OASI 2024
Anno Sociale 2023-24
I
(2 - 9 ottobre 2023)

FABRIZIO DE ANDRE’
(1940 – 1999)
Da
Enciclopedia Treccani on line
Fabrizio De André, (o Faber, come lo aveva soprannominato l’amico Paolo Villaggio) è stato il primo artista italiano a introdurre nelle sue canzoni tematiche nuove, diverse da quelle sentimentali che fino ad allora avevano contraddistinto la musica leggera nazionale. Autore di testi ricchi di riferimenti letterari, nella sua produzione confluiscono svariate influenze, dal folk-blues alla musica popolare italiana.
Dopo aver compiuto gli studi classici nella sua città, cominciò a suonare la chitarra in un gruppo jazz, entrando al tempo stesso in contatto con cantautori come L. Tenco, G. Paoli e altri, con i quali contribuì a delineare all'inizio degli anni Sessanta la cosiddetta ‘Scuola genovese’.
Per molto tempo evitò di esibirsi in pubblico preferendo rivolgersi, con la sua produzione discografica, a un uditorio selezionato, in grado di apprezzare la delicata ispirazione e insieme gli umori polemici delle sue ballate.
Dopo l'esordio con Nuvole barocche (1958) e il primo importante successo con La canzone di Marinella (1962), tutta la produzione di De André è stata caratterizzata da un costante rinvio alla storia sociale e politica del paese, ma anche da riferimenti letterari: l'album Tutti morimmo a stento (1968) è ispirato alla poetica di F. Villon e quello de La buona novella (1970) ai Vangeli apocrifi, mentre Non al denaro non all'amore né al cielo (1971) è composto sui testi dell'Antologia di Spoon River di E.L. Masters.
La denuncia dell'ingiustizia, dell'ipocrisia del potere, della guerra, le vicende delle minoranze emarginate e perseguitate, i destini collettivi dei popoli rom, dei nativi americani, dei Palestinesi, così come una vasta galleria di singoli personaggi costituiscono il centro di queste e altre opere. La morte, pensata e cantata nelle sue varie accezioni, rappresenta un altro suo tema ricorrente.
Le strutture musicali sono sempre subordinate alla resa del testo: irregolarità metriche e libertà poetiche di ogni genere implicano un linguaggio musicale e un supporto strumentale non invadente, elastico, capace di lasciare spazio alle peculiari qualità interpretative della voce di De André, particolarmente ricca nel registro grave. I riferimenti musicali si estendono dal classico al folk, con poche concessioni ai tratti tipici del rock; dai modelli folclorici e dal blues, così come dalla musica medievale e rinascimentale, De André ricava le armonie modali che caratterizzano molti suoi brani.
Nel 1979 la vita familiare del cantautore viene scossa da un avvenimento eclatante: il rapimento suo e della compagna Dori Ghezzi in Sardegna ad opera dell'anonima sequestri, che li rilascerà dietro pagamento di un riscatto e una prigionia di circa quattro mesi.
Da un intenso ricorso al dialetto (genovese, sardo, napoletano) sono caratterizzati gli ultimi tre album di De A., Creuza de mä (1984), Le nuvole (1990) e Anime salve (1996), che hanno visto la collaborazione di M. Pagani e I. Fossati. De André ha inoltre creato interessanti versioni italiane di alcune canzoni di G. Brassens (Il gorilla, Marcia nuziale, Delitto di paese) e tradotto brani di B. Dylan e L. Cohen.
Nel 1997, Fernanda Pivano, consegnando a Fabrizio De André il Premio ‘Lunezia’ per il valore letterario del testo di Smisurata preghiera, presentava il cantante come "il più grande poeta in assoluto degli ultimi cinquant'anni in Italia", "quel dolce menestrello che per primo ci ha fatto le sue proposte di pacifismo, di non violenza, di anticonformismo", e aggiungeva che "sarebbe necessario che, invece di dire che Fabrizio è il Bob Dylan italiano, si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio americano".
De André muore l'11 gennaio 1999 all'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dove era ricoverato per un carcinoma polmonare, circa un mese prima del suo 59º compleanno.
“LA BUONA NOVELLA”
Molti sono i brani attraverso i quali De André esprime la sua visione religiosa. Già nel suo primo album Vol. 1º, compaiono brani come Preghiera in Gennaio (dedicato al suicidio dell'amico Luigi Tenco) Spiritual, Si chiamava Gesù. Con il concept album 'La buona novella' (1970) il cantautore dedica un'intera opera al Nuovo Testamento, umanizzando i personaggi del Vangelo e di due vangeli apocrifi. Riferimenti alla fede, alla religione, sono presenti direttamente o indirettamente anche in altri testi, come Smisurata preghiera, Khorakhané, Il testamento, Il testamento di Tito.
Nonostante si sia dichiarato non credente, egli espresse spesso nei fatti una sua particolare religiosità di tipo "panteistico: «Quando parlo di Dio lo faccio perché è una parola comoda, da tutti comprensibile, ma in effetti mi rivolgo al Grande Spirito in cui si ricongiungono tutti i minuscoli frammenti di spiritualità dell’universo.»
Comunque, l'atteggiamento tenuto da De André nei confronti dell'uso politico della religione, delle gerarchie ecclesiastiche e dell'ipocrisia della provincia ligure è spesso sarcastico e fortemente critico, fino all'anticlericalismo, nel contestarne i comportamenti contraddittori, come nelle canzoni Un blasfemo, Il testamento di Tito, La ballata del Miché e negli ultimi versi di Bocca di rosa.
«Io mi ritengo religioso e la mia religiosità consiste nel sentirmi parte di un tutto, anello di una catena che comprende tutto il creato e quindi nel rispettare tutti gli elementi, piante e minerali compresi, perché, secondo me, l'equilibrio è dato proprio dal benessere diffuso in ciò che ci circonda. … Penso che tutto quello che abbiamo intorno abbia una sua logica e questo è un pensiero al quale mi rivolgo quando sono in difficoltà, magari dandogli i nomi che ho imparato da bambino, forse perché mi manca la fantasia per cercarne altri»
Dopo il rapimento, la visione religiosa di De André ebbe una nuova evoluzione: umanista nel suo prestare attenzione all'uomo – in contrapposizione con la fede in un Dio, creazione dell'uomo stesso –, De André è uscito da quell'esperienza con un rinnovato rispetto nella fede e la divinità.
Qualche mese prima della sua scomparsa, nel concerto al teatro Brancaccio di Roma nel 1998, De André fece le seguenti dichiarazioni riguardo all'album 'La buona novella': «Quando scrissi La buona novella era il 1969. Si era quindi, in piena lotta studentesca e le persone meno attente consideravano quel disco come anacronistico [...] E non avevano capito che La buona novella voleva essere un'allegoria: un paragone fra le istanze della rivolta del '68 e le istanze, spiritualmente più elevate ma simili da un punto di vista etico-sociale, innalzate da un signore, ben 1969 anni prima, contro gli abusi del potere, contro i soprusi della autorità, in nome di un egualitarismo e di una fratellanza universale. Quel signore si chiamava Gesù di Nazareth. E secondo me è stato, ed è rimasto, il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. Quando ho scritto l'album non ho voluto inoltrarmi in strade per me difficilmente percorribili, come la metafisica o addirittura la teologia. Poi ho pensato che se Dio non esistesse bisognerebbe inventarselo, il che è esattamente quello che ha fatto l'uomo da quando ha messo piede sulla terra»
Nel diario che De André tenne negli ultimi mesi di vita è contenuta una sua poesia inedita dedicata a San Francesco. Lo scritto in stampatello, inedito, è custodito presso la Facoltà di lettere di Siena, sede dell’archivio De Andrè.
A che vale avere amato
se nessuno se ne è accorto
anche se lo hai fatto per il bene di tutti
tu con la tua povertà,
tu con la tua umiltà,
hai saputo umiliarci.
Non va dimenticato che De André, già nei suoi primi Lp, aveva cantato gli ‘ultimi’ cui il Vangelo fa riferimento, e in Spiritual così pregava:
«Dio del cielo se mi vorrai amare / scendi dalle stelle e vienimi a cercare»
«Dio del cielo io ti aspetterò / senza di te non so più dove andare».

Cappella di Sansevero – Napoli
La cappella Sansevero è tra i più interessanti e misteriosi siti di Napoli. Ospita capolavori come il Cristo velato, conosciuto in tutto il mondo per il suo velo marmoreo che appena ricopre il corpo del Cristo morto, la Pudicizia e il Disinganno, e rappresenta nel suo insieme un complesso singolare e carico di significati, anche per la presenza di altre opere di pregiata fattura o inusuali, come le macchine anatomiche, due corpi totalmente scarnificati su cui rimane visibile l'intero sistema circolatorio.
Oltre a essere stato concepito come luogo di culto, il mausoleo è soprattutto un tempio massonico carico di simbologie, che riflette il genio e il carisma di Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, committente e allo stesso tempo ideatore dell'apparato artistico della cappella.
Nel tempo sono fiorite numerose leggende sulla Cappella Sansevero e sul suo ideatore: i laboratori situati nelle cantine del palazzo di famiglia, adiacente alla cappella, gli improvvisi bagliori che ne scaturivano e le invenzioni che lì avevano origine stimolavano la fervida fantasia dei napoletani. La fama di alchimista e inventore che ha accompagnato Raimondo di Sangro ha fatto nascere, tra le altre, la leggenda che l'incredibile trasparenza del velo sul Cristo morto sia dovuta al fatto che si tratterebbe in realtà di una vera stoffa, misteriosamente marmorizzata per mezzo di qualche processo chimico di invenzione del Principe.
Sorprendenti per la loro ineguagliabile fattura, le statue della Pudicizia (dedicata a Cecilia Gaetani, madre di Raimondo, morta meno di un anno dopo la nascita del figlio) e quella del Disinganno (dedicata al padre Antonio che, dopo la morte della moglie, si era dato a un’esistenza avventurosa e disordinata). Il gruppo scultoreo del Disinganno descrive un uomo che si libera dal peccato, rappresentato dalla rete nella quale lo scultore trasfuse tutta la sua straordinaria abilità. La virtuosistica esecuzione della rete, lasciò sgomenti celebri i visitatori dell’epoca e continua a stupire i visitatori odierni.

La Pudicizia

Il Disinganno
Le due cosiddette macchine anatomiche, custodite all'interno
della cavea, rappresentano le presenze più enigmatiche del complesso
monumentale. Si tratta degli scheletri di due
individui, un uomo e una donna, completamente scarnificati e in posizione
eretta. Al di sopra di ciascun scheletro è fedelmente riprodotto, fino nei particolari
più minuti, l'intero sistema circolatorio. Il
grado di precisione raggiunto nella rappresentazione di arterie, vene e
capillari, unito alla fama di alchimista di Raimondo di Sangro, è tale che fino
a qualche anno fa si è ritenuto che si trattasse effettivamente di tessuti
viventi, la cui conservazione fosse stata ottenuta attraverso un misterioso
procedimento alchemico. Secondo la leggenda, tramandata tra gli altri anche da Benedetto Croce, Raimondo
avrebbe fatto iniettare nel sistema circolatorio di due dei suoi servi una
sostanza speciale di sua creazione, la quale avrebbe «metallizzato» i vasi
sanguigni permettendo la loro conservazione nei tempo.
Le Macchine Anatomiche della Cappella Sansevero hanno l’innegabile capacità di evocare leggende di stregoneria ed alchimia, alimentate anche dalla mancanza di documentazione medico-scientifica e dalla presenza di fonti storiche e letterarie frammentarie, lacunose ed insufficienti. Cosicchché ancora oggi resta aperta una domanda: cosa nasconde l’enigma irrisolto della cappella di Sansevero?
Giorgione: il mondo dopo la Tempesta
'La Tempesta' (Giorgione)
La celeberrima Tempesta di Giorgione (1478-1510) è uno dei quadri più misteriosi della storia dell’arte: un’ode alla magia della natura, in tutta la sua potente bellezza.
Una donna seduta tra gli alberi, con il seno scoperto, è intenta ad allattare un bambino. Non distante da lei c’è un giovane appoggiato a un bastone esile e lungo. Dallo sfondo, oltre il ponticello, una città, sopra la quale, nel cielo, si addensano nuvole nere mentre l’improvviso irrompere di un fulmine preannuncia l’arrivo di una tempesta.
Un’opera dal significato oscuro. Tanti i tentativi di offrire al capolavoro una lettura allegorica, dalle interpretazioni in chiave biblica a quelle di carattere alchemico o mitologico.
“Questa relazione profonda, vitale, irrazionale tra natura e humanitas costituisce la poesia di Giorgione: una poesia che ha anch'essa la sua determinazione storica nel panteismo naturalistico di Lucrezio” (G. Carlo Argan)
Madonna, Eva o Sibilla? Chi è la donna che allatta? La donna richiamerebbe, secondo alcuni, l’identità di una zingara, soggetto abbastanza popolare nella storia dell’arte. C’è chi avrebbe visto nel giovane la rappresentazione della fortezza e nella donna quella della carità, uniti anche durante le avversità. Altri hanno ipotizzato che l'opera potesse avere significati alchemici per la presenza dei quattro elementi: terra, fuoco, acqua e aria.
E il fulmine sullo sfondo cosa rappresenterebbe? Forse la spada fiammeggiante dell'angelo e la presenza di Dio adirato con Adamo ed Eva per il peccato originale? La tempesta sarebbe allora una metafora della condizione umana dopo il peccato, alla luce della dottrina cristiana?

Il fulmine nella 'Tempesta'
La tela è stata oggetto di diverse analisi ai raggi X che rivelano diversi cambiamenti, modifiche, pentimenti del suo autore. E resta ancora senza spiegazione l’enigma della Tempesta di Giorgione.
Le mani del padre del figlio prodigo
Alla morte di Rembrandt (1606-1669), tra i beni conservati nella sua casa, fu trovato “Il Ritorno del figliol prodigo”, ora all’Ermitage di San Pietroburgo. La tela, dalle notevoli dimensioni (2 metri per lato), appartiene verosimilmente all’ultima produzione dell’artista.

Della celebre parabola narrata nel Vangelo di Luca, Rembrandt scelse il momento del ‘ritorno’ come evidenzia il titolo dell’opera. È da notare che nel periodo giovanile, il pittore aveva affrontato il medesimo soggetto rappresentando il figlio che sperpera i beni del padre. Si può pensare, dunque, che questa straordinaria invenzione iconografica sia frutto di una matura riflessione sulla propria esistenza.
I personaggi principali del quadro, investiti di viva luce, sono un figlio inginocchiato davanti a un padre. Sugli altri astanti la luce scivola, lasciandoli in penombra.
La testa del figlio è rasata come quella di un servo, schiavo del vizio e del peccato. Le sue vesti sono logore e strappate, i sandali consunti, il piede sinistro lacerato per la lunga strada percorsa. Il padre, anziano e cieco (a giudicare dallo sguardo consumatosi nello sforzo di vedere riapparire in lontananza la sua creatura tanto amata e sempre attesa) rivela, con la figura e la postura, tutto il suo amore; il suo manto è avvolgente, il suo corpo accogliente come un grembo materno; le braccia stringono con fermezza il figlio ritrovato, mentre dolcemente egli lo accarezza e rassicura.
E le mani! La luce si fa viva e splendente soprattutto nelle sue mani. Le mani stesse diventano una fonte di luce e di calore. Tutto il corpo del figlio inginocchiato, ma specialmente il suo petto, sede del cuore, sono invasi e penetrati dalle luce che emana da esse. Sono mani di fuoco che bruciano ogni male e infondono nuova vita. Mani che toccano e guariscono, donando speranza, fiducia, conforto. Mani insieme simili e dissimili. La mano sinistra è forte e muscolosa. È una mano che stringe e sorregge. Ha i tipici lineamenti di una mano maschile. La mano destra invece è delicata, soave e molto tenera. Essa è posata dolcemente sulla spalla. Non calca, ma piuttosto accarezza, protegge, consola, calma. È la mano di una madre. Due mani diverse per un unico amore: insieme amore paterno e materno.
Tutto nel padre parla di amore: il volto assorto, le vesti che proteggono, il corpo che accoglie, le mani che abbracciano e benedicono. Il suo corpo si fa grembo accogliente e le sue mani trattengono, stringono e accarezzano il figlio ritrovato. Il suo amore assume tutte le tonalità e le espressioni: è accoglienza, perdono, pianto, tenerezza, dono, benedizione, gioia, festa, vita, eredità. La sua generosità stupisce tutti quelli che sono presenti alla scena, e ognuno reagisce a suo modo, ma tutti rimangono meravigliati.
Il figlio maggiore e gli altri personaggi mostrano la propria reazione personale a quello sta accadendo, che può esser di maggiore o minore partecipazione, o di critica e di distacco. Una nota comune a tutti questi personaggi è l’atteggiamento enigmatico, che dà adito a diverse possibili letture. Ciò significa che il dipinto (come il racconto evangelico) non è aperto a una soluzione interpretativa rapida e facile. Non si intravede una riconciliazione universale, un racconto a lieto fine. (Come rispondere, per esempio, alla domanda sull’esito del dialogo del padre col figlio maggiore?)
Rembrandt ci indica probabilmente una pista di lettura, ricordandoci che ogni riconciliazione implica sempre una lotta interiore e una libera decisione nella direzione dell’amore.
Nel 2023
A ‘Canzonissima 1969’, Dalida partecipò con il brano “Nel 2023”, una canzone che parlava del futuro, diventata recentemente virale, con l’arrivo dell’anno 2023. Il brano era una cover della canzone In the Year 2525 del duo pop-rock Zager and Evans, adattata per la cantante francese di origine italiana da Daniele Pace, uno dei più prolifici autori della canzone italiana. Questo il testo:
Nel 2023
Nel 2000 io non so se vivrò,
ma il mondo cambierà.
Il sole scenderà
su di noi.
Nel 2023, 23
se il mio cuore batterà, non lo so,
ma troverà qualcosa che
lo farà batter più di te.
Nel 2033, 33
non vedrò più con gli occhi miei.
Ci saranno delle immagini che
un altro mondo mi darà.
Nel 3023, 23
le mie braccia non serviranno più
e nessuno più lavorerà,
più veloce il tempo passerà.
Nel 3033, 33
Dio verrà sulla Terra fra di noi
per giudicare se è il momento ormai
di pronunciare la parola “fine”.
Nel 6023, 23
la terra nella notte tremerà,
in quel momento l’uomo avrà paura,
avrà paura di morire.
Nel 6033, 33,
adesso io mi domando se,
se nell’uomo ancora esisterà
tutto quello che adesso ha.
Diecimila anni son passati,
l’uomo crede di aver raggiunto Dio,
d’avere in mano il mondo,
di conquistare il sole,
ma se ti volti indietro,
le rose sono vive,
la pioggia cade ancora,
le cose belle sono antiche.
Nel 2023, 23
io non ci sarò più,
ma tu mi cercherai
nell’infinito.
Dal 2023 della seconda strofa, si passa al 2033 e poi al 3023 dove si immagina un futuro in cui “Le mie braccia non serviranno più - e nessuno più lavorerà“. Per mancanza di posti di lavoro, o per un mondo ormai completamente automatizzato?
La canzone continua con una visione sempre più catastrofica del futuro, fino alla venuta di Dio nel 3033 “Per giudicare se è il momento ormai - di pronunciare la parola fine”. Ma la storia continua “Diecimila anni son passati” e nonostante tutto “Le rose sono vive, - la pioggia cade ancora, - le cose belle sono antiche“.
Il tema dominante, è quello di un mondo condannato dalla sua passiva acquiescenza e dalla sua eccessiva dipendenza dalle proprie tecnologie esagerate, proiettato in un incerto futuro, incapace di accorgersi che la bellezza sta nelle cose semplici del passato.
Il testo ampiamente enigmatico, caratterizzato dai riverberi delle inquietudini degli ultimi anni Sessanta, pone molte domande sul futuro ed esprime gravi presentimenti.
Noi che abbiamo attraversato il guado del 2023, saremmo oggi in grado di
scioglierne gli enigmi azzardando qualche risposta?

Così Ugolino conclude il racconto:
«... ond'io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che 'l dolor poté 'l digiuno.»
(Inf. XXXIII, 72-75.)
Ci sono nel poema dantesco dei versi criptici, che resistono da secoli allo sforzo dei tanti esegeti che cercano di illustrarne il significato. Uno di questi è appunto il verso 75. L'interpretazione più comune del verso è che il conte infine morì, soccombendo alla fame che lo uccise dopo due giorni, laddove il dolore per la morte dei figli non era riuscito a sopraffarlo.
Con l’antico commento di Jacopo della Lana (1324-28) è nata però un'interpretazione alternativa secondo cui le ultime parole del conte lascerebbero presagire uno scenario in cui egli, ormai cieco e folle, per la fame avrebbe mangiato i cadaveri dei figli; si tratterebbe in sostanza della vittoria degli istinti brutali dell'uomo sul suo dolore e sui suoi affetti, provocata dalla pena inumana a cui il conte è stato sottoposto. Tale interpretazione deriva dal fatto che qualche verso prima sono i figli stessi di Ugolino a offrirsi generosamente al padre prospettando proprio l'ipotesi che egli mangi le loro carni:
«"...e disser: 'Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia'."»
(Inf. XXXIII, 61-63.)
L’endecasillabo “Poscia, più che 'l dolor poté 'l digiuno.” si presta dunque a una interpretazione duplice: Ugolino sta dicendo che il desiderio di cibo lo spinse a nutrirsi del cadaveri dei figli, oppure che la causa della sua morte non fu il dolore atroce per la morte dei giovani, ma l’inedia, la denutrizione prolungata? Dante stende volutamente un velo di ambiguità e di reticenza. Sta a noi lettori disambiguare il verso, e tentare di sciogliere l’annoso enigma
(da Dario Pisano)
La figura di Giuseppe Tartini (1692 - 1770), compositore e virtuoso del violino, è legata a una famosa composizione musicale che ha avuto una curiosa genesi: la sonata in sol minore nota come “Il trillo del diavolo”.
«Una notte sognai che avevo fatto un patto e che il diavolo era al mio servizio. Tutto mi riusciva secondo i miei desideri e le mie volontà erano sempre esaudite dal mio nuovo domestico. Immaginai di dargli il mio violino per vedere se fosse arrivato a suonarmi qualche bella aria, ma quale fu il mio stupore quando ascoltai una sonata così singolare e bella, eseguita con tanta superiorità e intelligenza che non potevo concepire nulla che le stesse al paragone. Provai tanta sorpresa, rapimento e piacere, che mi si mozzò il respiro. Fui svegliato da questa violenta sensazione e presi all'istante il mio violino, nella speranza di ritrovare una parte della musica che avevo appena ascoltato, ma invano. Il brano che composi è, in verità, il migliore che abbia mai scritto, ma è talmente al di sotto di quello che m'aveva così emozionato che avrei spaccato in due il mio violino e abbandonato per sempre la musica se mi fosse stato possibile privarmi delle gioie che mi procurava.»
La sonata in sol minore è certamente una delle opere migliori del Tartini e uno dei più difficili brani per violino mai composti, ma sembra fosse lontana dalla bellezza e singolarità della musica del sogno, e per questo si pensa che il violinista abbia continuato a correggere la sua musica, nell’impossibile tentativo di riprodurre nel modo più fedele possibile l’originale sognato.
Dove si nasconde l’enigma del Trillo del diavolo? Nella sua origine diabolica o, più semplicemente, nello straordinario virtuosismo del Tartini?
'Il trillo del diavolo'
L'incubo di
Füssli
Vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento, Johann Heinrich Füssli (1741-1825) è stato uno dei più grandi interpreti dell’are pittorica del suo tempo. Grazie a una formazione avvenuta tra Inghilterra e Italia, egli ha infatti inserito nei suoi quadri sia le caratteristiche della pittura neoclassica, sia i temi fondanti del movimento romantico.
Füssli dipinse l’opera “L’incubo” nel 1781: il pittore era un artista già affermato, ma la tela incrementò la sua fama. Nella raffigurazione, infatti, Füssli indagò il tema dell’inconscio addirittura un secolo prima dell’avvento della psicanalisi di Sigmund Freud, il quale peraltro teneva nel suo studio viennese una riproduzione del dipinto.
In “L’incubo” Füssli mette al centro della raffigurazione una donna dormiente, sdraiata su un letto in una posizione decisamente insolita che lascia trasparire lo sgomento provato durante il sonno. Il suo volto è sofferente, la pelle è pallida e le braccia sono abbandonate alla forza di gravità che le trascina verso il pavimento, tanto da creare nell’osservatore l’idea che si tratti di una persona morta.
L’intera stanza che avvolge la figura femminile è in penombra, così da rendere ancora più suggestiva e inquietante la visione degli altri protagonisti della tela. L’ambiente è cosparso di oggetti solitari: sparsi sulla superficie compaiono infatti un libro, una fiala e uno specchio. I tendaggi disposti dietro al letto della stanza arredata secondo la moda di fine Settecento, invece, fungono da sipario che rende ancora più teatrale la comparsa dell’incubo in sé: una cavalla spettrale di cui viene rappresentata solo la testa.
Le sensazioni di angoscia e terrore provate dalla donna durante il riposo, infine, vengono rese attraverso un mostro accovacciato che, con il suo peso, grava sul busto della ragazza comprimendole il torace.
Il titolo del quadro, in particolare, sarebbe etimologicamente riferibile a due termini il cui significato viene reso in maniera letterale sulla tela. Da sola, la desinenza -mare della parola inglese nightmare (incubo, appunto) può indicare sia una cavallina, sia uno spirito che, nella tradizione scandinava, verrebbe mandato a tormentare chi dorme.
La portata rivoluzionaria del quadro, è legata anche allo stile adottato dal pittore. Füssli riesce a gestire abilmente i chiaroscuri suggerendo, in chi osserva, lo stesso sconvolgimento della donna. La pittura, inoltre, mostra chiari riferimenti all’arte antica in un soggetto prettamente romantico, il che si traduce in una tela capace di precorrere i tempi, anticipando movimenti come l’Espressionismo e il Surrealismo.
“Il genio ha davanti a sé due strade: una porta alla scoperta di ciò che la natura ci aveva fino a quel momento nascosto; la seconda lo spinge ad amalgamare la tradizione con la rivelazione.” (J. H. Füssli) - Quale rivelazione, dunque, nell’enigma dell’”Incubo” di Füssli?
Enigmi michelangioleschi
Il quinto incisivo
Marco Bussagli, docente dell’Accademia di Belle Arti di Roma, recentemente esperto di anatomia e noto storico dell’arte, ha osservato che in diverse figure dipinte e scolpite da Michelangelo compare un incisivo in più, come in una sorta di patologia dentaria che coinvolge diversi personaggi: dal Cristo della Pietà e dalla Sibilla Delfica a Giona, dal tale che alza la croce di San Paolo fino alle figure dei demoni affrescati nella parte bassa del Giudizio Universale.
Nella Sibilla Delfica, la bocca minuta e semiaperta lascia affiorare tre ampli incisivi al posto di due.
La presenza di un incisivo mediano, il quinto in totale, rientra nell’anomalia anatomica nota come hyperdontia, ovvero presenza di denti soprannumerari. Il quinto incisivo è chiamato mesiodens. Troviamo il mesiodens in altri volti: il monumentale Giona, diverse figure de «Gli Israeliti e il serpente di bronzo», qualcuno degli Ignudi, le figure di dannati e demoni del Giudizio Universale, l’aguzzino che alza la croce nella Crocifissione di san Pietro nella Cappella Paolina, la Furia degli Uffizi, il Laocoonte della Stanza segreta nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo, il disegno della cosiddetta «Ugly Cleopatra» di Casa Buonarroti, e altri ancora.
La compresenza di queste figure con altre dalla dentatura normale fa pensare a una volontà esplicita dell’artista. Con quale significato, allora? Si entra qui nell’appassionante mondo degli enigmi presenti nell’iconologia michelangiolesca.
Non è difficile notare che le figure col mesiodens nella volta della Sistina corrispondono a personaggi ante gratiam, vale a dire vissuti prima di Cristo e perciò non redenti ancora. Altro gruppo con il quinto incisivo è composto dai dannati, dai demoni, dagli oppositori della fede, quelli che potremmo chiamare sine gratia. Allora questo segno anatomico serve a dividere buoni e cattivi? No. Serve a distinguere chi è in grazia di Dio e chi no. Lo sfondo teologico è l’aspra discussione sulla predestinazione che si svolse lungo l’intero secolo, tra opere come il De servo arbitrio di Lutero, il De libero arbitrio di Erasmo e i decreti del Concilio di Trento. L’argomento è complesso e cruciale, e Michelangelo ne era partecipe attraverso le frequentazioni romane.
Sorge a questo punto una curiosità o piuttosto una domanda necessaria: come mai nella scultorea Pietà Vaticana (1497-1499), Gesù ha il mesiodens?
L’amore dell’artista per Gesù Cristo, a tratti assai tenero, è fuori discussione, basta leggere i suoi scritti. Non era, quindi, una blasfema attribuzione del peccato al Redentore. Non blasfema, ma attribuzione sì. È il topos teologico del Cristo agnello sacrificale che si è caricato su di sé i peccati di tutti gli uomini. Scrivendo ai Corinzi san Paolo afferma: «Colui che non conobbe il peccato Dio per noi lo fece peccato, affinché noi diventassimo in lui giustizia di Dio» (2Cor 5,1). Non occorre andare oltre. Il mesiodens di Cristo è il nostro, quello di tutti i peccatori.
La creazione di Adamo: il Dio-cervello di Michelangelo
Michelangelo, oltre ad essere stato uno dei pittori e scultori più famosi di tutto il Rinascimento, è stato anche un esperto conoscitore di anatomia. Alcuni studiosi americani ritengono, infatti, che l’artista abbia lasciato alcune illustrazioni anatomiche all’interno di una delle sue opere famose: gli affreschi della Cappella Sistina. Il gruppo di angeli che circondano la figura di Dio creerebbero, infatti, una sagoma indiscutibilmente simile alla sezione sagittale di un cervello. corredato dalle sue componenti più sofisticate: cervelletto, nervo ottico e ipofisi. Una falsa chiave di lettura o un messaggio per i posteri?
Appena da osservare, nell’alveo divino, il Creatore che stringe con il suo braccio sinistro, sul lato del cuore, una figura femminile. Eva? La donna primordiale, in mente Dei prima della creazione dell’uomo?
III
(30 ottobre 2023)
Che cos’è la filosofia?
(Filo-sophìa = amore per il sapere, desiderio di conoscenza)
Oggi le conoscenze (o più in genere la ‘scienza’) tanto facilmente attingibili da una grande varietà di fonti e alla portata di tutti, rappresentano ancora quel prezioso patrimonio culturale di humanitas dell’individuo e della società, al quale i Greci avevano dato il nome di ‘filo-sophìa’?
Sul frontone del tempio di Apollo, a Delphi - dove si recavano i pellegrini per avere dalla Pitia i responsi augurali alle loro imprese - era incisa la suprema massima del dio:
Perché la ‘sophìa’, la vera conoscenza, non consiste nella collezione e nell’accumulo di dati, ma nel dialogo tra sé e il mondo attraverso la continua esplorazione continua del proprio Io. La via di ogni conoscenza comincia e finisce nell’intimo dell’uomo. Dall’ingenua curiosità e dal primitivo stupore davanti alle meraviglie della natura (la physis greca), verrà la spinta a muovere i primi passi verso la sophìa (conoscenza, scienza, coscienza).
Se la raccolta di particolari conoscenze non è di per sé ‘sophìa’, cos’è allora la ‘filo-sophìa’? La ‘filo-sophìa’ - amore appassionato, desiderio di sapere ciò che non si sa - è un modo di essere del nostro pensiero, un’attività costante della mente ricercatrice, costruzione paziente di un efficace metodo di indagine. La filosofia dunque, più che uno scrigno con oggetti preziosi, è solo una chiave, una specie di passpartout utile per aprire mille porte.
L’idea di questa chiave per le mille porte, forgiata sul modello linguistico dell’idioma ellenico, cominciò ad essere usata intorno al VI secolo a.C. nei confini dell’Attica, poi nella Magna Grecia e ad Atene, città che fu patria di famosi maestri (Socrate, Platone, Aristotele) e di grandi scuole (notevole, fra tutte, il Liceo dei Peripatetici). Agli antichi filosofi il merito di aver indicato per primi, in Occidente, il metodo logico (aderente alla razionalità del linguaggio verbale, strumento fondamentale di comunicazione) per interrogare la physis-natura, per acquisire conoscenze e trasformarle in espandibile scienza.
Ma chi sono i filosofi di ieri e di oggi?
I filosofi appartengono al popolo di quelli che si chiedono ‘perché?’ Tutti quelli che, non sgomentati dall’infinito, sfidano l’oscurità dell’abisso con la piccola bussola della ‘ragion filosofica’ (curiosità, passione, metodo).
E a che cosa serve la filosofia?
Aristotele avrebbe risposto così: “Tu dici che la filosofia non serve a nulla. Ma sappi che proprio perché libera dal legame di servitù è la più nobile tra le forme della conoscenza”.
Qual è, finalmente, l’insegnamento fondamentale della filosofia?
Socrate - considerato dall’oracolo delfico ‘il più sapiente degli uomini’ - confessava “L’unica cosa che so è che non so niente”. Il vero ostacolo alla conoscenza infatti non è l’ignoranza, ma la stolta presunzione di sapere. - Facciamo ogni sforzo per utilizzare le nostre conoscenze allo scopo di dominare la natura e cambiare il mondo. Ma “il mondo così come l’abbiamo creato è un risultato del nostro pensiero: non possiamo cambiarlo se non cambiando il nostro modo di pensare” (A. Einstein).
La filosofia (e tutta la scienza) non è dunque un fine, ma un semplice strumento, la ‘chiave di Sophìa’ che non darà mai risposte, ma potrà aiutarci ad aprire le porte delle nostre mille domande.
(g. b.)

di Antonio Polselli (2019)
voi non siete che forme dello spirito, la sintesi (…)
perché voi siete tutti insieme l’Armonia.
E quando forse gli uomini non parleranno più di Lui
continuate voi a parlare , o pietre.
(David Maria Turoldo)
Il vento che soffia muove nella mente e nell’anima ricordi antichi, permette alla memoria di viaggiare nel nostro passato prossimo e remoto. Abbazia non è soltanto quell’edificio che ospita una comunità di religiosi (uomini e donne) governata da un abate, ma un luogo propizio al silenzio, all’ascolto, alla preghiera e alla riflessione. Infatti le abbazie, soprattutto quelle cistercensi, evocano e trasferiscono in chi le visita l’esperienza del silenzio che è riconciliazione con sé e con il mondo.
Per i nati in terra lepina l’abbazia per eccellenza è quella di Fossanova, (piccola frazione del Comune di Priverno), oltre a quella di Valvisciolo nel Comune di Sermoneta. Un’abbazia cistercense, quella di Fossanova, che, per molti di noi, è stata ed è una delle pietre portanti della memoria della nostra infanzia, adolescenza e gioventù, un’opera d’arte che ci ha aiutato e aiuta a trovare uno sguardo nuovo sulla vita e sul mondo che ci circonda.
Per comprendere Fossanova in maniera sintetica occorre utilizzare il linguaggio splendido della luce, del silenzio e della preghiera: tre ingredienti che si intrecciano con la storia, l’arte e la spiritualità del luogo. Fossanova, come architettura sacra, sa parlare e comunicare con il linguaggio della luce. La luce, che penetra attraverso le pietre dell’abbazia per vincere l’ombra, giunge al cuore di ogni persona, credente e non, ed è un bel racconto da leggere e da contemplare.
Il silenzio si intreccia con l’ascolto interiore, l’ineffabilità e la riflessione interiore. Quando si entra nell’abbazia con il silenzio si sperimenta la vicinanza con qualcosa che trascende, ci si ritrova solo con se stessi ed è possibile meditare e pregare. Con la preghiera, chi entra nell’abbazia ha la possibilità di conversare con Dio, di tessere un dialogo con lui, di incontrare l’invisibile.
L’abbazia di Fossanova, per le folate di vento da intercettare, significa, grazie alla luce, al silenzio e alla preghiera, “abitare il tempo” perché è un luogo dove si può trovare, arte, storia e fiumi di canti e di preghiere.
Costruita tra la fine del 1100 e l’inizio del 1200, l’abbazia appartenne prima all’ordine benedettino e quindi a quello cistercense. Esternamente è semplice ma assolutamente maestosa. Il nucleo principale è la Chiesa con lo splendido Chiostro interno. Attorno ad esso si trovano il Refettorio dei monaci, la Sala Capitolare e l’Infermeria dove Tommaso d’Aquino fu ricoverato e morì nel 1274. La chiesa è uno splendido esempio di gotico italiano, con i suoi imponenti pilastri congiunti da arcate, navate con volte a crociera, e un grande rosone centrale che contraddistingue la facciata grazie alle sue decorazioni.
Appena fuori dal nucleo principale, nel tempo si sviluppò il borgo di Fossanova. Nacque un’infermeria che oggi è uno spazio utilizzato per attività culturali. Una foresteria, oggi impiegata come sede del Museo Medievale, un ospizio per pellegrini, stalle, piccole attività commerciali che ancora oggi offrono prodotti da forno, latticini e prodotti locali.
L’Abbazia e il Borgo di Fossanova si trovano immersi nella quiete della campagna, e offrono la possibilità di immergersi in un’atmosfera davvero magica, tra storia e tradizione.
Pier Paolo Pasolini (1922-1975), figlio di Carlo Alberto, ufficiale di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare, frequentò la facoltà di lettere di Bologna, dove conseguì la laurea nel 1945, con una tesi su Giovanni Pascoli.
A venti anni pubblicava, a sue spese, ‘Poesie a Casarsa’, un volumetto di poesie in dialetto friulano. Tornato con la famiglia a Casarsa, il paese materno, a causa della guerra in corso, continuò a comporre poesie sia in friulano che in lingua italiana.
Pochi giorni prima dell’armistizio del ’43 Pasolini fu richiamato nell’esercito. Fatto prigioniero dai tedeschi, riuscì a scappare, rifugiandosi a Casarsa. Fu tragica per lui la morte dell’amato fratello Guido, trucidato nel 1945 dai partigiani garibaldini che auspicavano l’adesione del Friuli alla Jugoslavia di Tito.
Nei primi anni del dopoguerra Pasolini si iscrisse al Partito Comunista, e si dedicò all’insegnamento, prima in una piccola scuola privata aperta con la madre, successivamente in una scuola media di Valvasone.
Il suo interesse per la letteratura e la politica lo portò a progettare un romanzo dal tema erotico omosessuale, che rifletteva la passione dello scrittore per i giovani contadini incontrati spesso alle sagre di paese e nelle fiere. Una delle sue avventure sessuali fu conosciuta, fece scalpore ed ebbe conseguenze inevitabili, come la sospensione di Pasolini dalla scuola e l’espulsione dal PCI. Pier Paolo e la madre decisero allora di allontanarsi dal paese dello scandalo e, nel 1950, si rifugiarono a presso uno zio materno.
Il trasferimento nella capitale fu per Pasolini un’occasione di rinascita. Egli riuscì a emanciparsi dal provincialismo bigotto e a entrare in contatto con intellettuali come Sandro Penna, Giorgio Caproni, Aberto Moravia ed Elsa Morante. Fu subito affascinato dal sottoproletariato locale e dalla sua miserabile bellezza. Continuò nel frattempo a scrivere, dando alle stampe i controversi romanzi ‘Ragazzi di vita’ (1955) e ‘Una vita violenta’ (1959).
Avendo stretto amicizia con i Bertolucci, con Bernardo ebbe la possibilità di fare i primi passi nel mondo della cinematografia. Nel 1954 si cimentò come sceneggiatore per Mario Soldati nel film ‘La donna del fiume’, collaborando poi per Federico Fellini in ‘Le notti di Cabiria’ e ‘La dolce vita’.
Attraverso il cinema Pasolini riuscì a raggiungere un più vivo e profondo contatto col pubblico. Realizzò, come cineasta, ‘Accattone’ (1961), ‘Mamma Roma’ (1962), ‘La Ricotta’ (1963), ‘Uccellacci e uccellini’ (1965), ‘Edipo (1967) e ‘Medea’ (1969), capolavori del cinema italiano e non solo.
La fuga di Pasolini nel mondo proletario, lontano dal perbenismo borghese, inteso come malattia culturale più che come condizione sociale, non gli bastò più quando per l’invadenza della globalizzazione, perfino i più indigenti cominciarono a omologarsi al pensiero unico dell’Occidente. Proletari o borghesi, i giovani -secondo Pasolini - avevano perso la strada della loro missione rivoluzionaria. In ‘Teorema’ (1968) e ‘Porcile’ (1969), due difficili metafore della realtà offuscata ormai da un cieco pessimismo, l'Italia appare dominata dal nuovo potere che tende ad omologare tutte le classi sociali al modello piccolo-borghese. La realtà contadina e precapitalistica che egli aveva mitizzata era ormai scomparsa; per trovare spazi immacolati bisognava, forse, volgere lo sguardo verso quelle direzioni che già indicavano i cartelli stradali del finale di ‘Uccellacci e uccellini’: Istanbul Km. 4.253, Cuba Km. 13.257.
Da questi territori lontani Pasolini combatte idealmente le sue ultime battaglie contro i tabù sessuali, armato unicamente delle leggi della natura che, nella sua visione, raggiungono la purezza solo se liberate dai vincoli educativi e religiosi. Sono gli argomenti che ispirano la cosiddetta trilogia della vita: ‘Decameron’ (1971), ‘I racconti di Canterbury’ (1972), ‘Il fiore delle mille e una notte’ (1974).
La perdita delle speranze e delle certezze aveva condotto Pasolini a sperimentare nuove vie anche nella letteratura tanto nelle raccolte poetiche (la rabbiosa ‘La religione del mio tempo’ del ‘61, la ‘Poesia in forma di Rosa’ del ‘64 e la nevrotica ‘Trasumanar e organizzar’ del ‘70), quanto nei romanzi non-finiti e metanarrativi ( ‘La divina mimesis’ del ‘63 e ‘Ali dagli occhi azzurri’ del ‘65).
Testamenti della sua esistenza e riflessi della società che lo aveva deluso e allontanato restano ancora oggi dei punti chiave della cultura italiana: l’inquisito film ‘Salò e le 120 giornate di Sodoma’ , la raccolta poetica friulana ‘La Nuova Gioventù’ e il romanzo mai finito ‘Petrolio’.
La notte del 2 novembre 1975, all’età di 53 anni, Pasolini venne trovato massacrato e ucciso in uno spiazzo polveroso all'Idroscalo di Ostia, vicino a Roma. Era la fine di una vita piena scandalosa e controcorrente.
Fenomeno musicale e sociologico
Nel contesto internazionale e tra gli avvenimenti più importanti degli anni 60 del secolo scorso (la ‘guerra fredda’, la crisi di Cuba, l’assassinio di Kennedy, ìl Vietnam, ecc.), in Europa, con la crescita industriale e il boom economico - ma anche con l’arrivo delle tv - migliorano rapidamente la qualità delle informazioni e le condizioni di vita delle famiglie. In Italia nascono le prime radio libere, in particolare Radio Luxembourg che contribuisce alla diffusione della musica d’oltreoceano.
Iniziano lievitare i primi fermenti giovanili: i ragazzi vogliono contare di più nella società dominata dai ‘matusa’. Nelle scuole, nelle università, negli ambienti operai, nascono i movimenti di protesta, e la musica rock diventa il simbolo del loro desiderio di ribellione e di libertà.
È del 1962 Love me do, il brano dall'album di esordio della band, Please please me; appena due anni dopo i Beatles scaleranno le classifiche di mezzo mondo, tanto che la Regina Elisabetta d’Inghilterra li insignirà addirittura del titolo di Baronetti.
In quegli anni nasceva così, la prima boy band della storia: le ragazze impazzivano per i Beatles, talmente richiesti da fare anche tre o quattro concerti al giorno tra i fans in delirio (uno dei più celebri fu quello al teatro Adriano di Roma del 1965). E nasceva la Beatlemania: i Beatles diventano la colonna sonora di una nuova rivoluzione nella moda, nei modi di vivere, e nel sogno di libertà dei giovani contro una società decisamente tradizionale e poco permissiva.
I Beatles toccheranno l'apice del successo nel '66, l'anno di Revolver, con il quale il gruppo apre il suo periodo psichedelico (il nuovo tipo di musica sarebbe derivato dalla scoperta dell'Lsd da parte di Lennon), mentre McCartney continua la sua sperimentazione musicale in senso più classico. È dello stesso anno l'incontro di John Lennon con l'artista giapponese Yoko Ono, che segnerà la sua vita e anche il futuro della band.
Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band è l'album del 1967, dove la capacità compositiva della band aumenta ulteriormente e tocca nuove vette. Le canzoni di questo disco (come All You Need Is Love) diventano il manifesto della cultura Hippy che va prendendo forma proprio in quegli anni.
Tra il 1969 e il 1970 i contrasti tra i membri del gruppo sono sempre più frequenti. John Lennon e Yoko Ono hanno ormai trovato stabilità nella loro vita sentimentale e professionale. La band riesce comunque a pubblicare un ultimo disco, Abbey Road.
Con lo scioglimento della band e la morte di John Lennon, i Beatles non pubblicheranno nuovi album, ma resteranno presenti nella storia musicale contemporanea. Il loro mito continua, e forse continuerà ancora per molti anni.
Stellio Cellerino
LE LETTERE DALLA PRIGIONIA
Nei suoi ultimi giorni di libertà, tragicamente interrotta quando fu rapito dalle Brigate Rosse la mattina del 16 marzo 1978 a Roma in via Fani, Aldo Moro era immerso, come tutti del resto, nelle occupazioni e nelle preoccupazioni della vita di sempre; nel suo caso la famiglia, l’Università e la politica. Sua figlia Anna aspettava un bambino, la primogenita Maria Fida aveva un figlio di tre anni, Luca, con cui lo Statista trascorreva gran parte del proprio tempo privato, gli altri due figli, Giovanni e Agnese, studiavano all’Università.
La vita politica, in quel delicatissimo frangente della storia d’Italia, lo occupava nella formazione di un governo che potesse avere l’appoggio del Partito Comunista, passaggio ritenuto da Moro fondamentale per traghettare l’Italia verso una democrazia compiuta. In quei giorni così intensi, forse come lo erano sempre stati per lui i giorni da quando, quasi quarant’anni prima, aveva deciso d’impegnarsi in politica, Moro era anche intento a leggere un libro. E pure la lettura di quel libro venne interrotta dai mitra che il 16 marzo posero fine alla sua libertà e alla vita dei cinque uomini della scorta. Il libro che Aldo Moro stava leggendo in quei giorni così concitati era stato scritto qualche anno prima da Jürgen Moltmann, un teologo evangelico tedesco, e s’intitolava Il Dio crocifisso. Il testo di Moltmann riflette sull’eterno tema della sofferenza del mondo e si conclude con l’ultimo capitolo, l’ottavo, significativamente intitolato Vie per la liberazione politica dell’uomo.
Non ci è dato sapere fino a che punto Moro fosse giunto nella lettura del libro. Certo è che egli ne lesse l’incipit. E le parole con cui l’opera di Moltmann si apre suonano alle nostre orecchie in maniera particolare poiché noi sappiamo quale fu il modo in cui Moro venne strappato a quella lettura: «La croce non è amata, né può esserlo. E tuttavia soltanto il Crocifisso procura una libertà capace di trasformare il mondo, perché essa non teme più la morte». Questo riferimento al Cristo crocifisso, al calvario che Gesù dovette subire è presente nelle lettere che Moro scriverà dalla prigione delle Brigate rosse.
Nel corso dei 55 giorni che trascorse prigioniero, Moro scrisse, per quanto ne sappiamo, 97 testi, intendendo con questo termine lettere, biglietti e testamenti. Nonostante il fatto che, durante i giorni della prigionia di Moro, questi documenti furono da molti ritenuti non autentici, condizionati dalla situazione estrema in cui Moro si trovava, se non addirittura da droghe somministrategli, i familiari dello Statista, a partire dalla moglie Eleonora, li considerarono fin da subito autentici, scritti con la calligrafia del loro caro e caratterizzati da espressioni, modi di strutturare il discorso tipici di Aldo Moro. Ciò che Moro stava leggendo quando fu rapito e ciò che egli scrisse nei giorni della sua prigionia è stato ampiamente collocato sotto i riflettori mediatici, spesso mescolato alle ricerche e agli studi intenti a cercare di capire chi, come e perché volle morto uno degli uomini politici più importanti del Ventesimo secolo.
Una lettera autografa di Moro al presidente dell CameraPietro IngraoNoi non ci soffermiamo sulle tante questioni sollevate da Moro in quegli scritti, da quelle politiche a quelle più immediatamente collegate alla ricerca della soluzione che potesse garantirgli la vita e la libertà, ma sulla spiritualità che mosse tutta la sua vita politica e che affiora anche (e per certi versi in maniera ancora più evidente) nella condizione di estrema costrizione in cui le lettere furono scritte.
(Giancarlo Loffarelli, dal I capitolo di ‘La spiritualità di Aldo Moro’, Pazzini Ed., 2023)

MARIA CALLAS, LA VOCE DIVINA
da Roberto Zichittella, 2023
Maria Callas (al secolo Maria Anna Sofia Cecilia Kalogheropoulos) nacque il 2 dicembre del 1923 a New York da una famiglia di emigranti greci. Morì il 16 settembre del 1977, in solitudine, nella città che infinite volte, nel ruolo di Violetta in Traviata, aveva cantato come un “popoloso deserto”: Parigi.
La morte prematura ha reso indistruttibile il mito di un’artista che rimane un punto di riferimento nella storia del teatro musicale. «La congiunzione di stelle che si sono incontrate per creare un astro così completo e perfetto come Maria Callas non potrà ripetersi mai più», disse Franco Zeffirelli. Il poeta premio Nobel Eugenio Montale, dopo una recita di La sonnambula di Bellini alla Scala nel 1955, la definì: «Fenomenale soprano leggero tragico, di sapore espressionistico: un miscuglio di cui non avevamo precedenti».
Maria Callas conquistò il successo con il talento, lo studio e una disciplina di ferro. Le prime lezioni di canto le prese a New York a 6 anni, ma lo studio divenne metodico dopo il ritorno con la famiglia in Grecia, nel 1937. Ad Atene, nel 193, cantò per la prima volta un’opera intera, interpretando Santuzza in Cavalleria rusticana. Negli anni della guerra cantò in Grecia, poi negli Stati Uniti. Nel 1947 venne in Italia, a Verona, per cantare in Arena La Gioconda diretta da Tullio Serafin. Fu un trionfo. A Verona Maria conobbe Giovanni Battista Meneghini, un industriale appassionato di lirica. Ne nacque una relazione, anche se Meneghini aveva 28 anni più di lei. Si sposeranno nel 1949.
Il 7 dicembre 1951 è l’anno del debutto alla Scala con I Vespri siciliani di Verdi. Maria si esibirà su quel palcoscenico per undici anni in 24 titoli, lasciando ricordi indelebili. Come ricorda l’ex sovrintendente Carlo Fontana, «nella sala del Piermarini il fantasma della Maria ha aleggiato a lungo». In quel periodo Maria Callas era una florida ragazzona che pesava oltre 90 chili. «Mi trovai di fronte una matrona in visone», scrisse la giornalista Camilla Cederna ricordando il suo primo incontro con la diva. Una dieta ferrea ammantata di leggende le fece perdere quasi 50 chili nel giro di pochi anni.
Fra il 1951 e il 1957 Maria Callas è la regina dell’opera lirica mondiale. I fan la venerano come “la Divina”. I critici e i loggionisti milanesi alimentano invece una rivalità con Renata Tebaldi, altra grandissima voce di quegli anni. Ma registi come Luchino Visconti continuano a valorizzare il temperamento drammatico della Callas. Resta indimenticabile La Traviata del 1955 alla Scala. Maria apparve bellissima. Era anche molto magra e Visconti la vestì con degli abiti meravigliosi. Era una Violetta unica al mondo.
Dopo tanti trionfi, una giornata nera. Giovedì 2 gennaio 1958: Maria Callas canta Norma per l’inaugurazione della stagione del Teatro dell’Opera di Roma. È una serata di grande mondanità. Nel palco reale siedono il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e la moglie. In sala ci sono anche Giorgio De Chirico, Gina Lollobrigida, Anna Magnani, Silvana Pampanini. Alla fine del primo atto la Callas abbandona il teatro da un passaggio interno che la conduce direttamente in hotel. Aveva accusato un calo di voce, ma le avevano fatto male anche alcune contestazioni del pubblico. La recita viene sospesa. È uno scandalo che costringerà l’artista a scrivere una lettera di scuse al presidente Gronchi il giorno seguente.
Nell’agosto del 1959, la svolta sentimentale. Maria Callas allaccia una relazione con un altro uomo più anziano di lei, l’armatore greco Aristotele Onassis. Questa volta la differenza d’età è di 17 anni. «Maria ha cominciato a non occuparsi più della sua voce per frequentare un mondo che non era il suo. Lei era abituata a stare con i colleghi, invece Onassis la obbligava a frequentare il bel mondo dorato, si fa per dire, con il quale lei non aveva nulla da spartire. Maria era una donna che viveva del suo canto e della sua casa milanese, che amava molto: aveva una bella casa, con mobili antichi meravigliosi e molti quadri di valore. Questo era il suo mondo, ma poi è arrivato lo tsunami Onassis che ha sconvolto tutti i rapporti», scrisse con amarezza Giovanna Lomazzi, la sua amica di sempre.
Nel giugno del 1962 Maria si esibisce per l’ultima volta alla Scala. La voce ormai ha perso lo smalto di un tempo. Nel 1968 Pasolini la vuole come protagonista nel film Medea, ma il cinema non sembra la sua nuova strada. Comincia una relazione tormentata con l’amico tenore Giuseppe Di Stefano, con il quale si esibisce in alcuni recital in Giappone. L’11 novembre 1974 è il giorno della sua ultima esibizione pubblica, a Sapporo. L’anno prima Riccardo Muti l’aveva cercata per farla cantare ancora nel Macbeth di Verdi a Firenze. Niente da fare. «È tardi», sospira Maria al telefono, con lo stesso tono cupo di Violetta, quando sente vicina la morte in La Traviata.
Tra il 1975 e il 1976 muoiono Onassis, Pasolini e Visconti. La Callas è sempre più sola e infelice. «Per Maria», spiega la Lomazzi, «la vita a quel punto non aveva più senso. Non aveva più niente che le andasse bene. Aveva finito la sua carriera artistica e non erano andate bene l’esperienza del cinema e dell’insegnamento. Non aveva altri sfoghi professionali. Lei era nata per cantare e una volta che non ha più avuto la voce per cantare, le è mancato tutto».
Morì a 53 anni, nel 1977. Due anni dopo le sue ceneri furono disperse nell’Egeo.
"Vissi d'arte, vissi d'amore...
«Maria Callas è stata la più grande cantante drammatica del nostro tempo. Penso che le generazioni future di cantanti lirici, di amatori di opera e di tutti coloro che vanno all’opera avranno sempre Maria Callas a modello. È diventata la Bibbia: lei è il modello. Non ho dubbi che anche se qualsiasi altro apparirà mai sulle scene la Callas resterà sempre a guidarci attraverso le sue incisioni e i videotape, e a mostrarci la straordinaria relazione tra la parola e la nota cantata — per non dire dell’espressività del suo volto, delle sue mani, del corpo intero nel movimento drammatico del canto. Non credo ne verrà presto una come lei». (Leonard Bernstein)
L’Ottocento - epoca delle grandi rivoluzioni - ha lasciato una preziosa eredità al XX secolo, gettando le fondamenta dell’edificio della cultura contemporanea, già bozza progettuale di quella modernità che era stata sognata dal rinascimento italiano e dai fermenti politici europei degli anni precedenti.
Quattro le principali colonne portanti di questo edificio culturale nel quale abitano la storia, l’arte, la scienza, e il pensiero del nostro tempo. Colonne che hanno ciascuna una identità e un nome: Marx, Darwin, Freud, Einstein.
Karl Marx, nuovo fondatore delle scienze storiche e sociali; Charles Darwin, appassionato indagatore della vita e delle sue origini, padre delle moderne scienze biologiche; Sigmund Freud, medico esploratore della psiche e dei suoi mali, ideatore della psicoanalisi; Albert Einstein, il matematico che ha posto le basi delle scienze fisiche del nuovo millennio.
Karl Marx (1818 -1883), filosofo tedesco di vasta cultura, si applicò a ricerche di economia, storia, sociologia e politica che costituirono la base della sua opera principale, ‘Il Capitale’.
Ad osservare la storia e la società - sosteneva Marx – ci si accorge che l’uomo ha sempre lavorato per la sua sopravvivenza. Ma con l’avvento della proprietà privata, fondata sulla divisione del lavoro, all’operaio viene alienata la materia prima; vengono alienati gli strumenti di lavoro; gli viene alienato il prodotto del lavoro; l’operaio con la divisione del lavoro, viene mutilato nella sua creatività e umanità. L’operaio, nella società industriale, diventa merce nelle mani del Capitale. Secondo Marx, da questa alienazione del lavoro derivano tutte le altre forme di alienazione come quella politica o quella religiosa. Il superamento di questa situazione è possibile, per Marx, attraverso la lotta di classe intesa a eliminare la proprietà privata e il lavoro alienato. Questa rivoluzione sociale segnerà inevitabilmente il trionfo del proletariato, segnando il passaggio dalla società capitalistica al comunismo.
Marx si proponeva di proporre ai lavoratori una chiara coscienza dei loro problemi per indurli alla ‘lotta di classe’: “Operai di tutto il mondo unitevi!” (da ‘Il Manifesto del Partito comunista’ di K. Marx e F. Engels, 1848).
Charles Darwin (1809 -1882), biologo ed esploratore, nel 1831 s'imbarcò come naturalista per una spedizione scientifica. Durante il viaggio ebbe modo di effettuare numerose osservazioni sulla geologia, la fauna e la flora, specie dell'America Meridionale, che gli offrirono prezioso materiale per affrontare il problema dell'origine delle specie. Nel 1859 compose il saggio ‘L'origine delle specie attraverso la selezione naturale’. Il libro provocò subito entusiasmo e vivaci discussioni negli ambienti scientifici.
Osservando tutti gli organismi viventi, Darwin aveva elaborato il concetto di selezione naturale: gli esseri che sopravvivono alla lotta per la sopravvivenza e raggiungono la maturità tendono a trasmettere ai loro discendenti le attitudini o i vantaggi grazie ai quali essi sono riusciti a sopravvivere; tali modificazioni possono spiegare le differenze fra le varie specie così come noi le conosciamo.
La nuova teoria di Darwin, oltre a rivoluzionare tutto il settore delle scienze biologiche, ebbe grande influenza in campo culturale e filosofico e rese possibile il graduale superamento del principio della creazione (quindi della concezione della finalità dei processi biologici quale testimonianza di un disegno provvidenziale di Dio), proponendo il principio materialistico che l'ordine può sorgere dal disordine, e che l'interazione dei processi, può produrre nuovi livelli di organizzazione.
La conseguenza più sconvolgente della nuova teoria fu comunque l’ipotesi che l'uomo potesse discendere da un progenitore affine alle scimmie. Darwin sviluppò il tema dell'origine animale dell'uomo in “La discendenza dell’uomo” (1871), mantenendo tuttavia un atteggiamento agnostico e prudente di fronte al problema religioso. Il suo interesse era rivolto a difendere e convalidare la fondatezza scientifica della sua teoria, lasciando ad altri il compito di trarre da essa tutte le possibili conseguenze di natura filosofica.
Sigmund Freud (1856-1939), negli ultimi anni di fine secolo XIX, studiando i disturbi mentali, maturò la convinzione che la sessualità fosse il principale elemento scatenante delle nevrosi. La pulsione sessuale venne definita da Freud ‘libido’, energia vitale attiva anche nei bambini.
Successivamente Freud giunse alla elaborazione di una teoria sulla personalità umana, individuando in essa tre fondamentali componenti: Io, Es e Super-io. L’Es è la parte più oscura e istintiva dell’uomo, dove desideri, impulsi e pulsioni si manifestano in assoluta libertà. Ad arginare queste forze inconsce che cercano di imporsi anche sulla vita cosciente interviene il Super-io, che impone precise norme per impedire all’Es di prendere il sopravvento. Al centro di questa lotta si trova l’Io, che rappresenta l’individuo nel suo quotidiano tentativo di mediare fra le esigenze dell’Es e gli imperativi del Super-io. La personalità umana appare quindi soggetta a una conflittualità interiore che si svolge, per lo più, a livello inconscio. Nel 1900 Freud pubblicò ‘L'interpretazione dei sogni’, considerata il vero e proprio manifesto della psicoanalisi. Secondo Freud, il sogno - nella terapia psicoanalitica - è la via privilegiata di accesso all’inconscio.

La scoperta dell'inconscio favorì la consapevolezza delle spinte irrazionali che determinano il comportamento umano. La letteratura, il cinema, le arti, saranno ampiamente influenzati dalla psicoanalisi. I surrealisti, Proust, Joyce, Svevo, la Woolf, coevi di Freud, produssero opere letterarie che risentono del nuovo clima culturale e abbondano di associazioni mentali, frammenti di ricordi, fantasie, visioni, emozioni, descrizioni di comportamenti bizzarri. Si fa strada in letteratura la tecnica del ‘flusso di coscienza’ che si propone di riprodurre l'attività psichica nel suo farsi, nel suo fondere razionale e irrazionale, idee, percezioni, sentimenti, ricordi, sensazioni nel loro continuo e contemporaneo fluire.
Alle teorie freudiane sono legate - direttamente o indirettamente - tutti gli indirizzi più innovativi della letteratura e delle arti europee del primo Novecento, nelle quali viene posta l’attenzione sulla crisi d’identità e sul disagio dell’uomo moderno, sul carattere relativo e inconoscibile della realtà, sulla vita psichica in tutti i suoi aspetti e sul recupero del passato nella dimensione del ricordo.
Albert Einstein (1879-1955), matematico e uomo di scienza, Nobel per la Fisica 1921, ha dato un contributo fortemente innovativo alla cultura del Novecento nell’ambito delle scienze fisiche, dalla teoria atomica della materia, della cosmologia.
Il suo contributo più originale è stato la teoria della relatività generale, che ha rappresentato il primo vero progresso delle scienze fisiche dopo Newton nell'interpretazione della forza di gravità, con notevoli conseguenze sulla classica visione dell'universo.

Satana, le sue origini
Le Scritture ebraiche non usano la parola satana come nome proprio ma semplicemente come nome comune. Anche se gli studiosi hanno proposto varie traduzioni di satana, fino a non molto tempo fa la stragrande maggioranza di loro concordava sul fatto che dovesse essere reso con «avversario» e più nello specifico nei contesti giuridici con «accusatore».
Ma ciò che probabilmente dev’essere accaduto è che, quello che sicuramente diventerà Satana alla fine del I secolo d.C., nel cristianesimo delle origini, retroattivamente ha influenzato il senso ed il significato del termine anche per le Scritture ebraiche. È certamente chiaro che nel testo dell’Apocalisse (Ap 12,10) Satana è ormai diventato, nella tradizione cristiana: «l’Accusatore dei nostri fratelli».
Satana, il ‘giustiziere di Dio’
Secondo alcuni studiosi, il Satana considerato come accusatore/aggressore, nelle Scritture ebraiche avrebbe due riferimenti diversi:
- Un ostacolo avversario umano (1Sam 29,4 – 1 Re 5,18 – 2 Sam 19,23 – Salmo 109,29)
- un essere sovrumano: (Nm 22; Gb 1-2; Zc 3,1)
Seguendo le spiegazioni di questi passi si evince che il Satana delle Scritture ebraiche non è tanto un accusatore, ma un vero e proprio aggressore che, presente alla corte divina, fa giustizia degli empi!
Demoni e spiriti maligni nelle scritture ebraiche
Già nelle antiche Scritture troviamo figure come l’Angelo sterminatore dispensatore di morte (in Es 12,23, oppure in Ez 9 dove si parla di giustizieri umani.) Nel secondo libro dei Re (19,35) l’Angelo di Yhavé uccide ben 185.000 assiri; in Nm 22 l’Angelo sbarra la strada all’asina di Baal; in Zc 3,1 Giosuè è davanti all’Angelo di Yavhé e alla sua destra c’è Satana che è lì per accusarlo/aggredirlo (cf. Sal109,6; 2Sam 19; Is 6). Satana qui è un funzionario di Dio e la parola Satana indica il suo ruolo; in 1Cr 21,1 Satana contro Israele spinge Davide al censimento; in Gb 1-2 Satana è uno dei Figli di Dio alla corte celeste che nel suo racconto aggredisce un innocente.
Il Libro dei Giubilei (un testo della tradizione ebraico-cristiana considerato canonico dalla sola Chiesa copta) parla degli spiriti maligni e dei demoni e delle minacce che essi pongono al genere umano. In particolare emerge questa figura del Principe di Mastema considerato il capo di questi spiriti maligni; nel Libro, il Principe, pur essendo a capo di un esercito di spiriti, non interviene direttamente, ma ha solo il compito di guidare gli spiriti che infestano il genere umano. Gli spiriti sono inviati alle nazioni, ma non ad Israele che è e resta proprietà esclusiva di Dio.
Il Principe di Mastema - identificato come il Satana – è colui che invia gli spiriti maligni all’umanità per ingannare gli uomini e spingerli ad adorare i demoni come falsi Dei. Quindi il Principe ed i suoi spiriti vengono a contrastare i piani di salvezza di Yavhé e si oppongono a Lui. Da questo punto in poi, per i testi ebraici antichi diventa normale parlare del Satana come capo delle milizie spirituali maligne. Il libro dei Giubilei ritrae dunque il Principe sia come colui che serve Dio nel trarre in errore le nazioni, sia come colui che le appoggia nel tentativo di distruggere il popolo di Dio.
Secondo i Giubilei il male e il peccato degli uomini, alla fine, hanno un’origine divina e sembra che vengano da Dio … Ma nella letteratura ebraica iniziano a comparire alcune tradizioni che si oppongono a questa lettura dell’origine del male, in particolare il libro del Siracide e la 1 Epistola di Enoc. Per entrambi il male non è tanto frutto di una lotta cosmogonica, ma ha la sua radice ultima nel cuore dell’uomo: è lui che si è ribellato al piano di Dio ed è sua la responsabilità del male. Su questa linea compare una lettura della sofferenza e del male che non può accettare che Dio sia implicato con il male inviando i suoi Angeli!
I rotoli del mar Morto
I Rotoli - scoperti tra il 1947 ed il 1956 in undici grotte vicino a Qumran - sono circa 900 scritti molto vari che non presentano una comune dottrina, ma la nozione del dominio di Belial, e la credenza di un antagonismo di luce e di tenebre compaiono in diversi manoscritti.
Uno dei documenti più importanti per il nostro tema è il documento di Damasco dove sono presenti in un certo modo entrambe le tradizioni: sia lo spirito o il demone presente nell’uomo, sia quello designato come Belial, uno spirito sovraumano. Ma Belial è un nome comune e può essere tradotto con indegnità o malvagità. Belial, è anche usato come nome per il Satana in altri rotoli, soprattutto nella Regola della Comunità e nella Regola della Guerra, come anche nel Testamento dei dodici Patriarchi e negli Oracoli Sibillini. L’attività di Belial è, comunque, simile a quella del Satana dei libri precedenti, in particolare al Principe di Mastema, come vediamo sempre nel Documento di Damasco che ricalca i Giubilei.
Il serpente antico e il peccato
Nel testo della Genesi (Gn 2-3) non c’è traccia di una presenza esterna demoniaca, il riferimento al serpente come presenza malefica lo dobbiamo soprattutto ad Agostino di Ippona. Per questo autore il serpente non ha lo stesso valore simbolico che possedeva nei diversi culti presenti nell’antichità, anzi possiamo dire che nella sua descrizione il serpente è demitizzato! Agostino non dice mai da dove viene il male, ma una cosa sembra chiara: la tentazione al male emerge all’interno delle dinamiche del giardino, ed è all’interno della dimensione relazionale e di amicizia che fiorisce la tentazione. Il male emerge dunque dal giardino e non ci sono altre presenze che possano intervenire dall’esterno! Una conferma indiretta di questa dottrina la troviamo in Paolo nella sua Lettera ai Romani (Rm 5,12-21) in cui l’Apostolo parla del rapporto Adamo- Cristo, dove non c’è traccia di altre presenze per descrivere l’entrata nel mondo del peccato dell’uomo.
Satana e demoni nel NuovoTestamento
Nel Nuovo Testamento non c’è molta chiarezza nei nomi attribuiti ai demoni o agli spiriti, che non si differenziano neanche troppo dagli esseri angelici. I Vangeli menzionano demoni/spiriti nel contesto del ministero sanante di Gesù per riferirsi a quegli esseri invisibili che causano malattie e infermità.
Nel Nuovo Testamento numerose sono le designazioni di Satana, le più comuni però sono: o’ Satanas (il Satana) e o’ diabolos (l’avversario). Il Satana era chiaramente una figura importante per gli autori del Nuovo Testamento ed è possibile paragonare gli scritti neotestamentari ai testi settari dei Rotoli del Mar Morto, moltissimi dei quali fanno riferimento a Belial.
Come nella parabola del Seminatore (Mt 13, 1-23) la presenza di Satana non crea un dualismo assoluto ed è affatto marginale, nella parabola dei vignaiuoli (Mt 21, 33-44) si parla di violenza e di appropriazione, che scatena la violenza che travolge i profeti e poi il Figlio; anche qui non c’è una battaglia tra Gesù ed il diavolo, ma l’omicidio scaturisce dal cuore dell’uomo.
Per Gesù, Satana c’è, ma per Lui non ha un importanza decisiva. Sorge allora la domanda: nel suo mondo, Gesù avrebbe potuto pensare diversamente? Guardando ai Vangeli Sinottici, rispetto anche al contesto in cui viveva Gesù, la questione di Satana, riferita al male ed alla sua origine, appare di fatto molto marginale!
Gesù e la salvezza nella chiesa nascente
Nella storia della chiesa delle origini vanno distinti due momenti:
Paolo (1 Cor 15, 1-4) nel testo più antico della descrizione della salvezza, l’annuncio della morte non contempla la presenza di Satana. Ma in più Paolo sottolinea: «Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge …» (1Cor 15,56), dove il peccato è in rapporto non al demonio, ma alla Legge! Tutti i testi di Paolo sono legati anche a due verbi che egli usa moltissimo a riguardo della salvezza: riscattare e liberare. Verbi che nella chiesa successiva saranno usati per descrivere la battaglia di Cristo contro Satana. Ma Paolo li usa sempre e solo in rapporto alla legge.
Successivamente a Paolo, compare il diavolo, come quando si parla della discesa agli inferi nella lettera di Pietro; ma si tratta di un materiale che deriva principalmente dagli Apocrifi, assunto dalla teologia soprattutto in Tommaso d’Aquino.
Con Satana sconfitto dalla morte e dalla risurrezione del Cristo Salvatore si proclama lo scontro tra Cristo e Satana: e sono soprattutto gli scritti giovannei e le lettere di Pietro a parlare di questo, ma in un tempo in cui la chiesa affrontava due problemi: quello relativo al rapporto con il mondo pagano che rifiutava il cristianesimo nascente; Il problema interno delle prime eresie, per cui il diavolo diventa la figura più semplice che possa giustificare le eventuali deviazioni dalla giusta fede.
Con riferimento ai testi del Nuovo Testamento, non è difficile concludere che la salvezza è qualcosa che riguarda noi, la nostra storia con Cristo ed il nostro peccato e non mi sembra che ci sia troppo spazio e bisogno di far intervenire figure esterne nel combattimento contro le forze del male!
Satana: il problema antropologico e il problema cosmologico
Due questioni da considerare:
1 - La presenza di un mondo di mezzo tra Dio e l’uomo crea grossi problemi, primo fra tutti il rischio di un ricorrente dualismo teoricamente insuperabile.
2 - Incomunicabilità diretta tra uno spirito puro e la vita umana: il problema dell’incarnazione e dell’azione di Dio in noi …
Ma allora: è così strettamente necessario introdurre una seconda libertà creaturale per spiegare la dimensione del male che viviamo?
Circa i poteri straordinari degli esseri diabolici:
- Sull’infestazioni degli oggetti: ma può una creatura creare energia dal nulla?
E come mai gli oggetti sacri delle nostre case non hanno la stessa efficacia e forza di quelli malefici?
- Possessioni: come distinguere tra patologie e demoni?
Ancora: è possibile conciliare la creazione e la caduta degli Angeli in demoni con la visione attuale della cosmologia scientifica?
Se tutto si è svolto attraverso salti qualitativi, dal basso verso l’alto:
big bang – galassie - stelle – pianeti a partire da 13,8 miliardi di anni fa
3 miliardi di anni fa, sulla Terra comincia a sorgere la vita
intorno ai 6 milioni di anni fa, inizia la prima ominizzazione
verso i 200 mila anni fa, con l’emergere dell’Homo Sapiens, albeggia l’autocoscienza
Come inserire in questa visione angeli e demoni? Sono da considerare un’eccezione creativa? Quando e come sono stati creati?
Il Magistero della Chiesa cattolica
• Dio … Unico principio dell’universo, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e materiali, che con la sua forza onnipotente fin dal principio del tempo creò dal nulla l’uno e l’altro ordine di creature: quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo terrestre e poi l’uomo, quasi partecipe dell’uno e dell’altro, composto di anima e di corpo. Il diavolo, infatti (enim), e gli altri demoni sono stati creati da Dio naturalmente buoni, ma da se stessi si sono trasformati in malvagi. L’uomo poi ha peccato per suggestione del demonio. (Lateranense IV, can. 1: 230; cf. anche CC. 391)
• 1) Il dettato del Magistero afferma Dio come creatore ed unico principio.
• 2) Non esistono, quindi due principi che si contrappongano, non esiste un antidio …
• 3) Gli angeli e demoni vengono da Dio, i demoni sono decaduti dal loro stato buono per loro colpa (dalla letteratura apocrifa).
Il diavolo … probabilmente!
«Quando parliamo di diavolo, satana, demoni, principati e potestà del male ci si chiede come debbano essere interpretati. Ci s’intende riferire a delle entità di tipo reale e personale, o non si tratta invece di personificazioni temporalmente condizionate del potere reale del male? Il diavolo è una persona o non una mera cifra per designare una determinata struttura della realtà o determinati fenomeni psichici o parapsichici, che oggi potremmo chiarire fondamentalmente secondo schemi razionali? Le affermazioni di tipo personalistico, che la Scrittura e la Tradizione fanno sul male, vanno intese come enunciati di fede vincolanti, o non si tratta invece di asserti che, nel parlare del male, si rivestono di elementi legati ad una determinata concezione del mondo e ad una determinata epoca?» (W. Kasper)
«Il diavolo non è una figura personale bensì una non-figura che si dissolve in qualcosa di anonimo e senza volto. Un essere che si perverte nel non-essere: è persona nel modo della non-persona» (J. Ratzinger)
«Per cui non potremo né dovremo delinearci nemmeno una qualche raffigurazione concreta del diavolo, questo supporrebbe, infatti, una distinzione chiara, appunto quella cui il diavolo sfugge. Egli esiste personalmente nel modo della decomposizione e dissoluzione del personale. È la distruzione progressiva di sé stesso e al medesimo tempo la distruzione dell’intero ordine cosmico.» (W. Kasper)
«La cultura religiosa premoderna – presente nella Bibbia e in gran parte della letteratura spirituale cristiana - comprendeva il mondo suddiviso su tre livelli: cielo, terra ed inferi. Ogni livello aveva i suoi abitanti … questi tre livelli non erano tra loro chiusi ma comunicavano continuamente. Nella cultura religiosa premoderna, il male veniva personificato e compreso come individuo.» (P. Gamberini).
«Non ci si può servire della luce elettrica e della radio, o far ricorso in caso di malattia ai moderni ritrovati medici e clinici, e nello stesso tempo credere nel mondo degli spiriti e dei miracoli propostoci dal Nuovo Testamento» (R. Bultmann).
Conclusione
È proprio così strettamente necessario pensare ad una figura oggi che possa influenzare dall’esterno la nostra libertà ? Perché sentiamo ancora il bisogno di credere a questa figura e per quale motivo facciamo tanta fatica ad abbandonarla?
Dal mio punto di vista il problema del male è legato solo alla nostra libertà ed al nostro cuore. Il male fisico e naturale è presente perché fa parte della nostra creaturalità ma non c’è bisogno di cercare una forza o una presenza esterna alla creazione per spiegare l’origine e la presenza del male.
IL CULTO DEI MORTI NELL’ANTICO EGITTO
(Stefania Sofra)
Gli Egizi credevano che l'uomo nascesse con due anime: il Ba e il Ka;.il Ba era destinato ad effettuare il viaggio verso l'aldilà,dove riceveva il premio o la punizione che le spettava;il Ka era destinato a rimanere con il corpo e a custodirlo nella tomba. finché duravano i viveri.
Gli Egizi, infatti, pensavano che dopo la morte ci fosse un'altra vita; per questo motivo mummificavano i corpi dei faraoni per permettere al morto di conservare per lungo tempo il corpo nella vita dell'aldilà e quindi permettergli la sopravvivenza. Nelle tombe mettevano cibi, vesti e cosmetici, ritratti del defunto e una specie di cofanetto in pietra con incisa una porta per permettere al defunto di andare dal mondo dei vivi a quello dei morti.
Vivere nell'aldilà era semplice e non si faticava: gli Egizi ritenevano che nell'aldilà la vita si svolgesse in una specie di paradiso rurale, nei campi di papiro, governati dal dio Osiride. Essi pensavano che dopo la morte, l’anima, dopo essere rimasta qualche Tempo nella tomba, ne uscisse e si recasse al cospetto del dio Osiride.
Se il parere di questo dio era favorevole, l’anima poteva entrare nei campi delle fave che sono di una fertilità inesauribile dove i morti potevano lavorare e, quando erano stanchi potevano essere sostituiti dai loro “rispondenti” cioè delle statuine che per questo scopo venivano messe nelle loro tombe. Prima di raggiungere la vita eterna, però, il defunto doveva sconfiggere i mostri e attraversare i laghi di fuoco; ma se aveva il libro dei morti che racchiudeva le preghiere per esorcizzarli, gli ostacoli venivano superati facilmente.
La prova più difficile da superare era l'ultima: Anubis portava il morto da Osiride e dai suoi 42 giudici, che pesavano il cuore del morto con la piuma della Dea Maat. Se il cuore pesava più della piuma il defunto veniva divorato da Ammut, un mostro terrificante, se il cuore pesava come la piuma andava verso la vita eterna.
Secondo gli Egizi l’anima era uguale al corpo e quindi, quando nasceva un bambino, nasceva anche il suo doppio o Kâ che seguiva fedelmente l’individuo fino alla morte. Stava seduto accanto alla mummia, quando l’uomo moriva finché duravano i viveri che era usanza depositare nella tomba, poi, assalito dalla fame usciva in cerca di cibo.
Negli scavi, gli archeologi hanno scoperto gli attrezzi che gli antichi egizi usavano per mummificare i cadaveri: avevano varie forme e servivano ad estrarre gli organi interni dal corpo dei defunti. Solo pochi conoscevano l’arte della mummificazione; addetti a tale compito, erano gli imbalsamatori.
Una volta accordatisi sul prezzo, gli imbalsamatori cominciavano il lavoro. Il processo di mummificazione, che durava mesi, veniva preceduto da un lavacro a base di birra, evidente simbolo di purificazione per il carattere sacrale e per l'origine divina della bevanda. Estraevano quindi, tutti gli organi, tranne il cuore che nell'aldilà doveva essere pesato. Il cervello veniva estratto dal naso con un uncino.
Successivamente al
cadavere veniva fatto con una pietra aguzza un taglio sull'addome attraverso il
quale venivano tolti gli organi vitali che venivano essiccati col sale, trattati
con oli e resine e poi riposti in contenitori chiamati vasi canopici che
venivano sistemati vicino al sarcofago.
Dopo aver pulito la
cavità con vino di palma, e averla riempita con mirra, cannella e altre
essenze profumate, paglia e stracci, ricucivano l'addome con ago e filo.Il corpo
veniva lasciato per 40 giorni in un composto salino, il natron, per fare in
modo che il corpo cedesse tutti i liquidi; il natron non era altro che
carbonato idrato di sodio che fermava la putrefazione. Alla fine lo si lavava
con una cerimonia nelle acque del Nilo per togliere il sale residuo. Subito
dopo veniva lasciato seccare per 20 giorni. Poi la pelle troppo secca veniva
ammorbidita massaggiandola e spalmandola di oli e resine. Dopo questo
procedimento il corpo veniva avvolto in più strati di bende tagliate da un lenzuolo
di lino. Alcune volte le bende erano spalmate di resine e unguenti che avevano
lo scopo di sigillare e profumare.
Le mummie potevano avere più di venti strati di bende e nei vari strati, venivano inseriti sul petto del defunto, amuleti, gioielli e collane d'oro per proteggevano il cuore che era simbolo di vita e per proteggere il defunto contro il male o per dargli forza; Lo SCARABEO simboleggiava la risurrezione ed era posto sopra o dentro il petto. Aveva la forma di uno scarabeo stercorario e veniva scelto perché ritenevano che fosse in grado di rigenerarsi spontaneamente dai propri escrementi. L'amuleto più potente, però, era l'Occhio di Horus o WEDJET dispensatore di salute.
Poi il defunto veniva posto dentro una bara a forma di uomo. Il procedimento di mummificazione durava, in totale, 70 giorni. Occorre dire che nel Libro dei Morti nel capitolo che tratta della imbalsamazione nella Casa dei Morti, si specifica che solo i Faraoni, i dignitari, i sacerdoti e le personalità più importanti del regno avevano diritto a questo trattamento che, conservando il corpo, assicurava l'immortalità dell'anima. Soltanto questi personaggi erano depositari, per volere divino, di un'anima che entrava a far parte dell'aldilà e solo i Faraoni, dopo morti, divenivano essi stessi divinità, andando ad occupare un preciso posto nel complicato panteon egizio.
I Sacerdoti completavano la funzione funebre bevendo sà, (birra ad alta concentrazione, riservata all'esclusivo consumo del Faraone e per le cerimonie religiose) mentre intonavano il lamento funebre che all'incirca recitava: "....é triste salire sulla barca di Rie senza speranza di trovare zythum e curmy in abbondanza come vorrebbe l'anima tua...."
Ramsete III (1300 a.C.) si vantava di aver donato durante tutta la sua vita ben 463.000 vasi di birra alla potentissima divinità Ishtar, la dea della fertilità, dell'amore, ma anche protettrice dei naviganti e degli eserciti, come recita la sua litania:
....astro
del mattino
stella del mare
regina della terra
patrona dei naviganti
guida degli eserciti.....
Ishtar veniva identificata nel pianeta Venere, il primo e più luminoso astro a comparire nel cielo notturno. In suo onore era stato eretto il tempio di Medinet-Habu dove, con puntigliosa pignoleria, nelle tavolette contabili si annotavano i generi alimentari introitati, ed il consumo giornaliero di bevande: ben 144 otri di birra, ed alcuni di vino e vino di datteri.
Dopo la mummificazione, il corpo veniva deposto in un sarcofago. Sulla testa della mummia veniva posta una maschera mortuaria fatta a somiglianza al defunto proprio per aiutare lo spirito a riconoscere il proprio corpo.vQuindi il sarcofago veniva deposto nella tomba, nella quale venivano posti anche il corredo funebre del defunto: abiti, ornamenti, oggetti d’uso e, insieme, una scorta di cibi e bevande che dovevano servire all’anima nella sua nuova vita. Nel corredo funerario del defunto si trovavano letti e cuscini: così come per il riposo nella vita terrena, essi servivano anche in quella ultraterrena.
Gli antichi egizi davano più importanza alle tombe che alle case di abitazione perchè, sempre secondo la credenza, avrebbero vissuto più a lungo nella tomba. Per questo motivo le tombe erano particolarmente curate e costruite con materiali più resistenti. Nel tempo vennero usati diversi tipi di sepolcri: mentre i poveri venivano sepolti in tombe modeste o addirittura sotto la sabbia del deserto, Ai ricchi era riservato il privilegio di una tomba maestosa. Inizialmente i nobili venivano seppelliti nelle mastabe, sepolcri in muratura a forma di piramide tronca.
Successivamente per i faraoni accanto a queste tombe, ne vennero edificate altre ancora più imponenti: le piramidi, giganteschi monumenti funebri che testimoniavano la grandezza della persona sepolta al loro interno.
La costruzione di questi sepolcri richiedeva molto tempo e molta fatica. Alla loro costruzione partecipavano, oltre agli schiavi, anche i contadini. Questi ultimi collaboravano ai lavori solo nel periodo di piena del Nilo, quando era impossibile il lavoro nei campi. Poiché in questi sepolcri venivano posti assieme al corpo tesori di grande valore, essi erano spesso violati dai ladri. Quindi, gli architetti iniziarono a costruire tombe di tipo ipogeo, scavandole in profondità nelle rocce e mascherandone all’esterno ogni elemento che potesse indicarne l’esistenza. I maggiori esempi di queste particolari tombe si possono ammirare nella Valle dei Re e nella Valle delle Regine, non lontano da Luxor. Quanto alle pratiche proprie dei funerali, esse andavano dall’esposizione al compianto pubblico al corteo funebre al banchetto davanti alla tomba. Queste cerimonie dovevano proteggere il defunto nel suo viaggio verso l’Aldilà. Per un maggior sostengo, immagini e testi rituali venivano deposti sul corpo del defunto o usati per decorare la tomba. Il rituale dell’apertura della bocca veniva compiuto prima della sepoltura, poiché così si sarebbero riattivati i sensi e il defunto avrebbe potuto continuare a vivere nell'oltretomba. Una descrizione del rituale ci è giunta dalla famosa tomba di Tutankhamen.
Il rito era completato da fumigazioni e lustrazioni che precedevano il trasporto della statua nella tomba. Nella sua evoluzione posteriore il rituale venne esteso alla mummia in modo da restituirle l'uso dei sensi in modo che il ka del defunto potesse vivere pienamente della Duat (l'oltretomba). Questa cerimonia assicurava al defunto di poter mangiare, bere, parlare e avere rapporti sessuali. Durante il suo svolgimento, il morto riacquistava anche la vista. Per gli egizi (come anche in altre culture) ''vedere'' era sinonimo di ''vivere''. Perciò, il nome completo del rituale era ''cerimonia di apertura della bocca e degli occhi''.
Dopo che il corteo funebre era arrivato alla necropoli, il rituale veniva compiuto dai sacerdoti e in base alle rappresentazioni, sappiamo che esso avveniva davanti alla tomba del defunto. Dopo aver posto la mummia o la statua del defunto su un monticello di terra che ricordava la collina primordiale, veniva compiuta una purificazione mediante una libagione con acqua tramite il nemeset (un vasetto tondo) e un'aspersione di incenso o natron dell'Alto e del Basso Egitto. Poi il sacerdote funerario o sem svolgeva i primi riti di resurrezione e compiva il primo gesto di apertura della bocca e degli occhi con il dyeba con cui toccava la bocca della mummia o quella della statua) e il nechereti con cui la apriva.
Il popolo non disponeva di nessun tipo di anima, nonostante le abluzioni interne ed esterne di birra, in vita e da morti.
Tutte queste pratiche, insieme alle cerimonie e ai riti che dovevano essere compiuti in onore di divinità connesse con la sfera funeraria, facevano parte di un autentico culto dei morti, sacro da rispettare e da venerare. La situazione tuttavia cambiò con il tempo: infatti, per effetto delle suggestioni provenienti dal mondo greco, nel corso del V secolo a.C., alla primitiva fede di sopravvivenza del morto nella tomba, si sostituì l’idea di uno speciale regno dei morti, immaginato sul modello dell’Averno (o Acheronte) greco, governato dalla coppia divina di Aita e Phersipnai (Ade e Persefone greci).
Stefania Sofra, in 'La donna nell'antico Egitto'
STREET-ART, LA ‘MALASTRADA’
“Avevo sedici anni la prima volta che sconfinai lungo i binari di una ferrovia per graffitare su un muro le iniziali della mia crew, che era costituita solo da me. Dopodichè accadde l’incredibile: assolutamente nulla. Non mi vennero sguinzagliati addosso i dobermann, Dio non mi fulminò dal cielo, e mia madre non si accorse nemmeno che ero uscito. Fu quella notte che scoprii che si poteva essere un writer e farla franca. Scoprii anche che dietro il cartello
« VIETATO L’INGRESSO »
tutto diventa meglio definito: l’adrenalina aguzza la vista, ogni minimo suono acquista importanza, l’olfatto diventa quello di un segugio (a proposito, i clochard defecano dappertutto).
Molti ritengono che invadere una proprietà altrui per ridipingerla sia un crimine. La realtà è che i 30 cmq del nostro cervello vengono violati ogni giorno da intere squadre di esperti di marketing. Perciò il graffito è una reazione assolutamente proporzionata contro chi ci vende obiettivi irrealizzabili, in questa società ossessionata dallo status e dal terrore del fallimento. È lo spettacolo di un mercato selvaggio che ottiene esattamente l’arte che si merita. E comunque, potete anche dire che siamo solo dei perditempo, ma la vostra opinione non conta un accidente perché i vostri nomi non sono scritti a caratteri cubitali sul cavalcavia.”
Così uno dei più emblematici street artist di tutti i tempi, Banksy, ci restituisce un’idea chiara di cosa possa essere un fenomeno così complesso e allo stesso tempo di una semplicità genuinamente disarmante come la street art.
L’espressione dell’animo dei popoli disegnato sui muri, è un atto che si perpetra sin dai tempi primitivi, basti pensare ai graffiti nelle caverne, oppure alle pitture rupestri, testimonianza imperitura del passaggio su questo mondo dei primi uomini.
Potremmo descrivere a lungo tutte le avvisaglie storiche che formano le pietre lastricanti il sentiero conducente alla strada, da Michelangelo che incide il suo nome sui grotteschi nella domus di Nerone, a Martin Lutero che, con il suo gesto eversivo dell’appendere sui muri le sue ‘novantaquattro tesi’, ha fatto un’azione vicinissima alla futura street art - con i suoi affissinaggi e subvertising - più di quanto non si pensi. Eppure una domanda appare spontanea: «Come ha fatto la street art a sopravvivere per tutti questi anni, senza perire all’ingiuria del tempo, come tutti i grandi movimenti artistici?».
La street art come la conosciamo noi, viene fatta risalire all’inizio degli anni duemila, con tutta quella che è stata la corrente inaugurata da 3D 1 e Banksy 2, ma un fenomeno così complesso, ha un retaggio culturale più lontano, ancora oggi difficile da comprendere. Tra gli studiosi e gli storici del fenomeno, diversi vorrebbero attribuire l’inizio di questa arte a sottoculture tipo la Beat Generation, altri ai moti rivoluzionari caratterizzanti particolari momenti storici, altri alle customs di Von Dutch ed alle fanzine underground, e qualcuno sostiene che la street art sia figlia e conseguenza del graffitisimo.
Io posso solo raccontarvi di me.

Era il mese degli esami di terza media, poco più di dieci anni fa, quando per fare il quadro da portare all’esame, realizzai sei facce di Paperinik in stile Warhol. La tecnica più vicina per ricavare una serigrafia in casa, erano gli stencil: realizzai così delle custom inconsapevolmente.
Allora non avrei mai immaginato che dieci anni dopo, avrei chiuso il cerchio continuando a realizzare stencil e custom. Se dovessi dire che il mio intento era quello di occuparmi di arte convenzionale, mentirei a me stesso, oltre che a voi.
Inizialmente anche io ero un “fruitore della domenica mattina” dell’arte urbana. Ma nell’anno trascorso in strada, assieme ai più grandi street artist che infiammano la scena fiorentina, ho realizzato che la “malastrada” per capirla bisogna viverla. Quanta emozione e cuore ci sono stati e continueranno ad esserci in questa esperienza!
Ora il mio sogno è coinvolgere anche voi. Perciò lasciatevi prendere per mano, riempite le vostre narici col profumo dello spray acrilico e fatevi accompagnare in questo viaggio attraverso i vicoli notturni di Firenze, fregandovene della vostra posizione sociale, del “sono troppo vecchio per fare questo” e di tutto ciò che vi hanno sempre detto e vietato…
Andiamo insieme sulla ‘malastrada’!
Fantascienza, sentimenti, una venatura di thriller e interrogativi etici a volontà nella pellicola di Maillo, un sorprendente film con un'anima profonda e toccante. Il protagonista è Alex Garel, giovane progettista di robot che dopo dieci anni di esilio volontario torna al laboratorio della sua città natale dove aveva abbandonato, prima di partire, il progetto di un robot in tutto e per tutto umano, emozioni e sentimenti compresi. Tra irrisolti conflitti sentimentali e ardite sperimentazioni la vita di Alex si arricchisce in breve di un laboratorio super attrezzato in quella che era stata la casa dei genitori, di mappe genetiche che prendono vita nello spazio con immagini fluide estremamente eleganti e suggestive, di un gatto robot libero, perciò pasticcione e dispettoso come un gatto vero, di un maggiordomo robot, efficiente e simpaticissimo, di una ex fidanzata, Lana, che adesso è la moglie di suo fratello David e di una bambina, Eva, dalla lingua tagliente e dai comportamenti sbarazzini.
E' simpatia a prima vista fra Alex ed Eva e quando lui scopre che la bambina è figlia del fratello e della sua ex fidanzata decide di farla diventare il modello per il suo "robot simpatico". Le cose non andranno a finire bene, perché Eva non è semplicemente una bambina bella, indipendente ed intelligente, è il prodotto di quell'esperimento che Alex aveva lasciato interrotto anni prima e su cui ha appena ripreso a lavorare, Eva è quel robot simpatico che Lana ha terminato al posto suo. Ma la bambina ignora la propria natura, e quando lo scoprirà il destino di tutti loro sarà segnato per sempre.
Perché la scienza può spingere i propri confini sempre un po' oltre, ma non sempre gli esseri umani e le loro repliche computerizzate sono in grado di gestire quelle emozioni che da secoli sono immutate, eppure sempre sconvolgenti quando si provano per la prima volta. I sensi di colpa si intrecciano all'ambizione, i dubbi vengono silenziati dal desiderio di dar vita ad una creatura unica e irripetibile, la sindrome del dottor Frankenstein viene evocata nella scena in cui un bambino robot prende vita allungando un braccio nel vuoto come la celebre creatura nel film tratto dal capolavoro di Shelley, e la disperazione finale di Alex nel dover "spegnare" Eva non ha niente a che fare con il dispiacere dello scienziato che vede fallire un proprio progetto mentre si avvicina molto al dolore di qualunque padre che deve staccare la spina ad un figlio.
Poetico, riflessivo senza voler fare della morale o del moralismo, Eva solleva interrogativi, ci fa intravedere un futuro estremamente prossimo e ci comunica il costante bisogno degli esseri umani di lasciare una traccia di sè. Forse un pizzico deludente è la chiusura asciutta, quasi frettolosa, senza dar spazio al tormento profondo di Eva, senza lasciare che il suo sguardo sgomento abbia il tempo di diventare coscienza e con essa consapevolezza di ciò che comporta l'essere umani. Ma resta l'indubbio merito di avvolgerci in una rete lieve di emozioni e riflessioni profonde condotti per mano da una deliziosa creatura, e poco importa se sia una bambina o un robot simpatico. Perchè Eva è il risultato di sogni e desideri completamente umani, e proprio per questo magnifici e terrificanti come i tutti i sogni di noi umani, ieri come oggi, come in un qualunque possibile domani.
Un gran bel film... un film che scorre piacevolmente,con tanti rimandi a libri e altri film che sicuramente possono far sorridere, storcere il naso o toccare... Sicuramente uno dei migliori film del 201.2.
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Il messaggio del regista di ‘Eva’, Kike Maillo, è chiaro. L’uomo è eticamente incapace, almeno per il momento, di interagire in modo sano, equilibrato, non solo con l’ambiente ma soprattutto con la propria soggettività. Ma cos’altro contiene “l’ampollina uomo?” Mi par di capire: - espressività, creatività, responsabilità, libero arbitrio. In una “macchina robotica” il rapporto CA (Coscienza Artificiale) e/ IA (Intelligenza Artificiale) non è per niente chiaro, perché chiaro non è per l’uomo. E il tema della “Vita” propostoci, con tutte le sue boccette dentro le quali ognuno può inserire i “sentimenti biochimici” che desidera? Il futuro di Eva, bambina dal QI molto alto, è legato alle scelte etiche e estetiche di diverse persone a lei vicine. Quelle di Alex,ingegnere cibernetico e zio di Eva; di Lana, ingegnere cibernetico e mamma di Eva; di David, suo padre.
Ma che ne sarà di Eva? E soprattutto, chi “è” Eva?
L'argomento si impernia sul concetto di persona dal punto di vista del diritto e sulle sue peculiarità, rispetto al concetto tradizionalmente corrente di ‘persona’.
Il giurista romano che può rappresentare una guida autorevole su questo tema è Gaio (II secolo dopo Cristo), poco conosciuto tra i profani di materie giuridiche, ma riconosciuto di eccezionale valore - come studioso e maestro del diritto romano - dagli addetti ai lavori.
La storia del diritto ben rappresenta il lungo cammino che l'umanità ha dovuto percorrere perché a tutti gli uomini, nessuno escluso, venisse riconosciuta la "personalità giuridica", cioè il riconoscimento sociale di ‘persona’ anche dal punto di vista del diritto.
Questo concetto, nella sua elementare semplicità, ai contemporanei avvezzi a considerare l'uomo (e oggi anche la donna) ‘persona’ sotto il profilo giuridico, sfuggono spesso le dinamiche della Storia e il lungo cammino percorso dalla civiltà umana per la conquista del valore fondante della "personalità giuridica" di ogni individuo.
A noi il delicato compito di comprendere e riconoscere il senso della secolare e faticosa lotta degli uomini per divenire di fatto "uguali" nell'ambito dell'ordinamento giuridico delle nazioni e delle società civili.
(Carlo Bassoli)
La “serenata” evoca la romantica immagine di un innamorato che, sotto la finestra della sua amata, al chiaro di luna le rivolge dolci versi musicali per dichiararle i suoi sentimenti.
Al di là di questa tradizione popolare, la serenata è anche una composizione vocale e strumentale adottata da svariati fra i più grandi autori classici del passato, tra cui Mozart, Čajkovskij, Schubert e Brahms.
In entrambe queste differenti forme domina il carattere romantico della ‘serenata’, che si ricollega all’etimologia stessa del nome riconducibile all’aggettivo latino “serenus” (la serenata si esegue all’aperto e quindi sotto un cielo limpido e terso), ovvero alla parola “sera”, che si sposa perfettamente con la cornice crepuscolare che ne caratterizza l’esecuzione.
La serenata alla promessa sposa la sera precedente il matrimonio è una antica tradizione popolare italiana: con questo gesto simbolico il futuro sposo dichiarava il proprio amore pubblicamente impegnandosi davanti ai familiari e agli amici, per il resto della sua vita.
Agli inizi del XX secolo, negli anni della Belle Èpoque, la serenata assunse la forma elegante di romanza da salotto, grazie a poeti della statura di Salvatore Di Giacomo e Gabriele D’annunzio, e a raffinati compositori come Francesco Paolo Tosti, Enrico Toselli, Stanislao Gastaldon, Luigi Gordigiani, Ciro Pinsuti.