SIM (Subscriber Identity Module). Con questo sistema tutti i dati dell’utente erano presenti nella SIM, per cui poteva essere cambiato il telefono in qualsiasi momento, inoltre la comunicazione era codificata, quindi meno vulnerabile ad ascolti indiscreti. Inoltre con il sistema GSM vi è stata la possibilità di inviare ad altro utente messaggi di testo. L’apparecchio GSM ha avuto continue evoluzioni, fino ad arrivare allo Smartphone attuale ove l’aspetto “telefono” è pressoché secondario, infatti il potersi connettere alla rete conferisce a questi apparecchi l’essere un sistema che in tempo reale può evidenziare o dare informazioni da ed a tutto il mondo.
Il telegrafo senza fili
Torniamo nel periodo che va dalla fine del XIX secolo all’inizio del XX, l’elettricità è la nuova fonte di energia, nelle Università, in tutti i laboratori di fisica, si studiano i fenomeni elettromagnetici e le leggi che li governano. Uno dei maggiori scienziati che porta avanti lo studio sui campi elettromagnetici è James Clerk Maxwell, egli ne studia la propagazione e ne calcola la velocità che identifica con quella della luce.
A “mettere in moto” il campo elettromagnetico e rivelarlo a distanza è Heinrich Hertz il quale con le sue esperienze constatò che scoccando una scintilla su uno spinterometro, questa si replicava su una spira posta a distanza, precisamente tra i due terminali, affacciati, ma non in contatto. Questo fu oggetto di studio e naturalmente in tutti i laboratori, da quelli privati a quelli delle università ciò che più si sperimentava era la generazione e la trasmissione del campo elettromagnetico. Già il fatto che qualcosa generato in un posto potesse essere replicato a distanza, sebbene allora breve, aveva fatto nascere in alcuni l’ipotesi di una trasmissione a distanza di informazioni, ovvero di una telegrafia senza fili (William Krookes, 1892).
Tra gli scienziati che si dedicarono alla sperimentazione in Italia vi era Augusto Righi il quale presso i laboratori della università bolognese riusciva a replicare una scintilla a diverse decine di metri di distanza. Questo accadeva anche in altri laboratori e le esperienze venivano pubblicate su riviste scientifiche di larghissima diffusione. Le sperimentazioni confermavano che il campo elettromagnetico si propagava seguendo le note leggi dell’ottica. La convinzione che al campo elettromagnetico potesse essere “affidato” il compito di trasmettere a distanza una informazione convinceva sempre di più, sebbene la consapevolezza che la propagazione seguisse le stesse leggi dell’ottica non faceva supporre distanze possibili di collegamento molto elevate. Si cercava anche un modo di poter rivelare questo campo ricevuto a distanza al fine di poter comandare qualsiasi sistema di utilizzazione.
Alla fine del secolo, già dal 1884, un italiano, un professore di fisica del liceo di Fermo, Temistocle Calzecchi Onesti, eseguiva sperimentazioni ed effettuava studi sulla conducibilità elettrica dei contatti cosiddetti “imperfetti”, studi già intrapresi precedentemente in altri laboratori; in modo particolare Calzecchi Onesti studiava la conducibilità delle polveri (limature) metalliche quando inserite in un circuito elettrico. Nel corso di queste sperimentazioni egli constatò che un tubicino di vetro contenente della limatura metallica diminuiva la propria resistenza elettrica se si apriva e si richiudeva il circuito elettrico in cui era inserito; notò anche che con un colpo sul tubicino la resistenza tornava ad essere molto alta. Egli pubblicò su una rivista scientifica questa sua scoperta e l’esito delle successive sperimentazioni. Pensò di realizzare con questo tubicino un sismografo che, tuttavia, non trovò successo. Gli studi e gli esperimenti sulla conducibilità del tubicino furono ripresi da Edouard Branly, un medico francese dedicatosi alla fisica, il quale constatò che la resistenza del tubicino diminuiva anche se, indipendentemente dal circuito elettrico di cui faceva parte, scoccava altrove una scintilla; di fatto egli constatò che una scarica elettrica che scoccava anche ad una certa distanza dal tubicino, ne faceva variare la resistenza, quindi il tubicino contenente limatura poteva rivelare la presenza di una scarica elettrica, ovvero di un campo elettromagnetico. Scoperta sensazionale che apriva le porte alla trasmissione e ricezione di campi elettromagnetici e poiché la riduzione della resistenza elettrica del tubicino contenente limatura, se inserito in un circuito elettrico, permetteva di alimentare un utilizzatore, con la generazione di un campo elettromagnetico poteva essere comandato un sistema elettrico a distanza, aspetto fondamentale della radiocomunicazione telegrafica. Il tubicino contenente limatura fu migliorato nelle sue caratteristiche da un fisico inglese, Oliver Lodge il quale lo chiamò coherer. Si dava così inizio a prove di radiotelegrafia, tuttavia le distanze a cui si potevano effettuare dei collegamenti erano brevi e non particolarmente significative per le radiocomunicazioni. Peraltro si riteneva che distanze maggiori potevano essere raggiunte soltanto aumentando la potenza del trasmettitore, cosa che ovviamente aveva un limite in quanto grandi potenze erano assolutamente legate ad enormi dimensioni del sistema trasmittente, di fatto un aspetto non gestibile. Inoltre i fisici erano tutti concordi nella convinzione che pur ipoteticamente, impiegando trasmettitori grandissimi e potenti, mai sarebbe stato possibile trasmettere segnali a distanze molto elevate in quanto l’energia elettromagnetica era noto che si propagasse secondo le leggi dell’ottica, per cui mai si sarebbe superato il limite delimitato dall’orizzonte.
Tra coloro i quali si interessavano al mondo della comunicazione senza fili vi era anche un italiano, si chiamava Guglielmo Marconi. Marconi non era un fisico, non un ingegnere, si interessava però alla elettrotecnica ed in modo particolare alla trasmissione e ricezione di campi elettromagnetici, ovvero di onde elettromagnetiche. A Bologna aveva conosciuto e frequentato lo scienziato Augusto Righi nei laboratori in cui sperimentava la trasmissione e la ricezione di onde elettromagnetiche. Marconi aveva attrezzato un proprio laboratorio in una sua villa di Pontecchio e lì si immergeva nei suoi studi e nelle sue ricerche; il suo obbiettivo era l’impiego delle onde elettromagnetiche per trasmettere le informazioni a distanza la quale riteneva che potesse essere molto grande. Egli notò che collegando ad uno dei capi del sistema trasmittente un filo teso in alto, la distanza a cui poteva essere ricevuto il segnale trasmesso aumentava a prescindere dalla potenza del trasmettitore. Marconi aveva inventato l’antenna. È noto il suo esperimento che segnò la svolta nelle radiocomunicazioni; egli facendosi “dare una mano” nell’esperimento dal fratello maggiore e dal giardiniere della villa, fece portare il ricevitore dietro ad una collina distante intorno ai 1500 metri, dicendo di sparare un colpo di fucile qualora in quell’apparato si fosse mosso un martelletto. Marconi dalla sua soffitta pigiò un tasto, si sentì forte lo sparo. Fu il colpo di fucile più fausto della storia!
Era il 1895. Marconi quindi si rese immediatamente conto che non era necessario impiegare trasmettitori di enorme potenza per aumentare le distanze di un ipotetico collegamento, ma bastava dotare gli apparati di una appropriata antenna. Egli informò il Governo italiano della sua scoperta, ma il Governo non si mostrò interessato. Marconi una mattina del Febbraio 1896 dalla stazione di Bologna partì per l’Inghilterra ove risiedeva il cugino Henry Jameson Davis, ben introdotto negli ambienti finanziari ed industriali. Nel Marzo dello stesso anno il nostro scienziato presentò in Inghilterra una domanda provvisoria di brevetto che fu completata l’anno successivo con una richiesta particolareggiatissima in ogni aspetto; il brevetto fu concesso a Luglio e ciò permise all’inventore italiano di poter fondare subito una società: la “Vireless Telegraph and Signal Co” con la conseguente realizzazione di stazioni radiotelegrafiche.
L’interesse alla radiotelegrafia crebbe immediatamente e cominciarono a sorgere stazioni in varie parti d’Europa ed anche altri scienziati si dedicarono allo studio e modifiche migliorative dei sistemi radiotelegrafici. A Marconi fu chiesto anche che tramite apparati radiotelegrafici fosse fatta una radiocronaca di una regata che si svolgeva nella baia di Dublino; a migliorare l’effetto fu una foschia che insisteva nella zona e che avrebbe impedito di seguire la gara anche con binocoli e cannocchiali. Nel Settembre del 1899 Marconi si recò negli Stati Uniti ove fu accolto con euforia ed anche qui gli fu chiesto di installare apparati per una radiocronaca delle regate della “Coppa America”; la radiocronaca fu fatta ed ancora con vasta eco e risonanza. Con l’impiego sempre più diffuso dei sistemi radiotelegrafici Marconi, seguito sempre da un gruppo di ingegneri e tecnici, rese le proprie stazioni più selettive in modo da evitare le interferenze che con i trasmettitori a scintilla potevano verificarsi.
Marconi procedeva nelle sue realizzazioni con indiscutibili successi e stazioni radiotelegrafiche sorgevano oramai ovunque. L’obbiettivo del nostro scienziato era, comunque, quello di poter trasmettere un segnale oltre l’oceano, varcare cioè quel limite ritenuto invalicabile dell’orizzonte; egli “intuisce” che ciò sia possibile nonostante le opinioni di tutti i fisici i quali affermavano che le onde elettromagnetiche propagandosi secondo le leggi dell’ottica mai avrebbero potuto essere ricevute ad una distanza così elevata. Fu realizzata in proposito una stazione trasmittente a Poldhu sulla costa della Cornovaglia in Inghilterra ed una stazione ricevente a San Giovanni di Terranova, dopo che un ciclone distrusse una precedente stazione realizzata a Glace Bay in Nuova Scozia. La mattina del 12 Dicembre del 1901 Marconi ricevette un segnale telegrafico, i tre punti della lettera “S” dell’alfabeto Morse trasmessi da Poldhu: l’oceano era stato varcato!
Non si poteva ancora spiegare il motivo per cui un segnale che indiscutibilmente si propagava secondo le leggi dell’ottica fosse possibile che superasse di gran lunga l’ostacolo dell’orizzonte; Marconi stesso studiava il problema mirando a delle ipotesi. Il fenomeno fu reso chiaro da una scoperta immediatamente successiva la quale dimostrava che vi sono alcuni strati tra la Mesosfera e la Termosfera, quindi più alti della stratosfera, che riflettono le onde elettromagnetiche, ovvero il globo terrestre è “racchiuso” da una sorta di specchio che riflette nuovamente verso il basso le onde elettromagnetiche. Questa riflessione assume caratteristiche diverse, per ogni luogo, in funzione delle ore del giorno in quanto la capacità riflettente è influenzata dall’irraggiamento solare. A questo punto iniziarono a sorgere stazioni anche intercontinentali per la trasmissione di informazioni tramite la telegrafia senza fili ed inoltre qualsiasi bastimento che navigasse negli oceani poteva rimanere in contatto con la terraferma. La radiotelegrafia collegava oramai tutto il mondo, anche con l’utilizzo di frequenze opportune per le quali si potevano utilizzare antenne direttive con notevole risparmio di energia e maggiore riservatezza nelle comunicazioni.
La 'radio'
La radio di fatto era nata, ma mancava una cosa fondamentale: la trasmissione del suono. Lo scienziato canadese Reginald Aubrey Fessenden, dopo varie prove, intuì che per poter trasmettere nell’etere la voce e la musica era necessario impiegare un trasmettitore ad onda continua, persistente. Fessenden fece costruire un alternatore ad alta frequenza che installò presso il suo laboratorio a Brant Rock nel Massachussets e lo usò come trasmettitore di onda continua, poi aggiunse un microfono a carbone nel circuito d’antenna in modo da poterne variare l’ampiezza nell’irradiazione. Fu così che la notte di Natale del 1906 dopo che Fessenden stesso aveva diramato un messaggio in telegrafia, mise in funzione il suo trasmettitore. Innanzi ad un microfono a carbone, collegato in serie al circuito d’antenna e con cui variava l’ampiezza del segnale irradiato, mise un fonografo di Edison nel quale era registrato il “Largo” di Handel e lo mandò in onda, poi Fessenden stesso, essendo violinista, suonò “Oh Holy Night”, quindi lesse un brano del Vangelo di Luca “Gloria a Dio nel più alto dei cieli…”. Gli operatori telegrafisti delle navi nella Baia di Capo Cod prevalentemente della “United Fruit Company” e non solo, ma perfino alcuni operatori di stazioni fisse ed anche a sud, fino a Nofolk in Virginia rimasero stupefatti nel sentire nelle loro cuffie non più il suono del segnale telegrafico come insieme di punti e di linee, ma, per la prima volta, voce umana e musica. Era il 24 Dicembre 1906, e quella fu la prima trasmissione radiofonica della storia. Il 31 Dicembre Fessenden replicò l’esperimento irradiando gli auguri per un buon anno e questa volta ringraziarono, telegrafando, perfino dalle bananiere in navigazione nelle Indie Occidentali.
Era nata la radiofonia, tuttavia questo trasmettitore non fu accolto con particolare interesse dalle varie aziende costruttrici nel settore della elettrotecnica in quanto un trasmettitore che avesse come “cuore” un grosso alternatore che inevitabilmente doveva disporre di un idoneo sistema di propulsione, non era giudicato un investimento sicuro. Ma la tecnica della modulazione di una oscillazione continua (portante) da parte di una bassa frequenza come quella del suono udibile (modulante) era nata.
Il problema fu risolto con l’invenzione della valvola termoionica: prima il diodo da parte di John Ambrose Fleming e quindi il triodo inventato da Lee De Forest. OLa valvola termoionica trovò subito larghissimo impiego come raddrizzatore di corrente alternata, come rivelatore di onde elettromagnetiche, come amplificatore, come generatore di oscillazioni continue… sostituendo con estrema efficacia sotto ogni punto di vista l’alternatore che fu impiegato da Reginald Fessenden. La radiofonia ora era più semplice a realizzarsi. Iniziarono ad operare nelle varie nazioni i radioamatori i quali con competenza, ma soprattutto passione realizzavano le proprie apparecchiature collegandosi poi con i propri apparati con altri appassionati in altre città o addirittura in altri stati. Costoro si scambiavano dati prevalentemente tecnici ed esperienze nelle realizzazioni. In Italia non fu consentito ai radioamatori di poter usare apparecchiature per trasmettere e questa mancanza di divulgazione tecnica impedì la diffusione e la conoscenza della radio come in altri paesi.
Con la Prima guerra Mondiale i sistemi radio, sia telegrafici che in fonia ebbero un grosso sviluppo in quanto si studiavano apparati che rispondessero alle caratteristiche di affidabilità, semplicità di gestione, ingombro minore possibile e le nazioni che avevano consentito l’operatività ai radioamatori si trovarono meglio negli impieghi delle radio. Già nel 1919 negli USA cominciarono a sorgere le prime stazioni radio installate da radioamatori che, comunque, trasmettevano anche programmi di musica e notizie; nei primi anni ’20 le trasmissioni radio occupavano larga parte dell’informazione e dell’intrattenimento, nasceva il broadcasting radiofonico. Anche nel Regno Unito fu concesso ai radioamatori di operare ed alla fine della guerra iniziarono trasmissioni in fonia. Nel 1922 fu una stazione della Compagnia Marconi ad iniziare il broadcasting e di seguito ne sorsero altre. Ugualmente in Francia vi erano stazioni radiotrasmittenti di dilettanti, ma già nel 1921 sorsero le prime stazioni radiofoniche e nel 1922 si realizzò la stazione “Radiola” che poi diventerà “Radio Parigi”.
In Italia, contrariamente agli altri paesi non fu concesso ai radioamatori di operare, questo ritardò di molto l’evoluzione e le esperienze sulla trasmissione e ricezione di onde elettromagnetiche come scambio di informazioni tra dilettanti e soprattutto limitò la conoscenza diffusa della radiotecnica, tuttavia l’Araldo Telefonico, che trasmetteva intrattenimento tramite i cavi telefonici, a Roma, nel 1923 assume il nominativo di “Radio Araldo” ed iniziò in via sperimentale a trasmettere via etere lo stesso palinsesto dell’Araldo Telefonico. I radioamatori e tutti coloro che auspicavano un inizio delle radiotrasmissioni circolari anche in Italia, tramite i loro giornali facevano continue pressioni per un inizio regolare della radiodiffusione; cosi nel Febbraio 1923 viene promulgata una legge, che modifica una precedente, tramite la quale lo Stato si riserva di affidare a privati la possibilità di poter installare stazioni radiotrasmittenti. Così da un accordo delle varie società interessate nasce l’URI, Unione Radiofonica Italiana, che inizia le trasmissioni dalla stazione di Roma il 6 Ottobre 1924. Con un Regio Decreto del Novembre 1927 vengono promulgate nuove norme per il miglioramento del servizio delle radiotrasmissioni e con tale decreto viene affidata all’EIAR ( Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) la concessione esclusiva per le radiotrasmissioni. Tale società con le proprie trasmissioni di informazione ed intrattenimento porta gli abbonati nel periodo antecedente alla seconda guerra mondiale a superare il milione di unità, ma il numero di uditori era di gran lunga superiore contando i dilettanti che costruivano le loro apparecchiature da quelle complesse a quelle molto semplici come la radio a galena con antenna… la rete del letto.
Intanto Guglielmo Marconi continuava a sperimentare trasmissioni a grande distanza; egli, iniziò ad operare sulla gamma delle onde corte e tramite antenne direttive riuscì a raggiungere notevoli distanze con potenze in trasmissione di gran lunga minori di quelle irradiate per trasmissioni omnidirezionali, tra l’altro le trasmissioni che avvenivano prevalentemente in una certa direzione erano preferite da vari organismi in quanto conferivano maggiore riservatezza. Marconi chiamò queste trasmissioni direttive “Comunicazioni a Fascio” ove “fascio” stava per il ristretto settore in cui l’energia veniva concentrata. Nel 1929 Marconi ebbe da Papa Pio XI l’incarico di progettare una stazione radio in Vaticano che inaugurò nel 1931.

12 febbraio 1931: Pio XI e Marconi inaugurano la Radio Vaticana
Nel 1944 l’EIAR assunse il nome di RAI (Radio Audizioni Italiane) e nel 1948 la rete, dopo la restaurazione di molte stazioni trasmittenti, era completamente ristrutturata; in quell’anno anche in Italia iniziano le trasmissioni in modulazione di frequenza. Le apparecchiature diventavano sempre di dimensioni minori, la componentistica elettronica veniva miniaturizzata, le radio diventarono “radioline” con l’avvento del transistore e non era raro che qualcuno le portasse in tasca. Le radiotrasmissioni per la diffusione locale o nazionale prima in onde medie (OM) con elevate potenze in gioco sono diventate tutte in Modulazione di Frequenza (FM), con trasmettitori meno potenti che servono zone limitate, delle dimensioni grossomodo di una città. Oggi la radiodiffusione è in gran parte in digitale, questo assicura una assenza dei disturbi ed una maggiore fedeltà.
(G. Mocchetti)
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V
(25 novembre - 2 dicembre 2024)

In Provincia di Latina 22.256 abitanti risiedono in aree a rischio di frana e altri 21.844 in zone a rischio da alluvione, in pratica quasi il 10% su una popolazione di 574.226 persone. Sono i numeri principali della Mappa dei rischi dei Comuni italiani pubblicata dall'Istat i cui dati relativi alla popolazione potenzialmente esposta a rischio.
Abusivismo edilizio, consumo di suolo, disboscamento, incendi boschivi, degrado e sfruttamento intensivo delle risorse ambientali tra le principali cause delle criticità del nostro territorio. Nell’incontro, una particolare è dedicata al rischio frana, che principalmente interessa i territori comunali di Norma e Sermoneta.
Il secondo incontro è incentrato sul rischio idrogeologico. In particolare sono presentati gli effetti dei numerosi allagamenti che hanno devastato, negli ultimi decenni, vaste aree dell’Agro Pontino, comprese città e borghi.
I cambiamenti climatici (problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali ed economici), chiamati in causa in queste occasioni, pur essendo di grande importanza per la salute compromessa del nostro Pianeta, non sono la sola e principale causa di quanto sta avvenendo. Ovviamente, il cambiamento climatico ha effetti seri sui fenomeni di dissesto idrogeologico e sulla vulnerabilità del territorio. Insistere solo su questo aspetto, però, serve probabilmente a non farci avvertire il peso gravoso della responsabilità che tutti ci riguarda. Serve però, e soprattutto, alla politica che scarsamente ha investito sulla tutela del territorio e dell’ambiente.
Date le dimensioni e il ripetersi dei fenomeni è diventato ormai del tutto evidente (anche agli occhi di chi ha per decenni sottovalutato il problema) quanto sia importante affrontare con specifici interventi, sia pur tardivi, i danni all’ambiente procurati dalla noncuranza e da politiche disastrose sotto il profilo ambientale e mettere al più presto in campo programmi di prevenzione e manutenzione ordinaria, di controllo e di tutela del territorio sistematici.
La manutenzione dei torrenti e il monitoraggio dei corsi d’acqua, il controllo del deflusso delle acque, la regimentazione e la regolazione della loro canalizzazione, la pulizia sistematica dei torrenti, il monitoraggio del loro corso e dei rifiuti scaricati nelle acque, il controllo strutturale degli edifici e dei ponti, la verifica della solidità strutturale dei beni archeologici e monumentali, delle scuole cittadine, sono alcuni interventi prioritari e urgenti.
A questo punto, è superfluo sottolineare l'urgenza a necessità di mettere uno stop definitivo all’utilizzo selvaggio del suolo, pericolosamente sovraffollato con insediamenti selvaggi.
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VI
(9 dicembre 2024)
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Come il film ‘Fantasia’ del 1940, questa pellicola ripropone la musica come cuore dello spettacolo, traducendola ‘in immagini. Essa è stata ideata e realizzata in occasione del sessantesimo anno di uscita del primo film Fantasia, e anche per celebrare l'inizio del nuovo millennio.
Il film è composto da otto episodi, accompagnati da altrettante opere sinfoniche.
In apertura, sul palco, i musicisti accordano gli strumenti, attendono il via del direttore d'orchestra: quindi entra in scena la protagonista, la musica.
La Sinfonia n.5 di Beethoven dà il via: mille farfalle stilizzate danzano in un mondo colorato e illuminato, in contrasto con l'oscurità, dove neri pipistrelli cercano di prevalere. Il bene e il male ingaggiano una lotta che vede contrapposti due gruppi di oggetti, diversi per forma e colore fino allo scontro finale.
Segue Respighi con I pini di Roma, musica che accompagna le avventure di un cucciolo di megattera e della sua tenera famiglia. Un gruppo di megattere prende miracolosamente il volo …
La terza sequenza mostra la vita frenetica di quattro persone, che si perdono nella confusione della grande New York. Una favola ambientata nella Manhattan dell'eta d'oro del jazz si colora con le tante sfumature blu della Rapsodia di Gerschwin.
Accompagnata dalla struggente melodia del Concerto per pianoforte n.2 di Shostakovic, si svolge la storia d'amore tra il soldatino di stagno e la ballerina, come nella fiaba di Andersen.
Lo spassoso quinto episodio, con Il carnevale degli animali di Saint Saens, presenta un anticonformista fenicottero rosa che con il suo yo-yo semina il panico e lo sdegno fra i componenti dello stormo.
La sesta sequenza (ripresa dal film ‘Fantasia’ del 1940) racconta la magia di Topolino, che indossa il cappello magico azzurro che non avrebbe mai dovuto usare. Le note de L'apprendista stregone di Dukas accompagnano i guai che combina il maghetto.
Pomp and Circumstance di Elgar guida Paperino, nei panni di Noè, che prova a far salire sull'Arca tutti gli animali che può per salvarli dal diluvio.
L'ultimo episodio ci proietta nella lotta fra Bene e Male, fra Natura e Morte: la suite de L'uccello di fuoco di Stravinskij sostiene l'incalzante combattimento. Lo spirito della natura viene evocato dal re della foresta, un alce solitario.
I brani musicali di Fantasia 2000 sono eseguiti dalla Chicago Symphony Orchestra diretta da James Levine
“Viviamo in un’epoca in cui i nostri modi di vivere, di comunicare e di pensare, di come comprendiamo e viviamo la fede e la scienza si stanno rapidamente trasformando. L’arduo compito per la teologia è di essere in grado di avvalersi di categorie nuove elaborate da altri saperi, per penetrare e comunicare le verità della fede e trasmettere l’insegnamento di Gesù nei linguaggi odierni, con originalità e consapevolezza critica.” (Papa Francesco)
Così affermava, nel cuore del XVII secolo, Galileo Galilei, astronomo e filosofo cristiano:
«Intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo». (Galileo Galilei, “Lettere”)
E ancora:
“La filosofia naturale è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l’universo, ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”. (Galileo Galilei, “Il Saggiatore”)
Entanglement
L’entaglement è un’interazione tra realtà e osservatore i quali non sono più indipendenti, e quindi la misurazione di un osservabile di uno dei due determina simultaneamente il valore della stessa osservazione anche per l’altro sistema, indipendentemente da quella che è la loro distanza fisica. (Carlo Rovelli, “Helgoland”)
Le scienze nel cuore della materia
- Biologia: La scienza che studia gli esseri viventi, i fenomeni della vita e le leggi che li governano;
- Chimica: Le proprietà, la composizione, l'identificazione, la preparazione e il modo di reagire delle sostanze sia naturali sia artificiali del regno inorganico e di quello organico.
- Fisica: I costituenti fondamentali e le interazioni fondamentali della materia
- Fisica Quantistica: Il comportamento dei sistemi di dimensioni atomiche o subatomiche elettroni, nuclei, atomi, molecole ecc.) per i quali non sono verificate le leggi della meccanica classica.
La comprensione della realtà
Fisica – Metafisica – Mistica: conoscere l’Oltre tra i confini

Se nessuna legge di natura è sufficiente per descrivere l’evoluzione della biosfera, dell’evoluzione tecnologica, della storia umana, che cosa prende il suo posto? Una meravigliosa creatività radicale, senza un creatore soprannaturale.
Affacciatevi alla finestra e guardate la vita che brulica! Semplicemente, il sole splende da quasi 5 miliardi di anni e la vita ne ha compiuti 3,8. La vasta riva lussureggiante di vita - per rievocare la celebre espressione di Darwin - è nata con le sue sole forze.
Questa trama della vita, il sistema più complesso che conosciamo nell’universo, non viola alcuna legge della fisica, eppure è al contempo senza leggi, incessantemente creativa. Ciò vale anche per la storia dell’uomo e per la vita umana. Questa creatività è sorprendente, terrificante e non possiamo ignorarla.
"Una concezione di Dio è che Dio è il nome da noi scelto per questa incessante creatività dell’universo naturale, della biosfera e delle culture umane". (Stuart Kauffman, “Reinventare il sacro”)
Il rappoto tra DIO e il COSMO
PAN-EN-TEISMO = Tutti In Dio
Campo trinitario panenteista
Dio è il nome da noi scelto per questa incessante creatività dell’universo naturale, della biosfera e delle culture umane.
«Il cristiano del futuro o sarà mistico o non sarà neppure cristiano» (Karl Rahner)
“Lo Spirito di Dio ha riempito l'universo di possibilità e quindi, dal cuore stesso delle cose, può sempre emergere qualcosa di nuovo ” … “Non si può sottolineare abbastanza come tutto sia interconnesso. Il tempo e lo spazio non sono indipendenti l'uno dall'altro, e nemmeno gli atomi o le particelle subatomiche non possono essere considerati isolatamente. Proprio come i diversi aspetti del pianeta – fisici, chimici e biologici – sono interconnessi, così anche le specie viventi fanno parte di una rete che non esploreremo e comprenderemo mai completamente” (Papa Francesco, “Laudato si’).
La cosmovisione 'non duale' della realtà può derivare oggi dagli apporti delle varie scienze
(fisica, biologia, neuroscienze, psicologia, sociologia...)
(dall'incontro con Paolo Gamberini)
PAOLO GAMBERINI
Gesuita, nato nel 1960, ha conseguito la laurea in filosofia presso l’Università del Sacro Cuore di Milano e il dottorato in teologia presso la Philosophisch-theologische Hochschule sankt georgen di Francoforte (Germania). È stato professore straordinario presso la Facoltà teologica dell’Italia meridionale e professore invitato presso varie istituzioni accademiche negli Stati Uniti (Chicago, Boston e Berkeley). Attualmente è titolare della Donald I. MacLean Chair, SJ, presso la Saint Joseph University di Philadelphia (Pennsylvania, USA). La sua posizione teoretica è da lui stesso denominata “monismo relativo”. Nelle sue ricerche, infatti, egli tenta di coniugare la visione filosofica del monismo (Dio è uno e tutto) con la prospettiva monoteista-relativa della fede cristiana e, allo stesso tempo, di coniugare il primato della consapevolezza con la comprensione della mente di Dio come orizzonte intrascendibile della realtà.
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VIII
(13 gennaio 2025)
Il motto "ΓΝΩΘΙ ΣEΑΥΤΟN" ("Γνῶθι σεαυτόν" - Gnòthi seautòn, “Conosci te stesso”), inciso sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, voleva significare, nella sua laconica brevità, la caratteristica dell'antica sapienza greca.
Il tempio di Apollo a Delfi
Il suo significato originario, era quello di voler ammonire a conoscere i propri limiti, una esortazione a non cadere negli eccessi, a non offendere la divinità pretendendo di essere come il dio. Del resto tutta la tradizione antica mostra come l'ideale del saggio, colui che possiede la "saggezza", sia quello di conseguire la moderazione e di rifuggire dalla tracotanza e dalla superbia.
All'antica sapienza delfica Socrate si richiama quando assume a motto della sua ricerca l'esortazione delfica che rappresenta un invito all'umile riconoscimento della pochezza umana di fronte alla divinità, e che certo anche Socrate intende nel senso dell'avvertimento della propria ignoranza.

Ogni conoscenza comincia dunque da sé stessi. Nell’intimo fisicità di ciascun uomo è il soffio vitale (anima) e il bisogno di ‘sapere’.
Ciò che oggi chiamiamo ‘anima’ è quello che per gli antichi ebrei era la “ruach” (il respiro di Dio), per gli Elleni “pneuma”, “ànemos”, “psyché” (soffio vitale), per gli Indù l’ “atman” (lo spirito vitale), per i Latini l’ “ànima” e lo “spiritus” (il respiro). Nel nostro tempo e in ambito scientifico, per ‘anima’ si intende la vita stessa, il respiro che ne rivela presenza, e più specificamente la capacità umana di comprendere e di volere, la “mente” o, riprendendo un vecchio termine, la “psiche”. Negli ambiti filosofico e religioso, sono attribuite all’anima connotazioni più tipicamente metafisiche e spirituali, oggetto di fede ma non di esplorazione scientifica.
Nella moderna ‘Psicologia scientifica’, il concetto di ‘anima’, inteso come essenziale elemento costitutivo della forma della vita umana, è inevitabilmente riconducibile alla dimensione corporea dell’uomo, al suo cuore (cioè ai sentimenti e alle emozioni), alla mente pensante, al cervello (centrale operativa di controllo di tutte le funzioni organiche), e dunque all’organismo in tutta la sua complessità.
L’organismo, un aggregato organizzato di specifiche molecole dotato di complessità chimica e strutturale in grado di riprodursi generando organismi simili, in due versioni complementari: quella maschile e quella femminile.
Nell'organismo, il sistema neuroendocrino (cervello, midollo spinale, rete nervosa periferica, apparato ghiandolare) è l’asse portante della ‘vita fisica individuale’, e quindi dell’anima vivificante la corporeità.
Le lontane origini delle scienze del cervello si perdono nella storia della civiltà egizia e nei tempi delle indagini aristoteliche e del medico greco Ippocrate. Fu il romano Galeno (II sec. d.C.) a occuparsi del sistema nervoso e a collocare la mente nel cervello.Anche Averroè e Maimonide, nel mondo islamico medievale, descrissero problemi medici correlati al cervello. Nel XVII secolo il filosofo René Descartes ipotizzò la sede dell’anima nella ghiandola pituitaria (ipofisi) nel nucleo centrale encefalico sulla sella turcica.
Grazie all'invenzione del microscopio Camillo Golgi, verso la fine degli anni 1890, utilizzando un metodo di colorazione dei reticolo cellulari cerebrali (mediante sale cromato d'argento) riuscì ad evidenziare le strutture complesse del singolo neurone. La sua tecnica venne utilizzata da Santiago Ramón y Cajal e portò all'ipotesi che l'unità funzionale del cervello fosse il neurone. Golgi e Ramón y Cajal condivisero il Premio Nobel per la medicina nel 1906 per le loro ampie osservazioni, descrizioni e categorizzazioni dei neuroni in tutto il cervello.
Ma già all’Università di Lipsia che nel 1789 - con la fondazione del primo laboratorio di ricerca psicologica sperimentale da parte di Whilelm Wundt - si era aperta la strada allo studio scientifico dei processi mentali. Il metodo sperimentale, attraverso l’osservazione, la descrizione, la generazione di ipotesi e gli esperimenti-verifiche di ipotesi, permetteva di stabilire una relazione di causalità tra un fenomeno e le variabili controllate dallo sperimentatore.
La via tracciata da Wundt (Strutturalismo) rappresenta una grande svolta nella storia delle neuroscienze, perché determina una netta separazione tra la psicologia e la filosofia, identificando la psicologia come una disciplina scientifica autonoma dotata di un proprio rigoroso modello di ricerca in quanto all’OGGETTO (l’esperienza dei processi mentali), al METODO (l’introspezione diretta) e l’OBIETTIVO (l’analisi elementare dei processi coscienti).
Negli utimi due secoli, la Psicologia scientifica si è ramificata in diversi campi specifici, tra cui quello della ricerca sperimentale, quello degli studi sul comportamento (Behaviorism), quello relativo ai processi sensoriali e percettivi (Gestalt), quello dell’esplorazione dell’inconscio (Psicoanalisi), quello sulla base anatomo-fisiologica dei processi mentali (Psicobiologia), generalmente confluenti nell’ampio territorio delle Neuroscienze.
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IX
(20 gennaio 2025)
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X
(27 gennaio - 3 e 10 febbraio 2025)
Sigmund Freud e la Psicoanalisi
Il nome di Sigmund Freud (1856-1939) è legato in modo indissolubile non soltanto alla psichiatria, ma in generale alla cultura del Novecento, dal momento che i suoi studi sull’inconscio indussero una rivoluzionaria trasformazione nel modo di intendere l’uomo rispetto al passato.
Sigmund Freud nacque a Freiberg, in Moravia (l’attuale Repubblica Ceca) nel 1856 da genitori di origine ebraica. Studiò a Vienna e, dopo essersi laureato in medicina, ottenne al libera docenza in neuropatologia.
Nel 1885, grazie a una borsa di studio, si recò a Parigi, dove era attivo, alla Salpetrière, il medico Jean-Martin Charcot. Durante il suo soggiorno in Francia Freud ebbe occasione di osservare da vicino Charcot mentre si serviva dall’ipnosi nel trattamento dei pazienti isterici. Questi aveva mostrato che la concezione tradizionale dell’isteria come malattia esclusivamente femminile non era corretta, e a sostegno di ciò aveva provato l’esistenza di sintomi isterici in alcuni suoi pazienti maschi.

Il prof. Charcot alla Salpetriére
Freud approfondì il metodo dell’ipnosi: durante la trance ipnotica il paziente affetto da isterìa faceva affiorare eventi completamente rimossi; un miglioramento della situazione clinica si rilevava quando questi riusciva a raccontare al medico i ricordi emersi durante l’ipnosi. Questo metodo era definito ‘catartico’, per indicare la liberazione da emozioni, tensioni e ansie, grazie al recupero di ricordi o di pensieri.
Una svolta nel processo evolutivo delle teorie di Freud fu determinato dal caso di Anna O. l'incontro con il collega viennese Josef Breuer intorno al caso di Anna O. Breuer curava l'isteria della sua paziente attraverso l'ipnosi nel tentativo di guarirla da sintomi isterici invalidanti. Il metodo elaborato da Breuer si basava sul presupposto che il sintomo isterico fosse espressione di una profonda conflittualità repressa, che non trovando alcuna forma di sfogo, si manifestava in forma nevrotica. Breuer riteneva che, per eliminare il sintomo, occorresse risalire alle sue radici, facendo emergere i conflitti interiori che lo avevano provocato. L’ipnosi sembrava rivelarsi efficace perché, allentando le resistenze del pensiero cosciente, consentiva alle tensioni più profonde di manifestarsi. Ma la terapia tramite l’ipnosi parve a Freud deludente, poiché era evidente che Anna guariva, a tratti, per compiacere il dottor Breuer. Freud ipotizzò allora che non era l’ipnosi a causare la temporanea guarigione, ma la relazione emotiva che si stabiliva tra la paziente e il terapeuta.

Joseph Breuer, Anna O. e Sigmund Freud
Freud si spinse allora a studiare una tecnica terapeutica alternativa all’ipnosi, basata sulla partecipazione attiva e consapevole del paziente alla cura: era la prima idea di quella che diventerà la psicoanalisi, come metodo di cura e come teoria della personalità umana.
Intorno alla metà degli anni ’90 Freud, seguendo alcune illuminanti intuizioni di Charcot, andò maturando la convinzione che la sessualità fosse il principale elemento scatenante delle nevrosi. Egli aveva osservato che la maggior parte dei suoi pazienti riferiva esperienze sessuali traumatiche risalenti all’infanzia, come episodi di seduzione da parte di familiari. Nonostante si trattasse spesso di pure fantasie, il loro legame con il comportamento nevrotico risultava evidente. Ciò indusse Freud ad approfondire lo studio della sessualità adulta e infantile.
La sessualità, secondo Freud, non riguarda esclusivamente la sfera genitale o l’attività riproduttiva, ma si riferisce ad un fenomeno più complesso e ampio inteso alla ricerca del piacere. La pulsione sessuale venne definita da Freud come ‘libido’, attiva anche nei bambini. Egli definisce il bambino come un ‘perverso polimorfo’; perverso, perché nel bambino sono presenti pulsioni sessuali, che tuttavia non hanno come fine la riproduzione; polimorfo, perché il bambino prova piacere attraverso varie parti del suo corpo.
Dalla fase orale, il cui piacere è rappresentato dalla suzione e si identifica con la bocca, il piccolo passa alla fase anale, che ha nell’ano la sua zona erogena; la fase genitale, invece, ha come zona erogena gli organi sessuali. Ne segue un periodo di latenza, in cui si assiste all’interruzione della sessualità. Con la pubertà la sessualità ritorna ad esplodere. Durante la fase genitale, tra i tre e i cinque anni, si registra un attaccamento erotico del bambino verso il genitore del sesso opposto. Il maschietto, ad esempio, sviluppa sentimenti ostili verso il padre, e desidera avere la madre tutta per sé. Stessa cosa accade anche alla bambina che a sua volta si innamora del padre. Freud denominò questa teoria ‘complesso di Edipo’. Superare tale complesso è essenziale per poter maturare e vivere la propria sessualità in maniera matura e soddisfacente.
Intorno al 1920 Freud elaborò una teoria sulla personalità umana, individuando in essa tre fondamentali componenti: Io, Es e Super-io.
L’Es è la parte più oscura e istintiva dell’uomo, dove desideri, impulsi e pulsioni si manifestano nella loro assoluta e sfrenata libertà; ad arginare la prepotenza di queste forze inconsce che cercano di imporsi anche sulla vita cosciente interviene il Super-io, una specie di controllore o di coscienza morale, che impone precise norme per impedire all’Es di prendere il sopravvento. Al centro di questa lotta si trova l’Io, che rappresenta l’individuo nel suo quotidiano tentativo di mediare fra le esigenze dell’Es e gli imperativi del Super-io.
La personalità umana appare quindi soggetta (non soltanto negli individui nevrotici, ma in tutti gli esseri umani) a una conflittualità interiore che si svolge, per lo più, a livello inconscio. Questa conflittualità, può generare infatti un disturbo della psiche, la nevrosi, una malattia della psiche causata da forti conflitti inconsci tra l’Io e le pulsioni dell’Es, generalmente di carattere sessuale.

Le tre istanze della Psyche (vignetta)
La psicoanalisi è lo studio sistematico dell’inconscio, e secondo Freud il sogno è la via privilegiata di accesso all’inconscio.
Secondo Freud la nostra psiche è anche simile ad un iceberg; la coscienza è la parte consapevole della nostra personalità ed è rappresentata dalla punta dell’iceberg che affiora dalla superficie dell’acqua. L’inconscio rappresenta tutti i desideri che sono stati rimossi dal soggetto, mentre, il preconscio rappresenta quei contenuti che sono stati rimossi momentaneamente, ma possono riaffiorare in qualsiasi momento.

La 'psyche' come un iceberg
Nel 1900 Freud pubblicò L'interpretazione dei sogni, considerata il vero e proprio manifesto della psicoanalisi.
In quest’opera egli sosteneva che i sogni nascondono i nostri desideri profondi. Tuttavia non è semplice interpretare i sogni, che spesso hanno significati oscuri. Freud scoprì l’esistenza di due livelli nel sogno; il sogno manifesto, che rappresenta la scena mentale che viene rappresentata durante il sonno che ricordiamo al risveglio, e il sogno latente, cioè il suo significato nascosto. Il contenuto manifesto del sogno attinge le sue immagini da avvenimenti della vita recente, il contenuto latente, invece, si rifà a un tempo molto lontano. I sogni rivelano desideri non realizzati che vengono solitamente rimossi, perché percepiti come inaccettabili dal soggetto; questi desideri sono attinenti, in genere, alla sfera sessuale. Poiché il linguaggio dei sogni è simbolico, i sogni vanno interpretati; il soggetto che sogna, infatti, prova vergogna per i propri desideri e li sottopone a censura. Grazie al lavoro onirico, la scena del sogno, precedentemente rimossa, viene ricostruita simbolicamente e i desideri possono venire alla luce.
La 'dimensione sociale' della Psyche
Nell’opera Totem e tabù (1913), Freud affrontò il tema dell’origine della civiltà.
Inizialmente gli uomini vivevano in piccole tribù, in cui un maschio aveva la prevalenza su tutti, possedeva tutte le donne e aveva tanti figli. Ai figli era vietato accoppiarsi con le donne del padre, ma un giorno i figli uccisero il padre e lo mangiarono. I figli sentirono però un senso di colpa per aver ucciso il padre e per questo decisero di creare un codice di norme che regolasse i rapporti sociali. Nacquero così la morale e la religione e fu creato anche il totem che rappresentava la figura sostitutiva del padre morto, simbolo dell’autorità. In questo modo ha avuto origine la civiltà.
Per Freud gli uomini ricercano la felicità, sia come assenza di dolore, sia come tendenza a realizzare i proprio desideri. Ma il principio del piacere, ovvero, la realizzazione immediata dei desideri attraverso la fantasia, si scontra con il principio della realtà, in cui ci si rende conto che solo la realtà può davvero appagare i nostri desideri. Per tale motivo, lo scontro tra questi due principi, provoca infelicità. Secondo Freud l’uomo non può fare a meno degli altri e per questo deve porre un freno alle proprie pulsioni; la loro libera manifestazione renderebbe impossibile il rapporto con gli altri. Per porre freno alle pulsioni, la società contribuisce a rendere più forte il Super-Io individuale, attraverso il Super-Io sociale, che deve rafforzare il primo. Il Super-Io civile è il fautore dei tabù, ossia l’ insieme di proibizioni. In questo modo la personalità dell’individuo, già repressa dal proprio Super-Io individuale, è soggetta ad una nuova costrizione causata dal Super-Io civile, generando negli individui un grande senso di angoscia, poiché si sentono fortemente limitati. Ad un grado di civilizzazione maggiore, corrisponderà un più forte senso di repressione. Freud ammetteva tuttavia che la società è indispensabile perché essa deve contenere le pulsioni proprio per favorire la felicità degli individui.
In Il disagio della civiltà (1930), Freud si soffermò a considerare la civiltà moderna come una della fonti della sofferenza umana.
L’uomo, grazie al progresso della scienza e della tecnica, esercita un forte dominio sulla natura ed egli è per questo diventato molto simile a Dio. Questo fatto dovrebbe rendere l’uomo felice perché egli è quasi riuscito a soddisfare i suoi ideali di civiltà, cioè quelli di onnipotenza e di onniscienza. Nonostante la potenza ottenuta, l’uomo non è in realtà felice e la causa di questa infelicità è da ricercare nella civiltà, perché essa gli impone grandi sacrifici. La civiltà infatti, per realizzare i suoi scopi, deve regolamentare le pulsioni sessuali degli uomini che altrimenti avrebbero un effetto distruttivo su ogni possibilità di convivenza.
Per regolare efficacemente le relazioni sociali tra gli uomini, è necessario che si affermi una maggioranza più forte del singolo individuo che limiti cioè le sue libertà: secondo Freud il passo decisivo verso la civiltà è la sostituzione del potere della maggioranza a quello del singolo. La vera giustizia è rappresentata da ciò che la maggioranza ritiene giusto e affinché questa giustizia esista ognuno deve cedere parte della sua libertà, per ricevere in cambio sicurezza assicurata dal diritto.
Lo sforzo che la società compie per controllare le pulsioni aggressive degli uomini vuole come ideale da raggiungere quello che ogni uomo ami il suo prossimo come se stesso, e per fare questo deve creare identificazioni e relazioni positive tra gli uomini, per fare in modo che ogni singolo non veda gli altri uomini come degli avversari sui quali sfogare le sue pulsioni aggressive. Il disagio della civiltà è però secondo Freud ineliminabile, perché oltre certi limiti non sarà possibile liberarsi del carattere repressivo della società.
La Psicoanalisi nella cultura del XX secolo
Avversata da medici e psicologi del tempo, nonché da molti scrittori e intellettuali, la psicoanalisi ottenne una progressiva affermazione, tanto che nel secondo Dopoguerra doversi psicoanalisti ottennero cattedre in prestigiose università di tutto il mondo.
La scoperta dell'inconscio, contribuì a rendere consapevole l'uomo contemporaneo delle spinte irrazionali che determinano il suo comportamento. Cosciente dei propri istinti, l'uomo del Novecento, prima scisso fra coscienza e inconscio, razionalità e pulsioni, sviluppa una nuova dialettica, una sorta di interiorità di massa che permetterà all'individuo di sviluppare una propria autonoma identità.
La letteratura, il cinema, le arti, saranno ampiamente influenzati dalla psicoanalisi. I surrealisti, Proust, Joyce, Svevo, la Woolf, coevi di Freud, produssero opere letterarie che, pur non essendo psicoanalitiche in senso stretto, risentono del nuovo clima culturale e abbondano di associazioni mentali, frammenti di ricordi, fantasie, visioni, emozioni, descrizioni di comportamenti bizzarri. Si fa strada in letteratura la tecnica dello stream of consciousness (flusso di coscienza) che si propone di riprodurre l'attività psichica nel suo farsi, nel suo fondere razionale e irrazionale, idee, percezioni, sentimenti, ricordi, sensazioni nel loro continuo e contemporaneo fluire.
La psicoanalisi sembra aver perduto con gli anni la sua carica innovativa delle origini, caldeggiata dallo stesso Freud, per certi versi accentratore, dogmatico e autoritario, eppure scienziato sperimentale, disponibile a mutare idee e spiegazioni alla luce dei nuovi fatti che emergevano dall'osservazione clinica.
Gli epistemologi definiscono oggi le teorie psicoanalitiche come "non falsificabili", "inverificabili" e perciò non scientifiche secondo gli attuali paradigmi della scienza. La psicoanalisi propone infatti intuizioni, non verità scientifiche, un quadro teorico suggestivo che Freud stesso definì “una mitologia”.
Alle teorie freudiane sono comunque legate - direttamente o indirettamente - tutti gli indirizzi più innovativi della letteratura e delle arti europee del primo Novecento, nelle quali viene posta l’attenzione sulla crisi d’identità e sul disagio dell’uomo moderno, sul carattere relativo e inconoscibile della realtà, sulla vita psichica in tutti i suoi aspetti e sul recupero del passato nella dimensione del ricordo.
(g.b.)
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XI
(17 febbraio 2025)
I terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato un numero elevatissimo di perdite umane e danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro, che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale. In Italia, il rapporto tra i danni prodotti dai terremoti e l’energia rilasciata nel corso degli eventi è molto più alto rispetto a quello che si verifica normalmente in altri Paesi ad elevata sismicità, quali la California o il Giappone.
Il rischio sismico è determinato da una combinazione della pericolosità, della vulnerabilità e dell'esposizione ed è la misura dei danni che, in base al tipo di sismicità, di resistenza delle costruzioni e di antropizzazione (natura, qualità e quantità dei beni esposti), ci si può attendere in un dato intervallo di tempo In Italia, possiamo attribuire alla pericolosità sismica un livello medio-alto, per la frequenza e l’intensità dei fenomeni che si susseguono.
La Penisola italiana, però, rispetto ad altri Paesi come la California o il Giappone, nei quali la pericolosità è anche maggiore, ha una vulnerabilità molto elevata, per la notevole fragilità del suo patrimonio edilizio, nonché del sistema infrastrutturale, industriale, produttivo e delle reti dei servizi. L’esposizione, si attesta su valori altissimi, in considerazione dell’alta densità abitativa e della presenza di un patrimonio storico, artistico e monumentale unico al mondo. In questo senso è significativo l’evento del 1997 in Umbria e Marche, che ha fortemente danneggiato circa 600 chiese e, emblematicamente, la Basilica di S. Francesco d’Assisi.
L’Italia è dunque un Paese ad elevato rischio sismico, inteso come perdite attese a seguito di un terremoto, in termini di vittime, danni alle costruzioni e conseguenti costi. Nessuno può prevedere quando avverrà un terremoto, perché potrebbe verificarsi in qualsiasi momento. Sui terremoti sappiamo molte cose, ma non è ancora possibile prevedere con certezza quando, con quale forza e precisamente dove si verificheranno. Sappiamo bene, però, quali sono le zone più pericolose e cosa possiamo aspettarci da una scossa: essere preparati è il modo migliore per prevenire e ridurre le conseguenze di un terremoto.
(Alessandro Carlomagno)
XII
(24 febbraio 2025)
Il treno della nostra vita (e la stessa esistenza del mondo che conosciamo) corre sul percorso segnato da un binario. La corsa è scandita dal ritmo del tempo, che possiamo facilmente avvertire dalle pulsazioni del cuore, la pompa biologica che garantisce senza soluzione di continuità il ricambio metabolico e la sopravvivenza degli organismi viventi.
PANTA REI - “Tutto scorre” asseriva Eraclito di Efeso (VI secolo a C.), uno dei primi filosofi della storia. Come l’acqua del fiume scorre incessantemente verso il mare, e in nessun punto del suo percorso è uguale a sè stessa, così tutto ciò che esiste ci appare come in corsa sul binario del tempo. In questa corsa circolare, “tutto nasce – tutto muore” e lungo la via tracciata dalla temporalità, “tutto diventa”, si trasforma, in eterna incessante metamorfosi.
La cifra binaria è presente nella dominante bipolarità biologica: la doppia spirale del DNA che porta nel nucleo di ciascuna delle cellule di un organismo la ‘carta di identità’ dell’organismo medesimo, il dimorfismo simmetrico e speculare delle forme corporee, la sessualità come modello elettivo di riproduzione delle specie alimentato da una irresistibile attrazione a servizio della filogenesi.
Questo ‘magnetismo amoroso’ tra individui appartenenti ai due sessi fiorisce nell’esperienza della diversità. Ci attrae ciò che ci somiglia, ma anche ciò che è diverso. La diversità diventa generatrice di vita. Il sesso è lo “slancio vitale” dell’evoluzione creatrice.
La vita è dunque moto, continuo divenire, riformarsi mediante l’energia termica. Il calore è luce, e la luce è il focolaio della vita. Noi viventi siamo tutti tedofori di luce. Ma non viaggiando su una monorotaia. Non si può celebrare la vita se non in due. Il tragitto dell’esistenza si compie su due rotaie.
Anche la ‘parola’ - strumento principe della comunicazione intersoggetiva - il più potente dei ponti costruiti dall’uomo nel corso della sua evoluzione, non è che un eccellente strumento binario che permette il dialogo (relazione duale) tra creature pensanti. Il rapporto binario del ponte verbale è efficacemente rappresentato dalle parole che indicano I confini estremi tra le esperienze emergenti nel cammino della vita: buio - luce, bene - male, sì - no, senso - non senso, amico - nemico, vita - morte, 0 - 1 ...
Gottfried Leibniz, geniale filosofo e matematico del XVII secolo, propose (nel 1679) l’adozione del ‘codice binario’ in alternativa al codice decimale della numerazione araba. Si trattava di un sistema numerico posizionale a base 2, basato sull’utilizzazione di due simboli, 0 e 1 al posto dei 10 del sistema numerico tradizionale. Le sequenze numeriche formate dalle cifre 0 e 1 diversamente combinate consentirono a Leibniz la creazione della prima macchina calcolatrice in grado di eseguire operazioni di moltiplicazione e divisione. Oggi il codice binario costituisce il linguaggio proprio dei moderni calcolatori elettronici, dei personal computers, e dell’ampio spettro degli strumenti della comunicazione digitale.
Tra ciò che ci circonda e che per abitudine consideriamo ‘reale’, e l’ ‘ideale’, cioé le vivide figure dell’immaginario che ce ne forniscono la rappresentazione, resta l’inappagato umanissimo bisogno di colmare il gap del desiderio di unificazione ultima della dualità. Correre sul binario e tornare finalmente al punto di partenza, ai confini della temporalità, al ‘sempre’ e al ‘mai’ del sogno e della poesia.
(g.b.)
Una canzone di Claudio Villa del 1959 ispirata al ... binario
XIII
(3 - 10 - 17 marzo 2025)
XIV
(24 marzo 2025)
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LA POESIA
Cosa fanno i poeti (E. Dickinson)
Cosa fanno I poeti?
Accendono una lampada e spariscono.
Questo fanno i poeti
Ma le scintille che hanno ravvivato,
durano più del sole.
I poeti lavorano di notte (A. Merini)
I poeti lavorano di notte
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto.
Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno più rumore
di una dorata cupola di stelle.
Solitudine (Matilde Cianfoni)
Come spiaggia autunnale
la mia anima,
rottami portati dalle onde della vita
al ricordo dei sogni.
Nel cuore brandelli di emozioni:
essenze di forme disfatte,
colori sbiaditi dal tempo
svaniscono come ombre al raggio di luce.
Chi sei tu, lettore? (Tagore)
Chi sei tu, lettore,
che leggi le mie parole tra un centinaio d’anni?
Non posso inviarti un solo fiore
della ricchezza di questa primavera …
Ma tu, apri le porte e guardati intorno:
dal tuo giardino in fiore
cogli i ricordi dei fiori svaniti
un centinaio d’anni fa.
e sentirai la voce lieta
che ancora canta
sull’onda lunga di un centinaio d’anni.
MARE
** CANZONE: “ 'O marenariello” (Ottavianoo – Gambardella)
MareAmmore (M. Rosaria Vitiello)
Si solo o’ veco a’ luntano
già me sbatte o’ core
Proprio comme succere all’amante
Quanno e’ nascosto va all’appuntamento.
Io cu’ o’ mare ce pazzeo Int’ a’ bella staggione
A cucuzettate e a fujarella
Quann’ io me nascconno dint’ all’onna soie
Quann’isso me secute alleramente
Fino ‘ncoppa a’ rena .
Io cu’ o’ mare ce parlo
E nun solo de’ pene mie
Ma pure e’ chelle e’ Napule
Pe’ me sempe cchiù quadro e’ luntananze.
E isso sule pe’ crianza nun parla…ma chiagne.
E tutta l’acqua do’ mare
Addeventa e’ lacrime amare…d’ammore.
Isola (Marzia Chiurato)
Sono come isola circondata dal mare,
nutrita dalla mia essenza,
raggiunta solo da chi sa nuotare,
riva generosa per anime naufraghe.
Battuta dal vento capriccioso e benefico
che spettina capelli e pensieri,
che annoda e scioglie,
spezza e feconda.
AMORE
Questo amore (Prevert)
Questo amore
Così violento - Così fragile
Così tenero - Così disperato
Questo amore
Bello come il giorno
Cattivo come il tempo
Quando il tempo è cattivo
Questo amore così vero
Questo amore così bello
Così felice - Così gioioso
Così irrisorio
Tremante di paura come un bambino quando è buio
Così sicuro di sé
Come un uomo tranquillo nel cuore della notte
Questo amore
baciato dal sole
È il tuo amore - È il mio amore
Vero come una pianta
Tremante come un uccello
Caldo e vivo come l'estate …
Sia tu che io possiamo
Andare e tornare
Possiamo dimenticare
E poi riaddormentarci
Svegliarci soffrire invecchiare
Il nostro amore non si muove
Testardo come un mulo
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Stupido come i rimpianti
Tenero come il ricordo
Bello come il giorno
Fragile come un bambino
Ci guarda sorridendo
Ci parla senza dire
E io l'ascolto tremando
E grido
Grido per te - Grido per me
Ti supplico
Per te per me per tutti quelli che si amano
E che si sono amati:
Resta dove sei
Non andartene via …
Se noi t'abbiamo dimenticato
Tu non dimenticarci
Non abbiamo che te sulla terra
Non lasciarci morire assiderati
Lontano, dove tu vorrai
Dacci un segno di vita
E più tardi, quando sarà notte
Nella foresta del ricordo
Sorgi improvviso
Tendici la mano
e salvaci!
Odio e amo (Catullo)
Odio e amo.
Forse chiederai come questo sia possibile.
Non so, ma è proprio così e mi tormento.
** CANZONE: “ Amore che vieni, amore che vai” (De André)
STELLIO
L’Orologio (Elio Giancola )
L’orologio si è fermato
con il tuo respiro.
Ma la vita ritorna,
con te e senza te.
In un ritratto, il tuo sorriso
con lo sfondo del mare e del cielo …
La luce dei tuoi occhi,
la luce dei miei occhi.
Il ricordo e il rimpianto
di te... con te.
L’aquilone (Pascoli)
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole …
………………………………………..
La musica del silenzio
La sua anima era 'musica',
ora il canto di Stellio
è tra le stelle del cielo ...
A noi ,
ancora viandanti della notte,
Il riverbero del suo canto …
“Io son partito poi così d'improvviso
Che non ho avuto il tempo di salutare …
…
Son diventato, sai, tramonto di sera
E parlo come le foglie d'aprile
E con gli uccelli vivo il canto sottile …
…
Ma se c'è una luce che trafigge il tuo cuore
L'arcobaleno è il mio messaggio d'amore
** CANZONE: “Arcobaleno” (Mogol – Bella)
SILENZIO
Il silenzio (Marzia Chiurato)
Il silenzio è un foglio bianco in1 attesa di parole
che si prendano per mano in girotondi di pensieri
o di abbracci di colori
sfumature senza nome per nuovi arcobaleni.
È un pentagramma vuoto
che aspetta di vibrare al tocco delle note
che si posano sui righi come rondini sui fili
Il silenzio non ha voce (Matilde Cianfoni)
Il silenzio non ha voce
è un chiaro di luna
uno sguardo d ' amore
un tramonto autunnale
un pensiero al creatore
Il silenzio non ha voce
ma parla più forte del mare
L’Opera (Elio Giancola)
Il cielo, la brezza, un timido sole.
Poi la natura e il suo canto.
Il silenzio per ascoltarne la voce.
** CANZONE: “Silenzio cantatore” (Bovio – Lama)
Finale - BUONA NOTTE
Il suono delle campane (Andrea Barbato)
In quel rintocco
le mie mattine domenicali,
le corse nel cortile con gli amici,
e poi in chiesa
per la messa con i genitori.
Dopo la messa,
all’ uscita di chiesa
tutta un’aria di festa intorno
e il suono gioioso delle campane
che infondeva allegria all’anima.
Momenti e ricordi,
gemme preziose
incastonate per sempre
nello scrigno del cuore.
** CANZONE: “Buonanotte, Fiorellino” (De Gregori)
* * *
XV
(31 marzo 2025)
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I
“treni della felicità”,
una storia di accoglienza nell’Italia del dopoguerra
80 anni fa, le storie di miseria e distruzione che siamo abituati a vedere al piccolo schermo dei nostri televisori, e che riguardano milioni di esseri umani umiliati e violentati in terre non lontane dalla nostra, riguardavano anche noi. Dopo la guerra, l’Italia era un paese devastato. Soprattutto il Sud, la cui popolazione infantile versava in condizioni gravissime. Da un’idea di Teresa Noce, famosa partigiana battagliera, nacquero i «treni della felicità».
Teresa Noce
Il viaggio di questi bambini di soli 4, 6 anni, fu in qualche modo iniziatico: non avevano idea di cosa li aspettasse. È una storia rimossa, in cui le donne ebbero grande protagonismo, mettendosi insieme. È anche una storia di vergogna – quella che si provava a lasciare i propri figli ad altri. Una storia di virtù, che oggi forse appare noiosa.
Nel 1947 partirono i primi convogli: i viaggi proseguirono fino al 1952. Destinazione: Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche. Le famiglie ospitanti erano di provenienza mista, spesso contadini già con diversi figli a carico, ex partigiani, lavoratori. Il periodo di soggiorno era di quattro mesi ma, come raccontano i protagonisti oggi ultra ottantenni, molti rimasero anche un paio d’anni. Nelle loro testimonianze ricordano quei mesi come il periodo più bello della loro infanzia.
È una ricostruzione senza protagonismi, un racconto corale di quelle donne che hanno realizzato il sogno dei “treni della felicità”, un modo coraggioso ed esemplare per ricucire l’Italia lacerata, contribuendo alla costruzione dell’identità dei singoli e di tutto il paese.
* * *
XVI
(7 aprile 2025)
Massimo Migliorini, laureato in Chimica pura con indirizzo Biochimico (Napoli, 1983) ha lavorato per oltre 25 anni in aziende chimico-farmaceutiche e ha insegnato Chimica presso Istituti superiori negli ultimi dieci anni di vita lavorativa. Dal 2023 si occupa a tempo pieno della diffusione dei corretti stili di vita nell’ambito dell’alimentazione e del movimento. Da settembre 2024 tiene il corso “Longevità e benessere” presso il centro sociale del quartiere Nuova Latina (ex Q4) a Latina. Ha svolto anche seminari su tematiche legate al benessere fisico intesi a suscitare interesse all’adozione di stili di vita salubri.
Nell’incontro dell’Oasi
culturale alla ‘Bottega delle Maschere’, Migliorini parte dalla considerazione
che esiste un gap tra l’aspettativa di vita in Italia e l’aspettativa di vita
in salute di circa 10 anni, e che in pratica si trascorrono mediamente dieci
anni di vita affetti da patologie croniche che molto spesso invalidano la qualità
di vita. Eppure esistono zone nel mondo, dette zone blu, in cui vivono un gran numero di centenari accomunati da
stili di vita salubri.

Secondo gli esperti in materia, molte malattie croniche degenerative possono essere evitate con corretti stili di vita che contemplano una sana alimentazione e una costante attività fisica. Gran parte delle malattie si originano dalla infiammazione cronica silente e dallo stress ossidativo generato dai radicali liberi che non riusciamo a contrastare adeguatamente data una alimentazione che spesso non è consona a tale obiettivo.
Alcuni sintomi e alcuni controlli ematochimici sono in grado di farci rilevare se siamo “infiammati” e, se lo siamo, dovremmo agire modificando il nostro modo di alimentarci e, soprattutto, evitare la sedentarietà.
Esistono poi dei cibi che vano preferiti ad altri: in particolare verdura, cibi integrali, legumi e frutta vanno sempre preferiti rispetto ai cibi processati. Bisogna anche porre molta attenzione alle etichette che compaiono sulle confezioni ed imparare a riconoscere le sostanze che possono nuocere alla salute.
Particolare attenzione va posta anche al nostro microbiota intestinale che va sempre tenuto in equilibrio o, per dirla in termine tecnico, in eubiosi.
Anche l’integrazione a volte è necessaria per far fronte a carenze nutrizionali manifeste. Anche il concetto di porzione e di metabolismo basale va compreso per evitare gli eccessi di cibo che portano al sovrappeso e all’obesità. L’allenamento con le varie sessioni di aerobica e anaerobica, da eseguire con costanza e dedizione, rappresentano un altro caposaldo del mantenimento in salute.
(Massimo Migliorini)
* * *
XVII
(14 aprile 2025)
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Perché? – si chiedevano – perché si erano lasciati catturare da un miraggio di redenzione nelle promesse di un maestro grande in opere e in parole, e poi sconfessato e ucciso dall’invidia dei nemici, dall’abbandono dei seguaci e dal suo stesso ostinato silenzio nell’aula di giustizia? Dopo la sconfitta, quelli che in lui avevano creduto, tutti dispersi, nascosti o in fuga. - Lontani da te, dove andremo? – aveva proclamato un giorno uno dei suoi amici, il più fragile e il più generoso – Tu solo hai parole di vita eterna! - Ma quelle parole di vita eterna si erano spente nell’oscurità di un venerdì di sangue all’ombra di un patibolo a forma di croce!
Di questo parlano i due, ricordando e soffrendo, il cuore lacerato dallo strazio della sconfitta. E non si accorgono che un terzo viandante sulla stessa strada si è accostato e cammina insieme a loro.
‘Speravamo’ … In questo imperfetto temporale (ἡμεῖς δὲ ἠλπίζομεν, nella narrazione di Luca), c’è tutto l’amaro della disillusione, ma con essa, sotto la cenere, si cela anche la scintilla viva dell’inconcluso, un briciolo dell’antica speranza che si annida nelle profondità uterine di un mistero tutto femminile, dove ombre di morte e aneliti di vita si confondono nel segreto del grembo generando inedite resurrezioni. Lo rivela proprio Cleopa, incredulo e trepidante: - Alcune delle nostre donne, che sono andate all’alba al sepolcro, ci hanno sconvolti… Hanno raccontato di non aver trovato il corpo di Yeshuà … Di aver visto angeli che affermavano che è vivo … - E aggiunge qualcosa, come il fantasma di un bisogno con la forma di sogno tanto vivido da sembrare reale: - Anche alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato quel che hanno detto le donne, ma lui non c’era …
Un tenero rimprovero dallo sconosciuto compagno di strada: - Stolti e duri di cuore, avete dimenticato quanto i Profeti avevano annunciato su ciò che doveva accadere al Cristo di Dio? - E comincia a parlarne loro, come faceva Yeshuà quando negli ultimi tre anni percorreva le contrade della Palestina portando agli ultimi e ai diseredati la buona notizia della riconciliazione divina e del nuovo regno. Essi non parlano più, ascoltano, mentre il cuore batte forte nel petto. Vorrebbero attingere a lungo a quella sorgente rivelatrice, ma il sole è sull’orizzonte e il villaggio vicino. Giunti a Emmaus, in vista di una locanda, lo straniero fa per proseguire oltre il punto in cui le loro strade sembrano dividersi. Cleopa e il suo compagno fremono nell’ansia della prossima solitudine: - Rimani ancora con noi, perché si sta facendo sera e il giorno declina … -
L’invocazione dei disperati che tentano di afferrare la cima della speranza. Il giorno declina e l’oscurità della notte infinita è in agguato. Non abbandonarci! Lui sa e raccoglie il loro grido e la loro fame. Si ferma, entra nella locanda e siede a un tavolo per condividere la mensa.
Ora che la luce ha squarciato la tenebra della loro cecità, gli occhi che vedono non lo vedono più. Yeshuà è scomparso. Ha dato il suo pane ed è andato via. Ma non è andato via, perché ormai abita in loro per sempre. La scintilla nascosta sotto la cenere si è ravvivata al soffio del respiro e della voce del Rabbi che credevano perduto e che hanno stentato a riconoscere mentre li accompagnava per la strada della desolazione. La scintilla ha suscitato un incendio di nuovo entusiasmo. Invertito il cammino, i due si rimettono in viaggio, incuranti della notte, correndo come pazzi e tornando a Jerusalem, per portare agli undici la notizia: - È risorto! Yeshuà è risorto! È stato con noi sulla strada della nostra fuga, ci ha parlato, ci ha spiegato … È rimasto a mangiare con noi … Lo abbiamo riconosciuto quando ci ha spezzato il pane …
Emmaus, il remoto confine occidentale tra le nebbie della vita e della morte, è diventato la base di un altro viaggio. Chi è stato sfamato col pane di vita ha ora la forza di superare il languore dell’inedia e il coraggio per affrontare la lotta con il nulla predatore di speranza.
A chi di noi, pellegrini sui deserti dell’esistenza, non sono familiari il sentiero e la locanda di Emmaus? Traditi ed erranti dopo l’ennesimo fallimento, senza meta su una strada solitaria, incapaci di piangere, quanto abbiamo desiderato il conforto di una carezza, di una parola, di uno sguardo indulgente, e come spesso il desiderio è dileguato nella penombra del tramonto … Nella notte senza luce abbiamo invocato la fine, o la resurrezione! Poi, inattesa e desiderata, la voce di qualcuno che ci camminava accanto, uno sconosciuto. Ma nelle sue fattezze, non ci sembrava un estraneo. Ci parlava e diceva le parole che illuminano. E a noi, come a Cleopa e al suo compagno, ‘non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre ci parlava lungo il cammino’?
Da allora, sulla strada di Emmaus, qualcuno tornerà a svelarci il senso delle scritture, tornerà spezzare con noi il suo pane e indicarci la via della tomba vuota e del Cristo risorto.
XVIII
(28 aprile 2025)
Intorno alla metà del XIX secolo ci fu la svolta che avrebbe portato, in seguito, alla possibilità di poter trasmettere le immagini a distanza utilizzando una linea asservita alla telegrafia; siamo al telegrafo elettrochimico di Alexander Bain.
Fino ad allora i ricevitori telegrafici scrivevano i messaggi su striscioline di carta che venivano fatte avanzare con un sistema di trascinamento a molla e quando la strisciolina passava su un particolare supporto una punta di grafite scriveva il messaggio… ma la punta talvolta si spezzava o si consumava; fu impiegato allora un pennino che aveva un piccolo serbatoio di inchiostro… ma talvolta l’inchiostro finiva o si rovesciava; si ripiegò allora su una punta di acciaio che graffiava la carta riproducendo le linee ed i punti dell’alfabeto Morse… ma talvolta i graffi non erano ben interpretabili…e non solo, ma per varie cause, tra cui batterie non alla massima efficienza, le punte scriventi potevano toccare con pochissima pressione la carta sulla quale non lasciavano alcun segno. Tutti questi aspetti furono risolti da Alexander Bain, inventore scozzese, con il telegrafo elettrochimico.
La scrittura del messaggio sul telegrafo di Bain
In questo tipo di telegrafo non esistevano più punte scriventi, ma un contatto strisciante sul nastro di carta che nel suo percorso era stato imbevuto di ferrocianuro di potassio; in questo modo il contatto anziché scrivere o graffiare la carta la “macchiava”. Si intuì subito che un foglio di carta poteva essere “macchiato” a distanza e si intuì anche che questa ”macchia” poteva avere una forma voluta ovvero poteva riprodurre una scrittura o una figura.
Furono realizzati telegrafi ove il testo da inviare era posto su un tamburo o disco e ciò che doveva essere inviato veniva scritto con particolari “inchiostri” in modo che un contatto strisciante rivelasse quei tratti come conduttori. In questo modo potevano essere inviati manoscritti, spartiti musicali e figure; si stava arrivando al fax.
Aspetto fondamentale era che il sistema trasmittente e ricevente fossero in assoluto sincronismo e questo risultava difficile ottenerlo. Il problema fu risolto da un italiano, l’abate Giovanni Caselli il quale realizzò una macchina che chiamò Pantelegrafo. Questo sistema era idoneo a trasmettere qualsiasi tipo di messaggio scritto, anche autografo, poi anche disegni, quindi immagini. Di fatto un fax.
Il pantelegrafo Particolare del lettore e riproduttore del pantelegrafo
Sul lettore l’immagine o il testo veniva scansionato in successione riga per riga, i segnali venivano inviati tramite la linea al sistema con il quale si stava comunicando. Un pendolo principale della stazione trasmittente sincronizzava il moto dei due pendoli, sia quello asservito al trasmettitore che quello del ricevitore; in questo modo i sistemi di lettura e scrittura si muovevano in assoluto sincronismo.
Il pantelegrafo fu largamente impiegato in Europa nella seconda metà del XIX secolo e utilizzato anche in Russia ed in Cina.
Uno sviluppo ulteriore del fax fu il teleautografo realizzato da Elisha Gray con il quale sul ricevitore si riproduceva una scrittura che veniva eseguita sul trasmettitore, di fatto un sistema scrivente si muoveva secondo le coordinate che venivano inviate, in tempo reale, dal trasmettitore.
Altri inventori hanno realizzato apparecchiature idonee alla trasmissione di immagini ed alla fine del secolo XIX la telegrafia aveva avuto con successo questo sviluppo molto importante e largamente utilizzato; tuttavia le immagini che potevano essere inviate non potevano avere tonalità di grigi, per cui era impossibile inviare particolari disegni o fotografie.
Il problema fu risolto da Edouard Belin agli inizi del XX secolo con il suo sistema chiamato Belinografo. Era questo un vero e proprio fax con il quale si potevano inviare lungo una linea telegrafica, telefonica o via radio immagini e anche fotografie.
L’immagine veniva scansionata punto per punto, mutata in impulsi elettrici i quali venivano trasmessi tramite una linea o via radio.

Immagine trasmessa con il belinografo
Alcune stazioni radiofoniche, non italiane, nella prima metà del XX secolo trasmettevano, insieme ai programmi anche delle immagini e oltre al radioricevitore era necessario possedere un belinografo ricevitore; in questo modo se si ascoltava, per esempio, un brano musicale, si potevano vedere le foto degli interpreti o immagini di una città sede della trasmissione.
L’invenzione che determinò lo sviluppo della televisione si deve all’ingegnere tedesco Paul Nipkow, il quale intuì che per trasmettere un’immagine a distanza era necessario scomporla in moltissime parti sequenziali, inviarle in veloce successione lungo una linea e ricomporle in ricezione, siamo nel 1883. Per giungere a questo risultato Nipkow realizzò un disco sul quale aveva fatto dei piccoli fori disposti a spirale, posizionati in modo che con il disco in rotazione ogni foro transitasse avanti all’immagine facendo passare la luce, con le relative variazioni di intensità, inerente a quella riga (in realtà un arco di cerchio); appena il foro aveva superato l’immagine, questa veniva scansionata dal foro successivo, ma un po’ più in basso, ovvero una riga sotto, e così via per tutta l’immagine.
La luce che passava attraverso il foro veniva inviata ad una fotocellula che mutava l’intensità di luce in segnale elettrico. In ricezione un altro disco analogo ed in sincronismo con quello sul trasmettitore, passando innanzi ad una lampada che riceveva il segnale dalla linea, permetteva, tramite un sistema ottico, di vedere l’immagine trasmessa. Nipkow però non si ritenne soddisfatto del risultato ottenuto e… “mise il disco in un cassetto”. Fu l’ingegnere John Logie Baird ad “aprire quel cassetto” nel 1923 e dopo esperimenti e con l’aiuto dei progressi raggiunti dall’elettrotecnica costruì un sistema televisivo che alla fine degli anni ‘20 la BBC “ospitò” con trasmissioni sperimentali.
Disco di Nipkov
La televisione era nata. Anche negli Stati Uniti la Compagnia Bell iniziò, nel 1927 trasmissioni sperimentali di televisione. In Italia fin dal 1929, a Roma, Milano, Torino, si svolgevano esperimenti di trasmissione televisiva utilizzando il disco forato; l’Ing. Alessandro Banfi era il punto di riferimento dell’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) per le sperimentazioni.
Già nel 1929 negli USA furono fatte anche prove di trasmissioni a colori; le immagini venivano trasmesse da tre trasmettitori, ognuno per uno dei colori fondamentali (verde, blu, rosso); il complessivo ricevitore era costituito da tre ricevitori ognuno, anche qui, per i tre colori fondamentali; questi ricevitori proiettavano l’immagine su uno schermo ove i colori si sommavano ricreando l’immagine.
Il sistema a disco rotante aveva permesso di poter vedere a distanza, anche di varie centinaia di chilometri, immagini in movimento “in diretta”, ma pur sempre, fatta salva la meraviglia della novità, il risultato poteva solo accontentare, ma certamente non soddisfare.
Il sistema a disco rotante, se pur in grado di trasmettere a distanza tramite linea telegrafica o tramite segnali radio (radiovisione) non permetteva di avere una risoluzione soddisfacente e schermi di una grandezza maggiore di una fotografia.
Le cose cambiarono radicalmente quando cominciarono ad essere impiegati per la ripresa e la riproduzione tubi a vuoto con scansione elettronica. Furono impiegati così tubi a raggi catodici sia per la ripresa che per la visione; l’impiego di questi tubi a vuoto portò a continue ricerche e continui studi al fine di ottenere il massimo dettaglio nella riproduzione.
Negli Stati Uniti nel 1937 fu realizzato un impianto sull’Empire State Building il quale trasmetteva con 441 linee orizzontali di esplorazione per 30 volte in un secondo.
La società italiana SAFAR nel Giugno 1935 realizzò un sistema molto avanzato a scansione elettronica che chiamò Televisode, nel senso che … si vede e si ode! Iniziarono anche trasmissioni sperimentali con spettacoli in diretta e film; a Berlino i giochi olimpici del 1936 ebbero molte ore di diretta televisiva.
Telecamera utilizzata per le riprese dei giochi olimpici del 1936 a Berlino
Un aspetto fondamentale era il numero delle righe orizzontali con cui veniva fatta la scansione dell’immagine che avrebbe dovuto essere la maggiore possibile.
Il televisore posseduto dagli utenti era generalmente un mobile alto più di un metro, con l’altoparlante frontale ed il tubo a raggi catodici montato verticalmente all’interno; la visione avveniva tramite uno specchio posto sul coperchio del mobile che, durante il funzionamento veniva tenuto semiaperto a 45°, riflettendo così verso gli osservatori l’immagine che si formava sul cinescopio.
La televisione aveva raggiunto in breve tempo un risultato sorprendente, erano trascorsi solo pochi anni dai primi sistemi realizzati con il disco di Nipkow e di fatto si era passati dalla curiosità nel vedere la novità di una trasmissione televisiva, al piacere di seguirla come intrattenimento ».
In Italia nel 1938 operavano i primi studi ed un impianto trasmettitore a Roma Monte Mario; poco dopo anche a Torino e Milano. Iniziarono ad essere installati televisori anche in locali pubblici, sulle vetrine di alcuni negozi e… non sembrava vero assistere a concerti, riprese teatrali, vedere film.


Primi televisori con tubo a scansione elettronica
Il 1940 avrebbe dovuto essere l’anno del grande sviluppo della televisione, ma… non fu così, ci fu altro a cui pensare… purtroppo!
Nel 1947, dopo la ristrutturazione, l’EIAR, diventata RAI, riprese le sperimentazioni per la scelta degli standard televisivi, confrontati e studiati. Vennero poi realizzati i ponti radio per la trasmissione a distanza dei segnali ed intanto le trasmissioni sperimentali proseguivano negli studi di Roma, Milano, Torino.
Nel 1952 a Milano viene realizzato in corso Sempione un centro di produzione che comprendeva studi radiofonici e studi televisivi, intanto a Torino e Roma in costituendi studi continuano le trasmissioni sperimentali. Tra i vati standard di trasmissione, in Europa viene adottato, e naturalmente anche dalla RAI, quello a 625 linee e 50 immagini al secondo.
Nel 1954 iniziarono in Italia le trasmissioni regolari. Il segnale televisivo veniva trasmesso da ripetitori, generalmente posti in altura, i quali servivano una città o una zona lievemente più vasta. La rete dei ripetitori si diffuse completamente alla fine del 1958 e nel 1959 la televisione divenne una realtà “domestica”. I elevisori cominciarono ad “entrare” nelle case con notiziari e spettacoli di intrattenimento; erano grandi, ingombranti e generalmente occupavano un angolo della stanza in cui si era soliti trascorrere la maggior parte delle ore della giornata.

Tipico televisore della fine anni ’50 con stabilizzatore
Alla fine degli anni ‘50 la RAI raggiunse il milione di abbonati. Allo scopo di consentire agli installatori una corretta messa a punto dell’impianto d’antenna e del televisore, la RAI trasmetteva prima dell’apertura dei programmi il monoscopio il quale forniva tantissime informazioni utili al personale tecnico.
Monoscopio RAI
Nel 1961 sono iniziate le trasmissioni del secondo programma, per cui il monoscopio del programma nazionale aveva una “N” bianca al centro, mentre quello del secondo programma aveva il numero 2.
A metà degli anni ’50 negli USA iniziano le trasmissioni regolari a colori, in Europa una decina di anni dopo, ma in Italia… si aspettava ancora. La trasmissione televisiva a colori doveva essere fatta secondo un certo standard, in Italia verrà adottato il PAL, in altri stati europei il SECAM e NTSC negli USA.
La RAI inizierà le trasmissioni a metà degli anni ’70.
Monoscopio a colori
Il nuovo monoscopio anche in questo caso permetteva al personale tecnico di eseguire tutti i controlli e la messa a punto.
Televisori a transistori
Alla fine degli anni ’60 per la costruzione dei televisori furono abbandonate le valvole termoioniche e tutti erano realizzati con i transistori; questo rendeva gli apparecchi meno ingombranti, più leggeri, ma soprattutto più affidabili in quanto mentre le valvole con l’uso tendono ad “esaurirsi”, i transistori rimangono costanti nel tempo avendo vita praticamente illimitata.
Uno sviluppo di grandissima importanza è stato quello dell’abbandono del cinescopio per la visione e nella realizzazione di televisori, con l’adozione dello schermo piatto al plasma.

Televisore con schermo al plasma
La diffusione di questi televisori ci fu nei primi anni ’80 e la novità fu accolta molto favorevolmente dal pubblico in quanto gli schermi potevano raggiungere dimensioni molto grandi con poco spazio occupato in profondità.
I televisori al plasma vengono tuttora fabbricati ed hanno delle immagini di alta qualità, la loro tecnologia è molto complessa e l’immagine viene formata da celle di gas sullo schermo. Il loro prezzo alto non li rende attualmente competitivi sul mercato.
Dai primi anni ‘2000 è iniziata la grande commercializzazione dei televisori LCD (Liquid Crystal Display) e successivamente televisori a LED (Light Emitting Diodes); nei primi i cristalli liquidi che poi formavano nel loro assieme l’immagine erano retroilluminati da lampade a neon, nei secondi, invece, da diodi lumionosi (Led), con consumi minori ed una illuminazione molto più uniforme.
Attualmente in commercio non ci sono più televisori retroilluminati con lampade a neon, ma a LED o tecnologia più avanzata. La tecnologia della visione TV sta continuamente avanzando e nel tempo la presentazione è giunta a definizioni estremamente elevate. L’immagine sullo schermo TV è formata da celle (pixel) che possono assumere i diversi colori e quanto maggiore è il numero delle celle sullo schermo, tanto maggiore sarà la risoluzione, ovvero il dettaglio con cui apparirà l’immagine.

Porzione di schermo ingrandita che permettere di vedere i singoli pixel
Nel tempo la risoluzione degli schermi TV è passata da quella standard ,definita come 720p, ovvero 1280 x 720 pixel, all’alta definizione.
La definizione è andata poi, nel corso del tempo sempre aumentando, quindi si è passati al Full HD, 1080K, ovvero 1920 x 1080 pixel; ora sono in commercio televisori con definizione 4K, ovvero 3840 x 2160 pixel, definiti ULTRA HD (UHD), ma già i televisori 8K si sono affacciati. È chiaro che anche la trasmissione dovrebbe avere quelle caratteristiche di definizione, attualmente solo pochissimi canali trasmettono in 4K, tuttavia è possibile vedere video appositamente registrati.

Televisore UHD
Già da qualche anno i
televisori possono connettersi alla rete, permettendo così di poter vedere
programmi su vari canali anche senza antenna, ma soprattutto tramite l’archivio
delle varie emittenti è possibile vedere o rivedere programmi già
rappresentati. Dalle varie “bacheche” è possibile assistere a programmi anche
di molti anni fa. Inoltre con questi televisori è possibile vedere tutto ciò
che è presente nella rete.
Per le trasmissioni in eurovisione o mondovisione, ma anche per riprese in campo aperto o in zone non servite da ripetitori, vengono utilizzati come ripetitori i satelliti.
Immagine di collegamento tramite satellite
Il satellite orbita ad una distanza di poco superiore ai 35000 Km ed è geostazionario, ovvero la sua orbita circolare ha una velocità angolare uguale a quella della terra, per cui rispetto ad un punto sul nostro pianeta risulta fisso. La ricezione tramite immagine ritrasmessa dal satellite è anche utile nel caso che il televisore sia posto in una zona con segnale terrestre molto debole o addirittura inesistente.
Una importante evoluzione che si è avuta in questi ultimi anni è quella definita “Digitale Terrestre”, indicato con DGTV.
Con questa innovazione tutti i canali televisivi sono raggruppati in uno spazio minore lasciando parte dello spettro prima occupato, ad altri servizi; i segnali ora sono molto più “puliti”, molto più dettagliati, privi di rumore di fondo. Sullo spazio in cui prima del digitale terrestre trasmetteva un canale ora c’è un MUX (multiplex) ove sono raggruppate diverse emittenti contraddistinte da un numero LCN.
Per l’industria è stato molto più semplice realizzare apparati con tecnologia digitale.
(G. Mocchetti)
* * *
XIX
(12 maggio 2025)

I suoi film documentari, attenti in particolare all'Italia, con tutte le sue ricchezze (non prive di contraddizioni) storiche e antropologiche, gli sono valsi partecipazioni e riconoscimenti in molti festival italiani e internazionali, oltre che la messa in onda sulle principali televisioni europee.
E' docente di 'Cinema documentario' al DAMS dell'Università Roma Tre e di 'Regia' al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e dell'Aquila.
Saggista e autore, ha scritto con Giovanni Fasanella "Il sol dell'avvenire, diario tragicomico di un film politicamente scorretto" (Chiarelettere), con Mario Balsamo "L'officina del reale - Fare un documentario dall'ideazione al film" (Cdg) e "Docdoc- dieci anni di cinema e altre storie" (Mephite Cinemasud).
Scrive sulla rivista online www.ildocumentario.it ed è responsabile della sezione Open eyes del Medfilm Festival di Roma.
Federico Fellini e "Le notti di Cabiria"
Nel 1957 Federico Fellini realizza un film che è il frutto di pensieri e riflessioni accatastate, incontri e suggestioni. Le Notti di Cabiria è un’opera ancora intensa, ancora vibrante dalla prima scena all’ultima.
Il soggetto è di Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli, la protagonista è Giulietta Masina (Cabiria) e la colonna sonora viene firmata da Nino Rota. Scrittura, recitazione, musica: dietro al film del 1957 c’è ancora lo sguardo neorealista ma gli elementi che lo compongono iniziano a raccontare qualcosa di nuovo. L’opera ha innanzitutto una circolarità che rende l’incipit molto simile al finale, elevando l’ingenuità bambinesca della prostituta Cabiria, ingannata dagli uomini, convinta di poter cambiar vita grazie all’amore. All’inizio del film, quando viene quasi annegata per una borsetta con 40 mila lire, come alla fine, dall’alto di un dirupo.
“Cabiria” – Illusione e disillusione
“(…) mentre giravo Il bidone tra le vecchie mura dell’antico acquedotto romano alla Borgata San Felice, notai isolata dalle altre catapecchie, una minuscola baracca che più miserabile e povera di così si poteva immaginare solo nei cartoni animati. (…) Per quanto assurda come abitazione, la baracca aveva all’interno un suo straziante lindore: tendine a fiori alle finestre (finestre?), tegami e padellette, ammaccati ma lustri, appesi in ordine alle pareti (…). In terra su un materassino da bambini c’era seduta una donna, la proprietaria. Vidi solo che indossava un accappatoio a fiori, poi, quando si voltò, una testa piena di riccetti e bigodini, e due occhietti spiritati che mi fissavano sbalorditi per la mia impudenza.” (Da Fare un film, di Federico Fellini)
Quell’incontro è alla base della creazione del personaggio, che Fellini lima di volta in volta, e la Cabiria finale, del film del 1957, è come la musica di Nino Rota: malinconica e su di giri, inquieta ma speranzosa. Nella circolarità del racconto ogni avvenimento importante è giocato sull’illusione, che viene prontamente disintegrata, in un viaggio senza assoluzione.
Per ogni anima pura ne affollano almeno dieci corrotte, e quasi tutte si pongono sul cammino della donna che vorrebbe farla finita, andarsene, smettere di lavorare per strada, quando in fondo quello che ha le strappa un sorriso, e incontri fugaci e notturni le fanno rinascere dentro la voglia di credere.
Religione, sogno e misticismo
Credere alle persone è un po’ come credere in Dio. Un movimento insito e altalenante che non sa che posizione tenere. Momenti in cui la sospensione dell’incredulità governa la percezione, sono numerosi nelle avventure di Cabiria, sin dalla processione notturna che le sfila di fronte una notte. Sogno e magia fanno incursione nel film, allo stesso modo si manifesta la fede, incerta e imprevista, dopotutto lei neanche voleva andarci al Divino Amore a chiedere la grazia alla Madonna.
La contemplazione della povertà reale cede a istanti sublimi in cui la narrazione cambia registro, trasformando l’opera in qualcosa di completamente diverso. Succede durante la sequenza dell’ipnosi, dove Cabiria capita per caso mentre assiste ad uno spettacolo di varietà. La magia e l’illusionismo prendono vita, e come alla Madonna Cabiria non ci crede, ma poi finisce per arrendersi. E ci crederà di nuovo, prima di farsi ingannare dall’ennesimo uomo che recita premura e slanci sentimentali, solo per derubarla.
Ho visto Le Notti di Cabiria per la prima volta all’università, un pomeriggio buio in una piccola aula strapiena. In prima fila, attenta anche alle ombre, assorbivo quello sguardo facendolo mio. Il finale del film arriva piano, durante la camminata tra gli alberi di Cabiria e Oscar, l’uomo che vuole sposarla, fino al tramonto che si può solo immaginare, colorando mentalmente il bianco e nero. Le urla poi: “Non voglio più vivere”, e l’uomo esausto dalla pressione dell’omicidio incompiuto che scappa con tutti i soldi. E se fosse finita lì?
Ancora una volta la donna si rimette in piedi e supera il bosco, si ritrova in strada, con la guancia macchiata dal trucco nero colato che le forma una lacrima da Pierrot. Un corteo molto diverso da quello dei devoti scalzi la avvolge, la saluta, e lei risponde, voltandosi poi verso di me, attraendomi alla forza di occhi diegetici puntati fuori dallo schermo.
Quello sguardo in macchina è l’interpellazione poetica e il ringraziamento allo spettatore, per aver ascoltato la sua storia. Dopo aver gridato a squarciagola di voler morire, Cabiria si ritrova a vivere, e intorno a lei, il circo, la strada: individui che della vita assorbono le vibrazioni più sincere. Capisce che ha sempre senso ricominciare da capo, quasi sembra non ricordare nulla degli uomini che non l’hanno mai amata, e della strada dove batteva. Fino a qualche ora prima stava distesa sul fogliame secco ad invocare la fine, ma era solo una bugia, come quando diceva di non credere alla Madonna.
Prima de La Dolce Vita fu Cabiria per Fellini a qualificare il senso di quella figura linguistica che nel cinema ha varie funzioni. Incantando la percezione, unendo due mondi.
(Silvia Pezzopane, web 2021)
Fellini e Pasolini
Risale al 1956 l’incontro di Pierpaolo Pasolini con Federico Fellini, che stava scrivendo assieme a Ennio Flaiano e Tullio Pinelli il nuovo film con Giulietta Masina. E – come racconta lo stesso Pasolini – “poiché nel mio romanzo “Ragazzi di vita” c’era abbondanza di personaggi della malavita della periferia romana, Fellini pensò che io conoscevo quel mondo, come in realtà lo conoscevo per aver abitato a Ponte Mammolo, dove vive un mucchio di sfruttatori e ladruncoli e puttane, così mi affidò il ruolo di ”collaboratore alla sceneggiatura” per “Le notti di Cabiria”.
Per calarsi meglio in quella umanità derelitta che viveva alla periferia della Capitale, Federico chiama Pier Paolo Pasolini come collaboratore ai dialoghi della sceneggiatura.. Aleggiava nella cultura letteraria di quegli anni una Roma ancora arcaica e borgatara, se ne respirava l’aria: Pasolini aveva appena scritto Ragazzi di Vita (1955) e proprio nel 1957 Carlo Emilio Gadda pubblicava presso lo stesso editore Garzanti Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Da quei romanzi emergeva una società preconsumistica e ancora immune da quel metamorfismo antropologico che seguirà al miracolo economico. L’Italia, ancora per poco, resta a cavallo di due versanti distinti, che il regista ha raccontato meravigliosamente nella trilogia dello spirito o spiritualismo fiabesco, il suo impareggiabile realismo magico intriso di tensione religiosa.
Al centro de Le notti di Cabiria c’è la lunga sequenza del pellegrinaggio che la protagonista, insieme ad altre compagne di vita, compie al Santuario del Divino Amore nel giorno di Pasquetta, quando migliaia di romani si riversano in una allegra gita fuori porta a rendere omaggio alla Vergine miracolosa.
Il rito cristiano era anche una scampagnata di folla, che raggiungeva pieno compimento nel ‘boccone’, con ritrovata leggerezza di cuore; un’esaltante colazione sull’erba onorata con ogni ben di Dio, e senza alcuna differenza di ceto e appartenenza: “Donne di vita, storpi, ragazzacci, papponi, spacciatori”. Ma spalla a spalla con i manigoldi, anche i malati, i signori in automobile, preti e prelati, e carri i fiori discesi dai Castelli. Pasolini parlava di “poetica creaturale”, ma anche di “un momento pre-religioso, o religioso nel profondo”.
Fellini aveva rievocato proprio quella festa della fraschetta per la sua Cabiria, la quale in uno stato di eccitazione, quasi di ebrezza mistica, vi si reca a chiedere in segreto la grazia di redimersi, di potersi affrancare dal suo abietto mestiere.
Dichiarerà Giulietta Masina al termine della lavorazione: “A tutte le violenze Cabiria ha reagito giorno per giorno, e giorno per giorno, nel suo inconscio, ha saputo dire di no, grazie a un potenziale di vitalità che è in lei, malgrado tutto, e che la rende pulita, in un mondo di gente torbida e intorpidita. Questa verità che Cabiria, alla fine, mi ha dato in regalo, quando tra le lacrime che segnano la sua ennesima ripresa mi ha lasciato, questa volta per sempre.”
(web, 2020)
Pasolini e “Il Vangelo secondo Matteo”
Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo pasolini, ha un lungo itinerario di preparazione: la radici, si rinvengono in Assisi, nella Cittadella sede della Pro Civitate Christiana, cioè di quell’associazione laicale fondata da don Giovanni Rossi nel 1939, da allora, fulcro dell’incontro tra cristianesimo e mondo moderno, divenuta un’autentica locomotiva del Concilio Vaticano II durante e dopo il pontificato di Giovanni XXIII.
Il “tutto osare, tutto usare per annunciare Cristo Re” di don Rossi determina una chiamata del tutto inattesa, quella di Pier Paolo Pasolini, individuato come interlocutore per il suo essere (considerato, almeno) come “il regista più lontano…” dal modo di sentire del cristianesimo, con l’intento di coinvolgere il suo tormento artistico per un’opera di cinematografia sulla figura di Cristo.
Nelle lunghe ore trascorse nelle stanze degli ospiti della Cittadella, Pasolini leggerà – “d’un fiato” – il Vangelo di Matteo, scegliendo quel testo tra gli altri dalla copia dei Vangeli presente in quella camera, a fianco del letto, secondo la consuetudine dell’ospitalità in Cittadella. Due anni dopo la dedica “Alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII” accompagnerà la distribuzione del film nelle sale.
Il Vangelo secondo Matteo segna un progresso indubbio, prima di tutto per l’eccezionale impeto espressivo che in questo film rivela direttamente e immediatamente quali sono le cose che stanno a cuore a Pasolini. E in secondo luogo perché, nelle singole parti, Pasolini mostra questa volta di saper alleare la poesia ad una raffinatezza e levità che nel suo film precedente, Accattone, più elementare, non si potevano ancora che intravvedere.
Pasolini ha un senso acuto della realtà del volto umano, come luogo d’incontro di energie ineffabili che esplodono nell’espressione, cioè in qualche cosa di asimmetrico, di individuale, di impuro, di composito, insomma il contrario del tipico. I primi piani di Pasolini sarebbero sufficienti da soli a mettere il Vangelo secondo Matteo sopra un livello eccezionale. […]
Pasolini ha mirato a darci un Gesù duro, violento, iconoclasta, inflessibile, come appunto doveva apparire ai suoi contemporanei e non come appare oggi a noi che, com’è stato già detto, non possiamo non dichiararci tutti cristiani» (Moravia).
«Avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare la figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal cattolicesimo e dalla Controriforma, demistificare tutto, ma poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile» (Pasolini).
XX
(19 - 26 maggio 2025)
Otello di Shakespeare rivisitato da Verdi e Boito
Il personaggio di Otello, tragico eroe shakespeariano, ha affascinato artisti di ogni epoca per la sua intensità drammatica, la sua forza emotiva e la profondità delle sue contraddizioni. Tra le reinterpretazioni più celebri vi è quella operistica di Giuseppe Verdi, che nel 1887, ormai al termine della sua carriera, mise in musica il capolavoro teatrale di William Shakespeare, creando una delle opere più potenti del repertorio lirico.
L’Otello verdiano non è una semplice trasposizione musicale dell’opera shakespeariana, ma una sua rilettura profonda, concentrata sull’essenziale drammatico e psicologico. Il libretto, curato da Arrigo Boito, riduce e adatta la complessa trama dell’originale, eliminando alcune scene secondarie e personaggi minori, per focalizzarsi su un triangolo tragico: Otello, Desdemona e Jago.
In Verdi, Otello è un condottiero valoroso, ma anche fragile, segnato da un’identità instabile e sempre in bilico tra gloria e rovina. L’amore puro per Desdemona si scontra con l’insinuazione velenosa di Jago, figura diabolica e manipolatrice, che orchestra con perfidia la caduta del protagonista. Il compositore dà voce a questi turbamenti interiori con una musica intensa e teatrale, in cui i recitativi si fondono con le arie in un flusso continuo di emozioni.
A differenza di Shakespeare, dove il linguaggio verbale è il veicolo principale del dramma, Verdi affida alla musica il compito di esprimere l’invisibile: la gelosia, il sospetto, il dolore, l’ira. Il famoso duetto d’amore tra Otello e Desdemona nel primo atto, e l’“Ave Maria” di Desdemona nell’ultimo, sono momenti di altissima poesia musicale, che esaltano la sensibilità dei personaggi e introducono al tragico epilogo.
L’Otello di Verdi non è dunque solo un omaggio a Shakespeare, ma un’opera autonoma, in cui il teatro elisabettiano incontra la grande tradizione melodrammatica italiana. È una tragedia universale sull’amore, il potere e il tradimento, in cui la parola diventa canto e il silenzio, spesso, grida più forte della voce.
Il dramma
Da Shakespeare ...
... a Verdi e Boito
Emilia, confidente e amica di Desdemona, raccoglie un fazzoletto casualmente caduto dalle mani di Desdemona durante una conversazione con Otello. Iago se ne impadronisce, contando di potersene servire per i suoi loschi disegni. Othello - sobillato dalle insinuazioni di Jago - si convince che tra Cassio e Desdemona ci sia qualcosa di più di un sincero innocente affetto e, riconoscendo Jago come il suo unico fidato confidente lo promuove al ruolo di luogotenente.
Quando Jago giunge al punto di far credere al suo signore che Desdemona ama Cassio, tanto da regalargli il fazzoletto avuto come primo dono d'amore da Otello, questi decide di uccidere Desdemona, ma non prima di averle estorta la confessione di essere una 'vile cortigiana', una sgualdrina traditrice.
Richiamato dal Doge a Venezia per più alti incarichi, e dovendo lasciare Cipro nelle mani del nuovo comandante, Cassio, Othello affronta Desdemona per l'ultima volta, tenta di farle confessare una colpa mai commessa, e finisce per strangolarla. Ma quando finalmente, con le parole di Emilia e di altri testimoni svelano il vero sugli intrighi fraudolenti di Jago e sull'innocenza di Desdemona, Otello si trafigge a morte, invocando con un ultimo bacio il perdono dell'unica donna che ha sempre amato.
L’Otello verdiano, tra Shakespeare e Boito
Nel 1879 l’editore Giulio Ricordi, che studiava da tempo il modo di strappare Verdi dal suo esilio agreste e riportarlo alle scene, gli combinò un incontro con Arrigo Boito, un colto musicista affermatosi in campo operistico per il successo ottenuto dal suo secondo Mefistofele, rappresentato a Bologna quattro anni prima. Guidato da un eccellente fiuto imprenditoriale Ricordi, nel chiedere a Boito di preparare un libretto sull’Otello shakespeariano da sottoporre all’attenzione del maestro, sapeva di giocare una carta vincente. Verdi non mostrava grande simpatia per Boito - che considerava troppo wagneriano - tuttavia apprezzava l’intelligenza dell’artista capace di cogliere come nessun altro il nesso unificante di poesia musica e dramma nell’Opera. E poiché la scomparsa di Rossini attenuava forse il riguardo verso l’analoga composizione del vecchio collega, Verdi, fortemente sollecitato a “inventare il vero” alla maniera di Shakespeare, cominciò a lavorare con nuova passione sul libretto di Otello del Boito. Tra Verdi e Boito nacque così una intesa che divenne presto un sodalizio artistico destinato a dar vita all’ultimo prodigio verdiano, il Falstaff, una commedia lirica ancora ispirata a Shakespeare.
Arrigo Boito e Giuseppe Verdi
Jago, Otello, Desdemona nell’opera verdiana
Ciò che più ammirava Verdi nel teatro shakespeariano era la rappresentazione vivida delle passioni e dei caratteri umani, dipanati nel groviglio dei rapporti che legano tra loro gli individui e le realtà sociali. Sull’onda di un romanticismo vagamente manzoniano, si era prodigato per dare al teatro d’opera gli strumenti narrativi dei sentimenti, dei contrasti, della complessa psicologia degli esseri umani. I suoi personaggi non sono caratteristici stereotipi comportamentali, ma incarnano - con un verismo anvant-lettre - i modi di sentire, di amare e di agire di donne e uomini reali. Al centro del melodramma verdiano c’è sempre un personaggio disegnato a tutto tondo sul quale si sviluppa il gioco dell’azione raccontata.
Dominante, fino all’Aida del ’71, era stata la figura ricorrente di un padre tormentato dall’amore ansioso e possessivo verso la figlia (come quello di Nabucco per Abigaille, di Giacomo di Domremy per Giovanna d’Arc, del conte di Tolosa per Elena, di Miller per Luisa, di Rigoletto per Gilda, del marchese di Calatrava per Eleonora di Vargas, e perfino - anche se con diversa declinazione - di Amonasro per Aida, e di Giorgio Germont per Violetta Valery, non figlia ma sua suggestiva immagine simbolica). Nel cuore di Verdi non s’era forse mai spento il sogno di una paternità che, appena assaporata, era tramontata al suo nascere. In Otello non ci sono più padri: l’unica immagine paterna ancora presente nel dramma di Shakespeare, Verdi volle che si cancellasse nel nuovo libretto. Ed anche il Falstaff - che seguirà a Otello - sarà orfano di padri.
La drammaturgia verdiana volta ad esplorare e a tradurre in musica i sentimenti più intimi dell’animo umano, disegna in ogni opera, con un preciso tratteggio, il personaggio intorno a cui ruota la vicenda narrata, e spesso, come s’è detto, si tratta di un padre-baritono, chiave di lettura dell’opera. Nell’Otello questo ruolo-chiave è affidato a Jago, mentre il protagonista-tenore indicato dal titolo sembra spostato in secondo piano.
Non sorprenderà che sia Verdi che Boito avevano pensato di intitolare Jago il libretto in fase di elaborazione). Jago, cinico e perverso, ferocemente invidioso dell’innocenza, è un personaggio originalissimo. Mutuato da Shakespeare, tuttavia ne appare lontano e diverso: questo Jago è un genio sottile che nulla svela perché nulla ha da svelare, evoca soltanto i fantasmi che si annidano nelle profondità dell’anima. In una scena - ritenuta tra le più suggestive nella storia del melodramma - Jago recita un ‘Credo’ blasfemo e spaventoso: “Un dio tristo e maligno mi ha creato ‘simile a sé’, e mi ha gettato nel mondo per recitare insulse commedie del bene da volgere in tragedie, protagonista di un gioco di infame perversione, ‘dal germe della culla – al verme dell’avel’. Poi ‘la morte’ e ‘il nulla’.
Lo Jago scolpito da Boito per Verdi è la moderna raffigurazione del male assoluto, del diabolico potere che cattura l’uomo nella morsa dell’inganno votandolo alla dannazione. Si tratta di un’immagine cara alla poetica di fine Ottocento, a cavallo tra un romanticismo ormai al crepuscolo e le nebbie decadentiste del nuovo secolo. È interessante notare che nell’Otello di Shakespeare - concepito tra gli umori della Riforma Anglicana - Jago, accusato e scoperto, è condannato a pene atroci; in quello verdiano, all’angosciato ‘Discolpati!’ del Moro, replica ‘No!’ e scompare nell’ombra lasciando sulla scena il triste epilogo della caduta degli innocenti. È evidente in questo Jago il riverbero delle nietzschiane onde nichiliste che avevano già lambito le nostre spiagge letterarie, e che Boito, ricostruendo il Faust goethiano, aveva rappresentato con molta efficacia nel suo Mefistofele, dove il frate grigio che lo impersona è ‘lo spirito che nega, sempre, tutto’, che non vuole altro che ‘il Nulla, e del Creato – la ruina universal’ (da Mefistofele, di Arrigo Boito). Se il cerchio della tragedia shakespeariana si chiude con l’invocata punizione di Jago a riscatto del male compiuto con un’azione di giustizia, il dramma di Verdi-Boito rimane come sospeso sul crinale di quel ‘No!’ dove un gorgo rapisce e nasconde le forze indomabili della malvagità umana.
Otello è la vittima nel rito di perdizione celebrato da Jago. Valoroso guerriero in grazia della Repubblica Veneta, ha riscattato il colore della sua pelle conquistandosi il grado di generale e il cuore di una giovane patrizia veneziana. Per lui diverso, venuto dalle ‘arse arene’ di una terra lontana, tali conquiste sono forza e ragione di vita. Desdemona, in particolare, non è solo la donna oggetto d’amore, ma l’affermazione di un’identità pagata col prezzo dell’esilio, della schiavitù, della prigionia. Otello, l’eroe irruento dagli slanci fulminei e dalle dolcissime tenerezze, cela nell’anima un perno fragile: il timore della perdita e le angosce dell’abbandono. Per annientarlo, Jago non si limiterà a stillare in lui il veleno della gelosia, ma lo colpirà nella profondità dello spirito, precipitandolo nell’abisso dello smarrimento dell’Io e della disperazione.
Immagine speculare di Otello è Desdemona: come lui innocente e innamorata, ignara d’inganni e sposa fedele fino al sacrificio. Non sa intendere l’uragano che vede scatenarsi sulla sua esistenza perché non ne conosce la voce né il senso. Ingenuamente esprime il suo sgomento con ‘le prime lagrime’ e l’accorata preghiera ‘per chi sotto l’oltraggio piega - la fronte e sotto la malvagia sorte’. Con Otello è, senza saperlo, vittima e carnefice. Lei muore perché in lei si sono spenti - così crede Otello - ‘quel sol, quel sorriso, quel raggio’ che erano per lui fonte di vita.
L’ ‘Opera nuova’ di Verdi
Senza indulgere alle mode dell’epoca, ma accorto studioso delle sperimentazioni musicali d’Oltralpe, Verdi tenta con Otello una nuova strada nell’elaborazione del modello operistico. Modificato il rapporto tra canto e orchestra (spesso in competizione), accantona il ricorso alle forme chiuse caratteristiche del melodramma tradizionale e ricostruisce l’opera a dominante aperta, schiudendo al linguaggio narrativo e al linguaggio musicale ampi spazi espressivi e soluzioni di continuità di notevole impatto drammatico e di forte coinvolgimento emotivo.
Eliminato il preludio (e altri intermezzi sinfonici), il sipario di Otello si apre con il fragore di un uragano marino descritto dall’orchestra, dal coro, dalle voci soliste che come lampi lividi illuminano la scena. Un ventaglio di effetti è prodotto dalle scale cromatiche dei legni, dai sibili dell’ottavino, dal pedale grave dell’organo che accompagna la tempesta.
Quando il fortunale si placa e appare l’eroe, il suo ‘Esultate!’ è uno squillo di tromba che annunzia la vittoria con una cavatina fulminea ed esemplare.
Verdi, Otello, "Esultate!", dal I atto (Placido Domingo, tenore, 2011)
Poi l’accendersi del ‘Fuoco di gioia’, lo sbevazzare festoso della ciurma e dei soldati tessuti col filo sottile dei cromatismi insinuanti del ritornello ‘Beva con me!’ di Jago, quindi l’improvviso sguainar delle spade e l’ira di Otello. Un mormorio di violoncelli descrive gli spalti ormai deserti e il trasformarsi dell’‘ira immensa’ in un ‘immenso amor’. Nel mirabile duetto che conclude il primo atto con tonalità cangianti, Otello e Desdemona si lasciano cullare dall’incanto delle rimembranze invocando un amore inalterabile ‘col mutar degli anni’: l’amen di un bacio scambiato nell’estasi dell’amplesso è promessa e abbandono all’‘ignoto avvenir’ segnato dal destino. Il duetto d’amore si risolve in re bemolle maggiore, quando il cielo notturno s’illumina con brillar delle Pleiadi. ‘Vien Venere splende’: un invito all’amplesso culminante nel la bemolle pianissimo del tenore, seguito dal commento degli archi. “Questo duetto rimarrà l’unico scorcio sottratto alle necessità del dramma, una finestra sulla fugace felicità amorosa del protagonista sinora mai spalancata da Verdi in termini di così aperta sensualità”.
Una terzina di violoncelli e fagotti invade progressivamente il tessuto orchestrale fin dall’inizio del secondo atto, dal recitativo di Jago, e poi all’accompagnamento del ”Credo”. La voce di Jago, millantatore del male, ha mille inflessioni: nella sua professione di fede ora recita, ora sussurra, ora declama, ora canta con dolcezza, ora erompe in una fragorosa risata. Il suo recitar cantando tende comunque all’anticipazione del lirismo che apparirà nel quartetto corale intorno al canto di Desdemona, fino a quando il seme del veleno già sparso non inizierà a infrangere i ‘soavi accordi’. Irretito in una trappola senza speranza, Otello intona quasi una salmodia diatonica come l’andante mosso di una marcia funebre, al ritmo dei passi della morte che sente vicina. È il suo un accorato canto di addio: ‘Addio sante memorie,- addio sublimi incanti del pensier! – Addio schiere fulgenti, addio vittorie … - Della gloria d’Otello è questo il fin’. Al bugiardo racconto del sogno di Jago, segue lo sgomento di Otello ormai delirante di gelosia diviene un grido di rabbia e giuramento di vendetta.
Il terzo atto descrive due mondi divenuti inaccessibili e fatalmente alla deriva: Desdemona avviluppata nell’incanto della sua innocenza, Otello prigioniero tra le spire della gelosia e dell’identità negata. Il dialogo tra il Moro e la sua sposa si muove tumultuoso tra momenti di calma simulata e altri di violento rancore. Quando gli occhi di Otello vedono nell’angelo che ha amato il volto d’una ‘vil cortigiana’, tutto è perduto, e la sua ultima preghiera (‘Dio! mi potevi scagliar tutti i mali…’) è insieme un’invettiva e un atto di resa. Davanti ai dignitari dell’ambasceria veneta, esterrefatti e increduli, si frantuma il mito dell’eroe diverso, del ‘guerriero dai sublimi ardimenti’: di lui non resta che un’immagine ‘nera, sepolcrale’ e ‘un’ombra cieca di morte e di terror’. Di fronte a lui Desdemona dà voce al più grande concertato verdiano, che si chiude sulle sconnesse farneticazioni di Otello e sul furore che lo consuma: sul corpo esanime del ‘leone’, il piede e il ghigno esultante di Jago.
L’immagine di Desdemona, dolente e rassegnata ad una sorte incomprensibile, è scolpita a tutto tondo nella Canzone del salice che apre il quarto atto. Barbara, come Desdemona, è olocausto d’amore, vittima che s’immola perché il suo sacrificio dia vita e gloria all’uomo che ama. Nel raccontare alla fedele Emilia la storia di Barbara, Desdemona è colta da fremiti di pianto e da presagi di morte. Prima di coricarsi, cercherà rifugio nell’orazione notturna. Dopo aver recitato quasi meccanicamente la prima parte dell’Ave Maria, il suo canto si leva e si fa preghiera ‘pel peccator, per l’innocente, e pel debole oppresso e pel possente, misero anch’esso … - per chi sotto l’oltraggio piega la fronte e sotto la malvagia sorte …’.
Verdi, Otello, "Ave Maria" dal IV atto (Sonya Yoncheva, soprano)
Si sono appena chiusi al sonno sull’Amen gli occhi di Desdemona, quando accenti sinistri di contrabbassi introducono l’arrivo di Otello. Il tempo sembra fermarsi. Otello contempla ancora una volta la sposa dormente, mentre il corno inglese rievoca il tema dell’estasi del duetto d’amore del primo atto. Ma l’incanto sfuma e Desdemona apre gli occhi. Otello le annuncia la morte imminente. Lei piange si discolpa implora, ma Otello, inesorabile, la soffoca e la uccide. Quando avrà conosciuto le ‘arti nefande’ di Jago, comprenderà che con Desdemona ha ucciso quell’Io che da Desdemona attingeva la linfa vitale. Nel desolato monologo che chiude il dramma, scandito da pianissimi (ppp) accordi orchestrali, torna ancora il tema dell’estasi e del bacio. E con l’ultimo bacio invocato in un rantolo Otello, trafittosi e morente ai piedi della sua donna, chiude la parabola di eros e thanatos su cui il destino ha voluto disegnare il loro amore. Sei lenti rintocchi accompagnano il distendersi d’un velo sulla storia dei due infelici amanti.
Le vocalità dell’ Otello
L’Otello non è un’opera di facile esecuzione. Sembrerebbe che Verdi abbia voluto mettere a dura prova le abilità e la resistenza degli interpreti.
L’ardua prestazione tecnica ed espressiva richiesta per Otello ha fatto desistere molti tenori dal cimentarsi in quest’opera. Otello è un personaggio musicalmente complesso, non contenibile in un unico schema stilistico. Lo squillo eroico con cui si presenta (‘Esultate!...’) si muta in trasognato lirismo nel duetto del primo atto (‘Già nella notte densa…’) risolto in un delicatissimo sospiro d’amore. Nel crescendo rivelatore dello smarrimento di sé nel gioco della ragna di Jago, nel secondo e nel terzo atto, la voce di Otello si fa scura, passionale, quasi rauca. I tratti melodici che spezzano il subbuglio dei recitativi nei suoi dialoghi con Desdemona, appaiono faticosi e volutamente artefatti. I monologhi tradiscono lo strazio della disperazione montante, ora nel grido di invocazione degli ideali infranti (‘Addio, sante memorie…’), ora nel penoso incontro con i fantasmi della gelosia, del tempo che passa, dell’‘atro tenebror’ che lo ha reso fatalmente un diverso, ora nella solitudine della sua dissoluzione (‘Dio! Mi potevi scagliar tutti i mali …’): passando per innumerevoli sfumature, il registro eroico si incupisce con toni di intensa drammaticità. Una drammaticità angosciante nella scena del delitto, al quarto atto, quando la vocalità di Otello non ha più modulazioni sonore, ma - nell’allucinato recitativo - solo accenti di morte. E proprio con la morte di Desdemona Otello, finalmente libero dal male che lo ha tradito (‘Niun mi tema…’), intravede il significato della sua esistenza leggendolo nel muto pallore della donna amata e perduta. La voce di Otello si leva allora, come in un canto funebre, dal puro lirismo all’eroicità drammatica, spegnendosi in fine con un sospiro mortale.
Verdi - Otello - Mario Del Monaco nella Scena finale (dal film "Giuseppe Verdi", 1953)
La vocalità di Desdemona, ‘pia creatura nata sotto maligna stella’, resterà chiusa nel confine del recitativo cantabile che non si librerà in volo alto sulle ali del canto. Desdemona non ha voce perché, affidando il suo destino a quello di Otello, si è votata a una eterna comprimarietà. La sua voce diviene canto solo quando insegue il sogno estatico di Otello (‘Oh! com’è dolce il mormorare insieme …’) o quando ripete la nenia di Barbara (‘O Salce! Salce! Salce! …’) o quando prega nel silenzio del cuore che sente vicina l’ora della morte. Altrove non è canto, ma ‘umile e mansueta’ richiesta di perdono, o straniante sgomento per le ‘prime lagrime’ spremute da un dolore senza nome, o grido soffocato nell’ultimo ‘brivido dell’anima che muor’. Al soprano che la interpreta, la partitura di Desdemona non lascia altro spazio lirico che quello celebrativo del supremo sacrificio della donna ‘innamorata e bella’, vittima innocente della miseria dell’amore umano.
(G.B., 2021)