Storia del Teatro Moderno




IL XVIII SECOLO IN ITALIA





LA COMMEDIA  E  LA RIFORMA GOLDONIANA



Carlo Goldoni  (1707 – 1793)

La vita e le opere

Carlo Goldoni nacque a Venezia da Margherita Salvioni e da Giulio, medico di professione; una famiglia benestante, in cui la passione per il teatro risaliva al nonno paterno, che era solito organizzare recite nella propria villa di campagna. E furono proprio alcuni "domestici" spettacoli di marionette ad accendere nel fanciullo il primo entusiasmo per le rappresentazioni sceniche.

Giulio Goldoni, vedendo recitare il figlio dodicenne, ebbe a dire sorridendo che il giovane Carlo non sarebbe mai diventato un grande attore. Ma il ragazzo non si scoraggiò: se la carriera d’attore gli era preclusa, fortunatamente poteva dischiudersi quella di organizzatore teatrale e di commediografo. Cominciò a leggere i maestri del passato, la commedia latina, quella francese, la Mandragola di Machiavelli. Intanto scriveva piccole scene, canovacci, libretti d’opera. 

Studente di filosofia presso una scuola di domenicani a Rimini, riuscì a familiarizzare con una compagnia di commedianti professionisti, tanto che per seguirli fuggì dalla scuola su un barcone, per poi raggiungere i genitori a Chioggia. Mentre frequentava la facoltà di giurisprudenza a Pavia, un’impudente satira contro le ragazze pavesi gli costò, nel 1725, l’espulsione dall’università. Nel 1731 Goldoni conseguì a Padova la sospirata laurea in legge. Dal 1745 al 1748 fu avvocato a Pisa. Ma il suo principale obiettivo rimaneva quello di comporre commedie.

La sua prima opera degna di nota è il Momolo cortesan (1738), di cui era interamente scritta solo la parte del personaggio principale. La donna di garbo, invece, è la prima partitura completa in tutti i ruoli. Ciò costituì una vera e propria rivoluzione, dato che allora gli autori al servizio delle compagnie teatrali erano semplici "soggettisti": si limitavano cioè a delineare una vicenda e a sceneggiarla sommariamente, lasciando gli attori liberi di improvvisare dialoghi, monologhi, battute comiche e movimenti scenici. 

Ma la prima grande svolta della carriera goldoniana fu l’incontro con uno dei più famosi capocomici del tempo, Girolamo Medebach, che gli offrì di lavorare a Venezia. Goldoni abbandonò così definitivamente la carriera di avvocato. Fu Medebach a dargli ampia libertà di condurre la sua battaglia per una riforma che mirava a restituire centralità al ruolo dell’autore nell’opera comica. Nella stagione teatrale 1750-1751, lo scrittore promise all’esigente pubblico veneziano ben sedici commedie nuove; promessa rischiosa ma incredibilmente mantenuta. 

Della ricchissima produzione di quel periodo alcune delle commedie più rinomate e riuscite furono: La bottega del caffè, La famiglia dell’antiquario, La serva amorosa, e La locandiera , che da sola bastò a conferire all’autore il carisma dell’eccezionalità. Nell’aprile del 1762 Goldoni lasciò Venezia allettato da una nuova avventura: andare a dirigere il teatro della "Comédie italienne" di Parigi.

 Scena da  'La Locandiera"

Qui però le difficoltà si rivelarono maggiori del previsto a causa di una più dura resistenza dei "comici dell’arte" a rinunciare ai loro privilegi per inchinarsi alla volontà dell’autore, e della diffidenza del pubblico francese. Parigi infatti aveva già una lunga tradizione di teatro comico riformato, avviata da Molière; quando il pubblico si recava alla "Comédie italienne", voleva assistere a un teatro diverso, più popolare e meno nobile di quello messo in scena alla "Comédie française" .

Ottenuto l’incarico, da parte del re di Francia Luigi XV, di maestro d’italiano delle principesse reali Clotilde ed Elisabetta, sorelle del futuro Luigi XVI, per più di vent’anni Goldoni divise la sua vita tra la reggia di Versailles e i palcoscenici cittadini, dove fu assai attivo come organizzatore di spettacoli; ma la sua vena di commediografo s’era ormai inaridita. Con un ultimo sussulto del suo estro creativo si prese una grande rivincita componendo in francese il suo ultimo capolavoro, Il burbero benefico (Le bourru bienfaisant), che nel 1771 andò in scena alla "Comédie française" e alla corte reale estiva di Fontainebleau, dove ottenne uno strepitoso successo.

Dal 1784 si diede alla stesura della propria autobiografia, i Mémoires (Memorie). Visse negli ultimi anni con una dignitosa pensione di Corte; scoppiata la Rivoluzione.
Ormai vecchio e malato, trascorse l’ultimo anno della sua vita in una condizione di penosa 
miseria; morì, ottantaseienne, il 6 febbraio del 1793.


La ‘riforma’ goldoniana

Come si è detto, nel ‘700, agli scrittori al servizio delle compagnie teatrali era riservato un ruolo del tutto marginale: essi avevano il compito di inventare soggetti, al resto avrebbero pensato gli attori. Ciò era decisamente riduttivo rispetto alle aspettative di Goldoni e andava decisamente contro la sua idea di teatro: egli riteneva che le opere teatrali avrebbero riacquistato dignità letteraria se il loro testo sarebbe stato fissato nella sua forma compiuta in libri stampati.
Sogno ambizioso quello del Goldoni, perché andava contro le più solide convenzioni della sua epoca. E probabilmente egli non sarebbe riuscito nel suo intento se non avesse trovato la piena collaborazione di autorevoli capocomici e impresari (come il Medebach) i quali lo sostennero in quest’avventura, comprendendone il significato e la necessità.
Goldoni riuscì nel difficile intento di costringere l’attore ad abbandonare l’improvvisazione per adeguarsi a un copione scritto e imparato a memoria. Ma questo è solo l’aspetto preliminare e più vistoso della riforma goldoniana. Del resto una tradizione di teatro scritto e attento alle esigenze della messa in scena esisteva già da secoli: il teatro greco e latino, le commedie di Ariosto, di Machiavelli, di Ruzzante, e poi il teatro elisabettiano, quello spagnolo e quello francese. Persino alcuni "comici dell’arte" avevano avvertito l’esigenza di trasporre diverse commedie in una forma "premeditata". Che rivoluzione poteva mai essere, allora, quella di sostituire ai canovacci delle partiture scritte, se da secoli mille altri commediografi lo avevano già fatto? Si sarebbe trattato di una semplice restaurazione.


Dalla commedia ‘di intreccio’  alla commedia ‘di carattere’

Il vero nucleo della riforma goldoniana consiste invece in un ben più drastico passaggio dalla commedia "di intreccio" a quella "di carattere". Nella commedia "di intreccio",  l’indole dei personaggi e il loro comportamento erano predeterminati e stereotipati, perfettamente chiari a tutti fin dall’inizio della rappresentazione; le maschere erano sempre — nel modo di agire, di muoversi, di pensare — uguali a se stesse. E sebbene anche il lieto fine fosse prevedibile, il pubblico era attratto dallo sviluppo della vicenda, ricca di storie fantasiose, intricate peripezie, equivoci, scambi di persona, sorprendenti colpi di scena: si sapeva già a quale esito sarebbe approdata la storia, ma non in quale modo. 
Nella commedia "di carattere", invece, il carattere, appunto, dei personaggi va definendosi progressivamente, con l’avanzare dell’azione, davanti agli occhi dello spettatore; le trame sono assai meno complesse, l’interesse è tutto rivolto allo scavo psicologico dei singoli individui, la sorpresa viene dalla loro interiorità e non da strabilianti eventi esterni. Evidentemente dovevano sparire le maschere: dietro di esse è pressoché impossibile per l’attore dare spessore psicologico al personaggio. Parimenti, era necessario che le strampalate avventure della commedia dell’arte, proiettate tutte in un mondo inverosimile, cedessero il passo ai più comuni fatti della vita: il pubblico avrebbe trovato sulla scena una sorta di specchio nel quale rivedere se stesso, con le normali passioni, speranze, sentimenti, pregi e difetti d’ogni essere umano. Si tratta, come è facile capire, di un primo passo verso una forma di teatro "naturalistico", verso il moderno dramma borghese.
La riforma di Goldoni rappresenta la diretta conseguenza del razionalismo illuminista, nonché di un diverso modo di concepire la storia, vista non più come sequenza di guerre e di alte strategie diplomatiche, ma come l’insieme dei costumi, dei fatti, delle azioni, dei pensieri della gente comune, che ne diventa la vera protagonista. La grande diffusione dei giornali (in particolare a Venezia "L’Osservatore" e "La Gazzetta veneta") conferma il crescente spostarsi dell’interesse generale sui fatti della cronaca quotidiana: a essa viene dato sempre maggior peso e spazio; in essa l’emergente classe borghese (esattamente come nel teatro goldoniano) rivede se stessa, si interroga e riflette sul proprio essere e sul proprio ruolo sociale, acquisisce sempre maggior coscienza della propria funzione. Lo stesso Goldoni, nella prefazione alla prima stampa delle sue commedie, afferma che l’osservazione del mondo, della vita reale, sta alla base del suo teatro.
A fronte di queste novità, va pure sottolineata la continuità con molti essenziali aspetti della tradizione sia scenica sia letteraria dell’epoca. Da un lato, infatti, Goldoni supera ma non rinnega gli insegnamenti della commedia dell’arte: egli stesso, nella prefazione al Servitore di due padroni, lascia liberi gli attori che reciteranno la parte di Truffaldino di introdurvi le loro personali invenzioni e raccomanda solo di rispettare la dignità dell’opera evitando qualsiasi gesto scurrile. 

Sostituiti gradualmente intrecci avventurosi, maschere e scenari esotici con vicende realistiche, personaggi comuni e ambientazioni familiari, andava pur sempre conservata quella tecnica teatrale fatta di una giusta scansione del ritmo, di un’appropriata successione di varie situazioni sceniche, d’una calibrata miscela dei toni e dei personaggi. Inoltre, la stessa abilità degli attori professionisti, se era indispensabile per le funamboliche improvvisazioni della vecchia commedia, a ben vedere non era meno necessaria per rendere credibile un personaggio realistico, per disegnarne il carattere con le più sottili sfumature psicologiche. Perciò in Goldoni la vecchia arte rappresentativa non muore, ma si trasfonde in un teatro diverso, più moderno, destinato a perdurare sino ai giorni nostri.


Tratto da Moduli di letteratura italiana ed europea,
di A. Dendi, E. Severina, A. Aretini
Carlo Signorelli Editore, Milano, 2002







 LA TRAGEDIA

 Ritratto di Vittorio Alfieri  (F.S. Fabre, 1793)


  
Vittorio Alfieri  (1749 – 1803)


Vittorio Alfieri nacque il 16 gennaio 1749 ad Asti e morì a Firenze l'8 ottobre 1803.
Considerato il maggiore poeta tragico del Settecento italiano, ebbe una vita piuttosto avventurosa, diretta conseguenza del suo carattere tormentato che lo rese, in qualche modo, precursore delle inquietudini romantiche.

Egli ripercorse il suo cammino formativo in un'autobiografia, la Vita, che cominciò a scrivere intorno al 1790. Non mancano in essa le componenti agiografiche, visto che il proposito latente dello scrittore è quello di rapportare la propria vita alle vicende tragiche dei protagonisti delle sue opere: fornire di sé un ritratto eroico, quello di un uomo che ha lottato contro il destino e contro la società per poter affermare il proprio talento.
Nato, dunque, da famiglia nobile, dal 1758 al 1766 frequenta l'Accademia militare di Torino, considerata uno dei migliori collegi d'Europa, con risultati mediocri (nell'autobiografia di questi anni l'Alfieri parlerà come di anni di "ineducazione"). A conclusione degli studi viene nominato alfiere dell'esercito regio. Da questo momento comincia una lunga serie di viaggi: Alfieri passa da un paese all'altro (e da un amore all'altro) senza requie, visita prima l'Italia e poi l'Inghilterra, la Francia, la Prussia, l'Olanda, la Scandinavia.
Questo continuo vagabondare termina nel 1775, l'anno della "conversione" alla letteratura: rinnegando i dieci anni precedenti di "viaggi e di dissolutezze" l'Alfieri torna a Torino, completa una prima tragedia, Cleopatra, e si dedica furiosamente allo studio. Il successo della rappre-sentazione di Cleopatra lo sprona a dedicarsi alla carriera di scrittore tragico.

Lo stesso Alfieri racconta che un giorno, mentre vagabondava in preda alla sua rabbiosa furia di trovare qualche ideale per cui vivere e morire e mentre passava da un amore a un duello, da una crisi di disperazione all'esaltazione per la propria originalità e per il proprio ingegno, sorse in lui la precisa volontà di "farsi di ferro in un secolo in cui gli altri erano di polenta".

Fu in un momento di noia e tranquillità che egli intuì la sua strada: era al capezzale di un’ammalata (la marchesa Gabriella Turinetti, di cui si era follemente innamorato) , quando, per ammazzare il tempo, pensò di scrivere una tragedia su Cleopatra, la cui immagine sembrava guardarlo da un arazzo appeso al muro. Subito la scrisse, la limò, fece correggere tutte le sgrammaticature dovute alla sua scarsa istruzione e la fece rappresentare.  “Cleopatra” ebbe un successo enorme, con tre repliche applauditissime al Teatro Carignano di Torino: era la prima tragedia scritta decorosamente da un italiano dopo tanto, tanto tempo di silenzio. Vittorio Alfieri capì subito che se voleva intraprendere la strada dell'arte e del teatro con dignità doveva al più presto formarsi una solida cultura.

"Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli", in questa frase  egli intese esprimere tutta la sua grande forza di volontà...  Ma c'è di più. Si racconta che fosse solito farsi legare alla sedia con corde strettamente annodate sia per poter "digerire" in un tempo relativamente breve una vera e propria montagna di libri, sia per non farsi distrarre dalle frivolezze che la vita agiata gli offriva.


Dal '76 all'86 scrisse diciannove Tragedie, tra le quali il Saul e la Mirra, concordemente ritenute i suoi capolavori.

La tragedia è la forma artistica da lui prescelta perché la più adatta a rappresentare la sua concezione della vita basata sullo scontro tra oppressi ed oppressori, tra uomini eroici e tiranni, i quali non vanno intesi come simboli del potere assolutistico o di qualsiasi altro regime realmente esistente, ma rappresentano invece tutti quei limiti che impediscono la piena realizzazione dell'individualità umana. 

La libertà, che è il motivo trainante delle tragedie dell'Alfieri, non è una libertà politica, ma una libertà esistenziale. Risulta perciò chiaro come mai l'Alfieri scelga sempre personaggi già famosi, mitici, (Antigone, Saul, Bruto) per le sue opere e appare anche evidente la sua lontananza da quel "dramma borghese" che trionfava in tutta Europa.

Nel 1777 avviene un incontro fondamentale per la vita dell'Alfieri, conosce infatti Luisa Stolberg, contessa d'Albany, praticamente separata dal marito Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d'Inghilterra. Nasce un rapporto che Alfieri manterrà sino alla morte e che mette fine alle sue irrequietezze amorose. L'anno successivo fa dono alla sorella di tutti i suoi beni, mantenendo per sé solo una rendita annua, e dopo vari soggiorni si trasferisce a Firenze e poi a Siena, per apprendere l'uso del toscano che, per lui piemontese e perciò familiare all'uso del suo dialetto e del francese, era stata una lingua morta imparata sui libri.

Gli anni che vanno dal 1775 al 1790 sono i più operosi della sua vita: oltre alle tragedie compone trattati e gran parte delle Rime. Nel 1786 si stabilisce con la fedele contessa a Parigi, dove assiste alla rivoluzione. Gli sviluppi della rivoluzione però, probabilmente orientati verso forme troppo democratiche, lo deludono, come lo spaventano le manifestazioni della plebe, che non corrisponde certo al popolo da lui sognato nelle tragedie.  Così fugge da Parigi nel 1792.  

Tornato a Firenze, dedica gli ultimi anni della sua vita alla composizione delle Satire, di sei commedie, della seconda parte della Vita e di traduzioni dal latino e dal greco. Nel 1803, a soli cinquantaquattro anni, muore assistito dalla Stolberg. La salma riposa nella chiesa di Santa Croce a Firenze.


         (Note biografiche a cura di Laura Barberi).



 

Monumento sepolcrale dell'Alfieri di Antonio Canova

(Chiesa di Santa Croce, a Firenze)





Le tragedie


Nelle tragedie più intensamente si manifesta l'anima eroica e appassionata dell'A.: essa si proietta così nella figura del tiranno, eroe del male, come in quella di coloro che al tiranno si oppongono, eroi della giustizia, della libertà, della purità, del sacrificio: la tragedia alfierana è sostanzialmente il dramma della volontà indomita, sia che riesca a piegare gli uomini e gli eventi, sia che ad essi soccomba; sia che si rivolga al bene, e sia al male. Di qui il palpito eroico che anima tutte le tragedie, anche le più povere e nude, e l'insegnamento a fortemente sentire e operare.

Alfieri riesce a condensare nei suoi drammi un'approfondita lettura psicologica, rappresentando le più recondite passioni umane.  Queste passioni sono legate poi al conflitto tra tiranno ed eroe in quasi tutte la tragedie. Entrambi i personaggi sono uniti dal senso della loro grandezza, ma sono posti in antitesi e in lotta tra loro. In questa opposizione l'eroe è colui che ama e combatte per la libertà, mentre il tiranno deve opprimere per scacciare la più forte delle sue paure: quella della morte.


Il Saul (1782) e la Mirra (1786) sono le tragedie artisticamente meglio riuscite.


Saul titano prende coscienza del proprio fallimento, e con il sentimento e la volontà urta contro la ragione e i limiti. Egli vive nel contrasto fra le ambizioni e la realtà e la sua condizione perpetua è di chi vuole affermare la propria personalità ed è consapevole che gli sforzi finiranno nel nulla che egli invoca e desidera affrettare. Saul corre verso la morte in combattimento ma quando la morte gli sarà preclusa, perché è sopraggiunta la sconfitta, e quando i suoi figli saranno morti combattendo, egli si darà la morte contro la forza superiore e per affermare la propria libertà e il proprio eroismo. Nel protagonista, titano sconfitto, l'individualismo ha una nota di tragica fatalità.


Mirra innamorata del padre lotta contro se stessa e invano cerca di resistere alla passione che sente colpevole e peccaminosa. Il conflitto interno, nascosto a forza, è rivelato dopo lunga angoscia e la donna si uccide con la spada del padre stesso, in una disperazione che cerca la libertà nella morte.




SAUL



Saul fu composta nel 1782. Alfieri trae il soggetto del dramma dalla Bibbia, dalla storia della morte del re Saul nella guerra contro i Filistei. Saul è il re scelto da Dio per salvare Israele, per mano del profeta Samuele. Ma presto si ribella al volere di Dio, compiendo diversi atti empi, peccando di superbia. Il nuovo campione di Israele scelto da Dio è David, un giovane pastore, cosa che suscita la gelosia di Saul. I sentimenti del re verso il giovane sono ambigui, da una parte invidia e gelosia, dall'altra ammirazione. Inoltre David stringe amicizia con il figlio del sovrano, Gionata e diventa sposo della figlia, Micol.

Alfieri si concentra su come Saul viva l'ineluttabilità che viene dall'alto, dal volere di Dio, che non si manifesta mai in maniera oggettiva, ma viene sempre visto attraverso la fede dei sacerdoti. Questa incertezza porta Saul a credere che sia in atto una congiura contro di lui.

Lo sfondo della tragedia è la guerra tra Israele e i Filistei, presso i quali David è costretto a rifugiarsi. David durante la guerra torna in Israele per aiutare il suo popolo, nonostante il rischio di essere ucciso da Saul. Il sovrano infatti desidera mettere a morte il giovane, ma dopo un colloquio con lui si convince ad affidargli il comando dell'esercito.

La comparsa di un sacerdote che annuncia l'incoronazione di David e la condanna di Saul da parte di Dio, porta l'empio sovrano al delirio. Il sacerdote viene fatto uccidere e David è costretto a fuggire nuovamente. Saul in un incubo terribile prevede la sua morte e la sconfitta del suo esercito. Il figlio Gionata viene ucciso nella battaglia, i Filistei vincono. Infine Saul, ritrovata la lucidità, rimpiangendo di aver cacciato David e comprendendo la realtà dei fatti, decide di uccidersi.



IL TEATRO DI GOLDONI E QUELLO DELL’ALFIERI

Nella seconda metà del Settecento la storia del teatro italiano è caratterizzata da due grandi personalità: Carlo Goldoni e Vittorio Alfieri.


Goldoni attraverso la sua paziente e graduale opera di commediografo, rinnovò il teatro comico, riscattando la commedia dalla ripetitività e dalla volgarità in cui, negli ultimi tempi, la commedia dell’arte era caduta.


Dal punto di vista tecnico infatti sostituì agli schematici canovacci della commedia dell’arte e all’improvvisazione dei vecchi comici, testi teatrali completamente scritti, organici e composti che gli attori dovevano limitarsi a interpretare e a recitare.


Quando poi ai contenuti, egli, in linea con le istanze della cultura illuministica, attenta alle cose pratiche e ai problemi reali, portò finalmente sulla scena la vita quotidiana, cioè personaggi veri e situazioni vere, facendo così non più un teatro di maschere ma un teatro di caratteri e di ambienti. Di segno diverso, almeno in apparenza, è invece l’operazione teatrale compiuta da Alfieri nel campo della tragedia.


Alfieri infatti si limitò a recuperare la tragedia classica e la ripropose tale e quale dal punto di vista tecnico e formale. Tuttavia la rinnovò dall’interno portandola ad esprimere, nelle sue forme alte e solenni e attraverso i suoi personaggi “antichi”, le passioni e i sentimenti più attuali.


In particolare, Alfieri, nelle sue tragedie, diede voce alle inquietudini che agitavano la sua epoca e che sarebbero esplose nel Romanticismo:


– l’individualismo;

– l’ansia di libertà da ogni costrizione materiale e morale;

– il contrasto tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è;

– il bisogno di infinito.




GOLDONI
ALFIERI
Scrive commedie
Scrive tragedie
Scrive assecondando il gusto del pubblico
Disprezza il pubblico, specie quello borghese che affolla i teatri dell’epoca, e vuole tenerlo lontano dalle sue rappresentazioni
Rappresenta le sue commedie nei teatri più in voga
Organizza rappresentazioni private, ad esempio in palazzi nobiliari, poiché non vuole confondersi con il teatro contemporaneo che lui ritiene frivolo e volgare
Scrive spesso i suoi personaggi adattandoli agli attori che dovranno recitarli
Disprezza la classe degli attori, incapaci di sostenere degnamente la parte degli eroi, quindi spesso recita lui stesso la parte del protagonista
Considera la classe borghese attiva ed operosa, depositaria di pochi vizi e di molte virtù
Odia la classe borghese volgare e troppo legata alle cose materiali
Scrive per mettere in ridicolo i difetti dei nobili
Scrive perché gli uomini imparino ad essere liberi, forti e generosi. Non tanto quelli dell’epoca presente quanto quelli dell’epoca futura



IL XIX SECOLO


L'EPOCA "ROMANTICA"

Il Romanticismo
 
Il Romanticismo è un movimento culturale che consegue al mancato trionfo della ragione illuministica e delle rivoluzioni. 
Esso nasce sul terreno storico della restaurazione come ripiegamento delle energie e della volontà nell'interiorità dell'io individuale e del sentimento che costituisce la nuova base di certezza e di fiducia.
La borghesia che lo esprime abbandona il materialismo e il sensismo settecenteschi e il metodo scientifico affidandosi a princìpi più vaghi.

I romantici accrescono il dissidio tra il reale e l'ideale, creano un'atmosfera di pessimistica sfiducia intorno alla realtà e dai condizionamenti che il mondo esterno pone sono indotti a rinchiudersi nella consapevolezza dolorosa dell'esistenza e nella solitudine del mondo interiore e dei sogni, nell'«ideale». Il valore del mondo esterno non è fatto derivare dalla conoscenza oggettiva ma dalla conoscenza che se ne ha attraverso la percezione intuitiva della sensibilità e del sentimento soggettivi.

L'individuo è la scoperta dei romantici; esso, consapevole dei propri limiti, cerca le proprie certezze nella religione intesa come appagamento del desiderio di infinito, di immortalità, di purificazione, di giustizia, nel ritorno alla fede negata dal materialismo o al cristianesimo non dogmatico, al sentimento spontaneo di comunione degli animi. Non raramente, però, lo spiritualismo vago e nostalgico di approdi nel passato si ancorò a una certa religiosità torbida e vittimistica del Medioevo.

Viandante sul mare di nebbia (C. David Friedrich, 1818)
 Uno dei manifesti del romanticismo europeo



Altre forme di certezza la sensibilità dell'individuo ricerca nella natura primitiva e innocente avvertita misticamente o panteisticamente quale regressione verso un mondo materno idealizzato e contrapposto alla società e alla civiltà corrotte; nell'amore in cui si esalta la passione o si drammatizzano il contrasto tra reale e ideale nonché i limiti della natura e delle regole (contrasti passionali, sentimenti assoluti, amore e morte, amore e religione, amore e patria, amore illecito, amore e condizione sociale etc.); nell'esotismo di ambienti e personaggi amati nella diversità per la novità capace di aprire mondi interiori spontanei; nell'arte sconfinata proiezione del desiderio di infinito e di fuga dalla realtà, fascinosa entità che può assorbire lo spirito dell'individuo il quale a tutte queste speranze e ideali si rivolge con atteggiamento da titano o da vittima, da futuro vincitore o da vinto.


Il fenomeno romantico si svolge in modo diverso da nazione a nazione e diverse sono le colorazioni ideologiche che sopravvengono nel tempo, a seconda delle condizioni politiche e sociali sicché in Italia dopo la sconfitta di Napoleone abbiamo una risalita dell'aristocrazia che si appoggia ai governi assolutisti e al clero restauratore, seguita dalla diffusione del pensiero liberale nei vari strati sociali borghesi e artigiani, di quello di Mazzini ancora più avanzato e democratico. 


Il Romanticismo è in Italia il fenomeno storico degli anni (1815-40) che sono caratterizzati dalla restaurazione dei governi assoluti e dall'attività dei liberali per un'Italia nazione indipendente ma non possono essere conglobati in esso tutti coloro i quali espressero conflitti interiori e idealità patriottiche o religiose.


In Germania, dopo la metà del Settecento, una concezione filosofica spiritualistica e idealistica opponendosi al razionalismo francese provoca in letteratura l'imitazione dei modelli classici e il sorgere di un'arte fondata sul sentimento e sulla libera espressione. Questa scuola letteraria si chiamò Sturm und Drang (impeto e assalto) e nel 1797 fu detta «romantica» da Federico Schlegel la nuova poesia sorta nell'ambito della rivista «Athenaeum» e dei suoi intellettuali.


In Italia nel 1816 Germaine Necker baronessa di Staël (1766-1817), svizzero-francese, di pensiero religioso-moderato, avversaria di Napoleone in quanto, continuatore della Rivoluzione francese, in un articolo Sull'utilità delle traduzioni pubblicato sulla milanese austriacante Biblioteca italiana invitava gli italiani a liberarsi dal culto esclusivo dei classici e a conoscere le grandi letterature moderne d'Europa per combattere la nostra decadenza culturale. Gli interventi polemici che ne seguirono divisero il campo letterario in classici (sostenitori della tradizione, della mitologia, del formalismo) e romantici (sostenitori delle letterature moderne) e le posizioni letterarie diventarono ben presto polemiche i classicisti sostenitori di regole, armonia, equilibrio spirituale vennero considerati austriacanti, conservatori, inattuali, i romantici, inquieti, cristiani, dediti alla ricerca interiore vennero identificati con i liberali. 


Giovanni Berchet (1783-1851) Sul «Cacciatore feroce» e sulla «Leonora» di Bürger, Lettera semiseria di Grisostomo (1816) in cui l'autore presentava una traduzione in prosa delle liriche di Bürger e alcune osservazioni sulla poesia. Berchet rifiuta le regole, l'imitazione dei classici e sostiene che la poesia deve essere dei «vivi» e non dei «morti», cioè moderna. Lo scrittore rifiuta anche gli aspetti più patetici del romanticismo straniero. Uno dei motivi centrali della polemica di Berchet è la determinazione del concetto di quel «popolo» al quale deve rivolgersi la poesia: né alfabeti né aristocratici raffinati fanno parte del popolo che è costituito dai certi borghesi e artigiani. 


Nelle polemiche vennero ribaditi i principi della Lettera semiseria attraverso il rifiuto dell'imitazione servile dei classici, dei generi letterari, della mitologia, l'allargamento dei contenuti dell'arte (leggende cristiane, credenze del popolo, favole cavalleresche, racconti orientali), l'utilità della letteratura, l'espressione delle convinzioni religiose del popolo, l'uso di un linguaggio adatto alla comunicazione con un pubblico più largo.


Quantunque il romanticismo italiano abbia una sostanza moderata e abbia assorbito diversi motivi illuministici esso presenta nei punti sopra indicati molti elementi nuovi, ai quali sono da aggiungere: l'esigenza di una letteratura nutrita di idee, l'interesse per la contemporaneità e per il problema politico nazionale nonché il tentativo di stabilire un rapporto più diretto con il pubblico. 


Lo svolgimento di queste linee culturali e socio-culturali non poté avvenire con facilità perché il Romanticismo come particolare atteggiarsi della cultura della borghesia italiana in risposta alle condizioni storiche degli Stati e alle sue esigenze di egemonia politica e sociale nell'unità nazionale fu implicitamente legato alla debolezza, alla inadeguatezza dei programmi riformatori che hanno spinto quella borghesia a cercare alleanze o convergenze con gli interessi di ceti feudali per abbattere i privilegi dell'«ancien régime» e del clero e che quindi hanno condizionato il carattere della sua ideologia e della sua cultura.


La letteratura romantica

La letteratura risorgimentale storico-patriottica ha generi letterari funzionali al nuovo pubblico e alla ricerca di una unità culturale fondata sulla libertà nazionale, sul rapporto tra scrittore e vita sociale, sull'interesse per la realtà: la ballata, la lirica patriottica, il romanzo e il dramma storico, gli scritti di memorie. I contenuti nuovi e moderni, cioè, si creano le loro forme espressive. I contenuti sono, da parte loro, legati ideologicamente alle due tendenze romantiche individuate da Mazzini: una tendenza moderata che ha come massimo scrittore Manzoni e una tendenza antitirannica rappresentata da Foscolo. 


I lirici patriottici della prima generazione romantica mirarono a suscitare entusiasmi politici e militari verso la lotta con un linguaggio che rispecchiava il sentimento. Lo strumento linguistico di alcuni di essi non è adeguato alla funzione popolare, altri non possiedono una conoscenza vera della vita del popolo, altri sono patrioti ideologicamente retrogradi perché antifrancesi sicché i limiti di questa lirica sono evidenti sul piano dell'arte. 


Sono da ricordare anche tra quelli della generazione successiva Luigi Mercantini (1821-72) di Ripatransone autore della Spigolatrice di Sapri (1857, scritta in seguito al fallimento della spedizione di Pisacane, dell'Inno di Garibaldi per i volontari garibaldini del 1859-60); Arnaldo Fusinato (1817-89) di Schio; Gabriele Rossetti (1783-1854) poeta della rivoluzione napoletana, esule a Londra, animato da spinti mistici e umanitari, da ideologie stilnovistiche e riformatrici religiose; Goffredo Mameli (1827-49) genovese, poeta di intenso sentimento romantico, autore dell'inno, morto alla difesa di Roma. 


Il romanzo storico, «un misto di storia e d'invenzione» come lo definì Manzoni, era stato creato da Walter Scott (1771-1832) e in Italia — dove l'ambientazione storica fu variamente manipolata — servi come veicolo di ideologia politica e pedagogica. 


Il teatro romantico  e  l' "opera" italiana

Le commedie goldoniane continuano ad avere fortuna nell'età romantica.


Il teatro tragico in Inghilterra, Germania, Francia risentì della sensibilità romantica e ne fu rinnovato con Goethe, Schiller, Shelley, Hugo. In Italia scarso apprezzamento fu riservato alle tragedie del Foscolo (Aiace, Tieste, La Ricciarda) e al teatro di Silvio Pellico (Francesca da Rimini). Di maggiore spessore la produzione teatrale del Manzoni (Adelchi e Il Conte di Carmagnola), sicuramente innovativa sia sotto il profilo drammatico che quello letterario.


L'attività teatrale italiana nell'età romantica è soverchiata tuttavia dal teatro d'opera (o opera lirica) che in Italia ebbe una immensa fortuna popolare in quanto espressione di passioni drammatiche ed elementari. Uno dei motivi della democrazia delle forme d'arti musicali è certamente la capacità della musica di interpretare sentimenti che riescono inadeguati con altre forme di espressione. Il melodramma romantico con Gioacchino Rossini (1792-1868), Gaetano Donizetti (1797-1848), Vincenzo Bellini (1801-35) esprime le condizioni di vita italiane del tempo e le aspirazioni nazionali sostituendo, soprattutto con Giuseppe Verdi (1813-1901), la realtà della storia, della società, degli individui moderni all'interesse popolare che le passioni dei tragici greci (amore paterno, vendetta, fato inesorabile, etc.) avevano suscitato in tutta Europa. 

 Interno del Teatro alla Scala di Milano nel primo Ottocento



Verdi, musicista di origine contadina e genio romantico, sintetizza lo stato drammatico-sentimentale della cultura borghese e popolare, per la prima volta unitaria. Nella sua musica per la prima volta si riconosceva un popolo nella sua abbozzata etnia di sentimenti naturali, semplici, inostacolabili perché dilatabili in una nuova espressione, più di quanto non potessero fare la lirica, il romanzo, îl teatro. Dal melodramma scendeva nel popolo disperso che non aveva nome la parola essenziale ed elementare, essa diventava voce o reintrepretava voci rimaste inespresse. 
Anche se i libretti non hanno valore letterario, nella sintesi con la musica esprimono in simboli storici (Nabucco, 1842; Battaglia di Legnano), in figure di fuorilegge (Trovatore, 1853), in vittime della nobiltà (Rigoletto, 1851; Traviata, 1853), in persone semplici la realtà umana di chi cerca liberazione e identificazione. In Verdi il genio musicale popolare si unificava con le aspirazioni popolari in quel determinato momento e in quella particolare forma d'arte in cui il popolo intuiva una libertà senza compromessi. 


Il teatro europeo nell’Ottocento


Il teatro europeo all’inizio dell’Ottocento fu dominato, in modo particolare in Germania, dal dramma romantico. 

Tra romanticismo e neoclassicismo si situa il genio di Wolfang Goethe (1749-1832), che vide nell’espressione artistica la sola via per ridare dignità all’uomo innalzandolo al di sopra degli interessi particolari. All’interno di tale contesto, il teatro avrebbe occupato un posto particolare nell’educazione e formazione di una coscienza nazionale. Il capolavoro di questo teatro è il dramma-poema di Goethe Faust, che esprime la tensione verso il «lontano» e l'«oltre», e la nostalgia di chi sa che non potrà mai raggiungere un simile traguardo.  Il Faust si propose come un grande poema drammatico capace d’interpretare l’anima della nuova nazione tedesca, in cerca di unità politica. Nella sua qualità di direttore del teatro di Weimar, Goethe contribuì a fare del teatro una presenza socialmente rilevante, ritenendolo una fucina di continua sperimentazione e stimolo di riflessione e di educazione per la società.
 

 Ritratto di W. Goethe, elaborazione di Andy Warhol (1982)

Temi simili emergono dall’opera di Friedrich Schiller  (1759-1805), dalla quale emerge la coscienza che valori quali giustizia, universalità e libertà siano perseguibili soltanto seguendo il sentiero dell’armonia e del bello. Molti ideali romantici e neoclassici trovarono la propria forma artistica in tragedie ispirate a temi storici o mitologici, argomenti che comparvero anche nel teatro d’Opera. Con Schiller tramonta il vecchio genere della tragedia e si afferma il nuovo genere del dramma storico romantico. Opere come il Gugliemo Tell o il Don Carlos incendiano i palcoscenici e calamitano l’attenzione del grande publico.

In Inghilterra, intorno alla metà del secolo, le grandi tragedie cedettero il posto al dramma borghese, privo di pretese letterarie e caratterizzato dai temi domestici, da un intreccio ben costruito  e un abile uso degli espedienti drammatici. 

La tendenza si estese anche alla Francia, con autori quali Eugène Scribe e Victorien Sardou, in concomitanza con l’emergere del naturalismo che, alla fine dell’Ottocento, avrebbe trovato la più alta espressione nell’aspra critica sociale di Emile Zola.

Temi analoghi si ritrovano, in Italia, nel teatro verista di Giovanni Verga.

Il dramma borghese, ispirato alla rappresentazione della realtà contemporanea, è presente in Norvegia e in Svezia con Henrik Ibsen (1828-1906) e  August Strindberg (1849-1912). In realtà il teatro di Ibsen e Strindberg non è affatto un contenitore neutrale o pacifico. Esso fa spazio a violenti contrasti psicologici, concentrati di preferenza sui temi della crisi della famiglia. Il teatro di Ibsen e di Strindberg costituisce l’ultima forma di teatro realmente sociale in quanto, per quell’élite sociale costituita dalla classe borghese, il teatro è effettivamente un mezzo potente di diffusione e di discussione delle idee, come la nuova idea «femminista», divulgata nel 1879 da quel rivoluzionario dramma che fu Casa di bambola di Ibsen.

H. Ibsen al Gran Café (di E. Munch, 1898)

Sempre nella seconda metà del secolo, in Germania, come reazione al descrittivismo del teatro realista, giudicato superficiale, Richard Wagner (1813-1883)  riprese le idee romantiche: per lui, il ruolo del drammaturgo era quello di creare miti e dipingere un mondo ideale; nell’immagine teatrale il pubblico avrebbe potuto ritrovare la propria essenza al di là delle apparenze. Wagner criticò inoltre la mancanza di unità tra le diverse discipline che formano l’arte drammatica e pensò al teatro come un’opera d’arte totale nella quale confluissero tutte le discipline artistiche.

Ritratto di R. Wagner (J. Renoir, 1882)

In Russia, il teatro iniziò a svilupparsi verso la fine del XVIII secolo per opera di importanti autori, quali Nikolaj Gogol e Alexander Ostrovskij, il cui stile era improntato a un netto realismo.  Alla fine dell’Ottocento, con i drammi di Lev Tolstoj e Maksim Gor’kij, il naturalismo divenne la tendenza dominante. Anche Anton Cechov (1860-1904) può essere considerato come un continuatore della tradizione naturalista russa. Nel 1898 K. Stanislavski fondò il teatro d’arte di Mosca per presentare drammi, in particolare di Cechov, nei quali l’attore, dopo un apprendistato, era portato a immedesimarsi con il personaggio provando ed esprimendone le emozioni.

 Ritratto di A. Cekov (0. Braz, 1898)

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IL FAUST DI GOETHE



Nel 1832 usciva la prima edizione del poema drammatico “Faust” ad opera di uno dei più grandi interpreti della cultura e della letteratura tedesca, Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, 28 agosto 1749 – Weimar, 22 marzo 1832). Goethe lavorò a quest’opera per sessant’anni, dal 1772 al 1831, scrivendo bozze, revisionando e aggiungendo le sue conoscenze e le sue dottrine culturali. Quando Goethe ebbe terminato, nella primavera del 1831, si rese conto egli stesso della complessità della sua opera: per questo volle che l’intera opera venisse resa pubblica solo dopo la sua morte, che avvenne nel 1832.

A teatro, per la prima volta venne rappresentata la prima parte il giorno 19 gennaio 1829 al teatro nazionale di Braunschweig. Da allora gli allestimenti dell’opera si sono succeduti frequentemente e con successo in tutto il mondo.

La tradizione di Faust


Faust è un personaggio tratto da una leggenda tedesca del XVI secolo, che apparve per la prima volta nel 1557 in un libro pubblicato a Francoforte. E’ la storia di un uomo che stringe un patto con il diavolo. Il motivo è comune e risale al Medioevo. Ma qui si aggiunge un elemento prettamente cinquecentesco: Faust fa un patto con Mefistofele per conoscere e studiare la Natura, e non perché ricerca ricchezze, piaceri o potere. Per soddisfare la sua sete di conoscenza è disposto a consegnarsi al diavolo.

Questa volontà di conoscenza dell’uomo moderno conferiva al mondo terreno un nuovo valore, con uno sfondo religioso, che trovò in Paracelso (1493-1541) il suo maggiore esponente. Alla sua figura venne associata quella altrettanto diabolica di un tale Georg Faust, vissuto all’inizio del XVI secolo, mago e erudito vagante.

Ma se era da ritenere blasfema l’idea di un patto con il diavolo, appariva interessante il motivo che lo determinava: la conoscenza del mondo così come Dio l’aveva creato. Questo concetto riuscì ad essere rappresentato poeticamente solo nell’epoca di Goethe, quando, con l’avvento dell’Illuminismo, si giustificò l’immagine spirituale de “l’uomo che cerca” in quella che fu definita “pansofia” o “sapienza universale”. Anche se non si riusciva a raggiungere la conoscenza assoluta, non si voleva limitare l’anelito alla conoscenza stessa.

In Inghilterra il clima culturale era diverso, e da esso venne fuori il “Faust” di Christopher Marlowe (1564-1593), autore che intuì la grandezza della materia faustiana. Egli sviluppò l’elemento tirannico, più legato all’opera originaria popolare: Faust, come mago, vuole essere un dio in terra, e la sua fame di godere è senza fine.

Da Marlowe il tema del Faust tornò in Germania come “dramma del terrore” prima, e come teatro delle marionette poi, sempre in forma di prosa. Goethe lo scoprì proprio attraverso il teatro delle marionette. Solo nel 1818 ebbe occasione di leggere il dramma di Marlowe.

Genesi dell'opera


Nell’autunno del 1775 Goethe giunse a Weimar portando con sé alcune parti di un dramma su Faust, metà in prosa e metà in poesia. Durante la lettura, la damigella di corte Luise von Göchhausen ne fu talmente entusiasta da farsi prestare il manoscritto per ricopiarlo. In seguito Goethe riscrisse e modificò l’opera, ma alla fine, non soddisfatto la distrusse. Nel 1887 Erich Schmidt scoprì tra le carte della damigella von Göchhausen la copia del manoscritto e la fece pubblicare con il titolo di “Urfaust”.
In questa prima fase, è evidente l’influsso del movimento dello “Sturm und Drang”. Goethe aveva composto quadri separati, senza pensare ad un loro collegamento. Si iniziano a creare i due gruppi di scene: la tragedia del sapere e la tragedia dell’amore.
Goethe proseguì nell’opera, ma ad un certo punto si accorse dei vuoti e delle mancanze. Cercò di colmarle, ma, non ancora soddisfatto, anche se non voleva rimandare oltre la pubblicazione, lo diede alle stampe nel 1790 con il nome di “Faust. Ein Fragment”, che è in effetti una rielaborazione. Fu soltanto nel 1808 che riuscì a far emergere il nesso interiore della vicenda, e a renderla peculiare rispetto alla tradizione. Uscì allora “Faust. Parte prima della tragedia”, che comprende anche il “Prologo in cielo”, che serve sia alla prima che alla seconda parte.
Comincia da qui ad elaborare la storia di Elena, della mitologia greca, e del mondo antico, indirizzandosi verso gli ideali Romantici di rievocazione della classicità. Nel 1826 l’atto era terminato, ma, per colmare la lacune, Goethe scrisse la celeberrima “Notte di Valpurga”, alla fine del secondo atto. Con la stesura del quinto atto, nel 1830 poteva dirsi conclusa “Faust. La parte seconda della tragedia”.
La vicenda faustiana contiene una grande varietà di motivi, che affascinarono Goethe nel corso della sua esistenza, e, allo stesso tempo, le molteplici esperienze di vita diventarono dei simboli da inserire nell’opera stessa. La delusione per le scienze accademiche, la felicità e la colpa dell’amore furono i temi che caratterizzarono la giovinezza. In età adulta fu attratto dalla bellezza di Elena, di omerica memoria, e dalla concezione generale della vita umana. In vecchiaia, Goethe vede Faust come dominatore della natura, colui che anela al segreto della creatività e delle forze umane originarie.

Lo “Streben”, l’anelito, è, insieme all’Amore il tema dominante dell’intero poema.

La trama

Faust è un professore universitario, scienziato ed alchimista. Ha studiato tutta la vita, ma si rende conto che, per quanto l’uomo si sforzi, la sua conoscenza è nulla. 

Ed ho studiato, ahimè, filosofia,
giurisprudenza, nonché medicina:
ed anche, purtroppo, teologia.
Da cima a fondo, con tenace ardore.
Eccomi adesso qui, povero stolto;
e tanto so quanto sapevo prima.
Mi chiamano Maestro: anzi Dottore.
Sono dieci anni che menando vo
pel naso i miei scolari,
di sù di giù, per dritto e per traverso
Ma solo per accorgermi
che non ci è dato di sapere, al mondo,
nulla di nulla.
E quasi mi si strugge, ardendo il cuore.


Si dedica allora alla magia, per cercare di svelare i segreti della Natura. Il suo è un anelito, un tendersi verso qualcosa che sembra irraggiungibile, quello che viene definito in tedesco “Streben”.
Faust evoca il Diavolo per ottenere lo scopo. 
Faust e Mefistofele

Costui, Mefistofele, fa un patto con lui: lo servirà per tutta la vita, esaudirà ogni suo desiderio, mettendogli a disposizione i suoi poteri. In cambio, Faust lo servirà nell’altra vita. L’uomo però non crede alla vita futura e muta il patto in una scommessa: “Se dirò all’attimo: sei così bello, fermati! – allora tu potrai mettermi in ceppi”. Mefistofele è convinto che, anche se Faust non pronuncerà la frase, cadrà comunque nella perdizione e nella disperazione. La posta in gioco è la libertà.
Inizia la vita piena di piaceri e desideri appagati. E’ in questo contesto che avviene l’incontro con Margherita, una ragazza umile, che Faust cerca di abbordare mentre esce di chiesa. Con l’aiuto di Mefistofele, le regalerà gioielli, e inevitabilmente corromperà la sua anima semplice. Più tardi si verrà a sapere che Margherita dovrà subire la pena capitale per infanticidio: dopo aver partorito il figlio di Faust, che l’aveva abbandonata, la disperazione l’aveva portata alla follia e all’uccisione del figlio. Verrà salvata in punto di morte, e andrà in Cielo, per via della sua buona fede e del suo cuore semplice tratto in inganno.

La salvezza di Margherita
 
Nella seconda parte della tragedia si inseriscono i personaggi tratti dalla classicità, fra cui spicca la storia con Elena di Troia. Si avvicendano figure mitologiche, personaggi storici e filosofi.
Lentamente si arriva alla vecchiaia di Faust. Adesso rimpiange l’ umanità, che aveva rinnegato, maledicendo la vita e affidandosi alla magia. Non scaccia più l’Angoscia, che già una volta l’aveva portato vicino al suicidio. Prossimo alla morte, ormai cieco, Faust ha la visione della bonifica di un immenso acquitrino, che permetterà agli uomini di “stare su suolo libero con un libero popolo”.
In quell’ultimo istante, a quel pensiero, pronuncia le parole del patto: “All’attimo direi:  Sei così bello, fermati!” 


Aprirò spazi dove milioni di uomini
vivranno non sicuri, ma liberi e attivi.
Verdi, fertili i campi; uomini e greggi  
subito a loro agio sulla terra nuovissima,
al riparo dell'argine possente 
innalzato da un popolo ardito e laborioso.
Qui all'interno un paradiso in terra,
laggiù infurino pure i flutti fino all'orlo; 
se fanno breccia a irrompere violenti,
corre a chiuderla un impeto comune.
Sì, mi sono votato a questa idea,
la conclusione della saggezza è questa: merita libertà e la vita solo
chi ogni giorno le deve conquistare.
Così vivranno, avvolti dal pericolo
magnanimi il fanciullo, l'uomo e il vecchio.
Vorrei vedere un simile fervore,
stare su suolo libero con un libero popolo.
All'attimo direi: Sei così bello, fermati!
Gli evi non potranno cancellare la traccia dei miei giorni terreni.
Presentendo una gioia così alta
io godo adesso l'attimo supremo.

Mefistofele è felice di aver vinto la scommessa e aver dimostrato che la vita è inutile e sarebbe meglio “il Vuoto Eterno”. Ma quando si aprono le porte dell’Inferno, una schiera di angeli viene a prendere la parte immortale di Faust e la conduce in Cielo.
Egli è stato salvato perché “Chi sempre faticò a cercare, noi possiamo redimerlo”. 
Il poema si chiude con le parole del Coro Mistico:  L’Eterno Femminile ci farà salire in alto”. La forza creatrice che muove l’universo è il principio femminile dell’Amore.  Amore e “Streben”.


L'eterno Femminile


Ricerchiamo in quei soavi e cari sguardi
dai quali viene solo la grazia e la salute,
la virtù che meglio ci prepari il cuore
a ricevere con gratitudine le eterne fiamme della beatitudine;
onde gli umani affetti si rivolgano con viva fede a te,
Vergine, Madre, Imperatrice e Dea.
Dal sublime e stellato tuo seggio mostrati a noi propizia.


(dal web:  cultura.biografieonline.it)

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IL TEATRO DI FINE OTTOCENTO

L’epoca del naturalismo

Nel corso del XIX secolo si andò affermando un'esigenza di realismo, che diverrà dominante nel secondo Ottocento. 
In stretto rapporto con i romanzieri del naturalismo (come Zola e Verga) nacque a Parigi il Théâtre Libre (Teatro libero) di André Antoine (inaugurato nel 1887). Esso si proponeva di svecchiare il repertorio e le forme della recitazione, superando il protagonismo artificioso dei grandi mattatori e portando sulla scena la vita reale: la recitazione avrebbe dovuto imitare i comportamenti quotidiani, le suppellettili di scena dovevano essere quelle reali. Occorreva inscenare insomma una tranche de vie, un pezzo di vita. Agli attori era richiesto non tanto di «entrare nella pelle di un ruolo, ma di adattare piuttosto il ruolo a se stessi», recitando «come a casa, ignorando le emozioni suscitate nel pubblico» (Jean Jullien); l'arco di proscenio, si diceva, dovrebbe essere una specie di «quarta parete, trasparente per il pubblico, e opaca per l'attore».  

La 'quarta parete'


Il secondo Ottocento prepara quindi il trionfo del dramma borghese, ispirato alla rappresentazione della realtà contemporanea.

Il dramma borghese



Il dramma borghese nasce dalle teorie di Diderot, uno dei filosofi dell’Illuminismo che auspicava un nuovo genere serio e intermedio tra tragedia e commedia che si doveva basare sul realismo scenico. In Inghilterra nascevano i sottogeneri delle domestic tragedy e sentimental drama. Nell’età del Romanticismo il teatro si indirizzò al teatro tragico e a quello dei drammi di tipo epico e storico (Adelchi di Manzoni, Cromwell di Hugo).
A metà Ottocento si diffuse un nuovo gusto per il Realismo anche nel teatro come nella narrativa e nacque la commedia di costume (La dama delle camelie di A. Dumas  figlio, 1852). 


Il Naturalismo e Verismo avevano dato importanza all’analisi sociale e ai ritratti veritieri della realtà. Zola scriveva nel 1881: ”Io immagino una pièce moderna così fatta: un fatto semplice che si sviluppi grazie al solo studio logico delle passioni e dei caratteri” I personaggi dunque forgiano l’azione che diventa il naturale sviluppo degli stati d’animo. Nel teatro naturalista predomina una concreta situazione ambientale, una trama fondata su eventi, esistono personaggi con caratteristiche precise. Nel Verismo con Capuana e Verga si delinea la scelta di bozzetti scenici ovvero atti unici, con pochi personaggi, una scena fissa, un’azione concentrata. Il linguaggio però stenta a diventare teatrale e resta letterario; così la realtà viene vista, in genere, nei suoi particolari esterni e pittoreschi, come nella Lupa o in Cavalleria rusticana. 



Il dramma borghese in Europa e in Italia




Le espressioni migliori del realismo scenico vengono dal dramma borghese che raccolse le esigenze dei naturalisti con maggiore maturità scenica.
La tragedia classica era lotta, ribellione eroica all’idea stessa del fallimento, protesa contro il destino; il dramma borghese è constatazione di una sconfitta già avvenuta. Molti drammi cominciano perciò quando tutto è già irreparabilmente finito: i personaggi non fanno che analizzare l’accaduto. Se i drammi romantici erano segnati dal gesto, dall’azione, il dramma borghese è un teatro dove si agisce poco; inoltre le analisi che hanno portato i personaggi alla sconfitta si concentra non più sui grandi tradimenti politici bensì sui problemi familiari, personali (disgregamento della famiglia, tradimenti coniugali, fallimento della propria rispettabilità sociale). 
Su questi presupposti si sviluppa il teatro europeo del norvegese Ibsen e dello svedese Strindberg. Il loro nodo drammatico di partenza è il dissidio tra l’essere e il voler essere, una condizione di duplicità incarnata specialmente nelle figure femminili, divise tra ruolo di mogli e madri ideali e donne-amanti. 
I protagonisti di Ibsen sono lo specchio perplesso di un mondo ormai moderno, senza più eroi; si tratta di un mondo di vittime che percepiscono il crollo degli antichi valori (come in Casa di bambola, 1879), ove la coscienza inquieta, malata di fine ‘800 si riverbera nei personaggi, mentre l’antefatto  viene spesso relegato sullo sfondo, rievocato solo per frammenti. 

Eleonora Duse in "Casa di bambola" di Ibsen
In Strindberg, il tema della crisi della coppia e dell’istituto matrimoniale sfocia nell’angoscia, non c’è comunicazione tra coniugi se non nelle forme dell’odio e del rancore (Danza macabra -1901) . Il dramma borghese come la narrativa di fine Ottocento ama concentrarsi sulle problematiche della vita familiare e soprattutto della coppia con il motivo dell’adulterio. Tocca al teatro mettere in scena lo sgretolamento dei valori tradizionali, i germi dell’incomunicabilità, della menzogna che cominciano a intaccare la cultura razionalista positivistica. 

Nei testi teatrali del russo Anton Cechov la problematica relativa alla crisi dei rapporti coniugali e dell’’istituto matrimoniale (come nelle Tre sorelle) si caratterizza per un intimismo molto netto, un’attenzione alle aspirazioni di donne che si consumano sognando un avvenire incerto (Elena e Sonja in Zio Vanja). La donna delle opere cechoviane non si ribella ma diventa protagonista perché la sua sensibilità è più reattiva a cogliere un turbamento generale, una perdita di speranza che coinvolge anche altre persone. Un segno di tale ripiegamento interiore è la difficoltà a comunicare all’interno della coppia. L’arte teatrale di Cechov rappresenta un’evoluzione del teatro tardo ottocentesco dalle forme chiuse e mimetiche del Naturalismo a quelle più aperte che preannunciano il Novecento. Nei drammi di Cechov i personaggi sembrano muoversi senza comunicare realmente. Le storie di Cechov sono già concluse in partenza: quasi tutto è già avvenuto prima che si alzi il sipario. Le parole dei personaggi si riflettono a specchio, ognuno bloccato nel suo spazio interiore; i monologhi con le pause frequenti (sono i silenzi più dei gesti e delle stesse parole gli elementi più emblematici) sottolineano la difficoltà comunicativa. 

Cechov e i personaggi de "Il giardino dei ciliegi"
A proposito della drammaturgia di Cechov il regista Stanislavskij (attore e regista di Mosca-1863-1938) dirà nel suo libro, La mia vita nell’arte, che per rappresentare i suoi testi quello che conta è comprendere che l’azione scenica deve essere colta nel suo significato interiore, creando le sue immagini interne, perché in Cechov è interessante l’anima dei suoi personaggi. La scena teatrale si restringe alle dimensioni dell’io intimo. 

Come quelle di Cechov, anche le commedie dell’austriaco Arthur Schnitzler (1862-1931), sono basate sull’introspezione. In tal modo il dramma borghese evolve nelle forme novecentesche del teatro simbolista e poi del teatro dell’assurdo. Nelle scene delle commedie di Cechov e di Schnitzer le battute sono come frantumate, passando da dialogo a monologo, quasi a sottolineare la frantumazione psicologica dei personaggi; il parlare è un monologare spento, pieno di pause, incertezze, salti logici.

In Italia, dal teatro verista di fine Ottocento e agli albori del nuovo secolo, emergono le figure  di Giacosa (1847-1906) e Praga (1862-1929).Nelle loro opere si riflette la condizione sociale dell’Italia di fine Ottocento, un'epoca caratterizzata dall’affermazione della borghesia e dall’espansione dei traffici commerciali e dell’industria. I temi trattati in teatro sono quindi determinati dai nuovi valori della cultura dominante: il possesso della ricchezza, la rispettabilità sociale. Nei drammi si riscontra il venir meno dell’ottimismo tipico del positivismo, e questo disagio si riflette nella dissoluzione dei valori tradizionali, e soprattutto nella crisi della vita di coppia, come nella commedia di Giacosa, Come le foglie (1900) o ne La moglie ideale di Marco Praga (1890)

Giuseppe Giacosa, nato vicino a Torino, frequentò l’ambiente 'scapigliato' e poi, dopo aver scritto qualche dramma storico, spinto dai consigli dell’attrice Eleonora Duse, cominciò a scrivere commedie d’ispirazione psicologica ambientate in epoca contemporanea. Il suo primo successo fu Tristi amori (1887) recitato dalla stessa Duse. Scrisse anche tre libretti d’opera per l’amico musicista Puccini: Bohème, Tosca, Madama Butterfly.

Marco Praga, figlio dello scrittore scapigliato Emilio Praga, raggiunse il successo teatrale con Le Vergini (1889). Nella Moglie ideale dipinse il tipo dell’eroina dalla pratica mentalità borghese. Sofferente di crisi depressive morì suicida nel 1929.


IL TEATRO CONTEMPORANEO


Il teatro contemporaneo si è andato sviluppando tra gli inizi del Novecento e i giorni nostri, caratterizzandosi come la reazione al teatro verista della fine del XIX secolo.
Il Novecento si apre con la rivoluzione copernicana della centralità dell'attore. Il teatro della parola si trasforma in teatro dell'azione fisica, del gesto, dell'emozione interpretativa dell'attore con il lavoro teorico di Kostantin Sergeevic Stanislavskij.

K.S. Stanislavskij (1863-1938)

Il metodo Stanislavskij

Il metodo Stanislavskij è il primo importante sistema dedicato alla recitazione dell'attore. Si tratta della prima volta in cui si pensa all'educazione dell'attore al di là della messa in scena dello spettacolo. Prima di Stanislavskij l'attore imparava a recitare grazie all'osservazione e l'imitazione degli altri attori più esperti. Il suo apprendistato era frutto della reale esperienza sul palcoscenico. Stanislavskij ha voluto dare basi razionali all'apprendimento dell'arte della recitazione.
Stanislavskij iniziò a mettere a punto il suo famoso metodo in un periodo difficile della sua carriera artistica: nel 1904 era morto Cechov, il teatro d’Arte era all’apice del suo successo. Nel 1905 Stanislavskij si concentra sull’attore in quanto coefficiente teatrale di maggior rilievo. Inizia a riflettere su come l’attore possa portare ad alti livelli il meccanismo di creazione. Alla base del suo ‘metodo’ c’è il concetto di ‘creazione organica’. La creazione organica è possibile solo se l’attore può immedesimarsi nel personaggio con facilità. Per Stanislavskij raggiungere questo ‘stato creativo’ è tuttavia un avvenimento raro e la maggior parte degli attori ricorre all’uso di cliché, cioè di atteggiamenti stereotipati che generano una recitazione esteriore, artificiosa. Ciò non porta a creazioni vive, credibili e efficaci ma a situazioni in cui l’attore sembra il personaggio, dove invece dovrebbe esserlo.
Il lavoro teatrale inizia quindi con l’addestramento dell’ io dell’attore. Si tratta di conoscere a fondo se stessi e arricchire le proprie potenzialità, le proprie conoscenze delle forme e della letteratura teatrali e la propria creatività. L’attore deve educare innanzitutto se stesso e la propria coscienza. Nel lavoro su se stesso l’attore deve poter intervenire razionalmente sui meccanismi interiori (emotivi e psicologici) che stanno alla base dell’immedesimazione, attraverso esercizi di rilassamento, concentrazione, comunicazione, ingenuità e immaginazione.
Gli esercizi di rilassamento servono ad eliminare la tensione muscolare e le resistenze del corpo che impediscono il lavoro dell’attore.
Gli esercizi di concentrazione impediscono che fattori esterni, come per esempio la presenza del pubblico, distolgano l’attenzione dell’attore.
La comunicazione serve ad imparare a rivolgersi realmente e con efficacia agli altri attori e non al pubblico.
L’ingenuità e l’immaginazione sono le doti dei bambini che l’uomo adulto ha perso e che sono determinanti per conferire verità e per arricchire la propria creazione.
Per Stanislavskij il concetto di verità è essenziale. L’attore non deve recitare bene o male, ma vero. La sua verità è interiore, vissuta e sofferta. Per questo non si può partire né dalla finzione né dall’imitazione. L’attore non deve sembrare o fingere, ma essere il personaggio, deve cioè viverlo. Non si tratta di ricopiare la vita reale, in una sorta di nuovo naturalismo, ma di realizzare una creazione organica, credibile e più vera della realtà. La situazione dell’attore è difficile: deve essere vero, mentre tutto è falso intorno a lui (scene, costumi, trucco, luci, pubblico). Nonostante tutto deve creare la sua verità e crederci fino in fondo.
Il metodo Stanislavskij fornisce all’attore due strumenti fondamentali per creare questa verità: le circostanze date e il magico sé.
Le circostanze date sono l’insieme dei fatti e delle situazioni che si possono ricostruire a partire dal testo e riguardano l’epoca, l’ambientazione, il passato e il futuro del personaggio. Si tratta cioè di ricostruite nei minimi dettagli la vita del personaggio, anche ciò che non viene detto nel testo.
Una volta ricostruito questo sotto-testo l’attore ricorre al magico sé: L’attore deve mettere se stesso nei panni del personaggio e farsi la domanda “Se io mi trovassi nelle sue condizioni, come mi comporterei?”. Partire da se stessi è anche un’accettazione di certi limiti: nessuno può fare di più di ciò che è, quindi è sbagliato partire da ciò che non si è. Non si tratta di riversare se stessi nel personaggio. È solo l’inizio di un lungo percorso che serve alla creazione di un altro se stesso.
Queste operazioni sono poi costantemente arricchite dall’immaginazione dell’attore che aggiunge particolari e dettagli al sotto-testo che si viene man mano creando.
Il personaggio comincia così a prendere vita. Per imprimere vita al personaggio l’attore deve sempre partire da se stesso, per non recitare dall’esterno la parte e ricorre quindi alla memoria emotiva, che è l’aspetto fondamentale del metodo Stanislavskij.
Per esprimere emozioni che appartengono ad un’altra persona (il personaggio) l’attore deve trovare dei punti di contatto tra la sua vita e quella del personaggio. La vita reale dell’attore viene innestata in quella fantastica del personaggio che assumerà quindi l’apparenza di una vita vissuta. Naturalmente l’esperienza non può essere la stessa, l’importante è che si ponga in un rapporto di analogia tale da provocare simili emozioni. Il personaggio sarà così dotato di esperienze realmente vissute. 
Questo processo è molto lontano dall’immedesimazione che prevede la scomparsa dell’attore in virtù del personaggio. Qui si tratta di un innesto, di una sintesi, di un parto. O meglio ancora di una simbiosi vivente tra vita dell’attore e vita del personaggio. Non scompare né l’uno né l’altro. Entrambi partecipano alla creazione di una terza vita.
Il Novecento aprì anche una nuova fase che portò al centro dell'attenzione una nuova figura teatrale, quella del regista che affiancò e superò in importanza le classiche componenti di autore e attore. Fra i grandi registi di questo periodo vanno citati l'austriaco Max Reinhardt e il francese Jacques Copeau e l'italiano Anton Giulio Bragaglia. Con il teatro contemporaneo, la figura del regista teatrale diventa preminente. Anche in passato le rappresentazioni avevano avuto bisogno di una direzione, ma il ruolo più importante era sempre stato rivestito dal primo attore o dall'autore dell'opera. La moderna regia compie il primo passo nella riforma del teatro europeo, rigettando l'idea 'fotografica' della scena, e affermando la preminenza dell'arte.


Il primo Novecento

Con l'affermarsi delle avanguardie storiche, come il Futurismo, il Dadaismo e il Surrealismo, nacquero nuove forme di teatro come il teatro della crudeltà di Antonin Artaud, la drammaturgia epica di Bertolt Brecht e, nella seconda metà del secolo, il teatro dell'assurdo di Samuel Beckett e Eugene Ionesco. Tali forme teatrali modificarono radicalmente l'approccio alla messa in scena e determinano una nuova via al teatro, una strada che era stata aperta anche da Jean Cocteau, Robert Musil, August Strindberg e Henrik Ibsen; ma coloro che spiccarono tra gli altri, per la loro originalità furono Frank Wedekind con la sua Lulù e Alfred Jarry, l'inventore del personaggio di Ubu Roi.

Per Gabriele D'Annunzio, in Italia, il teatro fu una delle tante forme espressive del suo decadentismo e il linguaggio aulico delle sue tragedie si mosse dietro al gusto liberty imperante. 


Gabriele D'Annunzio

“Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”: a questa massima furono ispirate la vita e l’opera di Gabriele D’Annunzio. La sua vita fu ricca di eventi, innanzitutto i suoi grandi amori, come quello con l' attrice teatrale Eleonora Duse, che crearono un alone di mito attorno alla sua figura; poi la sua partecipazione alla vita politica, e ad alcune spericolate e spettacolari imprese militari. 

Gabriele D'Annunzio (foto)
Gabriele D’Annunzio nasce nel 1863 da una famiglia della buona borghesia abruzzese. Al Collegio Cigognini di Prato, acquisisce una robusta formazione sui classici, che studia con grande impegno. Esordisce nel mondo della poesia con la raccolta di versi “Primo vere”. Dopo questo primo successo, si trasferisce a Roma per frequentare la facoltà di lettere, che presto abbandona per inserirsi nella vita mondana e letteraria della capitale. Ma la vita dispendiosa che conduce a Roma lo porta ad accumulare debiti, cosicché è costretto a trasferirsi a Napoli. Nel 1892 pubblica il romanzo “L’innocente”, storia di un infanticidio e di una complicata psicologia omicida in cui si sente l’influenza di Tolstoj e Dostoevskij.
Nel 1894 a Venezia incontra Eleonora Duse. La travolgente storia d’amore con la grande attrice ha riflessi anche a livello artistico: per il teatro D’annunzio scriverà una serie di testi (“Sogno di un mattino di primavera”, “Sogno di in tramonto d’autunno” e “La Gioconda”) con personaggi femminili tagliati su misura per la Duse. Nel 1898 D’annunzio si trasferisce sulle colline di Firenze, in una villa (“la Capponcina”) dove vive fastosamente tra arredi preziosi mentre la Duse abita in una villetta attigua (“la Porziuncola”). Nel 1904 viene messo in scena a Milano il capolavoro teatrale di D’annunzio “La figlia di Iorio”, tragedia ambientata in un mondo primitivo e selvaggio popolato da pastori “ ’briachi  di sole e di vino”. 

Eleonora Duse (foto)
Lo scoppio della prima guerra mondiale offre al poeta l’opportunità di fare della sua esistenza un’opera straordinaria attraverso il compimento di gesta eroiche che lo consegnino alla storia della patria: partecipa alla beffa di Buccari (10-11 febbraio 1918) ed è protagonista del volo su Vienna (9 agosto 1918). Tra il 1919 e il 1920 prende l’iniziativa di occupare la città di Fiume. Nel 1921 si ritira a Gardone, chiudendosi nello splendido isolamento della villa del “Vittoriale degli italiani”, da dove guarda con simpatia all’avvento del fascismo, e dove si spegne il 1° marzo 1938. 

Il Vittoriale degli italiani con l'anfiteatro (Gardone)
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 Agli esordi la vocazione teatrale di Gabriele D’Annunzio era pressoché insignificante, ma dal 1892 al 1897 quattro esperienze vissute lo affascinarono e ne determinarono l’approdo alla scrittura per il palcoscenico:

-  la conoscenza dei testi di Friederich Nietzsche (in particolare de “La nascita della tragedia”;

-  Il viaggio in Grecia: “A Micene - raccontò - ho riletto Sofocle ed Eschilo, sotto la porta dei Leoni:  la forma del mio dramma è già chiara e ferma”;

-  l’alleanza d’amore e di lavoro con Eleonora Duse. In quegli anni la Duse godeva di una grandissima fama internazionale e molti lavori di D’Annunzio furono scritti esclusivamente per lei.


Convinto che il teatro tragico nato in Grecia fosse una vera e propria festa sacra, egli promosse il progetto per la costruzione di un teatro en plein air ad Albano Laziale, per riprendere il carattere rituale dello spettacolo classico. Nella sua intenzione c’era la creazione di una tragedia moderna, impegnando al massimo livello d’arte tutti gli elementi dello spettacolo: testo, coro, musica e danza, ma anche costumi, scenografia e pittura. Questo portò i critici dell’epoca a considerare D’Annunzio il più moderno degli autori teatrali in Italia. In realtà D’Annunzio respirava il clima europeo (Ibsen, Cechov, Strindberg) che stava spostando l’interesse dall’intersoggettività a una soggettività diffusa, per una nuova attenzione, dovuta anche agli studi compiuti in quegli anni da Freud, alla vita psicologica e inconscia del personaggio.


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Luigi Pirandello



Pirandello è probabilmente l'autore che meglio rappresenta il periodo che va dalla crisi successiva all'unità d'Italia all'avvento del fascismo. Pochi come lui ebbero coscienza dello scacco subito dagli ideali del Risorgimento e dei complessi cambiamenti in atto nella società italiana.
Sul piano letterario il suo punto di partenza fu, come per gran parte degli autori nati nella seconda metà dell'Ottocento, il naturalismo. Fin dal primo momento però l'oggetto privilegiato, o pressoché esclusivo, delle rappresentazioni pirandelliane non fu il mondo popolare bensì la condizione della piccola borghesia. Il personaggio pirandelliano, infatti è lo specchio del crollo dei valori della società borghese, che intraprende una rigorosa e pungente analisi delle comuni credenze e convenzioni sociali, giungendo a minare alla radice la diffusa certezza dell'univocità e conoscibilità dell'individuo umano.
E’ da questa prospettiva che lo scrittore seppe sviluppare una graffiante critica di costume. Poiché però anch'egli apparteneva alla piccola borghesia, finì per accentuarne i dubbi e le sofferenze, che rappresentò come il segno di una condizione eterna di tutti gli esseri umani. D'altro canto fu proprio la direzione esistenziale e metafisica assunta dalla sua ricerca a portarlo molto vicino alle posizioni di alcuni dei più grandi scrittori europei di questo secolo. Pirandello è stato uno dei pochissimi scrittori italiani del Novecento capaci di raggiungere una fama mondiale: ancora oggi i suoi drammi sono tra i più rappresentati in tutto il mondo.

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Nato nel 1867 nella contrada di Kaos, presso Agrigento, Luigi Pirandello fu autore di novelle, di poesie, di romanzi, di saggi, e  soprattutto di opere teatrali.
Nel 1887 si trasferisce da Palermo a Roma, dove frequenta la Facoltà di Lettere dell'Università ma, in seguito ad un diverbio con il rettore è costretto ad allontanarsi e ad iscriversi all'Università di Bonn.
Nel 1892 si stabilisce a Roma dove collaborando a vari giornali e riviste, e insegnando letteratura italiana presso l’Istituto Superiore di Magistero Femminile.
Nel 1894 sposa Antonietta Portulano, dalla quale ha tre figli.  Dopo alcune raccolte di poesie, pubblica le prime novelle e i primi romanzi.
Nel 1903 una frana sommerge la zolfara in cui erano investiti tutti i beni di famiglia; da quel momento Pirandello si dedica con assiduità al lavoro di scrittore, mentre la moglie Antonietta, rimane gravemente sconvolta da una crisi mentale sfociata in una forma morbosa e violenta di gelosia nei confronti del marito, tanto da dover restare in un ospedale psichiatrico fino alla morte (1959). La pazzia della moglie segnerà profondamente la vita dello scrittore.
Nel 1934 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura. Morì a Roma il 10 dicembre 1936.


Le ceneri di Pirandello riposano in una roccia, presso la sua casa natale
nella contrada Kaos, vicina ad Agrigento.

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Pirandello iniziò la sua attività letteraria come poeta. Si era quindi proposto di scrivere 365 novelle, una per ogni giorno dell’anno, ma ne scrisse soltanto 246. Alcune di esse ricche di elementi drammatici, furono poi riprese dall’autore e trasformate in commedie. Le novelle risentono dell’esperienza verista, che viene però rivissuta in modo originale,con una sensibilità e un’ inquietudine di impronta decadente.
Come solitamente avviene in chi vive in un’età di transizione, vecchio e nuovo, verismo e decadentismo coesistono in Pirandello, dando luogo ad un’arte originale, tipicamente “pirandelliana”. Verista è la maniera di Pirandello di ritrarre la realtà umana e sociale;la descrizione minuziosa e impietosa dei personaggi e degli ambienti; il suo rifiuto dei sentimentalismi romantici; ed infine verista è la sua prosa che procede serrata, senza abbandono lirico. Ma Pirandello si discosta dal Verismo. Egli rifiuta del Verismo il principio della impersonalità,della rappresentazione fredda e distaccata dell’opera d’arte. Per Pirandello la rappresentazione della realtà deve essere invece appassionata, ironica, polemica, accompagnata dagli interventi personali dello scrittore, che giudica accusa e condanna. Inoltre,mentre i “vinti” del Verga,pescatori e contadini, sono rassegnati al loro destino,i personaggi di Pirandello sono tipi più complessi, di piccolo-borghesi irrequieti. Sono anch’essi dei “vinti”, vittime di un destino assurdo e crudele, ma spesso da “vinti” diventano ribelli,protestano contro la società ipocrita,non accettano la “pena di vivere così” e per questo cercano di uscire dalla forma che li condanna a questa pena. Così già nelle novelle, troviamo la dialettica di apparenza e realtà, che è il tema centrale delle opere del Pirandello. Come le novelle anche i romanzi di Pirandello risentono dell’ esperienza del romanzo verista. Ma si tratta anche qui di un verismo improntato a una sensibilità nuova, inquiete, decadente. Si accantona la tematica sociale e si apre la strada al romanzo psicologico. L’attenzione del Pirandello si concentra sull’individuo, colto con le sue angosce, le sue crisi, i suoi fallimenti, in perenne conflitto con la società e con se stesso.

 

IL TEATRO

Soltanto intorno al 1910 Pirandello si decise ad affrontare anche le scene. Il teatro rappresenta la parte più valida ed interessante della produzione artistica del Pirandello. Egli vi giunse quando si andò maturando in lui il distacco dal Verismo verso il Decadentismo. Allora si dedicò ad esso quasi totalmente, comprendendo che la sua concezione tragica della vita, calata in situazioni drammatiche, umoristiche e paradossali, poteva trovare nell’azione scenica più che nella narrativa il mezzo espressivo più adatto ed efficace.

La sua esperienza, come commediografo e regista, risulta estremamente innovativa in quanto porta ad una vera rivoluzione del concetto di rappresentazione teatrale. In teatro rompe le forme tradizionali: riduce al minimo la scenografia ed i costumi, per attirare l’attenzione del pubblico principalmente sul testo. Pirandello rompe la barriera tra la vita reale e la finzione dando vita ad un’operazione ardita e disorientante; spesso così gli attori entrano dalla platea, seduti tra gli spettatori ed iniziano a recitare. Pirandello vuole così dare agli spettatori l’idea che siano essi stessi gli attori (teatro nel teatro, meta-teatro) facendo sì che siano proprio questi a chiedersi se a recitare siano loro stessi, magari tutti i giorni, a loro insaputa. E’ attraverso questa metodologia che Pirandello introduce il concetto che vede il teatro come realtà e la quotidianità come finzione.
Pirandello chiamò il suo teatro “teatro dello specchio”, perché in esso si rappresenta la vita nuda, cioè senza maschera,con le sue reali verità e amarezze,così che chi assiste, si vede come in uno specchio così com’è, e diventa migliore. Alla base quindi del suo teatro c’è la forte esigenza morale di strappare gli uomini dalle menzogne,perché il mondo si rinnovi secondo giustizia, verità e libertà. Pirandello compose complessivamente 43 fra drammi e commedie.
Nel teatro di Pirandello possiamo distinguere varie fasi: 



Il Teatro veristico è scritto interamente in dialetto siciliano perché considerato dall'autore più vivo dell'italiano ed esprime di più l'aderenza alla realtà.
Mano a mano che l'autore si distacca dal verismo e si avvicina al decadentismo si ha l'inizio della seconda fase: nel teatro umoristico, ricco di paradossi, Pirandello presenta personaggi che spezzano le certezze del mondo borghese introducendo la versione relativistica della realtà in cui lui vorrebbe trovare la dimensione autentica della vita al di là della maschera.
Nella fase del teatro nel teatro le cose cambiano radicalmente: per Pirandello il teatro deve parlare anche agli occhi non solo alle orecchie; a tal scopo ripristinerà una tecnica teatrale di Shakespeare, il palcoscenico multiplo, in cui vi può per esempio essere una casa divisa in cui si vedono varie scene fatte in varie stanze contemporaneamente; inoltre nel teatro si vede il mondo trasformarsi sul palcoscenico. Pirandello abolisce anche il concetto della quarta parete, cioè la parete trasparente che sta tra attori e pubblico: in questa fase, infatti, Pirandello tende a coinvolgere il pubblico che non è più passivo ma che rispecchia la propria vita in quella agita degli attori sulla scena.
Per il teatro dei miti, solo tre opere della produzione pirandelliana si possono considerare dei miti:  La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna.


IL MONDO POETICO-TEATRALE PIRANDELLIANO

Secondo Pirandello la vita non è nient'altro che teatro. Il teatro è infatti il miglior luogo per rappresentare le maschere sociali. Dando alle sue opere teatrali il titolo complessivo di Maschere nude, Pirandello indica chiaramente l’intendimento di mettere a nudo verità nascoste, il mondo interiore dell'uomo. I temi messi in scena sono infatti:

                  il contrasto tra l'essere e l'apparire;
la crisi d'identità dell’individuo;
la solitudine esistenziale dell'uomo.


Maschere nude


Per Pirandello, la vita è un fluire costante di emozioni; la vita scorre velocemente, in modo inafferrabile e inconoscibile. Gli esseri umani, per avere qualche consistenza, fissano la vita in una forma che rappresenta la fissità, la morale comune e la rigidità. Ne deriva, quindi, il contrasto tra vita e forma. Alla vita si oppone la forma. Per forma si intendono le maschere sociali che ogni individuo indossa per adeguarsi alla società di appartenenza.
Dal rapporto dialettico tra Vita e Forma deriva il relativismo psicologico, che si svolge in due sensi: in senso orizzontale, riguarda il rapporto dell’individuo con gli altri, e in senso verticale riguarda il rapporto dell’individuo con se stesso.
Gli uomini non sono liberi, ma sono come tanti “pupi” nelle mani di un burattinaio che è il caso. Quando nasciamo, ci troviamo inseriti in una società regolata da leggi e abitudini già fissate in precedenza. Inseriti in questa società ci fissiamo in una forma, obbligandoci a muoverci secondo schemi ben definiti che accettiamo senza avere mai il coraggio di rifiutarli. Però sotto l’apparenza della forma il nostro spirito freme per la sua continua mutabilità, perché avverte sentimenti ed impulsi che spesso sono in contrasto con la maschera che noi (o gli altri) ci siamo imposti. 

L’uomo e le sue maschere

Le maschere sociali rappresentano un vero e proprio ostacolo alla libertà personale dell'uomo, un limite alla vita. L'uomo per adattarsi alle convenzioni della società è costretto ad indossare le maschere. Se l'uomo intende liberarsene deve ricorrere alla follia. La follia, quindi, rappresenta l'unica salvezza per gli uomini che vogliono essere liberi. Le maschere sono, quindi, delle trappole. Ogni individuo è vittima di queste trappole. Anche la famiglia rappresenta una maschera per ogni essere umano. Secondo Luigi Pirandello la famiglia è la principale maschera, e quindi trappola di ogni individuo.

Questo contrasto tra la maschera e il volto,ossia tra l’apparenza esteriore e la realtà interiore dell’essere, costituisce il motivo di fondo del romanzo più famoso di Pirandello, Il fu Mattia Pascal.
Mattia Pascal vive in un immaginario paese ligure, Miragno, dove il padre, che si era arricchito con i traffici marittimi e il gioco d'azzardo, ha lasciato in eredità alla moglie e ai due figli una discreta fortuna. A gestire l'intero patrimonio è un avido e disonesto amministratore, Batta Malagna, la cui nipote, Romilda, viene messa incinta da Mattia dopo che non è riuscito a farla sposare all'amico Pomino. Mattia viene costretto a sposare Romilda e a convivere con la suocera vedova che non manca di manifestare il suo disprezzo per il genero che considera inetto. Tramite l'amico Pomino, Mattia ottiene un lavoro come bibliotecario ma dopo un po' di tempo, infelice per il lavoro che trova umiliante e per il matrimonio che si è rivelato sbagliato, decide di fuggire da Miragno e di tentare l'avventura in Francia. Arrivato a Montecarlo e fermatosi a giocare alla roulette, in seguito ad una serie di vincite fortunate, diventa ricco. Deciso a ritornare a casa per riscattare la sua proprietà e vendicarsi dei soprusi della suocera, un altro fatto muta il suo destino. Mentre è in treno legge per caso su un giornale che a Miragno è stato ritrovato nella roggia di un mulino il cadavere di Mattia Pascal. Sebbene sconvolto, comprende presto che, credendolo tutti ormai morto, può crearsi un'altra vita. Così, con il nome di Adriano Meis, inizia a viaggiare prima in Italia e poi all'estero, fintantoché decide di stabilirsi a Roma in una camera ammobiliata sul Tevere. Si innamora, ricambiato, di Adriana, la dolce e mite figlia del padrone di casa, Anselmo Paleari, e sogna di sposarla e di vivere un'altra vita, ma presto si rende conto che la sua esistenza è fittizia. Infatti, non essendo registrato all'anagrafe, è come se non esistesse e pertanto non può sposare Adriana, non può denunciare il furto subito da Terenzio Papiano, un losco individuo che lo ha raggirato, e non può fare tutte quelle cose della vita quotidiana che necessitano di una identità. Finge così un suicidio e, lasciato il suo bastone e il suo cappello vicino a un ponte del Tevere, ritorna a Miragno come Mattia Pascal. Sono intanto trascorsi due anni e arrivato al paese, Mattia viene a sapere che la moglie si è risposata con Pomino e ha avuto una bambina. Si ritira così dalla vita e trascorre le sue giornate nella biblioteca polverosa dove lavorava in precedenza a scrivere la sua storia e ogni tanto si reca al cimitero per portare sulla sua tomba una corona di fiori.

Per Pirandello il disagio dell’uomo non deriva soltanto dall’urto con la società, ma anche dal continuo trasmutarsi del suo spirito che non gli permette di conoscere bene se stesso. Dal fondo del subconscio, che è la zona oscura e misteriosa del suo essere, affiorano sempre nuovi sentimenti ed impulsi, che lo rendono diverso non solo dagli altri, ma anche dal se stesso di prima e da quello che sarà poi. Proprio per il suo continuo divenire, l’uomo è nello stesso tempo uno, nessuno e centomila: è “uno”, perché è quello che di volta in volta lui credere di essere; è “nessuno”, perché, dato il suo continuo mutare, è incapace di fissarsi in una personalità definita, né si riconosce nella forma che gli altri gli attribuiscono; è infine “centomila”, perché ciascuno di quelli che lo avvicinano, lo vede “a suo modo”, ed egli assume tante forme o apparenze.

La disgregazione della persona umana costituisce il tema di fondo del romanzo-saggio Uno, nessuno e centomila.
Un giorno a Vitangelo Mostarda, il protagonista del romanzo, la moglie Dida, che chiama il marito Gengè, fa osservare che il naso di lui pende verso destra e che, come uomo ha molti difetti. Da questa rivelazione casuale incomincia la meditazione sulla vita che porta Vitangelo alla follia. Ciò che lo colpisce non è la rivelazione dei difetti, ma il fatto che egli per 28 anni non è stato, per la moglie e per gli altri, quello che lui credeva di essere, e che ciascuno lo ha visto a suo modo. Ed allora egli distrugge le forme o immagini che gli altri si son fatti di lui, e prende una serie di iniziative che gettano lo scompiglio nel suo ambiente, fino ad alienare le sue ricchezze per la costruzione di un ospizio per mendicanti, dove finisce anch’egli come ospite. Egli rifiuta le centomila forme che gli altri gli attribuiscono, preferisce annullarsi come persona e vivere senza alcuna coscienza di essere. 

Tra Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila, vi è una differenza: nel primo romanzo il relativismo psicologico si svolge prevalentemente in senso orizzontale, perché è centrato sul rapporto di Mattia, sdoppiato, con la società; in Uno, nessuno e centomila il relativismo psicologico si svolge prevalentemente in senso verticale, è centrato sul ripiegamento in se stesso di Vitangelo Mostarda che vede frantumarsi in centomila aspetti la propria personalità, fino alla follia e all’autodistruzione. In comune i due romanzi hanno il senso della solitudine dell’uomo in un mondo mutevole, incomprensibile ed assurdo. 

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Pirandello definì "teatro dello specchio " tutta la sua opera, perché in essa si rappresenta la vita senza maschera, quale essa è nella sua sostanza e nella sua verità , lo spettatore, l'attore e il lettore vi si vedono come chi si guardi ad uno specchio; allora si riconoscono diversi da come si erano sempre immaginati e ne restano amareggiati e preoccupati.
Pirandello aprirà la strada ad un nuovo tipo di teatro sperimentale, caratteristico del secondo Novecento, il teatro “dell’assurdo”. Dopo aver ottenuto un buon successo con Pensaci, Giacomino! e Liolà (entrambi del 1916), egli precisò le fonti della propria ispirazione con Così è (se vi pare) (1917) e Il giuoco delle parti (1918). Ma l'anno decisivo per la notorietà  fu il 1921, quando, per la sua audacia sperimentale, il dramma Sei personaggi in cerca d'autore ottenne a Milano un clamoroso successo, che proseguì subito dopo in America. A questo seguì il successo della tragedia Enrico IV (1922), che consacrò definitivamente Pirandello fra i massimi drammaturghi mondiali.  Fra le numerosissime opere teatrali dello scrittore, sono da ricordare anche Ciascuno a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1930).
Il suo capolavoro, per giudizio concorde della critica, è la commedia Sei personaggi in cerca d'autore (1921), che è anche la maggiore opera del teatro italiano del Novecento. In essa Pirandello, riprendendo l'antico artificio del "teatro nel teatro", dà la più complessa e riuscita rappresentazione della condizione umana e del suo modo di intendere il rapporto tra l'arte e la vita. 

“Sei personaggi in cerca d’autore”
(allestimento Teatro Carcano, Milano, 2013 – Regia di Giulio Bosetti)


In Sei personaggi In cerca d’autore, durante una prova in teatro, arrivano sulla scena sei “personaggi”, reali, ma non persone autentiche, dato che sono personaggi nati dalla fantasia di un autore che non ha saputo, o voluto, dar loro vita compiuta nella finzione scenica, e che cercano un autore che voglia dar loro vita sul palcoscenico, almeno per la durata del loro dramma, in quanto il personaggio vive solo se esiste la storia da rappresentare. Perché la vita non ha bisogno di essere rappresentata, si rappresenta da sé, mentre la verosimiglianza cerca in tutti i modi di imitare la vita.
I sei personaggi che chiedono al capocomico di essere tratti dal limbo della loro condizione, di poter vedere rappresentato il loro dramma e che poi non si riconoscono negli attori che tentano di riviverlo, sono un po' la cifra di tutta l'arte pirandelliana in perenne contesa con l'infida, inafferrabile realtà che sembra di continuo assoggettarla, ma ne resta in effetti profondamente lacerata. I sei personaggi incarnano ognuno una visione diversa dello stesso dramma che ogni personaggio vive con una "sua" verità inconciliabile con quella degli altri. Questo è il dramma pirandelliano della solitudine e dell'incomunicabilità che viene spiegato dal Padre quando, rivolgendosi al capocomico, gli dice: «ciascuno di noi - veda - si crede "uno" ma non è vero: è "tanti" signore, "tanti" secondo tutte le possibilità d'essere che sono in noi; "uno" con questo, "uno" con quello - diversissimi! E con l'illusione d'esser sempre "uno per tutti" e sempre "quest'uno" che ci crediamo in ogni nostro atto! Non è vero!».
La fama di Pirandello drammaturgo venne a noi dagli stranieri. Per lungo tempo non si comprese la carica innovatrice contenuta nel teatro pirandelliano, mentre fu quasi esclusivamente attraverso la sua opera di drammaturgo che l'arte di Pirandello, e con essa tutta la nostra letteratura, si inseriva finalmente nella grande letteratura europea e mondiale contemporanea.
L'arte di Pirandello fu esposta a gravi rischi, ai quali egli non sempre riuscì a sottrarsi: il "cerebralismo", l'artificiosa accentuazione di situazioni paradossali, il compiacimento di complicati sofismi addotti per smontare e distruggere valori e miti convenzionali. Ma nelle sue opere più grandi egli sollevò alla luce della sua poesia la sua disperata ricerca di verità e la sua amara cognizione della solitudine e dell'alienazione dell'uomo contemporaneo.
  
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LA POETICA DELL’UMORISMO  (Il “sentimento del contrario”)
L’umorismo è il sentimento del contrario, che nasce, nello scrittore umorista, dall’azione combinata di due forze diverse, ma complementari, per cui egli è nello stesso tempo poeta e critico della situazione. Le due forze sono il sentimento, che crea le situazione della vita, e la ragione, che interviene e le analizza scomponendole nei loro elementi costitutivi e rilevandone i meccanismi che le determinano. Nell’arte umoristica, quando la ragione interviene per analizzare una situazione o resta in superficie, si ha l’“avvertimento del contrario”, quando invece la ragione penetra in profondità si ha il “sentimento del contrario”. Pirandello porta l’esempio di una vecchia signora che si unge i capelli, si trucca goffamente e si agghinda come una giovinetta. La prima reazione nel vederla è quella di ridere, avvertendo il lato comico della situazione, perché la vecchia è il contrario di ciò che dovrebbe essere, una donna seria, alla sua età. Questo è il momento comico dell’ “avvertimento del contrario”. Ma poi interviene la ragione, che con la sua riflessione vuol rendersi conto del perché di così goffo comportamento, e scopre che quel modo di truccarsi è una forma di autoinganno: la vecchia signora ha paura della vecchiaia e crede di allontanarla o di nasconderla, addobbandosi in quel modo. Questo è il momento del “sentimento del contrario”, perché alla comicità subentra la pietà per il dramma penoso della povera donna.


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Una figura fuori dalle righe fu quella di Achille Campanile il cui teatro anticipò di molti decenni la nascita del teatro dell'assurdo.

La Germania della Repubblica di Weimar fu un terreno di sperimentazione molto proficuo, oltre al già citato Brecht molti artisti furono conquistati dall'ideale comunista e seguirono l'influenza del teatro bolscevico, quello di Vladimir Majakovskij

Nella Spagna del primo dopoguerra spiccano le figure di Federico García Lorca (1898-1936) che nel 1933 fece rappresentare la tragedia Bodas de sangre, Nozze di sangue (ma le sue ambizioni furono presto represse nel sangue dalla milizia franchista che lo fucilò vicino Granada), e di Rafael Alberti, con i suoi drammi esistenzialisti, tra cui El hombre desabithado, L’uomo disabitato, rappresentato nel 1931.