L'Oasi culturale della Bottega

 

 Il  VIII  'Salottino' 
del 19 e del 26 febbraio 2019




“Il giorno seguente non morì nessuno.”

Cosa succederebbe se di colpo le leggi naturali cambiassero e proprio lì sull’orlo dell’aldilà nessuno facesse più il passo decisivo? Sarebbe un sogno, la terra promessa, una manna. Vita eterna ai felici mortali, liberi finalmente da quella scomoda punizione per il peccato originale.

Le Intermittenze della Morte di José Saramago è un assurdo viaggio sul filo tra luce e ombra. Un macabro teatrino che mette in scena l’eventualità di una vacanza della morte: contrariamente a quanto si pensi però, il cambiamento non porterebbe nulla di buono. L’uomo non è pronto per un simile cambiamento e riuscirebbe anche nella nuova situazione di immortalità a dare prova di bassezze tipiche di lui, perchè in fondo “resta pur sempre un uomo”. 

Insomma, se da un giorno determinato in poi in un intero paese non morisse proprio nessuno forse sarebbe istituita festa nazionale, ma ci sarebbe poco da festeggiare quando i moribondi sul filo della vita inizierebbero ad accatastarsi negli ospedali e nelle case, cocciuti comatosi che non vogliono saperne di darci un taglio, inutili fantocci sul bordo del baratro.

La società risentirebbe di un simile cambio di programma, non sapendo gestire la novità e mancando di qualunque tipo di self control britannico: cosa farebbero le agenzie di pompe funebri, le assicurazioni, le pensioni, cosa i politici e i politicanti, cosa la chiesa cattolica? Entrerebbero in gioco dinamiche contraddittorie, valori disumani, persino e non sorprendentemente un’organizzazione maphiosa (con la ph).

Quand’ancora la morte decidesse di porre fine alle sue ferie non pagate e tornasse a manifestarsi creando un’ecatombe nel giro di un secondo, cosa succederebbe – propone ancora Saramago – se si scoprisse amante del progresso e desse una svolta al vecchio sistema? Niente più stacchi improvvisi di corrente, bensì lettere viola recapitate per posta con otto giorni di anticipo al disgraziato interessato: “Il suo tempo scade tra poco più di una settimana, si prepari alla departita”. Che follia, che disperazione sarebbe per i poveri uomini, conoscere in anticipo la data della loro fine! Come prodotti da frigo, come mucche da macello. Cercherebbero di sfuggirle o si offrirebbero in stoici autodafè. Ma la morte non risparmierebbe nessuno.

Forte di un gioco dell’assurdo, Saramago conduce una ginnastica mentale intorno a ciò che significa la morte nella nostra società, cercando di dare un volto, una voce, un pensiero persino alla morte stessa. E’ un ritratto insolito ed ambivalente di una temibile ed imperiosa funzionaria che si fà da mietitrice a postina, fino allo scontro con la fatidica eccezione: un uomo, un qualunque violoncellista, che si ostina a non morire. Le lettere viola inviategli fanno irrimediabilmente ritorno al mittente. E’ necessario che la morte “in persona”, “in carne ed ossa” – qualunque espressione sarebbe un eufemismo – gli faccia visita per svolgere l’ingrato compito. Ma ad andargli incontro sarà una morte femmina, donna, pure carina.

Speculazioni sulla morte sottili e delicate, paradossali nel loro cinismo ed inquietanti nella loro linearità. Pagina dopo pagina, nello stile concitato che gli è proprio, l’autore infila come perle frasi divise a malapena da punti, spesso senza punteggiatura e volutamente senza la maiuscola. “Realmente non c’è nulla di più nudo di uno scheletro” scrive Saramago, eppure la sua morte sembra di poterla toccare, una parca divenuta protagonista di una storia non solo umana, il che è la normalità, ma di donna. 
Nella densa vicenda di questa morte che viene e che va si scorge talvolta anche la parola “vita”: risalta bianca sul nero, lascia riecheggiare la sua presenza cristallina, ogni sua comparsa è una bolla di stupore. Una presenza, quella della vita, che diventa sempre meno rada mano a mano che ci si avvicina alla fine  del romanzo.

Perchè in un mondo in cui ogni giorno catastrofi naturali, storiche e politiche portano via con sè una percentuale della massa umana del nostro pianeta, forse l’autore ha sentito il bisogno di darsi una spiegazione della parola “fine”, dell’altra faccia della medaglia. Ed ha saputo provare che, nonostante tutto, la cosa migliore è che ci sia la morte: che ci si vuol fare, così è la vita.

(da Chiara Piotto)
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Il paradosso è il protagonista del romanzo Le intermittenze della morte del Premio Nobel per la letteratura, José Saramago.

Il paradosso è rappresentato dalle conseguenze che derivano, in un ipotetico Paese di dieci milioni di abitanti, dove la morte ha deciso di sospendere la propria consueta attività. Il popolo è in festa e sui balconi delle case vengono affisse le bandiere nazionali in segno di giubilo. Non altrettanto liete sono le autorità civili e religiose, a giudicare dalla telefonata che intercorre tra il primo ministro e un eminente cardinale:

“Buonasera, signor primo ministro, Buonasera, eminenza, Le telefono per dirle che mi sento profondamente scioccato, Anch’io eminenza, la situazione è molto grave, la più grave di quante il paese ha dovuto vivere fino a oggi, Non si tratta di questo, Di che si tratta allora, eminenza, È deplorevole sotto tutti gli aspetti che, nel redigere la dichiarazione che ho appena ascoltato, lei, signor primo ministro, non si sia ricordato di quello che costituisce il fondamento, la trave maestra, la pietra angolare, la chiave di volta della nostra santa religione, Eminenza, mi perdoni, temo di non comprendere dove vuole arrivare, Senza morte, mi ascolti bene, signor primo ministro, senza morte non c’è resurrezione, e senza resurrezione non c’è chiesa”

Quali le prospettive per il Paese? Si lamentano le imprese degli affari funerari, le agenzie di pompe funebri, gli ospedali dove continuano ad entrare gli infermi senza che ne escano i morti, le case di riposo per la terza e quarta età, per il venir meno della “sicurezza derivante dalla continua e inarrestabile rotazione di vite e morti”. E le compagnie di assicurazioni? Chi vuole più stipulare una polizza sulla vita, dal momento che non si muore più? Per non parlare dello Stato che, nel breve tempo, non sarà più in condizione di far fronte al pagamento delle pensioni né alle crescenti spese sanitarie, giacché la sospensione della morte non significa che gli infermi guariscano. Inoltre, l’aumentato numero di malati terminali, ridotti ormai in condizione di decrepitezza, pone il problema della continua assistenza pubblica e privata.

Le famiglie, che avevano salutato con entusiasmo l’avvento della nuova era, esente da morte, sono ora costrette a riflettere su un problema dal duplice aspetto: come assistere i propri infermi, vecchi decrepiti o malati terminali, e come porre fine alle loro, talora indicibili sofferenze, soprattutto quando sono essi stessi a chiedere di voler morire. E la soluzione, tra tentennamenti e rimorsi, viene subito individuata: altrove la morte continua a fare il proprio lavoro, basterà trasportare i moribondi, nottetempo e clandestinamente, fuori dei confini nazionali, la falce li colpirà all’istante e in quei luoghi avranno sepoltura.

Sorgono nuovi problemi: l’idea del “trasporto” si propaga velocemente tra le famiglie, il governo è costretto a nominare sorveglianti ai confini del territorio nazionale, per impedire ufficialmente i viaggi per andare a morire, anche se in cuor suo vede nell’iniziativa un rimedio contro i propri mali. La “soluzione” diffusasi spontaneamente tra le famiglie, diventa un affare per le organizzazioni mafiose che ora monopolizzano il lucroso traffico. I sorveglianti vengono spesso malmenati e lo Stato sarà costretto a patteggiare: continuerà a mandare i sorveglianti, ma questi chiuderanno un occhio e talora tutti e due, ma a questo punto si scatenerà l’opposizione politica contro il governo.

Dopo poco più di sette mesi di irreperibilità, la morte torna a farsi viva con una lettera inviata al direttore generale della televisione nazionale, perché egli ne dia notizia in prima serata al pubblico dei telespettatori, subito dopo un comunicato del governo:

“Nel preciso istante in cui l’annunciatore finì di leggere il comunicato del governo, la telecamera numero due inquadrò il direttore generale. Si notava che era nervoso, che aveva un groppo in gola. Tossicchiò per schiarirsi la voce e cominciò a leggere,signor direttore generale della televisione nazionale,stimatosignore, per gli effetti che gli interessati riterranno convenienti sono qui per informare che a partire dalla mezzanotte di oggi si tornerà a morire come succedeva,senza proteste notorie,sin dal principio dei tempi e fino al giorno trentuno dicembre dello scorso anno, devo spiegare che l’intenzione che mi ha portato a interrompere la mia attività, a smettere di ammazzare, a rinfoderare l’emblematica falce che fantasiosi pittori e incisori d’altri tempi mi hanno messo in mano, è stata di offrire a quegli esseri umani che tanto mi detestano una piccola dimostrazione di cosa sarebbe per loro vivere sempre, cioè eternamente […] dunque rassegnatevi e morite senza discutere perché non vi servirebbe a niente,tuttavia, c’è un punto su cui mi sento in obbligo di riconoscere il mio errore,il quale punto ha a che vedere con l’ingiusto e crudele procedimento che stavo seguendo, vale a dire togliere la vita alle persone a tradimento, senza preavviso, senza un allerta […],insomma, d’ora in poi tutti quanti saranno avvertiti e avranno la scadenza di una settimana per mettere in ordine quanto ancora gli resta di vita, fare testamento e dire addio alla famiglia, chiedendo perdono per il male fatto o facendo la pace con il cugino con cui avevano rotto i rapporti da vent’anni[…]”

Il comunicato della morte, ancorché inusitato, lascia tutti sgomenti. Non soltanto coloro che continuavano a gioire per la sua assenza e il suo silenzio, ma tutti gli altri, per il problema di dover fronteggiare “ben più di un’ecatombe” nel giro di tre ore, quando i moribondi, a decine e decine di migliaia, moriranno tutti nello stesso istante. Più grave ancora, la nuova consapevolezza circa le lettere viola che d’ora in avanti la morte farà recapitare a coloro cui resta solo una settimana di vita.

Facile immaginare in quale stato sarebbe precipitato l’uomo che, godendo di buona salute, si fosse visto recapitare una di queste lettere viola: 

“Caro signore, sono spiacente di comunicarle che la sua vita terminerà alla scadenza improrogabile di una settimana, faccia del suo meglio per godersi il tempo che le resta, la sua attenta servitrice, morte.”

Cosa avrebbe potuto fare quest’uomo? Piangere con i familiari per il tempo che gli resta o trastullarsi per sette giorni in bagordi? O magari scrivere alla morte chiedendo spiegazioni, 

“sapendo comunque che non riceverà risposta, perché la morte non risponde mai […]”

Il Servizio ufficiale di identificazione del Paese viene messo in allarme: un famoso specialista nella ricostruzione di volti sulla base dei teschi e delle tante raffigurazioni antiche della morte, giunge alla conclusione che la morte è una donna. Alle stesse conclusioni era già pervenuto il grafologo, studiando il comunicato che la morte aveva inviato al direttore generale della televisione nazionale.

La scoperta avrà delle conseguenze, quando la morte si vedrà recapitare indietro la lettera viola inviata ad un musicista, la cui essenza o il cui ritratto, se lo si fosse potuto rappresentare in musica, sarebbe stato il breve studio di Chopin, Opera 25, numero 9 in sol bemolle maggiore. E qui inizia la parte più bella e intrigante di questo avvincente romanzo di Saramago.

Può l’amore vincere il fato e la morte?
Si presenta qui la sagace conoscenza che José Saramago ha del mito, della musica e della psicanalisi. Per Freud, amore e morte, le pulsioni fondamentali dell’essere umano, sono sempre connesse tra loro. Thanatos, morte, è contenuta in Eros, ed Eros è anche una faccia di Thanatos, perché solo l’amore è in grado di guidare l’anima nel regno della psiche, al di sotto e al di là della semplice vita, nei territori impervi delle ombre, il solo universo dove il “per sempre” e l’eterno sono di casa.


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José Saramago (Azinhaga, 16 novembre 1922 - Lanzarote 2010), scrittore, poeta e critico letterario.



Nel 1947 scrive il suo primo romanzo "Terra del peccato". Durante gli anni sessanta  riscuote molto successo la sua attività di critico letterario per la rivista "Seara Nova". La sua prima raccolta di poesie "I poemi possibili" risale a al 1966.

Dal 1974 in poi, in seguito alla cosiddetta "Rivoluzione dei garofani" Saramago si dedica completamente alla scrittura e getta le fondamenta di quello che può essere definito un nuovo stile letterario ed una nuova generazione post-rivoluzionaria.

Saramago pubblica qualche anno dopo, nel 1977, il romanzo "Manuale di pittura e calligrafia", e, nel 1980, "Una terra chiamata Alentejo". Il successo arriverà però con "Memoriale del convento" (1982). 

Il riconoscimento a livello internazionale arriverà però solo negli anni novanta, con "Storia dell'assedio di Lisbona" (1989), una delle più belle storie d'amore mai scritte, il controverso "Il Vangelo secondo Gesù" (1991) e "Cecità" (1995), che molti considerano il suo capolavoro e “Le intermittenze della morte” (2005).

Nel 1998 gli viene assegnato il premio Nobel per la letteratura, riconoscimento che suscita molte polemiche nel mondo cattolico per le sue ben note posizioni antireligiose. Polemiche che lo fanno decidere di trasferirsi a Lanzarote, nelle isole Canarie, dove muore nel giugno 2010.
 



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Il  VII  'Salottino' 
del 5 e del 12 febbraio2019





Luigi Pirandello è uno degli scrittori più importanti della letteratura italiana ed europea. La ragione di tanta considerazione è dovuta al modo in cui egli ha saputo rinnovare le forme e i generi della letteratura. Dopo Pirandello il teatro, il romanzo e la novella non saranno più quelli di prima: egli segna un punto dal quale non è possibile tornare indietro. Pirandello scrive e mette in scena cose che mai prima erano state scritte e messe in scena e per questo il suo successo fu strepitoso, sia durante la sua vita che dopo la sua morte e, ancora oggi, è uno degli autori più letti e amati dal pubblico. 


Esistono alcuni momenti nella storia della letteratura che segnano una rivoluzione, un cambiamento epocale. Uno di questi è la nascita del teatro pirandelliano, in cui troviamo una carica sperimentale e innovativa che apre la strada a molto di quello che è venuto dopo in campo teatrale e letterario, ma anche nel nostro modo di vedere il mondo.   



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Luigi Pirandello nasce il 28 giugno 1867 in Sicilia, vicino Girgenti (oggi Agrigento ,) precisamente in una località chiamata Caos. Su questo lo scrittore amò sempre scherzare, definendosi  figlio del caos”. 





La casa natale di Luigi Pirandello



Quando (nel 1853) si decise che la borgata divenisse comune autonomo, «la linea di confine fra i comuni di Girgenti e Porto Empedocle venne fissata all'altezza della foce di un fiume essiccato che tagliava in due la contrada chiamata "u Càvuso" o "u Càusu" (pantalone) [...] Questo Càvuso apparteneva metà al nuovo comune di Porto Empedocle e l'altra metà al Comune di Girgenti [...] A qualche impiegato dell'ufficio anagrafe parve che non era cosa [che si scrivesse che qualcuno fosse nato in un paio di pantaloni] e cangiò quel volgare "Càusu" in "Caos"».


L'infanzia di Pirandello fu serena ma caratterizzata anche dalla difficoltà di comunicare con gli adulti e in particolare con il padre.  Il giovane Luigi era molto devoto alla Chiesa cattolica grazie all'influenza che ebbe su lui una domestica di famiglia, che lo avvicinò alle pratiche religiose, ma inculcandogli anche credenze superstiziose fino a convincerlo della paurosa presenza degli spiriti. Si allontanò dalle pratiche religiose per un avvenimento apparentemente di poco conto: un prete aveva truccato un'estrazione a sorte per far vincere un'immagine sacra al giovane Luigi; questi rimase così deluso dal comportamento inaspettatamente scorretto del sacerdote che non volle più avere a che fare con la Chiesa, praticando una religiosità del tutto diversa da quella ortodossa.


Appassionatosi alla letteratura, iniziò i suoi studi universitari a Palermo; a Roma continuò i suoi studi di filologia romanza, che poi completerà  a Bonn, dove si laureò nel 1891 con una tesi sul dialetto di Girgenti.



A Girgenti, Pirandello sposò Maria Antonietta Portulano, figlia di un ricco socio del padre. Questo matrimonio concordato soddisfaceva anche gli interessi economici della famiglia di Pirandello. Grazie alla dote della moglie, la coppia godeva di una situazione molto agiata, che permise ai due di trasferirsi a Roma. A Roma, entra negli ambienti letterari, collabora con alcune riviste e pubblica le prime novelle e i primi romanzi


Nel 1903, un allagamento e una frana nella miniera di zolfo di Aragona di proprietà del padre, ridusse sul lastrico la famiglia di Pirandello. Questo avvenimento provocò il disagio mentale della moglie Antonietta. Ella era sempre più spesso soggetta a crisi isteriche, causate anche da una gelosia paranoica. La chiamata alle armi di Stefano nella Grande Guerra peggiorò ulteriormente il suo stato di salute. Antonietta Portulano morirà in una clinica per malattie mentali di Roma, a 88 anni di età. La malattia della moglie portò lo scrittore ad avvicinarsi alle nuove teorie sulla psicoanalisi di Freud e allo studio dei meccanismi dei processi mentali.


Il suo primo successo letterario fu determinato dal romanzo “Il fu Mattia Pascal (1904), subito tradotto in diverse lingue.  Gli altri romanzi di Pirandello (“Uno nessuno e centomila”, “L’Esclusa”) ottengono grande diffusione, ma sarà il suo teatro a proporlo all’attenzione  internazionale. 


Dopo la calorosa accoglienza della sua commedia “Sei personaggi in cerca d’autore” (Milano, 1921), Pirandello fondò la Compagnia del Teatro d'Arte di Roma.  Nel giro di un decennio divenne il drammaturgo di maggior fama nel mondo, tanto da ricevere il premio Nobel per la letteratura nel 1934, "per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell'arte drammatica e teatrale". 


Molte delle opere pirandelliane cominciavano intanto ad essere utilizzate come soggetti cinematografici. E proprio mentre assisteva a Cinecittà alla lavorazione di un film tratto dal suo romanzo Il fu Mattia Pascal, si ammalò di polmonite.  Morì a 69 anni, il 10 dicembre 1936.






Porto Empedocle - Il cippo di pietra con le ceneri di Luigi Pirandello



Il  Teatro  pirandelliano


Il teatro rappresenta la parte più interessante della produzione artistica di Pirandello. L’autore diceva: “Se l’uomo è una maschera e se la vita è la recita di una parte, cosa c’è di meglio del teatro per rappresentare la vita stessa?”. Pirandello cominciò a dedicarsi alla produzione teatrale su suggerimento dell’amico scrittore siciliano Nino Martoglio. Scrisse 53 commedie, incluse in un’unica raccolta: “Maschere Nude”. 


Conformemente alla sua poetica, che affida all’arte il compito di denudare la maschera, Pirandello chiamò il suo teatro “Teatro dello specchio”, poiché in esso viene rappresentata la vita nuda, con le amarezze e le sofferenze che risiedono dietro il velo di ipocrisia che trasforma i volti in maschere. In questo modo era come se lo spettatore vedesse se stesso (il volto) tramite uno specchio (la maschera). L’artista è dunque l’umorista che ha il compito di svelare le illusioni e togliere le maschere per ridurre l’esistenza alla sua nudità. Per fare ciò, Pirandello si serve del grottesco, cioè l’umorismo espresso nel teatro.





La maschera e il volto



Pirandello ruppe la cosiddetta “quarta parete”: superò il diaframma del palcoscenico e fece partire l’azione dalla platea, mescolando così attori e pubblico. L’attore non doveva più impersonare la parte mistificandola, ma doveva mostrarla conservando un certo distacco dal personaggio. Egli creò così il teatro nel teatro, facendo vedere come la vicenda si costruisce nella scena così come si delinea nella mente del regista. Il teatro pirandelliano viene anche definito metateatro, cioè un tipo di teatro che si serve di se stesso per discutere dei propri problemi esistenziali.


I testi teatrali di Pirandello sono delle storie paradossali, che riflettono una vita claustrofobica spesso risolta in gesti folli e anticonvenzionali, che ribaltano la realtà e deridono l’eccessiva serietà del mondo. Se il mondo è una gabbia, il teatro deve mostrare il momento di ribellione e di disordine che, anche all’interno di una prigione, può cambiare il senso delle cose. Con il suo teatro Pirandello distrugge dunque le convenzioni, elimina la barriera tra realtà e finzione, tra autore e personaggio, tra pubblico e attore.  





Tre 'concetti-chiave'



Il conflitto tra vita e forma


Per Pirandello la realtà è un continuo conflitto tra vita e forma. La vita è un flusso continuo, a cui si oppone la forma, una ‘maschera’ fissa che blocca la vita e la rende artificiale e porta inevitabilmente con sé il contrario della vita, ossia la morte. L’uomo all’interno della società vive una continua lotta contro la forma, le costrizioni e le maschere che la società gli impone, che lo rendono estraneo a sé stesso e agli altri. 



L’Umorismo


Nel saggio L’umorismo (1908) Pirandello sostiene che l’atteggiamento più idoneo di fronte alla negatività del mondo è quello ‘umoristico’e spiega in cosa l’umorismo si distingue dal comico. 

Il comico è un “avvertimento del contrario”: vedo che qualcosa è contrario a come dovrebbe essere e rido. L’umorismo è il invece “sentimento del contrario”: vedo qualcosa che è contrario a come dovrebbe essere e rifletto sulle ragioni profonde di quella diversità, su quello che c’è dietro la maschera. Nel primo caso si ha una risata, nel secondo un sorriso amaro consapevole della tragicità del mondo.   



Letteratura e metaletteratura


La letteratura, per Pirandello, ha allo stesso tempo una funzione consolatoria, proponendosi come gioco umoristico, pur rappresentando la lotta continua tra vita e forma. Tale scontro si rivela uno scontro tra realtà e finzione, dal momento che la letteratura è di per sé una finzione, qualcosa che non esiste. Nella metaletteratura teatrale si svela finalmente il gioco di questa finzione. 



Le maschere nude *

Maschere nude è il titolo della raccolta delle opere teatrali di Pirandello. L’accostamento dei due termini rimanda ad un paradosso: sentirsi nudi pur indossando una maschera.

La “maschera” assolve alla funzione di celare allo sguardo estraneo – ma anche a noi stessi – la nostra natura più intima e profonda. Ciascuno di noi è più o meno consapevole di indossare non una, ma diverse maschere sociali, a seconda delle circostanze in cui ci imbattiamo. Per Pirandello noi possiamo essere  uno, nessuno e centomila’

I personaggi pirandelliani sono maschere lacerate, frantumate da eventi che costringono a fare i conti con se stessi, col dolore e col bisogno di esistere al di là della maschera. Esistere, non sopravvivere. 

La Persona è una maschera che rappresenta la personalità pubblica, quegli aspetti che si palesano al mondo o che l’opinione pubblica attribuisce all’individuo, in opposizione alla personalità privata che esiste dietro alla maschera. L’individuo “impersona” un ruolo che gli viene richiesto dalla società: questo processo gli è funzionale per adattarsi alla realtà e per semplificare le relazioni sociali. 
 


La ‘persona’ come ‘maschera’

Nell’intera opera pirandelliana troviamo da una parte la dimostrazione della futilità della maschera sociale, alla quale rimaniamo ostinatamente ancorati, e dall’altra la paura che sotto la maschera non possiamo più riconoscere il volto, ossia che non è rimasto nulla di vero ed autentico in noi. 

Sotto la maschera Pirandello svela mondi multilivello, in cui realtà e fantasia possono coesistere, in cui le regole del gioco della vita possono essere sovvertite continuamente. Ancorarsi alla maschera sociale non è che un misero e straziante tentativo per non farsi sommergere dall’amara consapevolezza che ben poco sappiamo di noi stessi, così come di quella che consideriamo realtà. Già Freud descriveva l’area della coscienza come la punta di un iceberg, dove gran parte della nostra psiche resta sommersa ed impenetrabile alla conoscenza.

Nel tentativo di vedere ciò che sta dietro la maschera Pirandello sovverte e sradica le fondamenta stesse del teatro: allora il palcoscenico diventa il luogo in cui assistere allo smascheramento. Questo comporta confrontarsi con la propria maschera sociale e scoprire il proprio volto, se c’è e se si trova.
In tutte le opere pirandelliane i personaggi sono dibattuti dal conflitto tra vita e forma: togliere la maschera permette di diventare consapevoli spettatori del gioco della vita.

Ma se tutto viene messo in discussione, e vengono smantellate le finte e vuote certezze, la matrice creativa di Pirandello si esaurirà nel relativismo e nel nichilismo? «La mia concezione del mondo – dichiara il nostro Autore -  non è per nulla nihilista, perché ritorna la necessità dell’assoluto». Da tale necessità deriva il “teatro dei miti”. I miti rappresentano verità essenziali ed inconfutabili, sedimentate in fondo alla storia dell’umanità. Esse sono le strutture originarie ed appartengono all’uomo in ogni tempo e in ogni luogo. E il mito, per Pirandello, ha un volto femminile, che rappresenta la maternità, la religiosità, l’arte. Non si tratta di figure rarefatte nell’astrazione della perfezione, bensì di donne concrete, che pagano col dolore la trasgressione alle convenzioni sociali. Eppure proprio loro custodiscono il germe della verità.

*  (da Domenica Riccobeni, in Cineterra.it)

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 Il  VI  'Salottino' 
del 15 e del 22 gennaio 2019

 




“L’origine delle specie” (“On the Origin of Species by Means of Natural Selection”) di Charles Darwin, pubblicata nel 1859, è considerato uno dei libri fondamentali nella storia della civiltà occidentale. La teoria dell’evoluzione, in esso illustrata, servì a liberare la mente dei contemporanei dalla schiavitù delle superstizioni e delle tradizioni dogmatiche, inaugurando l’era della matu­rità delle scienze della vita.

L’idea secondo la quale gli esseri viventi mutano nel tempo, cioè il concetto fondamentale della teoria dell’evoluzione, non fu proposta per la prima volta da Darwin. Se ne possono tro­vare anticipazioni perfino nell’antichità. Più in particolare, era stato Erasmus Darwin (nonno di Charles Darwin) a ritenere, verso la fine del XVIII secolo, che tutti gli animali di sangue caldo si fossero evoluti da un unico filamento vivente, provvisto del principio vitale direttamente dal Creatore.

Nel 1809, Jean-Baptiste Lamarck aveva formulato una teoria ‘comportamentale’ dell’evoluzione, insistendo sulle modificazioni indotte nella struttura fisica degli animali dallo sforzo compiuto dal loro organismo per adattarsi all’ambiente - modificazioni che poi si sarebbero trasmesse ereditariamente alle generazioni successive. La giraffa, per esempio, avrebbe sviluppato il suo lungo, caratteristico collo, attraverso lo sforzo di arrivare a brucare le foglie di rami sempre più alti, compiuto da intere generazioni di animali della sua specie.



L’evoluzione delle specie secondo Lamarck


 Verso la metà del XIX secolo, Charles Lyell introdusse il concetto di evoluzione in geologia, soste­nendo che la terra, prima di acquistare il suo volto attuale, era passata attraverso vari stadi di sviluppo.

E’ significativo come lo Zeitgeist (la cultura del tempo) influisse profondamente sugli eventi dal 1750 al 1850, dato che in quel periodo si cominciò a ragionare in termini evolu­zionistici non solo in biologia ma anche in campo sociale. Come è indicato dalla prima rivoluzione industriale inglese e da varie rivoluzioni politiche avvenute nel frattempo in Europa, questa fu un’epoca di rapide trasformazioni politiche e sociali.

Il mutevole clima intellettuale dell’epoca fece sì che il concetto di evoluzione acquistasse dignità scientifica. Tuttavia, mentre abbonda­vano le teorie e le ipotesi speculative, ben poco era stato fatto sul piano della raccolta di dati concreti. L’opera di Darwin ‘On the Origin of Species’, con la sua massa enorme e bene ordinata di osservazioni e di dati, trasformò l’evoluzione da ipotesi controversa in fatto sconcertante.



Charles Darwin (1809-1882)






Darwin nacque nel 1809 a Shrewsbury, in Inghilterra. Suo padre era medico e il nonno, Erasmus, si era acquistato fama come filosofo, medico e poeta.  Dopo due anni trascorsi a Edimburgo, Darwin passò a Cambridge dove conseguì il diploma di bachelor of arts nel 1831. Nel periodo trascorso ad Edimburgo studiò gli invertebrati marini sotto la guida di Robert Grant, uno dei primi naturalisti convinti della realtà della trasformazione
delle specie.
Uno dei suoi professori, il botanico John Stevens Henslow, gli fece ottenere la nomina come naturalista a bordo del brigantino Beagle che il governo inglese stava allora allestendo per la realizzazione di un viaggio di esplorazione scientifica intorno al mondo. Questo famoso viaggio, durato dal 1831 al 1836, cominciò nelle acque dell’America del Sud ed ebbe come tappe successive Tahiti e la Nuova Zelanda, toccando, al ritorno, l’isola di Ascensión e le Azzorre.

Esso offrì a Darwin l’opportunità unica di osservare e raccogliere una larghissima varietà di dati sulla vita di piante e animali, ed egli fece ritorno in Inghil­terra con un immenso materiale. Durante il suo viaggio potè verificare in prima persona le ipotesi avanzate da Lyell nei suoi ‘Principi di Geologia’, ossia l’esistenza delle forze naturali che gradualmente trasformano la superficie del pianeta terra, quali l’erosione, i terremoti e i vulcani.

Nel 1837, la malferma salute lo costrinse a ritirarsi in campagna, dove fu in grado di lavorare per non più di quattro ore al giorno. Nonostante la salute malferma che lo afflisse per tutta la vita, egli non smise mai di scrivere numerosi articoli e libri scientifici.

Un anno prima della pubblicazione dell’Origin of Species, Darwin ricevette una lettera e un manoscritto da un giovane naturalista inglese trasferitosi nelle Indie orientali, Alfred Russel Wallace, che in sostanza proponeva la medesima teoria alla cui elaborazione Darwin si era pazien­temente dedicato per ventidue anni: si trattava, evidentemente, di un caso di duplice scoperta simultanea. Durante una malattia, Wallace aveva tracciato le linee essen­ziali di una teoria dell’evoluzione assai simile a quella di Darwin - a quel che si dice, impiegando soltanto qualche ora! Nella lettera, egli chie­deva il parere di Darwin e il suo aiuto per la pubblicazione dei risultati del proprio lavoro. Si può immaginare lo stato d’animo di Darwin, dopo ventidue anni di lavoro diligente, complesso e tutt’altro che agevole, date le sue condizioni di salute [1]. Egli si trovò in una posizione assai delicata, a dir poco. Tra l’altro, la teoria di Wallace non era corroborata da una così abbondante raccolta di dati come quella di Darwin.

Darwin chiese all’amico Lyell come dovesse comportarsi e, dietro suo consiglio, decise di dar lettura del lavoro di Wallace e di alcune porzioni del suo prossimo libro nel corso di un convegno della Linnean Society, tenuto il primo luglio del 1858. Dopo questa duplice comunicazione, crebbe negli ambienti scientifici l’attesa della pubblicazione della teoria dell’evoluzione nella sua versione completa e definitiva. Le 1250 copie della prima edizione dell’Origin andarono esaurite il giorno stesso della loro apparizione in libreria.




La prima edizione dell’Origine delle specie (1859)


L’avvenimento provocò subito forti entu­siasmi e ampie discussioni; non mancarono oppositori che si sca­gliarono subito con ingiurie e critiche feroci contro Darwin [2].

Nei due decenni successivi alla pubblicazione dell’Origin, la stragrande maggioranza della comunità scientifica cominciò tuttavia ad accettare il fatto che Darwin avesse ragione riguardo all’evoluzione della vita, anche se il meccanismo della selezione naturale spesso non veniva considerato attendibile. Il riconoscimento ufficiale della validità della selezione naturale dovette attendere gli anni trenta del Novecento, quando si assistette alla sintesi fra la teoria darwiniana e la genetica mendeliana.

Charles Darwin era un uomo gentile, affabile, semplice e molto modesto. Fu sempre fervido in lui il desiderio di comprendere la natura e di far parte di quel mondo di eccellenza della scienza britannica che tanto rispettava e amava. Darwin morì nell’aprile del 1882 e fu sepolto nell’Abbazia di Westminster, accanto a Isaac Newton.



La teoria dell’evoluzione

Darwin, partendo dalla constatazione della diversità e della somiglianza delle caratteristiche individuali riscontrabile nei singoli esemplari di una stessa specie, arrivò alla conclusione che gli esseri viventi fossero infinitamente variabili.

Al tempo si credeva che le specie fossero state create laddove le si trovava, in armonia con l’ambiente circostante. Alcuni scienziati avevano affermato che nel corso della storia le specie erano state generate una sola volta, mentre i reperti fossili osservati da Darwin durante il suo viaggio sul Beagle sembravano al contrario dimostrare la nascita di specie differenti in ere geologiche diverse. Darwin conosceva bene le teorie sulla trasformazione delle specie esposte anni prima da suo nonno Erasmus e da Lamarck. Ora, però, le sue idee si stavano dirigendo verso risultati inediti: egli pensava alla storia della vita non come a una serie di progenie indipendenti, in qualche modo costrette a progredire dalle monadi alle scimmie, ma come un unico albero genealogico variamente ramificato. Le somiglianze tra le diverse forme di vita dovevano dunque provenire da un antenato comune.

Darwin ipotizzò che la variabilità spontanea delle caratteristiche individuali degli esseri viventi dovesse trasmettersi per eredità. In natura esiste dunque un meccanismo di ‘selezione naturale’ che ha come risultato la sopravvivenza degli organismi più idonei alle esigenze dei rispettivi ambienti, e l’eliminazione di quelli non idonei. La natura, secondo Darwin, è caratterizzata da una continua lotta per la sopravvivenza e le forme che sopravvivono sono quelle che sono riuscite a trovare un positivo adattamento, cioè un migliore aggiustamento alle difficoltà ambientali da esse incontrate; chi non riesce ad adattarsi è destinato necessariamente a soccombere. “Gli organismi viventi sono in equilibrio col loro ambiente, siccome l'ambiente cambia, debbono cambiare anch'essi, altrimenti sono condannati a scomparire.” (C Darwin)
 
 Il meccanismo della selezione naturale nella teoria dell’evoluzione


Darwin giunse a formulare il principio della «lotta per la soprav­vivenza» dopo aver letto l’ ’Essay on the Principle of Population’, di Thomas Malthus (1789). Malthus aveva sostenuto che le risorse alimentari crescono in proporzione aritmetica, mentre la popolazione tende a crescere in proporzione geometrica. Il risultato inevitabile di questo stato di cose, che il reverendo Malthus definì ‘sgra­devole e malinconico’, è che un gran numero di esseri umani vivono costantemente in condizioni di sottoalimentazione. Di conseguenza, solo i più robusti e abili riescono a sopravvivere.

Darwin estese questo principio a tutti gli organismi viventi, elabo­rando il concetto di selezione naturale. Gli esseri che sopravvivono alla lotta e raggiungono la maturità tendono a trasmettere ai loro discendenti le attitudini o i vantaggi peculiari grazie ai quali essi sono riusciti a sopravvivere. Inoltre, siccome un’altra legge generale dell’ereditarietà è quella della variazione, i discendenti presenteranno caratteristiche diverse gli uni dagli altri, nel senso che alcuni avranno le qualità positive più sviluppale rispetto ai loro genitori. Queste qualità, a loro volta, tenderanno a sopravvivere, e nel corso di molte generazioni si potranno verificare note­voli modificazioni nelle caratteristiche fisiche dei soggetti. In effetti, tali modificazioni possono essere così sensibili da spiegare le differenze fra le varie specie animali così come noi oggi le conosciamo.

Molti fanatici religiosi videro una pericolosa minaccia alla fede nella teoria evoluzionistica di Darwin, poiché la ritenevano in contraddizione con il racconto biblico della crea­zione. Ecco qualche esempio di giudizi espressi in proposito da eminenti personalità ecclesiastiche del tempo: «Un tentativo di detronizzare Dio»; «Una gigantesca impostura dal principio alla fine»; «Se la teoria darwiniana è vera, la Genesi è tutta una menzogna, l’intera impalcatura della Bibbia cade a pezzi e la rivelazione di Dio all’uomo, così come noi cristiani la concepiamo, è solo un'illusione e un inganno»; uno affermò sinteticamente (e forse vedendo più chiaramente degli altri nel futuro): «Dio è morto». Questa infiammata controversia durò molti anni, senza esclusione di colpi da entrambe le parti.
Dopo un anno dalla pubblicazione del libro, si tenne a Oxford un entusiasmante dibattito fra Thomas Henry Huxley, sostenitore di Darwin e della teoria dell’evoluzione, e il vescovo Samuel Wilberforce, che ovviamente difendeva la versione letterale del libro della Genesi. Wilberforce chiese ad Huxley se fosse attraverso sua nonna o suo nonno che egli sosteneva di discendere da una scimmia, formulando così la questione centrale in termini universalmente comprensibili. Huxley rispose che, come antenato, una scimmia si addiceva molto di più al vescovo; con queste battute ebbe inizio lo scontro. Scienza e religione si trovavano ancora una volta l’una di fronte all’altra, in piena modernità, a contendersi il primato.

   
  
 Charles Darwin come una scimmia,
      in The London Sketch-book (1874).

Darwin fu, di fatto, uno scienziato e, relativamente a convinzioni filosofiche e religiose, nel 1879 scriveva: “la descrizione più esatta del mio stato di spirito è quella dell’agnostico”. Egli poneva cioè l’accento sull’impossibilità di trovare nella scienza conferme o smentite decisive a quelle che erano le tradizionali credenze religiose. Le sue convinzioni scientifiche e la struttura sistematica della sua teoria erano fondate sull’idea di progresso che dominava il clima dell’epoca. Grazie all’opera di Darwin, la scienza ha inserito il mondo degli organismi viventi nella storia progressiva dell’universo.    
Nel 1871 apparve la seconda importante opera darwiniana sull’evoluzione, cioè “The Descent of Man”. Essa conteneva una rassegna sistematica di prove a favore della teoria dell’evoluzione dell’uomo da forme inferiori di vita, mettendo in evidenza la somiglianza fra i processi mentali degli animali e quelli dell’uomo, e sottolineando l’importanza della selezione sessuale come fattore evolutivo. Darwin studiò in modo approfondito anche l’espressione delle emo­zioni nell’uomo e negli animali, avanzando l’ipotesi che i gesti e le posi­zioni caratteristici di certi stati emotivi potessero essere interpretati dal punto di vista evoluzionistico in “The Expression of the Emotionsin Man and Animals” (1872).

Con queste opere, Darwin dimostrò che non esistevano differenze sostanziali nei modi di evoluzione tra l’uomo e gli altri animali, ma solo di grado. Dimostrò cioè l’esistenza di una diversità di gradazione - e non di un divario incolmabile - non solo tra l’Homo sapiens e gli altri animali, ma tra tutti gli esseri viventi, il che è una conseguenza del perenne e continuativo cambiamento che agisce accumulandosi nel tempo.

Darwin non riuscì a spiegare come si origina la variabilità di caratteri sulla quale avrebbe agito la selezione naturale. Gli studi dell’abate ceco Gregor Mendel sull’ereditarietà e i successivi sviluppi della genetica contribuiranno a confermare l’impalcatura fondamentale delle intuizioni di Darwin e la validità euristica della teoria dell’evoluzione.

 


La linea del tempo dell’evoluzione umana
L'albero genealogico dell'uomo
 (dallo Smithsonian's National Museum of Natural History).

 

[1]   Darwin aveva sviluppato la sua teoria nel più assoluto segreto, dandone qualche anticipazionesoltanto a una persona, il dottor Joseph Hooker, nel 1844, impegnandolo con un giuramento a non farne parola con nessuno.

[2]  In alcuni paesi degli Stati Uniti,  si seguita ancora oggi a parlare di Darwin come dell’iniziatore della teoria dell’«evilution», cioè di una dottrina «diabolica» (dall’inglese «evil», diavolo).



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Il  V  'Salottino' 
dell'11 e del 18 dicembre 2018



 Franz Kafka, la metamorfosi


La metamorfosi è un racconto lungo di Franz Kafka (1883-1924), scritto nel 1912 ma pubblicato nel 1915. Si tratta di uno dei testi più noti e famosi dello scrittore boemo in cui si descrivono le vicende di un uomo, Gregor Samsa, che una mattina si sveglia e scopre di aver assunto le fattezze di uno scarafaggio. 


Generalmente La metamorfosi è interpretata come una allegoria della alienazione dell’uomo moderno all’interno della famiglia e della società, che si traduce nell’isolamento del “diverso” e nell’incomunicabilità con i propri simili. Il racconto è anche un ottimo esempio della poetica e della visione del mondo di Kafka, in cui il destino dell’esistenza individuale è in mano a forze oscure e inconoscibili, che operano in maniera assurda e imperscrutabile sulla vita degli uomini (come si vede anche nel romanzo Il processo). 



La metamorfosi è divisa in tre parti e si apre, in modo inatteso e fulminante, sulla sorprendente mutazione del protagonista.


Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto.


Gregor Samsa è un semplice commesso viaggiatore, preciso e metodico, che un mattino, svegliatosi in ritardo rispetto al solito, si rende conto di aver assunto le sembianze di un gigantesco scarafaggio. Il pensiero di Gregor, però, non è inizialmente rivolto al suo aspetto mostruoso, quanto al consistente ritardo che sta accumulando: la sua professione lo costringe infatti ad un ferreo rispetto delle coincidenze ferroviarie e, nelle condizioni in cui si trova, Gregor perderà sicuramente il treno della mattina. 

Gregor vive con i genitori e con un’amata sorella di sedici anni, di nome Grete, che uno dopo l’altro vanno a bussare alla sua porta, preoccupati del suo inusuale ritardo e dunque convinti che Gregor sia malato. Il protagonista, mentre cerca faticosamente di scendere dal letto (egli infatti si è svegliato riverso sulla schiena, che ora è la sua corazza ricurva), li rassicura che va tutto bene, sebbene la sua voce sia già modificata dalla sua nuova condizione. 

Gregor finalmente arriva alla porta, proprio quando il procuratore, suo datore di lavoro, indispettito dall’assenza del suo sottoposto, entra nell’appartamento per avere notizie di lui. Il procuratore, da dietro la porta, lo sommerge delle accuse più svariate, tra cui quella di lavorare male da tempo e quella del licenziamento per il suo comportamento incomprensibile. Gregor vorrebbe ribattere, ma una volta ancora riesce solo a emettere versi indefiniti. Finalmente, aggrappandosi alla maniglia con la mandibola, il protagonista riesce ad aprire la porta: il procuratore, alla vista del ributtante insetto, fugge in preda al panico, mentre Gregor cerca di inseguirlo per provare a giustificarsi. 

La madre di Gregor, scioccata alla vista del figlio, ha un collasso mentre il padre aggredisce lo scarafaggio a colpi di bastone, ferendo lievemente Gregor e chiudendo poi a chiave la porta della camera del figlio. Gregor crolla addormentato.


Nella seconda sezione del racconto, quando ormai siamo al tramonto della giornata, Gregor si sveglia e trova del pane e del latte che Grete, in un moto di compassione, ha lasciato lì per lui, impietosita per Gregor e convinta che ci sia ancora una parte umana in lui. Gregor però, come conseguenza della metamorfosi, ha anche cambiato gusti alimentari e non ha più appetito per il cibo umano. La sorella, comprendendo le sue necessità, il giorno dopo gli fa trovare degli avanzi presi dal pattume, che finalmente Gregor riesce a mangiare. 

Le abitudini della famiglia Samsa vengono così rivoluzionate: Grete, ogni giorno, si reca in camera di Gregor per le pulizie quotidiane, mentre il fratello-scarafaggio, per non spaventarla, si rifugia sotto al divano. Gregor nelle lunghe ore di solitudine in camera ascolta attraverso il muro cosa sta succedendo nella casa e scopre che, a causa della sua condizione che gli impedisce di lavorare, i vecchi e stanchi genitori dovranno ricominciare a lavorare e Grete dovrà abbandonare le lezioni di violino

Nel frattempo, Gregor guadagna consapevolezza del suo nuovo corpo, arrampicandosi sulle pareti e sul soffitto. Grete, premurosa, decide di togliere i mobili dalla sua stanza per lasciargli più spazio, sebbene questi siano una delle ultime prove tangibili della sua precedente condizione di essere umano. Tuttavia, quando la madre e la sorella stanno sgomberando la stanza del protagonista, si verifica un grave incidente: Gregor, accorgendosi che un quadro che gli è molto caro, raffigurante una donna, sta per essere portato via, esce dal suo nascondiglio, facendo svenire dall’orrore la madre e facendo esplodere la rabbia di Grete. Gregor, spaventato e confuso, si sente il responsabile dell’accaduto e gira freneticamente per casa. Quando il padre, appena tornato dal nuovo lavoro di fattorino, scopre ciò che è successo, lo assale lanciandogli contro delle mele. Una di queste gli si conficca nella corazza, ferendolo gravemente ed impedendolo, di qui in poi, in tutti i suoi movimenti.


Nella terza sezione della MetamorfosiGregor è ormai confinato nella sua stanza, divenuta ormai uno sgabuzzino, ed è sostanzialmente ignorato dalla famiglia: l’appartamento è stato subaffittato a tre inquilini e la famiglia ha assunto una domestica, che, lungi dall’aver paura del mostro, lo deride apertamente. 

Una sera, mentre Grete suona il violino in salotto per i genitori e i nuovi ospiti, Gregor esce dalla camera e arriva fino alla soglia della stanza, affascinato dall’abilità musicale della sorella. La vista dell’insetto, però, fa trasalire i tre affittuari che lasciano subito l’appartamento. La situazione economica della famiglia ha quindi un nuovo tracollo e  Grete decide di lavorare come commessa. Anche la sorella, quindi, smette di prendersi cura del fratello sempre più convinta dai recenti avvenimenti che non ci sia ormai più traccia dell’amato fratello in quella bestia, cui rinfaccia di non essersene andata di casa molto tempo prima. Il padre sostiene apertamente che sia ormai giunto il momento di sbarazzarsi di Gregor.


Gregor, umiliato ed abbandonato da tutti, dopo aver ascoltati questi discorsi, si lascia morire di inedia. La fine di Gregor in realtà è l’inizio di un nuovo capitolo per la famiglia, che, prendendosi un giorno di riposo, si concede una gita in campagna. Qui la famiglia Samsa, che già gode di una certa indipendenza econmica, decide di trasferirsi in una casa più piccola e più adatta alle proprie esigenza. Grete, nonostante il periodo di sofferenze trascorso, è diventata una bella ragazza in età da marito.




La 'Metamorfosi'
(corto animato) 
 


Le pagine della Metamorfosi di Kafka si presentano come una lunga, articolata metafora che si sviluppa in due direzioni differenti ma strettamente correlate tra loro. Da un lato, il racconto è una denuncia dell’oppressione delle regole sociali sull’individuo, che viene schiacciato e spersonalizzato dalle imposizioni esterne. Dall’altro lato, La metamorfosi è un apologo sull’impossibilità di comunicazione tra esseri umani, in particolar modo negli ambienti familiari  simboleggiati dai luoghi chiusi ed asfittici in cui si svolge tutta la vicenda.


Gregor Samsa, in cui possiamo vedere un “doppio” del suo autore, è schiacciato dalle regole della vita borghese. Il suo lavoro di commesso viaggiatore, ripetitivo e faticoso, è tuttavia la fonte di sostentamento dell’intera famiglia, circostanza che lo obbliga ad uno scrupoloso rispetto di obblighi, orari e doveri d’ufficio. Non a caso, quando appena sveglio capisce d’essersi tramutato in un ributtante scarafaggio, il primo pensiero di Gregor è al ritardo accumulato già di prima mattina; quando il procuratore gli intima di aprire la porta della stanza minacciandolo di licenziamento, Samsa non bada alla reazione che potrà suscitare il suo nuovo aspetto bestiale, ma cerca in ogni modo di giustificare il proprio operato e il prorpio comportamento. La metamorfosi in insetto è insomma la forma concreta dell’alienazione di Gregor, incastrato in meccanismi che lo privano della sua identità.


Al tempo stesso, anche il contesto familiare dei Samsa è alla base dell’allegoria costruita da Kafka: Gregor è il pilastro su cui si regge il loro benessere, esemplificato dalle lezioni al Conservatorio di Grete. I rapporti di affetto e amore si capovolgono ben presto quando Gregor non può più assicurare alcuna forma di sostentamento a causa della sua mutazione; in poco tempo, egli diventa un peso insostenibile e, dopo una serie di incidenti non voluti da Gregor, anche l’amata sorella lo vede come un fastidio di cui disfarsi. 

In questa situazione emergono facilmente tutte le tensioni latenti, come il difficile rapporto tra il figlio e il padre, fino all’episodio del ferimento di Gregor a colpi di mela, o alla circostanza, che prelude alla morte del protagonista, in cui il giovane ascolta i discorsi dei familiari su tutti i problemi che egli ha causato alla famiglia.


Tutto ciò - che ha pure precisi riscontri biografici nell’esistenza di Kafka, figlio di una famiglia di commercianti ma portato alla carriera letteraria - può farci interpretare La metamorfosi come l’allegoria dell’impossibile conciliazione tra le aspirazioni individuali e le costrizioni della vita borghese. 

La “diversità” di Gregor si carica così di significati e letture che, in parte, restano volutamente ambigui ed enigmatici, com’è tipico della narrativa kafkiana. Le cause della metamorfosi non sono spiegate né indagate ed essa è accettata da Gregor come un dato di fatto; gli altri membri della famiglia, che rappresentano invece il alto “normale” della vita e della società, ne sono disgustati, ma nemmeno loro si interrogano sulle cause della mutazione. 

L’effetto di straniamento che ne consegue circonda tutta la vicenda di un’aura di “realismo magico”: in un contesto apparentemente reale e quotidiano (l’esistenza di una normale famiglia borghese di inizio secolo) viene calato un elemento magico o sovrannaturale (la “metamorfosi”), senza darne spiegazioni razionali. La metamorfosi diventa così per Kafka la chiave di lettura dei mali dell’uomo contemporaneo.


Vita e morte
Un'interpretazione della 'Metamorfosi'
(cortometraggio) 




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Il  IV  'Salottino' 
del 27 novembre e del 4 dicembre 2018








Federico Fellini nasce a Rimini il 20 gennaio 1920 da famiglia piccolo-borghese. Il padre fa il rappresentante di commercio, la madre è una casalinga. Il giovane Federico frequenta il liceo classico della città ma lo studio non fa per lui. Comincia allora a procurarsi i primi guadagni come caricaturista: il gestore del cinema Fulgor, infatti, gli commissiona ritratti di attori celebri da esporre in pubblico.


Fellini si trasferisce a Roma nel gennaio 1939, per iscriversi a giurisprudenza. A Roma frequenta il mondo dell'avanspettacolo e della radio, dove conosce, fra gli altri, Aldo Fabrizi, Erminio Macario e Marcello Marchesi, e comincia a scrivere copioni e gag. Alla radio incontra, nel 1943, anche Giulietta Masina (che sta interpretando il personaggio di Pallina, ideato dallo stesso Fellini) e nell'ottobre di quell'anno i due si sposano. 




Nel mondo del cinema, Fellini diventa uno degli autori del neorealismo, sceneggiando alcune delle opere più importanti di quella scuola cinematografica: con Rossellini, ad esempio, scrive i capolavori "Roma città aperta" e "Paisà"; con Germi "In nome della legge", "Il cammino della speranza" e "La città si difende"; con Lattuada "Il delitto di Giovanni Episcopo", "Senza pietà" e "Il mulino del Po". In collaborazione con Lattuada esordisce alla regia all'inizio degli anni cinquanta: "Luci del varietà" (1951) rivela già l'interesse di Fellini per certi ambienti artistici, come quello dell'avanspettacolo. L'anno successivo Fellini dirige il suo primo film da solo, "Lo sceicco bianco" (1952). 



Con "I vitelloni" (1953), il suo nome varca i confini nazionali. In questo film, il regista ricorre per la prima volta ai ricordi, all'adolescenza riminese e ai suoi personaggi stravaganti e patetici. 


L'anno dopo, con "La strada" (1954) conquista l'Oscar ed è la consacrazione internazionale. 



Il secondo Oscar arriva con "Le notti di Cabiria" (1957). Come in "La strada", la protagonista è Giulietta Masina, che qui veste i panni della Cabiria del titolo, una prostituta ingenua e generosa, che paga con atroci delusioni la fiducia che ripone nel prossimo. 




Con "La dolce vita" (1959), Palma d'oro a Cannes e spartiacque della produzione felliniana, si acuisce l'interesse per un cinema non legato alle tradizionali strutture narrative. Alla sua uscita il film suscita scandalo, soprattutto negli ambienti cattolici: gli si rimprovera, assieme ad una certa disinvoltura nel presentare situazioni erotiche, di raccontare senza reticenze la caduta dei valori della società contemporanea. 




"" (1963) rappresenta forse il momento più alto dell'arte felliniana. Vincitore dell'Oscar per il miglior film straniero, racconta la storia di un regista che descrive, in modo sincero e sentito, le sue crisi di uomo e di autore.




In "Fellini-Satyricon" (1969), invece, l'impianto onirico è trasferito alla Roma imperiale del periodo della decadenza. È una metafora del presente, in cui spesso prevale il piacere goliardico della beffa accompagnato da un interesse per le nuove idee dei giovani contemporanei. 




"Amarcord" (1973), in particolare, segna il ritorno alla Rimini della sua adolescenza, negli anni trenta. I protagonisti sono la città stessa con i suoi personaggi grotteschi. La critica e il pubblico lo acclamano con il quarto Oscar. 




A questo film gioioso e visionario si susseguono "Il Casanova" (1976), "Prova d'orchestra" (1979), "La città delle donne" (1980) "E la nave va" e "Ginger e Fred" (1985). 




L'ultimo suo film è "La voce della Luna" (1990), tratto da "Il poema dei lunatici" di Ermanno Cavazzoni. 


Nella primavera del 1993, qualche mese prima di morire, Fellini riceve il suo quinto Oscar, alla carriera. Federico Fellini si spegne a Roma, per un infarto, il 31 ottobre 1993 all'età di 73 anni.


 


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Il  III  'Salottino' 
del 13 e del 20 novembre 2018



Il Cantico dei Cantici o semplicemente Cantico (ebraico שיר השירים, shìr hasshirìm, Cantico sublime; greco ᾎσμα ᾈσμάτων, ásma asmáton; latino Canticum Canticorum) è un poema contenuto nella Bibbia ebraica (Tanakh) e cristiana


Il Cantico dei Cantici è uno dei testi più antichi di tutte le letterature. Attribuito a Salomone - antico re di Israele del X secolo a.C., celebre per la sua saggezza, per i suoi canti e anche per i suoi amori - fu composto non prima del IV secolo a.C. ed è uno degli ultimi testi accolti nel canone della Bibbia, addirittura un secolo dopo la nascita di Cristo.

È composto da 8 capitoli contenenti poemetti d'amore in forma dialogica tra un uomo ("Dodì”, l’Amato) e una donna (la "Sulammita"). 


Il nome del libro, con la ripetizione della parola cantico, secondo il modo di costruire le frasi degli antichi ebrei, è da considerarsi come un superlativo e andrebbe reso come ‘il più sublime tra i cantici’


Il Cantico è un testo laico derivato da alcuni poemi della Mesopotamia, un canto nuziale nel quale la parola ‘Dio’ non è mai menzionata. 


Il Cantico dei Cantici rappresenta uno dei testi più lirici e inusuali delle Sacre scritture. Sebbene rappresenti in versi l'amore tra due innamorati, con tenerezza ma anche con un ardire di toni ricco di sfumature sensuali e immagini erotiche, non pregiudica tutttavia il suo carattere sacro, in quanto l'amore erotico dei due amanti, per l'autore, ha origine divina. 


Il testo non si presta a una lettura lineare, in quanto manca di quella conseguenzialità espositiva che consenta di seguire una qualche traccia nello sviluppo del dialogo amoroso tra i due protagonisti. Il Cantico si svolge con l’andamento del sogno: oniriche sono le immagini, e squisitamente onirica è l’atmosfera emotiva che trascorre per tutto il testo.

L'interpretazione del Cantico (come per tutti i testi sacri) non va intesa solo in senso letterale, poiché nasconde certamente un significato allegorico ed iniziatico che trascende la semplicità dei versi d'amore che lo compongono. 


Nel tempo, molteplici sono state le interpretazioni del testo, sia da parte della dottrina ebraica che cristiana, a riprova della grande considerazione che il Cantico ha sempre avuto nelle due religioni. Tra le interpretazioni allegoriche più diffuse abbiamo, nel primo caso, quella dell'amore del creatore per il suo popolo (Israele), nel secondo caso dell'amore tra Cristo e la Chiesa, sua sposa. 


Il testo ha un altissimo valore nell'ebraismo, essendo il Cantico uno dei "Meghillot", i "rotoli" letti in occasione delle principali feste: il Cantico, proprio per la sua importanza, è stato assegnato alla Pasqua


Nella religione ebraica, per la santità del contesto e del suo significato simbolico, il testo viene paragonato al luogo più santo ed interno del Tempio di Gerusalemme: il Cantico dei Cantici infatti include metaforicamente tutta la Torah

 

Dal ciclo “Il Cantico dei Cantici” (IV) di Marc Chagall


*     *     *


 CANTICO DEI CANTICI 
Il canto più bello di Salomone


I



LEI

2  Che lui mi baci

con i baci della sua bocca.

Più dolci del vino sono le tue carezze,

3  più inebrianti dei tuoi profumi.

Tu stesso sei tutto un profumo.

Vedi, le ragazze si innamorano di te!

4  Prendimi per mano e corriamo.

Portami nella tua stanza, o mio re.

Godiamo insieme, siamo felici.

Il tuo amore è più dolce del vino.

A ragione le ragazze s’innamorano di te!


"...mi baci coi baci della sua bocca..."  (acrilico di Rosa Soravito, 2014)


5  Ho la pelle scura eppure sono bella, ragazze di Gerusalemme, scura

come le tende dei beduini’,

bella come i tendaggi del palazzo di Salomone.
6  Non state a guardare se sono scura, bruciata dal sole.
I miei fratelli si sono adirati con me;
mi hanno messa a guardia delle vigne, ma la mia vigna io l’ho trascurata.
7  Dimmi, amore mio,
dove vai a pascolare il tuo gregge, a mezzogiorno dove lo fai riposare?
Io non voglio cercarti tra i greggi dei tuoi amici, come una vagabonda!

 I pastori
8  O bellissima tra le donne, non conosci il posto?
Segui le orme del gregge, porta le tue caprette al pascolo vicino alle tende dei pastori.

LUI
5 Amica mia,
sei come una puledra
che fa impazzire i cavalli del faraone!
10 Come son belle le tue guance, tra le trecce,
com’è bello il tuo collo ornato di perle!
11 Ti faremo una collana d’oro, con ornamenti d’argento.

LEI
12 Ora che il mio re è qui nel suo giardino
Il mio profumo di nardo si spande tutt’intorno.
13 Amore mio,
sei come un sacchetto di mirra, e di notte riposi fra i miei seni.
14 Amore mio,
sei come un mazzo di fiori cresciuti nelle vigne di Engaddi.

LUI
Quanto sei bella, amica mia,
quanto sei bella, i tuoi occhi sono come colombe!

LEI
16 Anche tu, amore mio, quanto sei bello, meraviglioso sei.
Un prato d’erbe è il nostro letto,
rami di cedro sono le travi della nostra casa,
rami di pino il suo soffitto.

II
Io sono un narciso della pianura di Saron, un giglio delle valli.

LUI
3  Sì, un giglio tra le spine è la mia amica tra le altre ragazze!

LEI
3 Un melo tra alberi selvatici è il mio amore tra gli altri ragazzi!
Mi piace sedermi alla sua ombra e gustare le delizie dei suoi frutti.
4  Mi ha portato in una sala di banchetti;
in alto, sopra di me, c’era un’insegna con sopra scritto: «Amore».
5  Presto; portate dolci d’uva che mi restituiscano forza,
mele, che mi diano sostegno
perché sono malata d’amore!
6  II suo braccio sinistro è intorno al mio collo, e con il destro mi abbraccia.
7  Ragazze di Gerusalemme,
Io  vi scongiuro,
per le gazzelle e le cerve dei campi; non risvegliate il nostro amore',
non provocatelo prima del tempo.
8-9 Sento la voce del mio amore, eccolo, arriva!
Salta per le montagne, come fa la gazzella; corre sulle colline,
veloce come un cerbiatto.
Eccolo, sta dietro al nostro muro;
guarda dalla finestra, spia dalle persiane.

10 Ora, il mio amore mi parla:

LUI
Andiamo, amica mia, mia bella, vieni.
11   È finito l’inverno,
sono terminate le piogge.
12   Già spuntano i fiori nei campi, la stagione del canto ritorna.
Si sente cantare la tortora.
13   I fichi già danno i primi frutti, le viti sono in fiore
e mandano il loro profumo. Andiamo,
amica mia, mia bella, vieni.
14   Colomba mia,
nascosta nelle fessure delle rocce, in nascondigli segreti,
fammi vedere il tuo viso, fammi ascoltare la tua voce;
perché la tua voce è soave, il tuo viso è grazioso.

"... spuntano i fiori nei campi, la stagione dei canti ritorna ..."



LEI
15 Catturateci le volpi; le piccole volpi
che ci rovinano le vigne proprio ora che sono fiorite.
16 II mio amore è mio come io sono sua.
Egli si diletta tra i gigli.
17 Prima che soffi la brezza della sera e le ombre si allunghino,
ritorna, amore mio, tra le colline 
veloce come una gazzella o un cerbiatto.


III

LEI
'Di notte, nel mio letto, ho cercato il mio amore.
L’ho cercato, ma non l’ho trovato.
2  Mi alzerò, farò il giro della città!
Per strade e per piazze devo cercare il mio amore.
L’ho cercato, ma non l’ho trovato.
3  Ho incontrato le guardie che facevano la ronda in città.
Ho chiesto loro:
«Avete visto il mio amore?».
4  Le avevo appena lasciate ed ecco
ho trovato il mio amore.
L’ho stretto forte a me e non lo lascerò più.
Lo porterò in casa mia nella stanza dove mia madre mi ha concepita.
5  Ragazze di Gerusalemme, io vi scongiuro
per le gazzelle e le cerve dei campi: non risvegliate il nostro amore",
non provocatelo prima del tempo.

Il coro
6  Chi sta arrivando dal deserto,
come una nube di fumo,che spande profumo di mirra'1, di incenso,
e di tutti gli aromi più rari?
7  È la lettiga del re Salomone", circondata da sessanta soldati,
i più coraggiosi d’Israele.
8  Son tutti armati di spada e allenati a combattere.
Portano al fianco la spada.
Stanno in guardia contro i pericoli della notte.
9  La lettiga del re Salomone è in legno di cedro.
10  Le colonne sono d’argento,
lo schienale d’oro,
il sedile tutto di porpora4.
Le ragazze di Gerusalemme
hanno adornato con amore l’interno.
" Ragazze di Sion', uscite a vedere il re Salomone.
Porta la corona che gli ha messo sua madre il giorno delle sue nozze,
il giorno della sua gioia e della sua felicità.

IV
LUI
Quanto sei bella, amica mia, quanto sei bella!
I tuoi occhi, dietro il velo, sono come colombe.
I tuoi capelli ondeggiano come un gregge
che scende dalle pendici del Galaad".
2 I tuoi denti mi fanno pensare a un gregge di pecore da tosare, appena lavate.
Tutte in fila, una accanto all’altra, e non ne manca nessuna.
3 Un nastro di porpora sono le tue labbra!
Com’è bella la tua bocca!
Dietro il velo, le tue guance sono rosse
come uno spicchio di melagrana.
4 II tuo collo è come una fortezza, come la Torre di Davide;
 mille scudi vi sono appesi, sono gli scudi degli eroi!
3 I tuoi seni sembrano cerbiatti o gemelli di una gazzella che pascolano tra i gigli.
6  Prima che soffi la brezza della sera o le ombre si allunghino,
verrò di certo alla tua montagna profumata di mirra e alla tua collina d’incenso.
7  Sei bellissima, amica mia, sei perfetta.
8  Vieni con me, mia sposa,
lascia i monti del Libano, vieni con me.
Scendi dalle cime dell’Amana,
del Senir e dell’Ermon,
fuggi queste tane di leoni e di leopardi!
9  Mi hai preso il cuore, sorella mia, mia sposa,
mi hai preso il cuore, con un solo tuo sguardo,
con una sola perla della tua collana!
10 II tuo amore,sorella mia, mia sposa, è così bello,
molto più dolce del vino!
Il tuo profumo è più gradevole di tutti gli aromi.
11 Le tue labbra sanno di miele, mia sposa,
la tua lingua ha il sapore del miele e del latte.
Le tue vesti hanno il profumo del Libano.
12 Sorella mia, mia sposa, sei come un giardino recintato e chiuso,
come una sorgente inaccessibile.
13 Le tue nascoste bellezze sono un giardino di melograni,
dai frutti squisiti, con piante di Cipro,
14 nardo e zafferano, cannella e cinnamomo,
ogni specie di piante d’incenso, mirra e aloè” e tutti i profumi più rari.
15 Tu sei una sorgente di giardino,
fontana di acque vive, ruscello che scende dai monti del Libano.


"... sei una sorgente di giardino, fontana di acque vive ..."




LEI

16 Alzati, vento del nord, vieni, vento del sud,

spandete i profumi del mio giardino.

E tu, amore mio,

vieni nel tuo giardino, gusta i suoi frutti squisiti!



V

LUI

'Sono venuto nel mio giardino, sorella mia, mia sposa.

Raccolgo la mia mirra e le mie erbe profumate.

Mangio il miele del mio favo, bevo il mio latte e il mio vino.

Il Coro
«Mangiate, amici,
bevete, inebriatevi d’amore'».

LEI
Mi sono addormentata, ma resta sveglio il mio cuore.
Sento qualcosa: è il mio amore che bussa! che chiede:
«Aprimi, sorella, amica mia, bellissima colomba!
Ho il capo bagnato di rugiada, i miei riccioli stillano le gocce della notte».


"... mi sono addormentata, ma sveglio è il mio cuore  ..."


3  Mi sono appena spogliata,
dovrei rivestirmi?
Mi sono appena lavata i piedi,
perché dovrei sporcarli di nuovo?
4  II mio amore cerca di aprire la porta: che tuffo al cuore!
Salto in piedi per aprire al mio amore.
Le mie dita e le mie mani gocciolano olio di mirra
quando alzo il chiavistello.
6  Ho aperto al mio amore, ma è partito, non c’è più.
È partito, e io ne sono sconvolta.
Lo cerco, ma non riesco a trovarlo.
Lo chiamo, ma lui non risponde.
7  Mi incontrano le guardie
che fanno la ronda sulle mura della città.
Mi picchiano, mi feriscono, mi strappano lo scialle.
8  Ragazze di Gerusalemme, vi supplico,
se trovate il mio amore,
ditegli che io sono malata d’amore.

Ragazze
9  «Puoi dirci,
tu che sei la più bella, cos’ha il tuo amore
di diverso dagli altri?
È davvero tanto diverso, che ci supplichi così?».

LEI
10  II mio amore è bello e forte,
lo si riconosce tra mille.
Il suo volto è come l’oro più puro,
i suoi capelli sono folti e ricciuti, neri come il corvo.
12  I suoi occhi sono colombe accanto a un ruscello.
Le sue pupille galleggiano sul latte,
come colombe su uno specchio d’acqua.
13  Le sue guance sono aiuole
di piante profumate e di spezie.
Le sue labbra sono gigli, bagnate di olio di mirra.
14  Le sue mani sono anelli d’oro carichi di pietre preziose.
Il suo petto è una piastra d’avorio coperta di zaffiri.
15  Le sue gambe sono colonne di marmo bianco
poggiate su basi d’oro puro.
Egli ha l’aspetto delle montagne del Libano,
è magnifico come gli alberi di cedro.
16  La sua bocca è dolcissima;
tutto, in lui, risveglia il mio desiderio.
Ecco, così è il mio amore, il mio amico, ragazze di Gerusalemme!

VI
Ragazze
‘«Dov’è andato il tuo amore, o bellissima?
Puoi dirci che direzione ha preso,
così possiamo cercarlo con te?».

LEI
2  II mio amore è venuto a godersi il suo giardino,
a raccogliere gigli
tra aiuole di piante profumate.
3  Io sono del mio amore e il mio amore è mio.
Egli si diletta tra i gigli.

LUI
4  Amica mia, sei bella come la città di Tirsa,
splendida come Gerusalemme, affascinante come un miraggio.
5  Allontana gli occhi da me, il tuo sguardo mi turba.
I tuoi capelli ondeggiano come un gregge
che scende giù dalle pendici del Galaad.
6  I tuoi denti mi fanno pensare
a un gregge di pecore appena lavate,
tutte in fila, una accanto all’altra, e non ne manca nessuna.
7  Dietro il velo
le tue guance sono rosse come spicchi di melagrana.
8  II re abbia pure sessanta regine, ottanta altre donne
e ragazze quante ne vuole!
9  Per me c’è solo lei,
la mia stupenda colomba, unica figlia di sua madre, sua delizia.

"... bella come l'urora, affascinante come un miraggio  ..."


 «Come sei fortunata!» dicono le altre ragazze quando la incontrano.
Anche le regine e le concubine la lodano e si domandano:
10 «Chi è mai questa ragazza amabile come l’aurora, bella come la luna,
splendente come il sole, affascinante come un miraggio?».
" Sono sceso nel parco dei noci, fin giù nella valle,
sono andato a vedere se le viti germogliano, se i melograni sono in fiore.
12 Ma ora non mi riconosco più: mi hai conquistato, figlia di prìncipi"!

VII
Il coro
      «Voltati, voltati, Sulamita,
      voltati, voltati, e lasciati guardare! ».

LUI
È bella, vero, la Sulamita
nella «danza delle due schiere»!
2  Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, principessa.
Le curve dei tuoi fianchi sono davvero un’opera d’arte.
3  Lì c’è una coppa rotonda: che non manchi mai di vino profumato!
Il tuo ventre è come un mucchio di grano circondato di gigli.
4  I tuoi seni sono come due cerbiatti o due gemelli di una gazzella.
5  II tuo collo assomiglia alla Torre d’avorio.
I tuoi occhi sembrano i laghetti di Chesbon,
vicino alla porta di Bat-Rabbim.
Il tuo naso è come la Torre del Libano,
che sorveglia la città di Damasco.
6  La tua testa si erge fiera come il monte Carmelo.
I tuoi capelli hanno riflessi color porpora;
un re è stato preso dalle tue trecce!
7  Quanto sei bella, come sei graziosa,
amore mio, delizia mia.
8  Sei slanciata come una palma,
i tuoi seni sembrano grappoli di datteri.
9  Voglio salire sulla palma e raccogliere i suoi frutti!
I tuoi seni siano per me come grappoli d’uva;
il profumo del tuo respiro come l’odore delle mele
10  e la tua bocca come il buon vino...!

LEI
... Sì, un buon vino,
tutto per il mio amore,
scivoli sulle nostre labbra addormentate!
11 Io sono del mio amore e lui mi desidera.
12 Vieni, amore, andiamo nei campi, passiamo la notte tra i fiori.
13 Al mattino presto saremo già nelle vigne,
a vedere se germogliano, se le gemme si schiudono,
se i melograni sono in fiore.
Laggiù ti darò il mio amore.
14 Le mandragole mandano il loro profumo.
Alla nostra porta abbiamo ogni specie di frutti deliziosi, secchi e freschi.
Amore mio, li ho conservati per te.

VIII
Come vorrei che tu fossi mio fratello, allattato da mia madre.
Incontrandoti per via potrei abbracciarti senza essere rimproverata.
2  Ti porterei in casa e tu mi insegneresti l’amore.
Ti farei assaggiare il mio vino profumato e il mio succo di melagrana.
3  II suo braccio sinistro è intorno al mio collo,
con il destro mi abbraccia.
4  Ragazze di Gerusalemme, vi supplico:
non risvegliate il nostro amore, non provocatelo prima del tempo.

Ragazze
«Chi è quella ragazza che arriva dal deserto
 abbracciata al suo amore?».

"... abbracciata al suo amore  ..."


LEI
Ti ho svegliato sotto il melo,
lì dove tua madre ti ha concepito.
6 Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio.
Perché l’amore è forte come la morte,
la passione è irresistibile come il mondo dei morti.
È una fiamma ardente come il fulmine'.
7 Non basterebbe l’acqua degli oceani a spegnere l’amore.
Neppure i fiumi lo potrebbero sommergere.
Se qualcuno provasse a comprare l’amore con le sue ricchezze
otterrebbe solo il disprezzo.

I fratelli
* «Nostra sorella è molto giovane,
non ha quasi seno!
Che cosa faremo per lei quando le faranno la corte?
9  Se fosse un muro costruiremmo su di lei delle torri d’argento.
Se fosse una porta,
la rinforzeremmo con assi di pino».

LEI
10 Se io sono un muro,
i miei senisono già come torri.
Ma il mio amico lo accolgo
e gli voglio dar pace.

LUI
11 Salomone ha una grande vigna a Baal-Amon,
e l’ha affidata a dei guardiani.
Ciascuno gli versa in frutto mille pezzi d’argento.
12 Tieni pure i tuoi mille pezzi d’argento, Salomone,
danne duecento ai tuoi guardiani.
La mia piccola vigna è qui, ed è tutta per me.
13 Bella mia, che stai nel giardino,
i miei amici cercano di ascoltare quel che stai dicendo.
Fai sentire anche a me!

LEI
14 Corri, amore, veloce
come una gazzella o un cerbiatto sui monti profumati1’.


(Traduzione a cura dell’ABU – Alleanza Biblica Universale -  L.D.C. Ed, Leumann-Torino,1985)



Il Cantico dei Cantici , un sogno d'amore

*     *     *  

Sul “CANTICO DEI CANTICI”
 di Gianfranco Ravasi

«Non c’è nulla di più bello del Cantico dei cantici»: queste parole sono pronunziate da uno dei personaggi de L’uomo senza qualità, il capolavoro dello scrittore austriaco Robert Musil (1880-1942), grande testimone della crisi europea del Novecento. Esse esprimono l’ammirazione incondizionata che ha goduto questo libretto biblico di sole 1250 parole ebraiche. Un poemetto che ha meritato appunto il titolo di Shir hasshirim, Cantico dei cantici, un modo semitico per esprimere il superlativo: il “cantico” per eccellenza, il “canto sublime” dell’amore e della vita.

Il massimo teologo protestante del Novecento, Karl Barth, non aveva esitato a definire questo scritto «la magna charta dell’umanità». Eppure questa «charta» del nostro essere uomini capaci di amare, di godere ma anche di soffrire, non è sempre stata letta in modo uniforme perché le sue sfaccettature sono molteplici e variegate come quelle di una pietra preziosa. Sembra aver ragione un antico rabbino, Saadia ben Joseph (882-942), il quale comparava il Cantico a una serratura di cui si è persa la chiave: per aprirla si devono moltiplicare i tentativi.

La chiave indispensabile per schiudere questo scrigno è, però, come spesso accade, la più immediata. Per comprendere il senso fondamentale di questo libro in cui Dio parla il linguaggio degli innamorati, è necessario usare la chiave delle sue parole poetiche, cioè di quello che un tempo si era soliti definire il senso letterale. Infatti l’opera raccoglie il gioioso dialogo di due persone che si amano, che si chiamano per 31 volte dodî, “amato mio”, un vezzeggiativo molto simile a quei nomignoli che gli innamorati si coniano segretamente per interpellarsi. 

Nel Cantico la donna e l’uomo trovano tutta la freschezza e l’intensità di una relazione che essi stessi vivono e sperimentano attraverso l’eterno miracolo dell’amore. È una relazione intima e personale, costruita sui pronomi personali e sui possessivi di prima e seconda persona: «mio/tuo», «io/tu». La sigla spirituale e “musicale” del Cantico è in quella folgorante esclamazione della donna: dodî lî wa’anî lô, «il mio amato è mio e io sono sua» (2, 16). Esclamazione reiterata e variata in 6, 3: ’anî ledodî wedodî lî, «io sono del mio amato e il mio amato è mio». È la formula della pura reciprocità, della mutua appartenenza, della donazione vicendevole e senza riserve.

Questa perfetta intimità passa attraverso tre gradi. Conosce la bipolarità sessuale che è vista come “immagine” di Dio e realtà «molto buona/bella», secondo la Genesi (1, 27 e 31), cioè rappresentazione viva del Creatore attraverso la capacità generativa e di amore della coppia. Ma la sessualità da sola è meramente fisica. L’uomo può salire a un grado superiore intuendo nel sesso l’eros, cioè il fascino della bellezza, l’estetica del corpo, l’armonia della creatura, la tenerezza dei sentimenti. Con l’eros, però, i due esseri restano ancora un po’ “oggetto”, esterni l’uno all’altro. 

È solo con la terza tappa, quella dell’amore, che scatta la comunione umana piena che illumina e trasfigura sessualità ed eros. E sono soltanto la donna e l’uomo fra tutti gli esseri viventi che possono percorrere tutte queste tappe giungendo alla perfezione dell’intimità, del dialogo, della donazione d’amore totale.

Nel Cantico è in scena, quindi, l’amore tenero, “primaverile”, presente non solo nella coppia bella di due giovani innamorati ma, potremmo dire, anche nell’immutata tenerezza di una coppia anziana ancora innamorata. Un primato è assegnato soprattutto alla femminilità perché nel Cantico la donna è più protagonista dell’uomo, nonostante il sedimentato maschilismo dell’oriente da cui l’opera proviene. 

Significativa per il nostro tema è l’attenzione riservata al volto dei due innamorati. Certo, tutto il corpo - inteso come segno di comunicazione - è coinvolto nel poema: ci sono le braccia, la mano e le dita, il cuore, il seno, il ventre, i fianchi, l’ombelico, le gambe, i piedi, le carezze, la pelle scura. Ma centrale è il volto, descritto in tutti i suoi tratti: dal capo al collo, dalle guance agli occhi, dalla bocca alle labbra, dal palato ai denti, dai capelli fino ai riccioli. È il volto il segno più vivo e autentico del dialogo, dell’incontro, della comunione di vita, pensiero e sentimento.

Il Cantico è, poi, un inno continuo alla gioia di vivere: quando il cielo è spento dalle nuvole - scriveva Paul Claudel - la superficie di un lago è piatta e metallica; quando brilla il sole essa si trasforma in uno specchio mirabile delle tinte del cielo e della terra. Così, infatti, è della vita dell’uomo quando si accende l’amore: il panorama è sempre lo stesso, il lavoro è sempre monotono e alienante, le città anonime e fredde, i giorni identici l’un l’altro; eppure l’amore tutto trasfigura e allora si ama e si vede tutto con occhi diversi perché l’uomo sa che alla sera incontrerà la sua donna. 

L’amore umano, però, conosce anche la crisi, l’assenza, la paura, il silenzio, la solitudine. Ci sono nel Cantico due scene notturne (3, 1-5 e 5, 2 - 6, 3) piene di tensione in cui l’uomo e la sua donna sono lontani e si cercano disperatamente senza ritrovarsi. L’apice del poema biblico è in 8, 6 ove si mette in tensione dialettica amore e morte: «Potente come la morte è amore, / inesorabile come gli inferi la passione: / le sue scintille sono scintille ardenti, / una fiamma del Signore» (curiosamente è l’unico verso del Cantico in cui risuoni il nome divino Jah/Jhwh). In quel duello estremo il poeta sacro è certo che l’amore debba prevalere, come Dio è vincitore della morte e del male. 

Il Cantico è, quindi, prima di tutto la celebrazione dell’amore umano e del matrimonio. Tuttavia, in questo amore il poeta biblico intravede quasi un seme dell’amore eterno e perfetto con cui Dio ama la sua creatura. Non dimentichiamo, infatti, che già il profeta Osea nell’VIII secolo prima dell’era cristiana, aveva usato la sua drammatica esperienza matrimoniale e familiare trasformandola in una parabola dell’amore di Dio per il suo popolo Israele (Osea, 1-3). Questa trasmutazione tematico-simbolica appare implicitamente anche nel Cantico.

All’interno dell’amore umano - e non prescindendo da esso, come si è fatto invece nella cosiddetta lettura “allegorica” che ha ridotto il Cantico a una larva spiritualeggiante - dobbiamo cogliere un segno ulteriore, quello dell’amore trascendente di Dio per la sua creatura. È il secondo livello interpretativo attraverso il quale il Cantico è diventato anche il testo della mistica cristiana: citiamo solo i Pensieri sull’amore di Dio di santa Teresa d’Avila e quel capolavoro letterario e mistico che è il Cantico spirituale di san Giovanni della Croce, che si alimentano al Cantico dei cantici

La rappresentazione plastica più famosa di questo intreccio spirituale potrebbe essere l’Estasi di santa Teresa del Bernini nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria: un angelo lancia la freccia dell’amore divino verso la santa che è immersa in un’estasi fisica e interiore di altissima intensità, spirituale e sensuale. La vergine amante si abbandona a Dio attraverso un amore incandescente che pervade tutto l’essere, anche fisico. 

Ma nella Bibbia il testo che maggiormente fa risplendere la meraviglia dell’amore umano e il suo valore di segno teologico è proprio il Cantico. Dio, infatti, come insegna la prima lettera di san Giovanni, «è amore». Un antico testo giudaico commentava così il viaggio di Israele nel deserto del Sinai: «Il Signore venne dal Sinai per accogliere Israele come un fidanzato va incontro alla sua fidanzata, come uno sposo abbraccia la sua sposa».
Il Cantico, quindi, deve accompagnare gli innamorati nelle tappe oscure e serene, nel riso e nelle lacrime di quella stupenda vicenda che è il loro amore. Ma il Cantico è nella sua meta terminale la figura suprema dell’amore tra Dio e la sua creatura, per cui esso diventa un testo capitale soprattutto per tutti i credenti. Perciò, aveva ragione il grande scrittore cristiano del iii secolo Origene di Alessandria quando scriveva: «Beato chi comprende e canta i cantici delle Sacre Scritture! Ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei cantici!».

(giugno 2014)


Il Cantico dei Cantici , il più bel canto d'amore


*     *     *  

Risveglio


In un'alba triste, 
la felicità della prima coppia appena creata svanisce insieme alla loro innocenza. 
L'Eden è perduto per sempre.

Il primo peccato, la superbia, porterà presto frutti di violenza e di morte.
I fratelli uccideranno i fratelli
e un fiume di sangue inonderà tutta la terra.

Nei riverberi della memoria
la nostalgia del paradiso,
nel risveglio della storia
il contrappunto di un dolore senza fine.



Il cantico dei cantici
di I. Kambanellis - M. Theodorakis
( clip di Leoncarlo Settimelli)
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  Il  II  'Salottino' 
del 23 ottobre e del 6 novembre 2018





Maurits Cornelis Escher

(Leeuwarden, 17 giugno 1898 – Laren, 27 marzo 1972)

Il nome di Escher, grafico e disegnatore, è indissolubilmente legato alle sue incisioni su legno, litografie e mezzetinte che tendono a presentare costruzioni impossibili, esplorazioni dell'infinito, tassellature del piano e dello spazio e motivi a geometrie interconnesse gradualmente cangianti in forme via via differenti.

Le opere di Escher sono molto amate dagli scienziati, logici, matematici e fisici che apprezzano il suo uso razionale di poliedri, distorsioni geometriche ed interpretazioni originali di concetti appartenenti alla scienza, sovente per ottenere effetti paradossali. 


*    *    *

Il giovane Maurits, per le varie materie insegnate a scuola, rivelò un interesse saltuario e inadeguato, tanto che dovette ripetere più volte lo stesso anno scolastico. Da studente, fu sempre sottovalutato dai suoi insegnanti: «Escher è troppo ostinato, troppo filosofico-letterario: al ragazzo mancano vivacità e originalità: è troppo poco artista».


A 24 anni Escher visitò l'Italia in compagnia di alcuni suoi amici. Stregato dalla bellezza italica, vi ritornò nell'autunno dello stesso anno, imbarcandosi su una nave diretta a Genova. Da Genova si spinse poi sino a Siena. Piacevolmente colpito dalla città e dalle verdeggianti campagne toscane, a Siena eseguì le prime incisioni lignee su paesaggi italiani (sotto, l'incisione "Paesaggio intorno a Siena, 1923)




Nel 1923 Escher si trasferì presso la costiera amalfitana.  Restò folgorato dalla suadente plasticità della luce del Mezzogiorno e, soprattutto, dalla commistione di elementi romani, greci e saraceni presente nelle architetture di Ravello e Amalfi, città campane che lasciarono un'impronta profonda nella sua fantasia.


Dopo il matrimonio con Jetta Umiker (1924) si stabilì a Roma. L'artista visse anni idillici in Italia, che divenne per lui una seconda patria dove ritenne di poter maturare tranquillamente la propria fisionomia artistica. 


Negli anni trenta, in Italia, il Fascismo aveva definitivamente consolidato il propri connotati di regime totalitario. Un clima politico così teso e cupo era insopportabile per Escher, che vacillò del tutto quando nel 1935 vide il figlio George tornare a casa con l'uniforme di Piccolo Balilla. Questo evento, apparentemente insignificante, costituì per Escher la classica goccia che fece traboccare il vaso: perciò egli lasciò istantaneamente il paese, trasferendosi con la famiglia in Svizzera.


Escher rimase «in questo tremendo paesaggio misero e bianco» un anno: il paesaggio elvetico non lo ispirava per nulla. I monti gli sembravano pietraie senza storia, blocchi rocciosi senza vita. Tutto, intorno a lui, era l'opposto dell'Italia Meridionale, che tanto aveva catturato il suo sguardo. I tempi erano ormai maturi per fare ritorno alla suadente mitezza del Mar Mediterraneo: nel 1936 intraprese un breve viaggio in Spagna. Questo viaggio fu importantissimo per la maturazione grafica di Escher. A Granada, infatti, egli si imbatté nell'Alhambra, il complesso palaziale moresco i cui interni sono ornati con arabeschi e motivi grafici ricorsivi. La ricezione delle tassellazioni moresche fu seguita da risvolti sensazionali nella grafica escheriana.


Fermo nel proposito di non ritornare mai più in Svizzera, nel 1937 Escher si trasferì con la famiglia nella città belga di Ukkel (nei pressi di Bruxelles): la seconda guerra mondiale era alle porte, e l'artista voleva stare anche fisicamente più vicino ai suoi cari, rimasti nei Paesi Bassi. Nel frattempo la sua arte subì un drastico cambiamento tematico: Escher iniziò a esplorare le proprie visioni interiori, non più legato ai moduli paesaggistici degli anni italiani. 


La notorietà di Escher si consolidò, e si moltiplicarono le mostre a lui dedicate e i riconoscimenti ufficiali. Escher continuò a viaggiare per il Mediterraneo, e vide i suoi figli «crescere, studiare e prendere poi la loro strada per il mondo». L'alacre produttività di Escher si interruppe solo nel 1964, quando, a causa di una grave malattia, dovette essere operato di urgenza in Canada. Le sue energie creative lentamente si esaurirono, sino a scomparire del tutto quando nel 1970 si trasferì a Laren, nell'Olanda settentrionale, nella casa di riposo per artisti. Qui morì il 27 marzo 1972, all’età di quasi settantaquattro anni.

*    *    *



Durante gli esordi la produzione artistica di Escher riguardò la paesaggistica. Sono molte, infatti, le lastre grafiche escheriane che riproducono i tratti dei paesaggi italiani e delle zone costiere del Mediterraneo: un'attenzione particolare viene espressamente riservata soprattutto ai borghi montani della Calabria e della Sicilia, i cui centri abitati si fondono armoniosamente con il paesaggio circostante (sotto, l’incisione Pentedattilo Calabro, del 1930).



*    *    *


A partire dal 1936 Escher approfondì con maggiore sistematicità le tecniche della tassellatura,  un'operazione per la quale una superficie viene completamente ricoperta da motivi ripetuti con tutte le possibili variazioni. 


In quell'anno infatti il grafico visitò per la seconda volta l'Alhambra: la fisionomia architettonica di questi luoghi era certamente suggestiva e colpì molto Escher. Ad accendere il suo entusiasmo furono soprattutto le piastrellature moresche, le quali riproponevano ritmicamente il medesimo motivo ornamentale, orchestrando composizioni che tecnicamente potevano moltiplicarsi sino all'infinito. «I mori erano maestri proprio nel riempire completamente superfici con un motivo sempre uguale. In Spagna, all’Alhambra, hanno decorato pavimenti e pareti mettendo uno vicino all'altro pezzi colorati di maiolica della stessa forma senza lasciare spazi intermedi» commentava Escher, traboccante di entusiasmo. 


Escher comprese come le suddivisioni regolari del piano potessero dare vita a esiti grafici inaspettati e sensazionali. Egli, infatti, capì che per piastrellare una superficie con un motivo ornamentale quest'ultimo deve essere sottoposto ad almeno una delle seguenti operazioni: simmetria per traslazione, simmetria per rotazione, simmetria per riflessione o simmetria per glissoriflessione. In questo modo Escher riuscì a produrre composizioni come Angeli e diavoli, dove sfruttando abilmente i pieni e i vuoti vengono fatti corrispondere i rispettivi profili delle due creature, creando così un motivo replicabile all'infinito. 





Escher riteneva che questo genere non fosse dotato di una dignità artistica autonoma e che pertanto andasse frequentato in composizioni più ambiziose e di più grande respiro. È il caso di Giorno e notte (1938), una delle silografie più note dell'artista, dove una tassellazione bidimensionale raffigurante anatre bianche e nere in volo degenera in una fantastica visione dall'alto dei campi coltivati olandesi.





Ancora più ambiziosa e articolata è Metamorfosi II (1939),  una silografia dove la parola «metamorphose» subisce un processo di metamorfosi, trasfigurandosi in figure geometriche, api, insetti, e persino in una scacchiera e in una veduta del duomo d'Atrani, per poi ritornare al punto di partenza.



 

Nei piani tassellati di ” Metamorfosi cì è un’allusione all’ infinito. Ma in altri disegni di Escher appaiono visioni più inquientanti dell’infinito. In alcuni dei suoi disegni un unico tema potrà ripresentarsi a diversi livelli di realtà.Per esempio,un livello del disegno rappresenterà chiaramente la fantasia o l’imaginazione; un altro livello potrà rappresentare la realtà. Questi due livelli saranno magari gli unici ad essere esplicitamente raffigurati. Ma la semplice presenza di questi due livelli invita lo spettatore a considerarsi egli stesso partecipe di un altro livello ancora; e così facendo egli si troverà irrimediabilmente impigliato nella catena di livelli che Escher aveva predisposto e in cui , per ognuno dei livelli, c’è sempre un livello più altro, di maggiore ” realtà”, come pure un livello più basso, ” più immaginario”. Già di per sè questo fenomeno può essere sconcertante. Ma cosa succede se la catena dei livelli non è lineare ma forma un anello? Cosa sarà allora realtà, cosa sarà fantasia? Il genio di Escher sta nella sua capacità di escogiatare e allo stesso tempo realizzare figurativamente dozzine di mondi semi-reali e semi-immaginari, mondi piedi di Strani anelli, nei quali sembra invitare i suoi spettatori ad entrare.


In Ciclo (1938), invece, troviamo un ignaro ragazzotto che corre in uno scenario architettonico tipicamente amalfitano, per poi trasformarsi inaspettatamente in una tessera geometrica. 




Vale la pena citare anche Incontro (1944), dove alcune figure bianche e nere (qualificate da Escher come «ottimiste» e «pessimiste») si distaccano dalla loro matrice tassellata e prendono vita, per poi avvicinarsi rigidamente e porgersi amichevolmente la mano. 

 

Rettili (1943), invece, è particolarmente interessante in quanto riunisce in maniera compendiaria ed elegante i vari interessi che hanno animato le ricerche pittoriche di Escher. Vi sono infatti raffigurati spazi dimensionalmente diversi che si incontrano, con i piccoli animali preistorici che escono dal mondo bidimensionale e tassellato di un libro per poi ritornarvi.






 *   *   *


Dopo il 1937, la rappresentazione naturalistica era passata per Escher in secondo piano. Da quel momento in poi, ciò che lo conquisterà saranno simmetrie, strutture matematiche, continuità e infinito, e il problema che è presente in ogni suo quadro: la riproduzione di tre dimensioni su di una superficie bidimensionale. Tema fondamentale dell'arte escheriana sarà quello della compenetrazione tra due mondi differenti. Escher spesso si divertì a esplorare le possibilità della visione e a progettare composizioni che, nonostante i limiti fisici imposti dalla bidimensionalità del supporto, si dilatano ed evocano simultaneamente due mondi differenti. 


Escher ripudia la visione monoculare prevista dai tradizionalismi artistici e propone una rappresentazione più complessa dello spazio, attirando nella dimensione illusoria dei suoi disegni realtà che tecnicamente dovrebbero essere estranee al loro spazio figurativo. Si verifica, in un certo senso, il paradosso della diplopia, ove l'autore riunisce due o tre punti di vista nello stesso disegno, rendendolo così tridimensionale. 


L’arte di Escher ruota ormai intorno a un concetto unico e fondamentale, quello dello spazio, che però non è la semplice riproduzione su un piano dell'ambiente tridimensionale secondo le leggi della prospettiva. Il tema indagato da Escher va oltre e si sviluppa sulla base di accorgimenti geometrici che vanno a cercare le situazioni limite, nelle quali la percezione dello spazio è incerta, ambigua e gli elementi che lo popolano possono ben essere definiti "oggetti impossibili".


Per conquistare quest'inedita spazialità Escher si serve spesso di specchi convessi e dei loro riflessi. Esemplare, in tal senso, è la litografia Mano con sfera riflettente (1935), dove la realtà ambigua e illusiva del dipinto viene raddoppiata e oggettivata nella mano che regge la sfera e nella superficie riflettente di quest'ultima, dove troviamo raffigurato Escher nel suo studio.




Per operare quest'intrecciò di più mondi, Escher si servì anche di superfici specchianti piane, come nel caso di Superficie increspata (1950), dove la sagoma pallida del sole e i tronchi nudi di alcuni alberi si riflettono in uno stagno appena velato da leggere increspature ellittiche, che distorcono la visione e consentono la discriminazione tra l'entità riflettente (l'acqua disturbata dalle gocce di pioggia) e la realtà riflessa (il paesaggio circostante). 




Risultati ancora più sofisticati si ottengono in Tre mondi (1955), dove troviamo illustrate ben tre dimensioni, quella relativa agli alberi (spogli per via dei rigori dell'autunno), quella relativa alla superficie d'acqua (individuata dalla miriade di foglie galleggianti) e infine quella relativa al mondo subacqueo, personificato nel pesce che sguazza in primo piano. 



La poetica della «simultaneità dei mondi» giunge a esiti ancora più sorprendenti in Specchio magico (1946), dove Escher suggerisce che in realtà le immagini riflesse potrebbero continuare a vivere di vita propria,






e in Sole e luna (1948), dove una tassellatura regolare del piano si congiunge con l'esigenza di rappresentare il giorno e la notte, con i quattordici uccelli bianchi che individuano la volta del firmamento notturno, con la luna e gli astri che brillano nel cielo, e i quattordici volatili neri che con le loro sagome scure trasportano l'osservatore verso un cielo chiaro striato dai raggi ardenti del Sole. 


Speciale menzione merita la Natura morta e strada (1937), nella quale «il confine tra davanzale e strada è stato omesso e la struttura del davanzale si conforma alla strada», in modo tale da congiungere due realtà chiare e riconoscibili in modo naturale, e neppure del tutto impossibile. 



*    *    *





Escher con le sue opere si è fatto cantore di un mondo governato da armonie di tipo geometrico e matematico. «Mi sento spesso più vicino ai matematici che ai miei colleghi artisti» ammise Escher, pienamente consapevole di come due mondi apparentemente distantissimi, come quelli dell'arte e della matematica, riuscissero nei suoi disegni a fondersi in un'euritmico equilibrio.



Gli anni in cui Escher approfondiva la propria maturazione artistica, in effetti, erano segnati da un profondo risveglio di fermenti culturali, decollati grazie allo slancio fornito dalle scoperte di Heisenberg ed Einstein, dalle esperienze estetiche del Surrealismo e del Cubismo, dai lavori di Poincarè e Turing. Si andava affermando una scienza che, se da una parte forniva all'uomo gli strumenti per conoscere e, dunque, dominare la Natura, dall'altra veicolava anche profonde inquietudini e insicurezze che, come ebbe modo di asserire lo stesso Escher, aprivano inesorabilmente pericolosi «sensi di vuoto» nell’esperienza viva dell’uomo.


Lo stesso Escher nella sua arte faceva ampio ricorso - più o meno consapevolmente -  a concetti matematici come le trasformazioni sul piano cartesiano, masticando anche qualcosa di geometria non euclidea: molte sue opere arrivano persino a preludere pioneristicamente a principi scientifici che dovevano risultare assolutamente ignoti all'artista, essendo germogliati definitivamente solo molti decenni più tardi. 


L'arte di Escher tendeva a cogliere le dimensioni di infinito. Nel 1959 l'artista fornì la seguente formulazione filosofica del concetto di «infinito»: «L'uomo è incapace di immaginare che in qualche punto al di là delle stelle più lontane nel cielo notturno lo spazio possa avere fine, un limite oltre il quale non c'è che il "nulla". Il concetto di "vuoto" ha per noi un certo significato, perché possiamo almeno visualizzare uno spazio vuoto, ma il "nulla" nel senso di "senza spazio" è al di là delle nostre capacità d'immaginazione. È per questo che da quando l'uomo è venuto a giacere, sedere, stare in piedi, a strisciare e camminare sulla terra, a navigare, cavalcare e volare sopra di essa (e lontano da essa), ci siamo aggrappati a illusioni, a un al di là, a un purgatorio, un cielo e un inferno, a una rinascita o a un nirvana, che esistono tutti eternamente nel tempo e interminabilmente nello spazio».



Il nome di Escher è indissolubilmente legato a quello dei cosiddetti «mondi impossibili». Si tratta di una formulazione artistica degli stravolgimenti attuati da Albert Einstein con i suoi due postulati della teoria della relatività, i quali richiedono l'abbandono della tradizionale concezione dello spazio e del tempo fondata sull'idea di un continuum spaziale fluente attraverso un continuum temporale, e conducono all'assunzione di un continuo spazio-temporale in cui distanze e spazi temporali variano al mutare del sistema di riferimento. 


Escher decide di registrare graficamente la paradossalità delle conquiste concettuali einsteiniane in opere come Relatività (1953). 





Si tratta  di una litografia che raffigura un universo relativistico spaesante, surreale, dove la percezione dei vari ambienti è affidata al punto di vista scelto dall'osservatore. Nello spazio illusivo della litografia sono infatti compresse tre dimensioni spaziali tra loro ortogonali: le varie entità ivi effigiate, pertanto, possono essere interpretate in modi diversi a seconda della dimensione considerata (si può facilmente osservare, ad esempio, come ciò che in un mondo è una parete, in un altro è un soffitto, o magari un pavimento). 


L'identificazione delle figure di Relatività, pertanto, cessa di essere un'operazione meccanica ed esige l'adozione di un punto di vista, giocoforza relativo, da parte dell'osservatore: ecco, allora, che ogni cosa appare del tutto normale se considerata localmente, ma è alquanto strana e surreale se considerata in rapporto al resto. Questa relativizzazione dello spazio pittorico culmina poi nelle scale, le cui alzate e pedate sono perfettamente interscambiabili. Sono moltissime, tuttavia, le rappresentazioni escheriane che, a dispetto della loro unitarietà, colgono simultaneamente più mondi distinti, sfidando la concettualità che da secoli si era sedimentata nella psiche umana.


Un'ambiguità di visione analoga la si riscontra anche in Salita e discesa (1960), raffigurante un complesso edilizio sulla cui sommità troviamo alcuni monaci che si susseguono in una scalinata sempre in salita, o sempre in discesa. L'elusività dell'opera è lampante: seguendo il percorso dei monaci, infatti, si riscontrerà come dopo un ciclo di «salita» o «discesa» quest'ultimi si ritrovino allo stesso punto di partenza.
 


In Cascata (1961), invece, vi è un flusso d'acqua che sembra localmente in piano, ma globalmente in salita. L'acqua contenuta nel canale, infatti, dopo aver zigzagato seguendo i profili di due triangoli immaginari precipita in una cascata scrosciante che alimenta un mulino il quale, a sua volta, spinge nuovamente l'acqua in un canale: si viene così a creare un moto perpetuo all'interno di un sistema chiuso, in aperta controtendenza con quanto prescritto dalla legge di conservazione dell'energia. 




In Belvedere (1958) lo spazio architettonico è orchestrato in modo tale da generare nell'osservatore un vero e proprio shock visivo. Per la spazialità di quest'ultima opera, Escher riesce a intrecciare opportunamente le colonne diagonali sulle quali si struttura l'intero palazzo ivi raffigurato. 





*   *   *


La ricerca dell’ultimo Escher si rivolge verso un approdo concettuale ai confini tra i nuovi orizzonti della fisica e della filosofia esistenziale.


“Ho notato che alcune persone a volte pensano che fare domande come: «Che cos’è la realtà?» sia inutile e che non abbia a che fare con le realtà quotidiane. Ma supponiamo per un momento che il nostro mondo “là fuori” sia costruito dalla nostra percezione. Dovremmo prendere in esame la relazione tra la nostra coscienza e la realtà materiale… e che possa essere addirittura la coscienza stessa ad essere la sostanza fondamentale dell’universo”.


Già nel XVIII secolo, il filosofo tedesco Immanuel Kant aveva sostenuto che gli esseri umani non possono mai conoscere davvero la natura della realtà così com’è. Le nostre indagini forniscono soltanto risposte agli interrogativi che poniamo, i quali sono basati sulle capacità e limitazioni della nostra mente. Tutto quello che percepiamo nel mondo naturale, sia attraverso i nostri sensi che attraverso la scienza, passa attraverso il filtro della nostra coscienza, ed è determinato, perlomeno fino a un certo punto, dalle strutture proprie della mente. Così, quelli che vediamo sono “fenomeni”, ovvero l’interazione tra la mente e qualsiasi cosa ci sia “realmente là fuori”.


Noi, dunque, non vediamo la realtà; vediamo soltanto la nostra costruzione della realtà, fabbricata dai neuroni del nostro cervello. In altre parole, la scienza ci fornisce soltanto dei modelli del mondo, non il mondo stesso.     


Come afferma Miceal Ledwith, « … la visione quantistica della realtà non è la risposta risolutiva. Nella storia della scienza non stiamo cercando di fare altro che produrre modelli sempre meno imperfetti per esprimere la natura di ciò che esiste e, naturalmente, forse tra venti o trent’anni la fisica quantistica sarà sostituita da una comprensione più profonda e radicale della realtà, qualunque sia il nome che verrà dato a quella fisica».

 Maurits Cornelis Escher, autoritratto - 1929


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 Il  I  'Salottino' 
del 9 e del 16 ottobre 2018



   Preghiera in gennaio

Lascia che sia fiorito Signore il suo sentiero
quando a te la sua anima e al mondo la sua pelle
dovrà riconsegnare quando verrà al tuo cielo
là dove in pieno giorno risplendono le stelle.

Quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte
ai suicidi dirà baciandoli alla fronte
venite in Paradiso là dove vado anch’io
perchè non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio.

Fate che giunga a voi con le sue ossa stanche
seguito da migliaia di quelle facce bianche
fate che a Voi ritorni fra i morti per oltraggio
che al cielo ed alla terra mostrarono il coraggio.

Signori benpensanti spero non vi dispiaccia
se in cielo in mezzo ai Santi Dio fra le sue braccia
soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte
che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte.

Dio di misericordia il tuo bel Paradiso
lo hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso
per quelli che han vissuto con la coscienza pura
l’inferno esiste solo per chi ne ha paura.

Meglio di lui nessuno mai ti potrà indicare
gli errori di noi tutti che puoi e vuoi salvare.
Ascolta la sua voce che ormai canta nel vento
Dio di misericordia vedrai, sarai contento.

Dio di misericordia vedrai, sarai contento.

(Compositori: Fabrizio De Andre / Gian Piero Reverberi)




De André dichiarò di aver scritto questa canzone al ritorno dal funerale di Luigi Tenco amico cantautore di De André morto suicida a 29 anni, nel gennaio 1967.

"L'ho dedicata a Tenco. Scritta, o meglio pensata nel ritorno da Sanremo dove c'eravamo precipitati io, la mia ex moglie Enrica Rignon e la Anna Paoli. Dopo aver visto Luigi disteso in quell'obitorio (fuori Sanremo peraltro, perché non ce l'avevano voluto) tornando poi a Genova in attesa del funerale che si sarebbe svolto due giorni dopo a Cassine, mi pare, m'era venuta questa composizione. Sai, ad un certo punto non sai cosa fare per una persona che è morta, ti sembra quindi quasi di gratificarla andando al suo funerale, scrivendo - se sei capace di scrivere e se ne hai l'idea - qualcosa che lo gratifichi, che lo ricordi... forse è una forma... ma d'altra parte è umano, credo... non l'ho di certo scritta apposta perché la gente pensasse che io avevo scritto apposta una canzone per Luigi, tant'è vero che non c'era scritto assolutamente da nessuna parte che l'avevo composta per lui”.

"Preghiera in gennaio" fu incisa nell'album "Volume 1" del 1967. Il testo è ispirato alla poesia "Prière pour aller au paradis avec le anes" (Preghiera per andare in paradiso con gli asini) composta nei primi del '900 dal poeta francese Francis Jammes. 



Lorsqu’il faudra aller vers vous, ô mon Dieu, faites
que ce soit par un jour où la campagne en fête
poudroiera. Je désire, ainsi que je fis ici-bas,
choisir un chemin pour aller, comme il me plaira,
au Paradis, où sont en plein jour les étoiles.

Je prendrai mon bâton et sur la grande route
j’irai, et je dirai aux ânes, mes amis:
Je suis Francis Jammes et je vais au Paradis,
car il n’y a pas d’enfer au pays du Bon-Dieu.
Je leur dirai: Venez, doux amis du ciel bleu,
pauvres bêtes chéries qui, d’un brusque mouvement d’oreilles
chassez les mouches plates, les coups et les abeilles…

Que je vous apparaisse au milieu de ces bêtes
que j’aime tant parce qu’elles baissent la tête
doucement, et s’arrêtent en joignant leurs petits pieds
d’une façon bien douce et qui vous fait pitié.
J’arriverai suivi de leurs milliers d’oreilles,
suivi de ceux qui portèrent aux flancs des corbeilles,
de ceux traînant des voitures de saltimbanques
ou des voitures de plumeaux et de fer blanc,
de ceux qui ont au dos des bidons bossuées,
des ânesses pleines comme des outres, aux pas cassés,
de ceux à qui l’on met de petits pantalons
à cause des plaies bleues et suintantes que font
les mouches entêtées qui s’y groupent en ronds.

Mon Dieu, faites qu’avec ces ânes je vous vienne.
Faites que, dans la paix, des anges nous conduisent
vers des ruisseaux touffus où tremblent des cerises
lisses comme la chair qui rit des jeunes filles,
et faites que, penché dans ce séjour des âmes,
sur vos divines eaux, je sois pareil aux ânes
qui mireront leur humble et douce pauvreté
à la limpidité de l’amour éternel.

                                             *  *  *

Traduzione italiana di Gianni Montagna:

Preghiera per andare in Paradiso con gli asini 

Quando dovrò venire verso di te, Signore,
fa che un bel giorno sia, che la campagna in fiore
risplenda. Il mio sentiero vorrei, come quaggiù,
scegliermi per andare, come mi piacerà,
al Paradiso, dove di giorno son le stelle.
Prenderò il mio bastone e sulla strada grande
andrò, dicendo ai miei amici, gli asinelli:
Io sono Francis Jammes e vado in Paradiso,

ché non c’è inferno nel paese del buon Dio.

 
E dirò lor: Venite, del cielo azzurro, amici,
povere bestie che con un muover d’orecchi
discacciate le api, le busse ed i tafani…
Che io ti apparisca in mezzo a queste bestie,
che per questo mi piacciono: che abbassano la testa
dolcemente e si fermano giungendo i lor piedini
in un modo dolcissimo e che ti fa pietà.
Arriverò seguito da migliaia d’orecchi,
da quelli che portarono pesanti ceste ai fianchi,
da quei che trascinarono carri di saltimbanchi,
o carretti ricolmi di pentole e piumini,
da quelli che han sul dorso dei bidoni ammaccati,
dalle asine pregne, come otri i fianchi enfiati,
da quelli ai quali infilano come dei calzoncini,
per le bluastre piaghe che fanno purulente

le mosche che testarde vi s’attaccano intorno.
Signore, con questi asini a te venga, quel giorno.

E fa che siano gli angeli a guidarci alla pace,
verso ruscelli erbosi che specchiano ciliegie
lisce come una carne ridente di fanciulle;
che curvo sulle tue acque divine, in quella
dimora degli eletti, agli asini somigli,
la povertà miranti, umile e dolce loro,
dentro la limpidezza di un eterno amore.

Nella Preghiera in gennaio non compare il nome del protagonista nel titolo, e neanche nel testo, forse perché non era necessario. Infatti è noto che la canzone fosse dedicata all’amico Luigi Tenco, morto suicida nella sua camera d’albergo dopo l’esclusione della sua canzone (“Ciao amore ciao”)  nel festival di Sanremo. La stampa speculò molto su questo fatto tragico e la Rai censurò la trasmissione di questo componimento musicale, che andò in onda per la prima volta sulla Radio Vaticana. Forse la Rai aveva paura, come disse lo stesso cantautore, che fosse “un’esaltazione del suicidio”.



  
Luigi Tenco
(Cassine, Alessandria 21 marzo 1938 – Sanremo, 27 gennaio 1967)


Preghiera in gennaio non racconta una storia, ma si connota come una vera e propria preghiera rivolta a Dio per quelli che al cielo ed alla terra mostrarono il coraggio. Tenco aveva lasciato scritto: “Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta”. De Andrè usa infatti le parole oltraggio, odio, ignoranza (rivolte al pubblico dell’epoca), che contrastano con la coscienza pura di chi ha vissuto pienamente e tuttavia decide di morire. La misericordia, ancora una volta, e come lo sarà in decine di canzoni lungo tutta la sua carriera, è un sentimento profondamente umano che va al di là di ogni etichetta – ateo, laico o cristiano che sia. 



*  *  *


La musica fu composta da De André con la collaborazione di Giampiero Reverberi. De André stimava molto Tenco dal punto di vista artistico essendo uno di quei cantautori che trattava, nei suoi testi, tematiche molto vicine al proprio stile oltre ad avere un'idea politica molto simile. Non molto tempo prima della scomparsa di Tenco, tra l'altro, i due avevano parlato di una possibile futura collaborazione artistica che ipotizzavano da tempo. 


Quella partecipazione a Sanremo che Tenco, come De André, aveva sempre rifiutato divenne per l'artista una gabbia mortale. Subito dopo appresa la notizia, nella notte tra il 26 e 27 gennaio, De André si precipita a Sanremo con Puny, nomignolo dell'ex moglie Enrica Rignon, e con Anna Paoli e, osservando il corpo di Luigi nell'obitorio, venne colpito dal pallore della morte e dal colore scuro delle sue labbra carnose. Sulla strada di ritorno per Genova, in attesa dei funerali che si sarebbero tenuti due giorni dopo, De André ebbe l'ispirazione da cui nacque questa composizione. 


De André immagina, nel testo, il trattamento che andrebbe riservato nell'aldilà a un suicida che ha preferito la morte all'odio e all'ignoranza presenti nella vita terrena. Elogia, quindi, il coraggio di un uomo che ha scelto di non vivere in un mondo che non gli apparteneva. De Andrè, quindi, si auspica che il buon Dio possa accoglierlo tra le sue braccia rincuorandolo ed aiutandolo a soffocare il singhiozzo di quelle labbra smorte in barba ai benpensanti che lo vorrebbero tra le fiamme dell'inferno. L'inferno, per De André, dovrebbe esistere solo per chi, non avendo una coscenza pura, e non hanno neppure il coraggio di credere nella misericordia divina. Il paradiso, invece, è destinato a chi, nella vita, non ha potuto sorridere. 

Nell'ultimo verso, De André invita Dio ad ascoltare la voce di Luigi, che ormai canta nel vento, prestando l’orecchio ad un'anima candida, stritolata dall’odio e dall’ignoranza.   



 Preghiera in gennaio
(per chitarra sola)


*  *  *

Preghiera in gennaio non è una canzone che parla per ellissi e allusioni, quello che deve venire detto è detto, le parole morte e suicidio compaiono. Quindi grande coraggio (fu scritta 45 anni fa), e grande provocazione, nel dipingere un Dio pietoso verso i peggiori peccatori.
 

“Dio di misericordia, vedrai sarai contento”: quanto amore in sei parole: il saluto di un amico ad un amico, senza rancore,  e questa idea favolosa che il suicida, come è stato un dono in vita per chi l’ha conosciuto, così lo sarà in morte addirittura per Dio.


De Andrè ha veramente compreso ogni cosa: la misericordia di Dio supera qualunque gesto umano; se l’uomo può decidere anche di compiere questo atto di estrema protesta, quante mani invisibili avranno armato ”quella”mano e quante mani invisibili avranno contribuito a dare “quella” spinta fatale? Ogni suicidio è un fallimento per l’intera razza umana. Ecco perché la misericordia di Dio per le sue creature sovrasta ogni cosa, perché - come diceva S. Paolo - ”dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia”. Esistono forse dei percorsi insondabili per queste anime, ma alla fine il ricongiugimento con Dio, che è amore allo stato puro, dovrà avvenire. 


*  *  *

La mattina dell’11 gennaio 1999 moriva Fabrizio De André. Dal suo primo album, "Volume I", all’ultimo, "Anime salve", passano 28 anni, 15 album e 128 canzoni. 

La prima porta il titolo di Preghiera in gennaio, l’ultima, Smisurata preghiera. La vita artistica del cantautore è racchiusa tra due preghiere, di cui la seconda è in crescendo, smisurata. Solo una suggestiva casualità o qualcosa di più? La prospettiva religiosa, nell’arte del cantautore genovese, è una pista da battere a fondo; il rischio è quello di scorgervi perle di rara bellezza (e veder cadere molti luoghi comuni).


Per De André le etichette si sono sprecate: ateo, agnostico, animista, anarchico. Basterà però ricordare quello che De André disse e cantò: servirà per aprire gli occhi sull’appassionata ricerca del vero che ha accompagnato la vita del grande poeta. «C’è chi è toccato dalla fede – scriveva De André - e chi si limita a toccare la virtù della speranza (…), il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare, è un’entità al di sopra delle parti, delle fazioni». È proprio la categoria della Speranza, da lui stesso definita virtù, quella che meglio esprime il profilo religioso del cantautore. 


Ettore Cannas, nel suo bel libro “La dimensione religiosa nelle canzoni di Fabrizio De André” (ed. Segno), con un’accurata indagine statistica, ha catalogato i termini contenuti nei testi di De André. I risultati sono interessanti. Si scopre che i quattro termini più utilizzati dal cantautore nell’intera sua produzione sono: "Dio/Signore", "Amore", "Cielo" e "Vento"; questi ultimi utilizzati sovente in senso metafisico (vento è spesso usato nel significato biblico di ruah, il soffio dello Spirito). La terminologia politica, poi, è quasi del tutto assente (Cannas fa notare che mancano del tutto termini quali "borghesia", "ribellione", "anarchia", "dittatura", "fascista," "marxista", "operaio", "politica", "proletario").


Dal punto di vista stilistico, particolarmente interessante è l’uso, nel testo di “Preghiera in gennaio”, di chiasmi speculari in forma di elementi lessicali (parole con significati contrapposti: anima-pelle, paradiso-inferno, cielo-terra, singhiozzo-sorriso…) e di assonanze vocaliche ricorrenti (-ia/-ai, -oi/-io, -oe/-eo…), suggestivi contrasti di immagini e di sonorità che richiamano efficacemente le contraddizioni esistenziali evocate nel canto.
 

*  *  *

Il testo della canzone rivela  la profonda umanità di Fabrizio De André che, pur essendosi sempre dichiarato ateo, nelle sue canzoni incarna la carità, l’umiltà e la speranza di ogni confessione e fede religiosa. 


La cosa che colpisce di più è la semplicità delle parole con le quali De André assegna e giustifica il posto “riservato” a Tenco in paradiso. Un particolare interessante sta nel fatto che il testo da anni è stato, tra l’altro, incluso in numerose antologie scolastiche di letteratura italiana. 

La morte di Tenco assume connotati ancora più tristi se si pensa al suo funerale non si presentò nessun celebre collega cantante. Tenco fu lasciato solo con il suo dolore, sia prima che dopo la sua morte. E allora ancora oggi, assume un significato maggiore il ricordo di coloro che, come De André, non fecero finta di niente laddove fare finta di niente era più facile che abbandonare al suo destino un uomo, un cantante, “un compositore”. 


È forse questo il finale più tragico e impietoso che cala il sipario su di una vita indimenticata e indimenticabile. Il giorno dopo i funerali di Tenco, così si leggeva su “La Stampa” del 31 gennaio 1967: “I cantanti che la notte del suicidio avevano pianto, urlato e imprecato, sono rimasti a dormire: non hanno inviato neppure un fiore – Il mesto corteo è stato seguito da una folla di anonimi ammiratori”.

*  *  *

Nel ricordo di Fabrizio De André:

“Luigi, come me, era contrarissimo ai festival e poi ci si è trovato stritolato dentro. Lui era un uomo di sinistra, della sinistra di allora. Credo, comunque, che il suo gesto sia maturato anche in conseguenza delle sue letture. Luigi sul comodino teneva i libri di Pavese; ne ho conosciuti altri che si sono suicidati dopo aver letto troppe volte Pavese. 

Io lo frequentavo abbastanza saltuariamente, eravamo tutti cani sciolti, ma sicuramente era quello che mi era più vicino come formazione politica e poi, da artista, come tematiche trattate. Appena saputa la notizia della sua morte, mi precipitai all'obitorio. Quando lo vidi lì disteso, con questo turbante di garza insanguinato, mi colpirono il pallore della morte e il colore viola scuro delle sue labbra carnose. Le ho ancora impresse nella mente, e le menzionai nella canzone che scrissi sull'onda di quell'emozione partendo da una poesia di un autore del novecento francese, Francis Jammes”  


 Fabrizio De André
(Genova, 18 febbraio 1940 – Milano, 11 gennaio 1999)
- Elaborazione fotografica di A. Montanaro - 

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