II
Il melodramma italiano dell'Ottocento, da Verdi a Puccini
Corso di cultura musicale
Introduzione all'ascolto dell'opera lirica
guidato da Gius.
Berretta
nel programma
dell'Università Popolare di Latina (UPTEL)
Anno Accademico 2017-2018
7 lezioni di 90 minuti
presso la sede UPTEL
Scuola C. Goldoni, via Sezze 25 - Latina
IL PERCORSO
L'ultimo Verdi: Otello e Falstaff
Il 'Grand-Opera' all'italiana
Boito, Ponchielli, Catalani
Puccini e l'Opera al femminile
Le Opere di Giacomo Puccini
Puccini e l'Opera al femminile
Le Opere di Giacomo Puccini
Le Villi e Edgar
Dalla Manon al Trittico
Dalla Manon al Trittico
Turandot
* * *
Esercizi di ascolto guidato
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1
Falstaff, finale - interpretato da R. Raimondi
(Teatro Comunale, Firenze, 2011)
* * *
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1
LA LEZIONE DELL'ULTIMO VERDI
Le ultime due opere di Verdi, Otello (1887) e Falstaff
(1893) sono capolavori assoluti del genere, e non sono inquadrabili entro il
periodo storico in cui furono composte. Infatti, sono figlie di stimoli
culturali e stilistico-musicali che negli anni '70-'80 portarono Verdi a
dirigere l'opera italiana verso dimensioni più europee e costituiscono i
punti d'arrivo dell'evoluzione creativa del compositore.
Dopo l’Aida
(1871) sembrò che Verdi avesse concluso la sua opera e questo rappresentò anche
un periodo di crisi per il teatro musicale italiano. Aida rappresentava una profonda frattura con l'opera italiana e
sembrò che con essa fosse terminato il melodramma ottocentesco. Per fortuna
Aida non fu l'ultima fatica di Verdi che fu spinto dall'editore Giulio Ricordi
a riprendere in mano la penna coinvolgendo anche Arrigo Boito. Questi,
nonostante i suoi precedenti da ‘scapigliato’
in evidente contestazione del mondo operistico italiano e di Verdi stesso,
avrebbe sviluppato nuove maniere espressive per quello che riguardava la
librettistica italiana svecchiandola con contenuti più moderni e nuovi modelli.
Giuseppe Verdi e Arrigo Boito
Quasi certamente Verdi non sarebbe ritornato a
comporre se non fosse stato posto sul tavolo Shakespeare. E' noto, infatti, che
Verdi aveva a lungo pensato ad un Re Lear. Nel marzo del 1884, Verdi inizia la
composizione di Otello.
OTELLO
Il ritorno di Verdi sulle scene liriche non avrebbe
potuto essere più fertile di sviluppi per il teatro europeo del tempo. Egli si
mosse in sintonia con la sensibilità della fin de siècle scegliendo come
soggetto uno dei drammi psicologici più inquietanti di tutto il teatro di
prosa, dove l'azione è prodotta dall'intreccio di passioni tanto assolute
quanto devastanti: dall'odio maligno di Jago alla cieca gelosia di Otello sino
all'amore innocente di Desdemona.
Pure non è lecito scorgere in questo ennesimo atto di
rinnovamento da parte di Verdi la volontà di allinearsi con le tendenze di
allora (dal dramma borghese trattato da Massenet a quello
"realistico" di Bizet), né affermare che il compositore intendesse
colmare le distanze col musikdrama
wagneriano, come indicò parte della critica del tempo.
Tornando a Shakespeare dopo Macbeth e il progettato Re
Lear, egli coronò un'evoluzione naturale del suo teatro, cresciuto in
ambiente romantico e a mano a mano sviluppatosi in una direzione ricca di
chiaroscuri. Verdi aveva da tempo preso atto che i valori intorno a lui erano
mutati, e che se era tramontato il tempo delle battaglie per i grandi ideali
era venuta l'ora di sondare gli abissi vertiginosi dell'animo umano, scavando
in profondità nella traccia indicata da alcuni dei suoi personaggi tenorili più
inquieti e tormentati, da Riccardo sino allo stesso Don Carlo. L'esito
consegnato alla posterità costituisce ancora oggi uno dei drammi più moderni e
sconvolgenti del teatro musicale.
Complici le novità stilistiche introdotte dal Boito,
Verdi compose una musica altrettanto originale, sperimentando, in Otello, il
principio strutturale della forma
'aperta', con un percorso sonoro in cui i motivi frammentati sono immersi
in uno sviluppo melodico continuo in grado di disegnare l'azione e la
psicologia dei personaggi con estrema pertinenza.
Analisi dell’Opera
Atto I - Dopo l'impatto potentissimo a piena orchestra su
cui si leva il sipario, la furia degli elementi s'ingigantisce progressivamente
sino a toccare l'apice nella preghiera corale "Dio fulgor della
bufera". Le immani proporzioni di
questa bufera, che la musica fa rivivere con intensità sconvolgente, mettono in
risalto il valore del protagonista. Nell'"Esultate!" di Otello (poche
frasi declamate in Do diesis maggiore) si concentra dunque non solo l'eco della
lotta appena sostenuta, ma anche quella delle mille battaglie di una vita
eroica che gli ha meritato il grado. - La tempesta passa. Inizia il dialogo fra Roderigo e Jago, la cui
frenetica e capillare azione metterà in moto un dramma dal passo implacabile.
La maligna sottigliezza dell'alfiere emerge poi nella chanson à boire "Innaffia l'ugola". - Chiude il primo atto il duetto con Desdemona,
segnato da sonorità venate di erotismo, in cui il Moro intona i versi
allitteranti di Boito ("Già nella notte densa"). L'intero brano è
costruito su un mosaico di brevi sezioni modellate su stati d'animo cangianti:
l'orgoglio del protagonista ("Pingea dell'armi il fremito")
sollecitato dalla moglie ("Quando narravi"), la compassione ("E
tu m'amavi per le mie sventure"), desiderio e paura ("Venga la
morte!"). - Poi il canto di Otello
scivola con un'incrinatura cromatica ("che più non mi sarà concesso").
Ogni tensione s'acqueta nel lirismo di Desdemona ("Disperda il ciel gli
affanni") sino all'invocazione di "Un bacio". "Vien Venere
splende" è un invito esplicito al connubio che culmina nel La bemolle
emesso dal tenore in pianissimo. - Questo duetto sarà l'unico scorcio sottratto
alle necessità del dramma, una finestra sulla fugace felicità amorosa del
protagonista sinora mai spalancata da Verdi in termini di così aperta
sensualità.
Duetto Otello - Desdemona, nell'interpretazione di P. Domingo e B. Frittoli (Teatro alla Scala, Milano, 2002)
Atto II - Il recitativo di Jago (Credo) rappresenta l’emblema
musicale di un genio del male in continuo divenire. Nel monologo ideato da
Boito, il baritono esprime convinzioni estranee al personaggio di Shakespeare,
pure le fattezze scapigliate del brano identificano con straordinaria efficacia
il nichilismo di Jago, per cui "La Morte è il Nulla. È vecchia fola il
Ciel".
Il 'Credo' di Jago nell'interpretazione di Justino Diaz (dal film di F. Zeffirelli)
L'indifferenza per ogni valore morale permette all'alfiere
d'imporsi su Otello nel successivo colloquio, perché sa fargli intendere quel
che vuol sentire e vedere ciò che vuol vedere, deformando i contorni originali
delle situazioni. - L'incubo viene messo a fuoco quando compare la
protagonista, mentre Otello soffre di gelosia: la visione dell'innocenza della
moglie ridona solo temporaneamente al Moro la fiducia, subito smarrita nel
recitativo seguente. "Ora e per sempre addio" è il solenne congedo
dalla propria gloria oramai tramontata, dove il canto del tenore si eleva per
l'ultima volta, prima che il perfido sogno di Jago faccia lievitare la tensione
sino al culmine del delirante giuramento su cui cala il sipario.
Atto III - Il veleno di Jago è penetrato tanto a
fondo nell'animo del Moro da ottenebrarne la coscienza. Il duetto
Otello-Desdemona, che per complessità si situa tra i vertici dell'arte di
Verdi, vede opposti due mondi impenetrabili: Desdemona, la cui ingenua
innocenza è condizione altrettanto assoluta della cieca gelosia del marito,
prosegue imperterrita a perorare la causa di Cassio, Otello cerca soltanto la
conferma dei suoi sospetti. Accasciato e vinto, e rimasto solo, Otello intona
"Dio mi potevi scagliar", un monologo in cui il protagonista dà
motivazioni inequivocabili della propria sofferenza. - Il breve duetto tra Jago
e Cassio serve a provare un tradimento che non esiste. Jago rimane solo con
Otello a decidere l'uccisione di Desdemona e del suo presunto amante. Il suono
delle trombe interrompe. Il Moro si reca a incontrare gli ambasciatori ma non è
più in grado di contenere le proprie reazioni e s'accascia: di fronte a lui
Desdemona intona il più grande di tutti i concertati del teatro verdiano. Gli
affetti vengono condensati nell'immobilità del canto, e il tempo si ferma, fino
a che il Moro si riscuote e di fronte all'orrore generale maledice la sposa. Tutti
escono lasciando il Moro a terra insieme al suo oppressore: Otello delira.
Atto IV - Apre l’atto la grande scena di Desdemona,
intrisa di tocchi di poetico realismo come, nell'intensa Canzone del salice. E
ancora l'"Ave Maria" ripetuta una seconda volta tra sé e sé, mentre
la melodia accorcia il tempo del dramma verso le ultime parole: "...
nell'ora della morte". - La
reminiscenza del tema musicale del bacio segna la continuità del sentimento che
porta Otello al delitto, compiuto al culmine di un episodio intenso e sempre
più concitato. Nel finale, pagando con la propria vita, il protagonista
riconquisterà una dimensione umana, a partire dal "Niun mi tema",
desolato monologo declamato sugli accordi in pianissimo dell'orchestra. Poco
per volta il canto riacquista l'espressione lirica che l'azione di Jago aveva
corrotto, e il sentimento amoroso, liberato da ogni scoria, cresce sino alle
ultime visionarie battute, quando Otello rivive il momento in cui era entrato
nella camera della sposa.
La scena finale di Otello, interprete M. Del Monaco
(dal film di R. Matarazzo)
(dal film di R. Matarazzo)
FALSTAFF
In Otello
si compiva pienamente quanto Verdi aveva più volte cercato di realizzare a
cominciare dal 1847 con Macbeth: esprimere e quasi spiegare
in linguaggio musicale, in tutta la sua ricchezza di caratteri e di esperienze,
in tutta la sua pienezza, il mondo del più grande drammaturgo della letteratura
mondiale. Dopo il successo trionfale di Otello,
Boito provò con prudenza e diplomazia, ad infervorare Verdi all'idea di una
nuova opera da realizzare insieme, proponendogli l'abbozzo di un libretto per
un'opera comica tratta da Le allegre comari di Windsor di Shakespeare.
In Verdi era ancora vivo il desiderio di cimentare la sua arte - che si era sempre
dedicata alla rappresentazione di destini tragici e passioni sconvolgenti -
nella raffigurazione del comico. Nessun'altra
figura comica di Shakespeare poteva avvincere il Maestro più di Falstaff, nel
quale il comico e il tragico si fondono in maniera unica. Così la proposta di
Boito fece presa su Verdi.
Con grande sensibilità psicologica Boito seppe via
via addurre proprio gli argomenti che il "gran vegliardo" desiderava ascoltare, poiché lo rafforzavano
nelle sue più segrete aspirazioni. Così egli scriveva a Verdi il 9 luglio 1889:
"C'è un solo modo di finir meglio
che coll' Otello ed è quello di finire vittoriosamente col Falstaff. Dopo aver fatto risuonare tutte le grida e i
lamenti del cuore umano finire con uno scoppio immenso d'ilarità! C'è da far
strabiliare!". Ma la composizione
procedette a rilento. Verdi dichiarava di scrivere quest'opera solo per proprio
divertimento, e che non pensava in alcun modo ad una rappresentazione. Egli
sapeva bene che questa sarebbe stata la sua ultima opera: "Tutto
è finito! Va, va, vecchio John… Cammina per la tua via, finché tu puoi… Va, va…
Addio!!!".
Il 9 febbraio 1893 Falstaff
fu rappresentato per la prima volta. Come già per Otello,
anche ora erano affluiti a Milano critici ed entusiasti da tutto il mondo per
ascoltare quella composizione con cui il più grande Maestro dell'opera italiana
del secolo XIX concludeva definitivamente la sua straordinaria attività.
Il posto eminente che il Falstaff
verdiano occupa nella storia dell'opera non deriva esclusivamente
dalla sua musica ineguagliabile, ma anche in misura significativa dal libretto
di Arrigo Boito. Questi seppe ancora una volta trasformare magistralmente un’opera
di Shakespeare in un libretto, senza sacrificare le dimensioni dell'argomento. Al
centro dell'opera sta il grasso cavaliere sir John, la cui immagine si
arricchisce ed approfondisce di quei tratti che Boito rilevò dal dramma shakespeariano
Enrico IV (di qui Boito ricevette ad esempio l'impulso per
la "canzone del paggio" - "Quand'ero
paggio del Duca di Norfolk" - e per il monologo di Falstaff sull'onore).
Sir John Falstaff non è una figura solamente comica;
non è solo il cavaliere decaduto del declinante medioevo che, ridottosi ormai a
vivente anacronismo, tenta di condurre un'esistenza parassitaria a carico dei
borghesi inglesi arricchiti, ma è anche un filosofo dalla tragica saggezza, che
è consapevole delle dubbiezze della vita e delle nozioni etiche convenzionali,
e che alla fine con ironia superiore e filosofia sorridente ravvisa nella
follia una prerogativa universale: "Tutto
nel mondo è burla, l'uom è nato burlone, nel suo cervello ciurla sempre la sua
ragione".
Falstaff, finale - interpretato da R. Raimondi
(Teatro Comunale, Firenze, 2011)
È soprattutto nell’ambivalenza di tragico e
comico, dei limiti fluttuanti di queste due forme del genere drammatico, che
l'anziano Verdi si avvicinò veramente a Shakespeare. Il suo cammino per
acquisire tali cognizioni era stato duro e difficile, e quasi identico al suo
cammino creativo quale artista. Fin dai primi tempi il genio drammatico di
Shakespeare aveva costituito per Verdi l'ideale al quale si era orientata la
sua attività compositiva e si erano formate le sue idee sull'opera d'arte
teatrale.
Verdi coronava così, con una commedia musicale, la
sua produzione, che era stata espressione di una tragica visione del mondo, con
tutte le sue vette e i suoi abissi. In questa commedia i tratti seri e gravi
del vivere si sottendono ad un riso inesorabile, ma liberatorio ed
irrefrenabile. Per esso tutti i problemi si dissolvono nel nulla. È il riso di
un uomo che ha conosciuto le oscurità abissali dell'esistenza come pochi altri,
e che ora fa udire contro e su di esse la sua risata.
L'eccezionalità di Falstaff
è data dal fatto che la sua schiacciante serenità non è mai
caratterizzata da un ottimismo piatto e spensierato, ma appare invece come il
rovescio del tragico, con cui si lega indissolubilmente. In questa ultima opera
Verdi, il grande tragico del teatro musicale, volle far proprio un
atteggiamento di ridente superiorità, che intende l'intera vita come una
commedia e la risata come l'ultima risorsa del saggio.
* * *
Le due ultime opere di Verdi, Otello
e Falstaff, sono strettamente legate tra loro. La tragedia e la commedia
della gelosia incarnano due possibilità estreme di interpretare artisticamente
la realtà. In esse è racchiuso l'intero mondo teatrale verdiano, un mondo di
umanità che nella sua ricchezza è paragonabile soltanto a quello di
Shakespeare.
La musica di Falstaff si
distingue per ricchezza d'inventiva, brio e per un accento di giovanile
freschezza, e al tempo stesso per una straordinaria maturità tecnica e maestria
compositiva. Da ogni battuta di questa partitura trapela l'immensa esperienza
artistica di un compositore che per tutta una vita aveva vagliato le
potenzialità teatrali del linguaggio musicale; ma d'altra parte Falstaff
porta anche tutti i segni della novità assoluta, rappresentando
nella produzione verdiana e quindi nella storia dell'opera comica italiana un
inizio nuovo, quasi privo di premesse storiche.
In Falstaff Verdi
non si riallaccia - come sarebbe stato naturale - alla tradizione dell'opera
buffa italiana che si era interrotta intorno
alla metà dell' Ottocento, ma crea un tipo completamente nuovo di commedia
musicale, che sarà esemplare per l'ulteriore sviluppo dell'opera comica
italiana fino a Gianni Schicchi di Giacomo
Puccini (1917).
Falstaff è un'opera d’insieme per
eccellenza, qui le voci si rimandano l'un l'altra per ampi tratti e con
elastica leggerezza motivi più o meno brevi.
Un ruolo importante e nuovo ha in Falstaff
l'orchestra; questa non si limita a creare una base armonica o uno
sfondo suggestivo per gli eventi scenici e per le voci dei cantanti, ma per
così dire partecipa al "parlando" generale, commentando e facendo la
caricatura, accompagnando l'azione con una assai incisiva capacità di
raffigurazione gestuale.
Questa orchestra che sa così vivacemente sussurrare,
sorridere, strepitare, e persino gesticolare in maniera divertita, viene per lo
più trattata da Verdi con grandissima trasparenza, dove sono rilevati
solisticamente soprattutto gli strumenti a fiato.
Nel suo tema, si esprime la quintessenza di quella
filosofia della vita che Verdi esprime nel gioco vivido e ingegnosamente
intrecciato delle voci in combinazioni sempre nuove e diverse. Solo la forma
della fuga era atta a contenere in
una struttura compatta quanto fino a quel punto si era dispiegato liberamente e
secondo le esigenze dell'azione scenica.
Quando Boito fa dire a Falstaff, ormai stanco e
soddisfatto, "un coro e terminiam la scena!",
lo strappa alla finzione scenica. Questo prima che tutti i personaggi diano
vita all'ultimo inseguimento reciproco e si incontrino sul do sovracuto di
Alice, che chiude l'opera. A quel punto, con la sua frase, Falstaff ha fatto
uscire i personaggi dalla loro gabbia, e non esistono più. Esistono le ‘persone’ che danno il via ad una
vorticosa fuga sulle parole "Tutto nel mondo è burla".
Così Verdi traccia in questa fuga finale le linee conclusive della sua opera: l'abile trama delle
sue voci costituisce il massimo emblema artistico di quella visione del mondo
in una prospettiva di commedia, che nella sua ultima opera egli ha delineato in
misura così completa.
* * *
Le ultime due opere di Verdi, Otello (1887) e Falstaff
(1893) sono capolavori assoluti del genere, e non sono inquadrabili entro il
periodo storico in cui furono composte. Infatti, sono figlie di stimoli
culturali e stilistico-musicali che negli anni '70-'80 portarono Verdi a
dirigere l'opera italiana verso dimensioni più europee e costituiscono i
punti d'arrivo dell'evoluzione creativa del compositore.
2
IL 'GRAND OPERA' ALL'ITALIANA (*)
Arrigo Boito
Alfredo Catalani
Della Loreley fu particolarmente apprezzata la danza delle Ondine, una pagina musicale dall'orchestrazione trasparente e raffinata, ricca di un lirismo delicato e descrittivo accostato giustamente ad espressioni pittoriche di certi Macchiaioli, l'esatto contrario della danza delle Ore ponchielliana, assai esuberante e decorativa. Non mancarono al Catalani le solite critiche di wagnerismo, del tutto immeritate.
Giacomo Puccini
In realtà Puccini aveva bisogno di innamorarsi per poter comporre, per potersi sentire ispirato doveva provare quel sentimento forte, passionale, dolce e struggente che è l’amore. Le sue piccole trasgressioni Giacomo li chiamava i “piccoli giardini”, delle evasioni innocenti, per poter avere sempre uno spirito ringiovanito e regalare sempre così al pubblico della musica viva ed appassionata.
In Francia, nella seconda metà dell’Ottocento, sulla scia del
melodramma italiano tracciata da musicisti che avevano frequentato l’ambiente
culturale parigino, come Rossini, Bellini e lo stesso Verdi, si sviluppa
un’opera caratterizzata dalle ampie proporzioni (con molti personaggi, cori,
balletti e intermezzi strumentali), dalla grandiosità della messinscena e dal
virtuosismo spinto dei cantanti. I maggiori esponenti di questo genere furono Daniel Auber, Fromental Halèvy , Giacomo Meyerbeer, e ancora
Charles Gounod, Georges Bizet e Jules Massenet che si dedicheranno nella
seconda metà del secolo all'opéra-lyrique, un genere più vicino alla
tradizione musicale italiana.
Verdi si accostò al grand opéra
con Les vêpres siciliennes (rappresentata a Parigi nel 1855),
cui seguì La Forza del Destino (Pietroburgo, 1862), Don
Carlos (Parigi, 1867), Aida (Cairo, 1871).
L’eredità di
Verdi sembrò raccolta – nelle forme del grand opéra,
ma con particolare attenzione agli sviluppi del dramma musicale wagneriano – da
autori di sicuro talento come Arrigo Boito e Amilcare Ponchielli, e più tardi da Alfredo Catalani.
Arrigo Boito
Arrigo
Boito nacque a Padova nel 1842, il padre un pittore miniaturista e la madre una
contessa polacca. Abile
poeta e geniale musicista, fu uno dei maggiori esponenti della Scapigliatura
milanese, insieme a Emilio Praga, al Rovani e al Dossi.
Arrigo Boito
Sotto
il profilo letterario, la sua poesia, specie la sua lunga allegoria ‘Re Orso’, rivela un chiaro romanticismo nordico, dovuto
specialmente all'influenza di Baudelaire e Victor Hugo. Boito fu un romantico, e forse non è
troppo azzardato affermare che il romanticismo ebbe in lui il suo primo e unico
poeta e il suo più tipico musicista in Italia.
Boito
aveva un istinto innato per la poesia melodrammatica - qualità che, insieme
alla sua conoscenza della musicalità del linguaggio, lo rendevano librettista
ideale. La caratteristica della sua verseggiatura è l'andamento
irrequieto, pieno di ricercatezze lessicali e di bizzarrie sonore, con
frequenti giuochi di parole. Si può dire che dalle parole nascano ritmo e
armonia: perché nel poeta vive, soprattutto, il musicista.
Tra i suoi numerosi libretti La
Gioconda (per Ponchielli), in cui domina il contrasto fra
Barnaba, personificazione del male, e l'idea del bene; Otello (per
Verdi), mirabile sintesi della gigantesca tragedia in cui la personalità del
Boito, pur conservando il pathos
shakespeariano, si afferma nel foggiare - figura cara al proprio
spirito - il personaggio di Jago, genio
maligno come Barnaba, Mefistofele, Re Orso. Infine
Falstaff (ancora per
Verdi), in sei quadri snelli e leggiadri, nei quali il panciuto personaggio
appare nella sua figura di avventuriero spregiudicato e tuttavia nella sua profonda
umanità, in una veste verbale scintillante, ricca, festosa.
Boito
ebbe per il Verdi una profonda devozione. Da giovane aveva avuto per lui parole
ingenerose: ma il pentimento fu sincero e il ravvicinamento definitivo. Dall'Otello in poi è una fedeltà
che assume aspetti commoventi. Al Boito si deve se il "colosso di bronzo" (come egli
chiamava il Verdi) risonò ancora con gioia grande dello stesso Boito, che al
Bellaigue scriveva: "L'atto della
mia vita di cui maggiormente mi compiaccio è la volontaria servitù che ho
dedicato all'uomo giusto, nobile fra tutti e veramente grande".
Nella sua
musica, in confronto con la poesia, si nota una maggiore semplicità di stesura,
in un quadro stilistico assai composito ma non privo di tratti personali e di
momenti felici. L’adattamento del Faust di Goethe per il proprio Mefistofele rappresenta
uno dei tentativi più riusciti di riduzione per la scena lirica di quel poema
tanto complesso.
Il libretto del Mefistofele (più nella sua prima forma che
nella seconda) rivela una piena coscienza del mondo goethiano, rappresentando
efficacemente l'antagonismo fra le due forze avverse, Dio e Satana. Faust e
Mefistofele, non sono altro che "le
due parti di una sola unità, due aspetti dell'anima di Faust che si è sdoppiata
e ha preso due forme umane, una che pensa e indaga e spera e dispera e palpita
e freme e sente l'entusiasmo e lo sconforto, l'altra che sogghigna e nega"
(I. Pizzetti).
Il libretto del Mefistofele
Il libretto del Mefistofele
Nella sua forma primitiva il Mefistofele, aveva un libretto
assai corposo, sicuramente più vicino al poema goethiano. In netto contrasto
con le tradizioni del tempo, alla sua prima rappresentazione - che avvenne al Teatro
alla Scala di Milano il 5 marzo 1868, direttore lo stesso autore - l'opera fu
accolta con
freddezza dal pubblico e dalla critica, e Boito venne accusato di "wagnerismo".
In realtà Boito aveva
assistito a Parigi alla rappresentazione del Tannhäuser e ne
aveva concepito un'immensa ammirazione per Wagner. Anch'egli volle essere il
librettista di sé stesso e, di più, cercò di applicare, nella sua attività di
musicista, principî, se non wagneriani, certamente diversi da quelli che in
quel tempo imperavano nel melodramma. Egli intese raggiungere una più viva e
piena verità drammatica, abbandonando formule convenzionali e giovandosi di un
maggiore sviluppo armonico e ritmico.
Boito, si dedicò
allora ad un
lungo lavoro di rielaborazione dell’opera che finalmente andò in scena, questa
volta con successo, sette anni dopo, a Bologna, nel 1875.
Il Mefistofele segna
un punto importante nell'evoluzione dell'opera teatrale italiana. "Mentre i maestri più stimati e più famosi
del teatro italiano chiedono ai poeti librettisti niente altro che situazioni,
un giovine di venticinque anni sente, primo in Italia, che l'opera musicale non
può essere opera di vita e di bellezza se non sia ispirata ad una grande,
profonda opera di poesia" (I. Pizzetti).
Direttore del Conservatorio di Parma, Arrigo Boito
trascorse gli ultimi anni di vita a Milano lavorando alla sua monumentale opera
"Nerone". Nel 1901 ne pubblicò il testo letterario, ma non
riuscì a portarla a termine. L’opera fu ripresa e completata da Arturo
Toscanini e rappresentata postuma al Teatro alla Scala nel 1924.
Arrigo Boito si spense a Milano nel 1918, ed
ebbe sepoltura nel cimitero monumentale.
Amilcare Ponchielli
Amilcare Pochielli, nato a Paderno,
nel cremonese, nel 1834, fin da bambino dimostrò un naturale talento musicale.
Studiò quindi composizione presso il Conservatorio di Milano, da cui ne uscì
con una solida preparazione di musicista compositore.
Amilcare Ponchielli
L’esordio di Ponchielli avvenne nel
1872 alla Scala di Milano con l’opera I Promessi Sposi, sul libretto di
Emilio Praga tratto dal romanzo di Manzoni. Nel marzo del 1874 presentò alla
Scala I Lituani, opera ‘grandiosa’ per le scene e il cast, un vero
Grand-Opéra all’italiana. (*)
Reduce da quesiti successi e
sostenuto dall’editore Ricordi, Ponchielli si pose al lavoro per una nuova
opera su libretto di Arrigo Boito: La Gioconda. L’opera ebbe un periodo
di gestazione travagliato e fu sottoposta ad ampi rifacimenti di cui il
definitivo (1879) può essere considerato il capolavoro di Ponchielli.
Negli ultimi anni della sua vita
Ponchielli assunse la docenza di “alta composizione” al Conservatorio di Milano
dal 1881 (fra i suoi allievi Giacomo Puccini e Pietro Mascagni).
La vita e la carriera di Ponchielli
furono stroncate da una polmonite, il 16 gennaio 1886.
* * *
Ponchielli iniziò la sua carriera in
un momento critico e di transizione dell’opera italiana: da quella tradizionale
e verdiana per eccellenza, a quella pucciniana e verista. Il passaggio avvenne in un clima di
polemiche, di raffronti con altre culture. I due nuovi contrastanti modelli di
riferimento erano costituiti dal Grand-Opéra per la sua spettacolarità e
dall’opera wagneriana con il sinfonismo drammatico che in essa si incarnava.
Ponchielli era del tutto consapevole
del problematico momento storico che stava vivendo. La sua opera ben
rappresenta questo momento di crisi e di mutamenti. Con I Lituani Ponchielli si trova ad affrontare un ambiente di
altissimo livello culturale ed artistico, quello del Teatro alla Scala. L’opera rivela l’impegno
del compositore nella creazione di un Grand-Opéra all’italiana,
imponente per le dimensioni e per la grandiosità delle scene ambientate
in terre nordiche e semibarbare.
Il modello al quale Ponchielli attinge non è certo quello
wagneriano, del quale in quegli anni si aveva in Italia soltanto una conoscenza
indiretta, quanto quello francese e in particolare l’opera di Meyerbeer.
Notevoli sono infatti in quest’opera le grandiose scene concertate con ampi
interventi orchestrali che, con una strumentazione raffinata, creano atmosfere
particolari, quale quella cupa, caratterizzante tutta l’opera.
Se la grandiosità era l’intento
profuso nei Lituani, con La
Gioconda Ponchielli. punta invece alla spettacolarità. Egli trovò non
poche difficoltà nel mettere in musica il nuovo testo, sia per l’artificiosità
della versificazione, sia per i tratti psicologici marcati dei personaggi sia
per le situazioni complesse e di difficile resa scenico-musicale.
Anche quest’opera si rivela un
tipico esempio di Grand Opéra all’italiana con ampio dispiegamento di
mezzi spettacolari e con molteplice articolazione dello spazio scenico e
sonoro. L’ambientazione veneziana offriva varie occasioni per interventi corali
e orchestrali con funzioni pittoresca e realizzati con linguaggi musicali
differenti (barcarole, cori festanti, danze fokloristiche, balli coreografici,
cori ecclesiastici, preghiere). Su questo sfondo si inseriscono le tinte più
oscure della vicenda animata da passioni e sentimenti estremi.
Innegabili sono gli aspetti
innovativi della Gioconda: la funzione dell’orchestra che con le nuove sonorità
rende fluido il discorso musicale e focalizza l’attenzione drammatica, i
richiami tematici che percorrono l’opera, la vocalità adattata sia alla
versificazione, sia ai personaggi.
Il Figliuol prodigo e Marion Delorme sono a tutt’oggi
opere meno note. Con Marion Delorme Ponchielli si inoltra in uno
sperimentalismo che venne accolto male dal pubblico e dalla critica ma che, più
attualmente, viene ritenuto elemento di passaggio al nuovo teatro operistico
italiano fin de siècle.
La struttura
drammaturgica dell’opera presenta aspetti anticonvenzionali, come quelli
ispirati alla tematica romantica della commistione del tragico e del comico. Questi
elementi contrastanti, che non trovano ancora soluzione nell’opera ponchielliana
– l’integrazione del tragico e del comico, le tensioni drammatiche quasi
‘veriste’ e le atmosfere più intime bohèmien,
la vocalità ora lirica e ‘belcantistica’, ora in declamato – costituiscono tuttavia
preannunci di un radicale rinnovamento e la concreta eredità lasciata da Ponchielli
alle generazioni successive, in particolare a Mascagni, a Leoncavallo e a
Puccini.
Alfredo Catalani
Alfredo Catalani nacque a Lucca nel 1854,
figlio di un maestro di musica. Iniziò a studiare nella sua città natale, poi a
Parigi, e infine al Conservatorio di Milano. Esordì con un breve lavoro
eccentrico e vigoroso intitolato La falce, egloga araba per due voci e
coro su libretto di Arrigo Boito.
Alfredo Catalani
In seguito Catalani si avvicinò alla scapigliatura milanese, tenendo conto,
oltre che della lezione di Richard Wagner, del rinnovamento sinfonico e del
dramma lirico francese. Ma da questo impegno scaturirono solo alcune opere,
considerate unanimemente secondarie dalla critica (Elda,, Dejanice ed Edmea).
Nel 1880 succedeva
al Ponchielli nella cattedra di composizione al conservatorio di Milano, ove
insegnò fino alla morte.
Sempre più attento a certe atmosfere
nordiche, si accinse alla composizione della sua opera successiva: Loreley. Il 17 febbraio
1890 fu rappresentata con un certo successo al teatro Regio di Torino.Della Loreley fu particolarmente apprezzata la danza delle Ondine, una pagina musicale dall'orchestrazione trasparente e raffinata, ricca di un lirismo delicato e descrittivo accostato giustamente ad espressioni pittoriche di certi Macchiaioli, l'esatto contrario della danza delle Ore ponchielliana, assai esuberante e decorativa. Non mancarono al Catalani le solite critiche di wagnerismo, del tutto immeritate.
Nell'aprile del 1888 si fidanzò con una
cugina, con la quale però, dopo pochi mesi, arrivò ad una dolorosa rottura. In
questo periodo, fra l'altro, iniziò a comporre quella che sarà la sua ultima
opera: La Wally, tratta da un
romanzo d’appendice tedesco di Wilhelmine de Hillern, Die Gaier-Wally.
La Wally fu rappresentata alla Scala di Milano il
20 gennaio del 1892. Quest'opera rimane una
pietra miliare nell'evoluzione della musica lirica italiana. Gustav Mahler, che
la diresse ad Amburgo la considerava "la
migliore opera italiana". Dopo la prima scaligera, La Wally
venne splendidamente ripetuta al Teatro del Giglio di Lucca, con la direzione
di Arturo Toscanini, grande estimatore di Catalani.
Prostrato dalla tisi, il 7 agosto 1893, dopo alcuni giorni di
agonia, Alfredo Catalani, a soli 39 anni, moriva dopo una vita drammatica e
tormentata.
* *
*
L'opera del Catalani, tacitata e oppressa dall'invadenza
del melodramma verista, ebbe fortune alterne. Nonostante l'apprezzamento del
pubblico, la critica ufficiale si mostrò sempre poco benevola verso il
compositore, al quale fu spesso rimproverato di essere troppo
"wagneriano" (e quindi poco italiano). Non è un caso, del resto, che
due opere come Cavalleria rusticana e Pagliacci si affermavano in
modo più deciso rispetto alle coeve Loreley e La Wally.
Giuseppe Verdi non apprezzò le opere del
Catalani. Considerò La Wally “opera
tedesca, priva di cuore e ispirazione.
Il proposito di cercare il "vero", mostra con chiarezza il punto di flessione del gusto
operistico italiano del tardo Ottocento, fuori dal solco verdiano e oltre la
retorica esperienza teatrale di Ponchielli. Fu, la posizione di Catalani più
prossima alle arti figurative e alla poetica decadentista, che non al gusto
operistico corrente.
L'arte raccolta e gentile del Catalani costituisce
sicuramente un'inversione curiosa alla tendenza "verista" che a fine secolo interessava tanta parte d'Europa. Catalani
appare oggi come la figura più indicativa del Romanticismo nel teatro musicale
italiano, un Romanticismo spontaneo e non cosmopolita, scevro di quelle
velleità letterarie che ebbe Boito. Una disposizione prettamente crepuscolare,
che viene anche al Catalani da una congenita mestizia toscana tutta pervasa di
sognante nostalgia e di precoce fatalismo.
La morte prematura impedì al Catalani di
mutare l'itinerario e le fortune dell'opera italiana, dopo Verdi e prima dei
più giovani esponenti del verismo.
(*) Per grand opéra si intende un
genere operistico che ha dominato la scena francese nel pieno Ottocento. I primi
esempi italiani di grand opéra sono rappresentati dal Guglielmo Tell di Rossini (1829) e dal Don Carlos di
Giuseppe Verdi (1867). Fra gli autori più rappresentativi del genere va
segnalato Giacomo Meyerbeer (1791-1864, compositore tedesco
trasferitosi a Parigi), che
raggiunse il successo grazie ad alcune pregevoli opere tra cui L'Africana (L'Africaine),
rappresentata postuma. Nel grand opéra acquistano particolare rilievo le
scene spettacolari, caratterizzate dall'impiego di numerose comparse, cortei,
sfilate e balletti. Ai cori viene
inoltre affidato sempre più spesso un ruolo di primaria importanza. L'orchestrazione è
costituita normalmente da un organico fortemente ampliato, onde poter
accentuare ulteriormente la spettacolarità e la tensione drammatica dell’opera.
3
PUCCINI E L'OPERA AL FEMMINILE
Nato a Lucca, il 22 dicembre 1858, da una
famiglia di musicisti, dopo aver perduto il padre all’età di cinque anni, fu
mandato a studiare presso uno zio, che lo considerava un allievo non
particolarmente dotato e soprattutto poco disciplinato. La tradizione dice che
la decisione di dedicarsi al teatro musicale nacque dopo aver assistito nel
1876 ad una rappresentazione dell’Aida
di Verdi a Pisa, dove si sarebbe recato a dorso di mulo.
Dal 1880 Puccini studiò al conservatorio
di Milano, allievo di Amilcare Ponchielli. Nel 1883 partecipò al concorso per
opere in un atto indetto dall’editore Sonzogno. Le Villi,
non vinse il concorso, ma nel 1884 fu rappresentata al Teatro dal Verme di
Milano.
Nel frattempo, Puccini aveva intrapreso
una convivenza destinata a durare tra varie vicissitudini tutta la vita con
Elvira Bonturi, moglie del droghiere lucchese Narciso Gemignani. Dalla loro
unione nacque l’unico figlio del compositore, Antonio.
Dopo un mediocre Edgar, la terza opera – Manon
Lescaut – ebbe un successo straordinario, forse il più
autentico della carriera di Puccini. Essa segnò inoltre l’inizio di una
fruttuosa collaborazione con i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa. Illica
e Giacosa avrebbero scritto poi i libretti delle successive tre opere, le più
famose e rappresentate di tutto il teatro pucciniano.
Puccini con Giacosa e Illica
La prima, La Bohème
(basata sul romanzo di Henri Murger Scènes
de la vie de Bohème), è forse la sua opera più celebre. Tra i
capolavori del panorama operistico tardoromantico, La bohème è un esempio di sintesi drammaturgica,
strutturata in 4 quadri (è indicativo l’uso di questo termine in luogo del
tradizionale "atti") di fulminea rapidità.
La successiva, Tosca,
rappresenta l’incursione di Puccini nel melodramma storico a tinte forti. Il
soggetto, tratto da Victorien Sardou, può richiamare alcuni stereotipi
dell’opera verista, ma le soluzioni musicali anticipano piuttosto, specie nel
secondo atto, il nascente espressionismo musicale.
Madama
Butterfly (basata su un dramma di David Belasco) è la prima opera
esotica di Puccini. Il suo debutto alla Scala nel 1904 fu un solenne fiasco,
probabilmente almeno in parte orchestrato dalla concorrenza; ma dopo alcuni
rimaneggiamenti l’opera raccolse un successo pieno e destinato a durare.
David Belasco
(drammaturgo americano, 1853 - 19319
Nel 1909 una tragedia e uno scandalo
colpirono profondamente il musicista: a ventitré anni la domestica Doria Manfredi,
perseguitata dalla gelosia ossessiva di Elvira, si suicidò avvelenandosi. Il
dramma aggravò i rapporti con la moglie ed ebbe pesanti strascichi giudiziari.
Nel 1912 morì anche Giulio Ricordi, l’editore al quale Puccini era
profondamente legato e che considerava un secondo padre.
Sul fronte artistico, la passione per
l’esotismo (da cui era nata Butterfly)
spingeva sempre più il musicista a confrontarsi con il linguaggio e gli stili
musicali legati ad altre tradizioni musicali: nacquero così, nel 1910 La
fanciulla del West, un western ante-litteram, e nel 1917 La
rondine, concepita
come operetta e diventata in seguito un singolare ibrido tra questo genere e
quello dell’opera lirica.
Sin dagli ultimi anni dell’Ottocento
Puccini tentò anche, a più riprese, di collaborare con Gabriele d’Annunzio, ma
la distanza spirituale tra i due artisti si rivelò incolmabile.
L’eclettismo pucciniano, e insieme la sua
incessante ricerca di soluzioni originali, trovarono piena attuazione nel
cosiddetto Trittico, ossia in tre opere in un atto
rappresentate in prima assoluta a New York nel 1918. I tre pannelli presentano
caratteri contrastanti: tragico e verista Il tabarro,
elegiaca e lirica Suor Angelica, comico Gianni
Schicchi.
Puccini morì a Bruxelles nel 1924, per
complicazioni sopraggiunte durante la cura di un tumore alla gola e fu sepolto
nella cappella della sua villa di Torre del Lago.
Turandot
fu l’ultima opera di Puccini. Tratta da una fiaba teatrale di Carlo
Gozzi, Turandot è la prima
opera pucciniana di ambientazione fantastica, la cui azione – come si legge in
partitura – si svolge ‘al tempo delle
favole’. In quest'opera l'esotismo perde ogni carattere ornamentale o
realistico per diventare forma stessa del dramma: la Cina diviene così una
sorta di regno del sogno e dell'eros e l'opera abbonda di rimandi alla
dimensione del sonno, nonché di apparizioni, fantasmi, voci e suoni provenienti
dalla dimensione altra del fuori scena.
Manifesto per la Turandot
(litografia di Leopoldo Metlicovitz, 1868-1944)
Puccini si entusiasmò
subito al nuovo soggetto e al personaggio della principessa Turandot, algida e
sanguinaria, ma fu assalito dai dubbi al momento di mettere in musica il
finale, coronato da un insolito lieto fine, sul quale lavorò un
anno intero senza venirne a capo.
L'opera rimase
incompiuta poiché Puccini morì a Bruxelles nel 1924, per un infarto
miocardico acuto,
sopraggiunto qualche giorno dopo un disperato intervento chirurgico eseguito
per estirpare un diffuso cancro alla gola.
Le ultime due scene di Turandot furono terminate da
Franco Alfano, sotto la supervisione di Arturo Toscanini, ma la sera della
prima rappresentazione lo stesso Toscanini interruppe l’esecuzione là dove il
maestro l’aveva interrotta, con la morte di Liù.
Nel 2001 vide la luce un nuovo finale,
composto da Luciano Berio e basato sul medesimo libretto e sugli abbozzi
pucciniani.
***
Puccini è una delle maggiori figure
dell'opera Italiana tra l’Ottocento e il Novecento, colui che ha cercato di
rompere il vincolo con la corrente "verista" (stile artistico
italiano il cui intento era quello di dare un'immagine della società e delle
persone come queste si presentavano nella vita quotidiana) prima e con la
"dannunziana" poi (stile artistico connesso al poeta Gabriele
D'Annunzio), per dar vita ad un nuovo stile personale tutt'oggi apprezzato e
celebrato.
Nel corso della sua vita compose solo
dodici opere – compresi i tre atti unici del Trittico – poiché il suo interesse principale era quello di
perfezionare i suoi meccanismi teatrali fino a realizzare opere perfette, che
fossero in grado di entrare a far parte dei repertori dei maggiori teatri
lirici di tutto il mondo.
Illustrazioni per i manifesti del Trittico
Il pubblico, per quanto talvolta confuso
dall'originalità delle sue opere, lo seguiva con grande interesse, mentre il
mondo della critica musicale, specialmente quella italiana, lo guardava in
maniera del tutto sospetta, forse per il timore che la particolare enfasi data alla
melodia potesse finire per svalorizzare il melodramma classico. Ma nell'ultima
decade del secolo, la sua opera fu rivalutata e altamente apprezzata dai
maggiori autori del suo tempo come Stravinskij, Schoenberg, Ravel.
Lo stile orchestrale di Puccini, mostra
comunque la forte influenza di Wagner nei timbri e nelle configurazioni
orchestrali: spesso infatti è l'orchestra a creare l'atmosfera di scena.
***
Puccini e le sue donne
(da Lisa La Pietra, musicologa)
Il rapporto fra il compositore italiano
e l’universo femminile è sempre stato un campo
fortemente indagato, sia in riferimento ai personaggi delle sue opere, che in rapporto alle donne incontrate nella
sua vita. La convinzione più
diffusa è che Puccini sia riuscito a trarre ispirazione prevalentemente da
Elvira Bonturi, sua moglie. Per quanto infatti il compositore abbia frequentato
più donne, sembra che fu proprio Elvira a fornirgli il filo conduttore
dell’ispirazione di tutta una vita.
Elvira Bonturi
In realtà Puccini aveva bisogno di innamorarsi per poter comporre, per potersi sentire ispirato doveva provare quel sentimento forte, passionale, dolce e struggente che è l’amore. Le sue piccole trasgressioni Giacomo li chiamava i “piccoli giardini”, delle evasioni innocenti, per poter avere sempre uno spirito ringiovanito e regalare sempre così al pubblico della musica viva ed appassionata.
Seppur crudele e
ignorante, Elvira fu l’unica donna in grado di tenere agganciato a sé Giacomo
Puccini, nonostante gli innumerevoli tentativi che egli fece per liberarsi di
lei. La loro storia iniziò a Lucca, quando lei, ventiquattrenne,
già sposata e madre di due figli, non si fece premura di iniziare una
travolgente relazione con Giacomo allora ventiseienne. Elvira, una volta
rimasta incinta, si trasferì a Milano col suo amato portando con sé la figlia
maggiore, mentre abbandonò il maschio che rimase con suo padre; uno scandalo di
proporzioni enormi per l’epoca.
La passione finì subito dopo la nascita del figlio Antonio,
ma questa ragione non servì affatto a separare i due che, ciononostante,
portarono avanti la loro relazione, seppur a caro prezzo.
Nella maggior parte delle bibliografie che ho consultato su
Puccini è riportato che Elvira odiava la musica, gli amici di lui e ogni cosa
che lo allontanasse dal suo soffocante controllo e che, più che gelosa, fosse
paranoica a livelli patologici tanto da divenire persino violenta e alzare le
mani su Giacomo. Elvira usò tutte le armi per tenersi quell’uomo che neanche
lei amava più, ma che doveva essere solo suo.
Si potrebbe sostenere
che Giacomo non riuscendo a fuggire nella realtà, fuggisse con donne
immaginarie, quelle delle sue opere. Donne che erano proprio il contrario di
Elvira: dolci, miti, arrendevoli, disposte al sacrificio.
Frequente e quasi
leggendaria è l’immagine di Puccini come impenitente donnaiolo, alimentata da
diverse vicende biografiche e dalle stesse parole con cui amò definirsi «un
potente cacciatore di uccelli selvatici, libretti d’opera e belle donne». In
realtà Puccini non fu il classico dongiovanni: il suo temperamento era cordiale
ma timido e la sua natura ipersensibile lo portava a non vivere con troppa
leggerezza i rapporti con le donne. Era stato d’altronde circondato dal gentil
sesso sin da bambino, cresciuto dalla madre e con cinque sorelle ed un solo
fratello più piccolo.
Puccini visse in un momento storico, a cavallo tra
l’Ottocento e il Novecento, in cui i
temi di imprese eroiche e glorie patrie iniziavano a non riscuotere più il
successo che invece avevano avuto nel secolo precedente. Perciò egli iniziò un
nuovo modo di presentare le vicende e lo fece prestando attenzione al recupero
di un sentimento soggettivo. Ed è forse per questo che la figura della donna
occupa una centralità inequivocabile nelle sue opere.
Tutte donne le sue eroine, appassionate e tragiche. Puccini
trasferirà infatti, inconsciamente, il suo senso di colpa, nei suoi personaggi
femminili, a partire dalla sua prime opere, nell’Anna de Le Villi e nella
Fidelia di Edgar, donne che pagano con la morte il loro amore “colpevole”. E
anche l’attrazione sessuale, che Puccini subirà per tutta la sua vita, sarà
sempre sentita, più o meno inconsciamente, come un tradimento della Madre, se
non addirittura come un inconfessabile sentimento incestuoso. Tutte le sue
donne saranno, come lui, vulnerabili e insicure, malate di solitudine e
malinconia, malate d’amore.
Contrariamente a ciò che scrive in certe lettere, in cui
appare cinico e calcolatore artefice dei suoi personaggi teatrali, che sembrano
essere studiati a tavolino, Puccini amò profondamente tutte le “sue” donne, a
partire dalla Manon Lescaut, «donna leggera e impudente, amante infelice,
peccatrice senza malizia», come la definì lo stesso abate Prevost, porto
accogliente e caldo, tante volte fantasticato dalla sua indole ardente e
sensuale. Una donna, insomma, tutta carne e sesso, di quelle che fanno
impazzire con i loro capricci e la loro imprevedibilità, ma che alla fine
ripagano i loro amanti in una morbida pienezza di sudditanza e di abbandoni,
anche se sono destinate a rimanere «sole, perdute, abbandonate in lande
desolate», e a maledire la loro bellezza. Puccini ebbe il merito – scrisse un
suo acerrimo critico – di sentire in sé «una certa poesia animale», fatta di
intimità e comprensione delle piccole gioie e degli umili dolori, con una
sensualità facile che ha sinceri ritorni di candore compassionevole.
Kristine Opolais e Jonas Kauffman
in Manon Lescaut (Royal Opera House, 1914)
C’è chi ha sostenuto l’idea che ogni aspetto di Elvira abbia
dato vita ad un personaggio femminile nelle opere pucciniane (**) :
Manon Lescaut, l’avventuriera che trascina alla rovina Des Grieux, potrebbe essere
quell’Elvira che, a Lucca, seduce e conquista Puccini; Mimì somiglierebbe
all’Elvira appena giunta a Milano, senza risorsa alcuna, in povertà quasi
totale; Butterfly sarebbe invece l’Elvira che si sacrifica rinunciando alla sua
vita di donna borghese e perbene per inseguire l’amore; infine Turandot, che,
sebbene sia il personaggio più difficilmente accostabile ad Elvira, potrebbe
essere considerata la donna onirica che cinge di gelo la vita dell’artista.
(**) Giampaolo Rugarli, La divina Elvira: L’ideale femminile nella vita
e nell’opera di Giacomo Puccini, Venezia, Marsilio Editore.
5
LE OPERE DI GIACOMO PUCCINI
Puccini scrisse Le Villi poco dopo essersi diplomato in composizione presso il Conservatorio di Milano. Fu il suo insegnante, Amilcare Ponchielli, a suggerirgli di prendere parte al concorso bandito dall'editore Sonzogno e a metterlo in contatto con il poeta Fontana.Fontana trasse il soggetto delle Villi dal racconto di Alphonse Karr “Les Willis”(1852), a sua volta ricavato dal balletto Giselle (1841) musicato da Adolphe Adam su libretto di ThéophileGautier.
Quando l'opera debutto nel 1896 al Teatro Regio di Torino (diretta da un ventinovenne Arturo Toscanini), ebbe un buon successo di pubblico, al contrario dell'opera di Leoncavallo che, rappresentata la prima volta l’anno seguente, fu presto dimenticata. La critica in principio si dimostrò piuttosto fredda nei confronti dell'opera di Puccini; in seguito però si allineò al generale consenso riscosso in molti teatri.
Ma perché si finisce per piangere, quando si va in un teatro d'opera a vedere la Bohème? Certo il libretto di Illica e Giacosa, contiene tutti gli ingredienti atti a suscitare quello che un po' spregiativamente si potrebbe chiamare l'effetto patetico: i quattro giovani bohémiens - un poeta, un pittore, un filosofo e un musicista - vivono spensierati e squattrinati in una soffitta sotto "i cieli bigi" della capitale francese, quando per uno di essi, il poeta Rodolfo, l'amore fiorisce irresistibile dall'incontro casuale con la personcina semplice di una vicina di casa, Mimì. Gli amori (c'è anche quello fra il pittore e la volubile Musetta) vivono, cadono, rifioriscono tra slanci e gelosie, abbandoni e precarie riconciliazioni, sullo sfondo allegro del Quartiere Latino, ma anche su quello squallido di una periferia, mentre l'inverno stringe sempre di più la sua morsa. Mimì è ammalata del più classico dei mali ottocenteschi, la tisi; Rodolfo la lascia più per l'impossibilità di assisterla adeguatamente in quella fredda soffitta che per gelosia; nel finale Mimì torna in quella soffitta perché vuole morire vicino all'uomo che ama e agli altri pochi amici della sua piccola vita.
Non si tratta però solo di un meccanismo narrativo che scatta alla perfezione e produce i suoi effetti, e nemmeno solo dal senso fortissimo di autenticità espresso dalla musica di Puccini. Forse può essere uno scrittore, Enzo Siciliano, a portarci nella sua bella biografia di Puccini sulla strada giusta: "la giovinezza è un momento del vivere, splendido per inconsistenza e non per altro, così che quando pare di averlo afferrato, sparisce"; passioni, rabbie, scherzi, pochi soldi, vita in comune, allegria, delusioni, speranze: questo è la Bohème, e, al di là della trama e dei personaggi, cos'è tutto ciò se non la giovinezza, come ogni spettatore istintivamente sente?
Nell'ultimo quadro dell'opera non ci immedesimiamo solo nella morte di un personaggio; quando muore Mimì è tutto quel mondo che si spegne, nel cuore di tutti i personaggi e anche nel nostro, perché quello che noi spettatori viviamo non è altro che il sentimento della morte della giovinezza. Quella di ognuno di noi; è di questo che in realtà parla la Bohème, ed è per questo che ogni volta abbiamo un nodo alla gola.
Il primo manifesto per la Tosca , di Adolf Hohenstein
Il melodramma in tre atti, che ha come sfondo storico i contrasti fra i filofrancesi Angelotti e Cavaradossi e il reazionario capo della Polizia, il filoaustriaco Scarpia, nella Roma papalina, è costruito essenzialmente sulla gelosia di Tosca, personalità femminile dalle caratteristiche psicologiche più che mai consone alla sensibilità artistica pucciniana, che tanto era piaciuta anche a Giuseppe Verdi.
Tosca è pervasa da un sentimento corrosivo, la gelosia distruttiva che la trascinerà alla rovina, prima costringendola a subire le insidie di Scarpia e poi ad assistere alla morte dell'amato, ma, come già per altre sue eroine, Puccini le riserva un crudele destino di espiazione: sarà lei stessa a darsi la morte lanciandosi dagli spalti di Castel Sant'Angelo.
A proposito di quest'opera si è spesso parlato di verismo, anche crudo ed eccessivo specialmente nel II atto, per le scene di tortura, il tentativo di stupro, l'assassinio di Scarpia, la drammaticità dei dialoghi tra Scarpia e Cavaradossi, e Scarpia e Tosca, ed in effetti più che la trama sociale e politica, avvinse l'estropucciniano propriol'analisi dei sentimenti. Puccini scrisse: “Tosca è un'opera che richiede una donna ultradrammatica e un buonissimo baritono”.
A Cavaradossi l'autore affidò un'aria che riscuote sempre un grande successo, una delle pagine più belle dell'opera, “E lucean le stelle”, ma è indubbio che i personaggi portanti sono Tosca e Scarpia, per i quali sono indispensabili grande talento sia vocale che scenico.
Tosca richiede un ruolo di grande impegno, occorrono doti di soprano lirico, lirico-spinto, un forte temperamento, un accento drammatico e un grande talento di attrice, e molte cantanti sono state affascinate dal personaggio interpretandolo con preziosismi belcantistici ma, in seguito, anche con un'impostazione più verista, più recitata.
Maria Callas intraprese un grande lavoro interpretativo con la Tosca, che raggiunse il vertice affiancata da Giuseppe Di Stefano e Tito Gobbi.
Scarpia è sicuramente il personaggio più nuovo nel panorama pucciniano, per la cui interpretazione occorrono doti sia di grande cantante che di grande attore: basti pensare solo al secondo atto in cui è sempre in scena per quarantacinque minuti. Ruolo difficile, dalle mille sfumature, con possibilità di dispiegare la voce in un canto disteso, ma anche versatile nel recitativo, dove l'interprete deve però evitare eccessi e facili cadute di gusto, riuscendo a rendere la malvagità di quest'uomo potente, terribile e spietato, che dispiega interamente la sua arroganza: ”Io di sospiri e di lattiginose albe lunari poco m'appago (…) La cosa bramata perseguo,me ne sazio e via la getto, volto a nuova esca”.
Così si esprimeva Tito Gobbi, grande interprete di Scarpia, riguardo alle due battute che precedono il suo ingresso in scena al I atto di quest'uomo davanti al quale tremava tutta Roma: “L'ho eseguita circa novecento volte, ispirato sempre dal magico potere che Puccini m'infonde. Egli offre all'interprete Scarpia uno dei momenti più grandi dell'opera, e se l'artista non riesce a trasmettere al pubblico un immediato senso di terrore e repulsione, tanto vale che abbandoni il ruolo. Elegante, terribile, senza scrupoli, Scarpia deve saper sprigionare subito dal suo primo apparire la forza del male che, dall'orchestra, attraverso la sala, raggiunge le ultime file della galleria. Non è soltanto ‘tutta Roma’ a tremare davanti a lui: ogni singolo spettatore dovrebbe provare questo sentimento di paura.
Tosca è l'opera più fortunata in assoluto, una delle più eseguite nella storia del teatro lirico, che ha sempre incontrato il gusto e la passione popolare. E pur se tutta l'opera dispiega arie indimenticabili, la melodia che più di ogni altra resterà eternamente a segnarla sarà proprio “E lucean le stelle”: un canto d'angoscia e di disperazione, di evocazioni dolci e languide, di un uomo che, prossimo alla morte, dichiara il suo amore alla sua donna e alla vita e che muore innocente sullo sfondo dell'alba di Roma: “Svanì per sempre il sogno mio d'amore... - L'ora è fuggita e muoio disperato!... - E non ho amato mai tanto la vita”!
La rondine, costume di scena
Eva Hornyáková (Magda) ne ‘La Rondine’
IL TRITTICO
Una scena di ‘Suor Angelica’ (Metropolitan, New York, 2007)
L'opera si apre con l'ennesima testa che cade, quella del giovane Principe di Persia. Tra la folla che assiste all’esecuzione c’è Calaf, principe tartaro spodestato, che non riesce a resistere alla bellezza di Turandot e decide di provare a risolvere gli enigmi. Il suo vecchio padre Timur e la fedele schiava Liù, innamorata di lui – che egli ritrova nella calca della grande piazza - e gli stessi ministri di Turandot, tentano inutilmente di farlo desistere.
Calaf si ritrova dunque faccia a faccia con la "bella di ghiaccio" di cui riesce a risolvere tutti e tre gli enigmi. Turandot è disperata, e Calaf le propone a sua volta un enigma: se prima dell'alba la Principessa riuscirà a scoprire il suo nome, egli si dichiarerà vinto e morirà. Altrimenti diventerà suo sposo.
Turandot, riesce a rintracciare Timur e Liù, ma entrambi taceranno, anzi, Liù sentendo di non poter resistere alle torture a cui la stanno sottoponendo, si uccide.
Sarà lo stesso Calaf a rivelare alla principessa il proprio nome, ma solo dopo essere riuscito a darle un bacio appassionato. Bacio che sconvolgerà nell'intimo Turandot, la quale andrà con Calaf davanti all'imperatore suo padre ed al popolo, per annunciare trionfante di aver finalmente scoperto il nome dello straniero: "Amore".
LE OPERE DI GIACOMO PUCCINI
LE VILLI (1884)
Opera-balletto
in due atti su libretto di Ferdinando Fontana.
E’ l'opera d'esordio di
Puccini.Il successo convinse l'editore Ricordi ad accogliere Puccini nella sua
scuderia, commissionandogli immediatamente una seconda opera, l’Edgar.
Puccini scrisse Le Villi poco dopo essersi diplomato in composizione presso il Conservatorio di Milano. Fu il suo insegnante, Amilcare Ponchielli, a suggerirgli di prendere parte al concorso bandito dall'editore Sonzogno e a metterlo in contatto con il poeta Fontana.Fontana trasse il soggetto delle Villi dal racconto di Alphonse Karr “Les Willis”(1852), a sua volta ricavato dal balletto Giselle (1841) musicato da Adolphe Adam su libretto di ThéophileGautier.
Le Villi, dipinto di Bartolomeo Giuliano (1906)
Quella
delle Villi - le creature ultramondane, spietate vendicatrici d'amore - è
un'antica leggenda, originaria dell'Europa Centrale e molto nota in Austria. Simili
soggetti fantastici, ricchi di suggestioni magiche e metafisiche, erano di moda
nell'Italia settentrionale di quegli anni, prediletti in particolare dagli
autori della Scapigliatura, il movimento letterario a cui Fontana apparteneva.
EDGAR
Opera
lirica originariamente in quattro atti, ancora su libretto di Ferdinando
Fontana.
Il felice esito delle Villi, indusse l'editore Giulio Ricordi
a commissionare a Puccini una seconda opera da rappresentare al Teatro alla
Scala. La storia si ispira liberamente al dramma in versi di Alfred de Musset “La coupe et les lèvres”.
Il nuovo lavoro vide la luce il 21 aprile
1889: ebbe un certo successo ma non molto caloroso. Nel 1892 l'opera –
largamente rivista dall’autore - andò di nuovo in scena raccogliendo discreti apprezzamenti.
La copertina di un
antico libretto dell’Edgar
MANON LESCAUT
Ispirata
al romanzo dell'abate Antoine François Prévost “Storia del cavaliere DesGrieux e di Manon Lescaut”, l'opera in
quattro atti fu composta fra il 1889 e il 1892. Laboriosa fu la gestazione del
libretto, passato tra le mani di cinque letterati. Iniziato da Ruggero
Leoncavallo, che abbandonò presto il lavoro, fu scritto in gran parte da Marco
Praga e Domenico Oliva. A completarlo e rifinirlo fu però Luigi Illica. Questa
girandola di librettisti dimostra come l'unico vero "autore" di Manon
Lescaut sia stato lo stesso Puccini.
La
prima rappresentazione ebbe luogo nel 1893 al Teatro Regio di Torino, dove
l'opera ottenne un successo clamoroso.Terza opera di Puccini in ordine
cronologico, Manon Lescaut è generalmente considerata la sua prima partitura
operistica completamente matura e personale.
Lo
stesso soggetto aveva già ispirato Daniel-François Auber (1856) e Jules
Massenet (1884). Quando Marco Praga gli fece notare che avrebbe dovuto
affrontare il confronto con la fortunata opera di Massenet, Puccini rispose: «Lui la sentirà alla francese, con la cipria
e i minuetti. Io la sentirò all'italiana, con passione disperata.»
L’Intermezzo Orchestrale all’Atto III
C’è una tale concentrazione
di commozione, di tenerezza, e anche di sofferenza (vista la
fine che attende di lì a poco i due protagonisti), che è impossibile restare
indifferenti davanti a tanta bellezza timbrica, cantabile, malinconica, davanti
a questa parentesi sinfonica pura, inserita come una gemma nel potente dramma
lirico che racconta la fine tragica e dolorosa di un amore, quello dello
studente De Grieux e della bella Manon: l’amore inteso come “maledizione”, come
“passione disperata”, splendidamente colorate da questo Intermezzo. E’ stato
scritto che con questa prova di abilità e dolcezza orchestrale Puccini ha dato
il suo primo esempio di musica
della memoria e del dolore, come avrebbe poi fatto in modo
altrettanto indimenticabile mettendo in musica la morte disperata delle sue
eroine successive: Mimì, Butterfly, Angelica.
Manon muore nel quarto atto del
capolavoro, «in America, su una landa sterminata ai confini della Louisiana»,
come precisa il libretto stesso dell’opera, dove i due protagonisti sono
fuggiti insieme su una nave salpata dal porto francese di Le Havre.
Ciò che è emozionante è l’attacco
dell’Intermezzo, in cui la solitudine disperata e la malinconia di Renato
Des Grieux – che vede la sua amante Manon rinchiusa in una nave destinata
Oltreoceano, e non sa come raggiungerla – vengono espresse con una musica per soli
archi, in un inizio prettamente cameristico, con il violoncello che introduce
il tema, poi con l’ingresso della viola, poi di nuovo il violoncello, con un
traiettoria della melodia che va sempre più in basso verso i registri più
gravi, al quale Puccini affida lo stato d’animo più sofferente del
protagonista; e alla fine di questa “discesa” entra un violino che riporta in
luce la scena (e figurativamente il malessere interiore), finché l’assolo di
viola riprende la traiettoria della melodia nella direzione opposta, al termine
della quale s’affaccia l’intera orchestra.
Questo Intermezzo è una sorta di riassunto delle vicende dei due amanti. Giustamente è stato scritto che c’è un pathos che emerge da questa musica, una disperazione (prima cantata, poi sinfonica, poi di nuovo cantata), un segreto malessere, un cupo pessimismo che prefigura il dramma di Manon e di De Grieux, del loro amore impossibile, che tragicamente si spezzerà in una desolata landa della Louisiana.
Questo Intermezzo è una sorta di riassunto delle vicende dei due amanti. Giustamente è stato scritto che c’è un pathos che emerge da questa musica, una disperazione (prima cantata, poi sinfonica, poi di nuovo cantata), un segreto malessere, un cupo pessimismo che prefigura il dramma di Manon e di De Grieux, del loro amore impossibile, che tragicamente si spezzerà in una desolata landa della Louisiana.
Manon Lescaut, in una immagine di programma per la stagione
2016
del Dutch National Opera di Amsterdam
LA BOHEME
E' un'opera lirica in
quattro quadri, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica.
L'opera è tratta dal
romanzo d'appendice "Scènes de la
vie de bohème" di Henri Murger. All'epoca anche il compositore Ruggero Leoncavallo stava infatti lavorando ad
un'adattamento musicale della medesima opera.
Quando l'opera debutto nel 1896 al Teatro Regio di Torino (diretta da un ventinovenne Arturo Toscanini), ebbe un buon successo di pubblico, al contrario dell'opera di Leoncavallo che, rappresentata la prima volta l’anno seguente, fu presto dimenticata. La critica in principio si dimostrò piuttosto fredda nei confronti dell'opera di Puccini; in seguito però si allineò al generale consenso riscosso in molti teatri.
L'esistenza
gaia e spensierata di un gruppo di giovani artisti costituisce lo sfondo dei
diversi episodi in cui si snoda la vicenda dell'opera, ambientata nella Parigi
del 1830.
Il primo
manifesto per la Bohéme , di Adolf Hohenstein
Quattro
giovani bohémiens,
un pittore, un poeta, un filosofo ed un musicista, vivono insieme in una
vecchia soffitta, perennemente in arretrato con l’affitto. Una sera che Rodolfo, il poeta, si trova solo in casa, riceve la
visita di una vicina, Mimì, che gli
chiede aiuto per riaccendere il lume: tra i due si crea subito una profonda,
intima intesa che sfocia in un travolgente amore.
Al
caffè Momus, intanto – dove si intrattiene il resto del gruppo – Marcello, il pittore, incontra Musetta, sua vecchia fiamma, ed entrambi scoprono che
l’antica, reciproca passione non si è mai sopita. Quelle di Rodolfo e Mimì e
quella di Marcello e Musetta, saranno due storie parallele e molto travagliate,
fino a giungere entrambe alla separazione. Mimì, malata di tisi, intanto si
aggrava.
Qualche
tempo dopo Musetta incontra Mimì: la ragazza è molto debole e sta male. Musetta
l’accompagna subito a casa dei quattro giovani e tutti insieme si prodigano per
cercare di aiutare l’inferma. Ma Mimì muore, ed il racconto si chiude con la
disperazione di Marcello che non ha mai smesso di amarla e che continua ad
invocarne il nome fra lacrime e grida di dolore.
La
storia, descritta con rapide efficaci pennellate, e caratterizzata da repentini
passaggi dalla malinconia all’esuberanza, dalla poesia all’amara quotidianità,
offre vari momenti di alta drammaticità e bellezza, come nelle arie divenute
celebri “Che gelida manina” e “Sì, mi chiamano Mimí”, del primo atto, “Donde lieta uscì”, nel terzo, e “Sono andati? Fingevo di dormire”, nel
quarto.
La Bohème di Puccini e noi
(da Franco Bergamasco, 2003)
Quando, sullo sfumare di un accordo
minore in pianissimo, cala il sipario che chiude l'ultimo "quadro"
della Bohème di Giacomo Puccini, spesso l'applauso - che poi diventerà fortissimo
- stenta un po'a partire. Qual è il motivo? La maggior parte degli spettatori
ha un nodo alla gola, parecchi stanno praticamente piangendo, i pochi immuni da
fenomeni di questo genere sono quelli che sostanzialmente non hanno capito
cos'è ciò che hanno visto e sentito. Ciò accade pressoché invariabilmente (se
il cast è all'altezza) dal 1896 a oggi, e accade spesso, se è vero che questa
è, in tutto il mondo, l'opera più rappresentata dell'intero repertorio
melodrammatico.
Ma perché si finisce per piangere, quando si va in un teatro d'opera a vedere la Bohème? Certo il libretto di Illica e Giacosa, contiene tutti gli ingredienti atti a suscitare quello che un po' spregiativamente si potrebbe chiamare l'effetto patetico: i quattro giovani bohémiens - un poeta, un pittore, un filosofo e un musicista - vivono spensierati e squattrinati in una soffitta sotto "i cieli bigi" della capitale francese, quando per uno di essi, il poeta Rodolfo, l'amore fiorisce irresistibile dall'incontro casuale con la personcina semplice di una vicina di casa, Mimì. Gli amori (c'è anche quello fra il pittore e la volubile Musetta) vivono, cadono, rifioriscono tra slanci e gelosie, abbandoni e precarie riconciliazioni, sullo sfondo allegro del Quartiere Latino, ma anche su quello squallido di una periferia, mentre l'inverno stringe sempre di più la sua morsa. Mimì è ammalata del più classico dei mali ottocenteschi, la tisi; Rodolfo la lascia più per l'impossibilità di assisterla adeguatamente in quella fredda soffitta che per gelosia; nel finale Mimì torna in quella soffitta perché vuole morire vicino all'uomo che ama e agli altri pochi amici della sua piccola vita.
Non si tratta però solo di un meccanismo narrativo che scatta alla perfezione e produce i suoi effetti, e nemmeno solo dal senso fortissimo di autenticità espresso dalla musica di Puccini. Forse può essere uno scrittore, Enzo Siciliano, a portarci nella sua bella biografia di Puccini sulla strada giusta: "la giovinezza è un momento del vivere, splendido per inconsistenza e non per altro, così che quando pare di averlo afferrato, sparisce"; passioni, rabbie, scherzi, pochi soldi, vita in comune, allegria, delusioni, speranze: questo è la Bohème, e, al di là della trama e dei personaggi, cos'è tutto ciò se non la giovinezza, come ogni spettatore istintivamente sente?
Nell'ultimo quadro dell'opera non ci immedesimiamo solo nella morte di un personaggio; quando muore Mimì è tutto quel mondo che si spegne, nel cuore di tutti i personaggi e anche nel nostro, perché quello che noi spettatori viviamo non è altro che il sentimento della morte della giovinezza. Quella di ognuno di noi; è di questo che in realtà parla la Bohème, ed è per questo che ogni volta abbiamo un nodo alla gola.
Bozzetto di scena per
La Bohéme (Adolf Hohenstein)
TOSCA
L'opera, in tre atti, su libretto di
Giuseppe Giacosa e Luigi Illica,fu rappresentata per la prima volta a Roma, al
Teatro Costanzi, il 14 gennaio 1900.Il libretto deriva dal dramma“ La Tosca” di Victorien Sardou, il cui
successo era legato soprattutto all'interpretazione di Sarah Bernhardt nei
panni della protagonista.
Giuseppe Verdi confiderà qualche anno più tardi al suo biografo che, se non fosse stato per l'età, avrebbe voluto lui stesso musicare Tosca.
Giuseppe Verdi confiderà qualche anno più tardi al suo biografo che, se non fosse stato per l'età, avrebbe voluto lui stesso musicare Tosca.
Inizialmente
criticata da una parte della stampa, che si attendeva un lavoro più in linea
con le due precedenti opere di Puccini, Tosca si affermò molto presto e nel giro di tre anni fu rappresentata
nei maggiori teatri lirici del mondo.
L'azione
si svolge a Roma nel 1800, nell'atmosfera tesa che segue l'eco degli
avvenimenti rivoluzionari in Francia, e la caduta della prima Repubblica
Romana. La vicenda si concentra sul triangolo Scarpia - Tosca - Cavaradossi,
delineando il dramma dell'amore perseguitato, un tema che interessava Puccini
più del grande affresco storico condito di delitti e di sangue.
Il primo manifesto per la Tosca , di Adolf Hohenstein
Tosca è considerata l'opera più
drammatica di Puccini, ricca di colpi di scena che tengono lo spettatore in
costante tensione. Il discorso musicale si evolve in modo rapido,
caratterizzato da incisi tematici brevi e taglienti, spesso costruiti su
armonie dissonanti, come quella prodotta dalla successione degli accordi del
tema di Scarpia che apre l'opera. La vena melodica di Puccini ha modo di
emergere nei duetti tra Tosca e Mario, nonché nelle tre celebri romanze, una
per atto ("Recondita armonia", "Vissi d'arte", "E
lucevan le stelle"), che rallentano in direzione lirica la concitazione
della vicenda.
L'acme drammatico è invece costituito dal
secondo atto, che vede come protagonista il sadico barone Scarpia, nel quale
l'orchestra pucciniana assume sonorità che anticipano l'estetica
dell'espressionismo musicale tedesco.
Vissi d'arte, vissi d'amore...
da ‘Donna in Musica’
di Francesca Santucci (web 2016)
Le note cupe che accompagnano a
morte Cavaradossi e la scena
dell'addio alla vita, causa di non pochi
contrasti con i librettisti Illica e
Giacosa, poiché Puccini, uomo di teatro
imbevuto di sensualità, proprio non era interessato ad un congedo dalla vita di
stampo filosofico ma voleva pochi versi intensi, che esprimessero non la disperazione del
condannato a morte che sta per essere fucilato, ma dell'amante che non
potrà mai più abbracciare il corpo fragrante
della sua donna.
Tosca non una creatura timida e
riservata come Mimì, la piccola fioraia della Bohème, ma una splendida eroina, forte e volitiva. Puccini
credette molto nella Tosca, e l’operaebbe,
fin dalla prima rappresentazione del 14 gennaio del 1900 al teatro Costanzi di
Roma, un clamoroso successo.Successo che perdura ai giorni nostri, poiché è
l'opera più rappresentata al mondo in assoluto.
Il melodramma in tre atti, che ha come sfondo storico i contrasti fra i filofrancesi Angelotti e Cavaradossi e il reazionario capo della Polizia, il filoaustriaco Scarpia, nella Roma papalina, è costruito essenzialmente sulla gelosia di Tosca, personalità femminile dalle caratteristiche psicologiche più che mai consone alla sensibilità artistica pucciniana, che tanto era piaciuta anche a Giuseppe Verdi.
Tosca è pervasa da un sentimento corrosivo, la gelosia distruttiva che la trascinerà alla rovina, prima costringendola a subire le insidie di Scarpia e poi ad assistere alla morte dell'amato, ma, come già per altre sue eroine, Puccini le riserva un crudele destino di espiazione: sarà lei stessa a darsi la morte lanciandosi dagli spalti di Castel Sant'Angelo.
A proposito di quest'opera si è spesso parlato di verismo, anche crudo ed eccessivo specialmente nel II atto, per le scene di tortura, il tentativo di stupro, l'assassinio di Scarpia, la drammaticità dei dialoghi tra Scarpia e Cavaradossi, e Scarpia e Tosca, ed in effetti più che la trama sociale e politica, avvinse l'estropucciniano propriol'analisi dei sentimenti. Puccini scrisse: “Tosca è un'opera che richiede una donna ultradrammatica e un buonissimo baritono”.
A Cavaradossi l'autore affidò un'aria che riscuote sempre un grande successo, una delle pagine più belle dell'opera, “E lucean le stelle”, ma è indubbio che i personaggi portanti sono Tosca e Scarpia, per i quali sono indispensabili grande talento sia vocale che scenico.
Tosca richiede un ruolo di grande impegno, occorrono doti di soprano lirico, lirico-spinto, un forte temperamento, un accento drammatico e un grande talento di attrice, e molte cantanti sono state affascinate dal personaggio interpretandolo con preziosismi belcantistici ma, in seguito, anche con un'impostazione più verista, più recitata.
Maria Callas intraprese un grande lavoro interpretativo con la Tosca, che raggiunse il vertice affiancata da Giuseppe Di Stefano e Tito Gobbi.
Maria
Callas interprete di Tosca
L'interprete più celebre di
Cavaradossi fu Enrico Caruso che cantò il personaggio per quasi
vent'anni dispiegando la sua bellissima voce
con accenti drammatici ma senza mai esagerare in preziosismi
virtuosistici; però in qualità di timbro, fascino e fraseggio,Cavaradossi
ideale fu Giuseppe Di Stefano.
Scarpia è sicuramente il personaggio più nuovo nel panorama pucciniano, per la cui interpretazione occorrono doti sia di grande cantante che di grande attore: basti pensare solo al secondo atto in cui è sempre in scena per quarantacinque minuti. Ruolo difficile, dalle mille sfumature, con possibilità di dispiegare la voce in un canto disteso, ma anche versatile nel recitativo, dove l'interprete deve però evitare eccessi e facili cadute di gusto, riuscendo a rendere la malvagità di quest'uomo potente, terribile e spietato, che dispiega interamente la sua arroganza: ”Io di sospiri e di lattiginose albe lunari poco m'appago (…) La cosa bramata perseguo,me ne sazio e via la getto, volto a nuova esca”.
Così si esprimeva Tito Gobbi, grande interprete di Scarpia, riguardo alle due battute che precedono il suo ingresso in scena al I atto di quest'uomo davanti al quale tremava tutta Roma: “L'ho eseguita circa novecento volte, ispirato sempre dal magico potere che Puccini m'infonde. Egli offre all'interprete Scarpia uno dei momenti più grandi dell'opera, e se l'artista non riesce a trasmettere al pubblico un immediato senso di terrore e repulsione, tanto vale che abbandoni il ruolo. Elegante, terribile, senza scrupoli, Scarpia deve saper sprigionare subito dal suo primo apparire la forza del male che, dall'orchestra, attraverso la sala, raggiunge le ultime file della galleria. Non è soltanto ‘tutta Roma’ a tremare davanti a lui: ogni singolo spettatore dovrebbe provare questo sentimento di paura.
Scarpia è la personificazione del
male, e dunque, oltre ad avvincere con una bella voce, e un bel canto, deve
anche essere elegante e arrogante per il potere che esercita, deciso, sicuro e
affascinante, perché risulta sempre più difficile resistere alla lusinga e alla
seduzione che si presenta sotto una bella veste, perciò il rifiuto di Tosca
appare ancora più eroico, e di questo ben consapevole era Puccini che amava le
donne e ne comprendeva la psicologia.
Tosca è l'opera più fortunata in assoluto, una delle più eseguite nella storia del teatro lirico, che ha sempre incontrato il gusto e la passione popolare. E pur se tutta l'opera dispiega arie indimenticabili, la melodia che più di ogni altra resterà eternamente a segnarla sarà proprio “E lucean le stelle”: un canto d'angoscia e di disperazione, di evocazioni dolci e languide, di un uomo che, prossimo alla morte, dichiara il suo amore alla sua donna e alla vita e che muore innocente sullo sfondo dell'alba di Roma: “Svanì per sempre il sogno mio d'amore... - L'ora è fuggita e muoio disperato!... - E non ho amato mai tanto la vita”!
MADAMA BUTTERFLY
E'
un'opera in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica -
originariamente "tragedia giapponese in due atti" - dedicata dall’Autore
alla regina d'Italia Elena di Montenegro.
Puccini
scelse il soggetto della sua sesta opera dopo aver assistito a Londra, nel
1900, all'omonima tragedia in un atto di David Belasco, a sua volta tratta da
un racconto dell'americano John Luther Long del 1898.
Per
la realizzazione del dramma Puccini si documentò minuziosamente sui vari
elementi orientali che ritenne necessario inserirvi. Lo aiutarono
particolarmente una nota attrice giapponese, SadaYakko, e la moglie
dell'ambasciatore nipponico in Italia, da cui apprese gli usi e i costumi
dell'affascinante popolo orientale.
Il
17 febbraio 1904 la Madama Butterfly cadde clamorosamente al Teatro alla Scala
di Milano. Appena tre mesi dopo, dopo una prima revisione da parte dell’autore,
l’opera venne invece accolta entusiasticamente al Teatro Grande di Brescia, e
da quel giorno iniziò la sua fortunata esistenza.
Un appunto autografo di
Puccini
dopo il fiasco della prima
della Butterfly alla Scala
Madama
Butterfly è una storia d’amore che dice molte cose sulla credulità femminile e
sulla fatuità maschile, ma è soprattutto la storia di una conversione che
avviene sull’intersezione di due mondi. Un’opera piena di mondo. “Pigri e obesi
son gli dei giapponesi! L’americano Iddio son persuasa ben più presto risponde
a chi l’implori”, dice Butterfly, la nostra eroina (una geisha diciottenne,
bellissima ex ricca, che tre anni prima ha sposato, amandolo abbastanza da
ripudiare famiglia, Buddha e leggi giapponesi, l’ufficiale della marina
statunitense Pinkerton, uno yankee impostore e fatuo) a Suzuki, la sua fedele governante,
che all’inizio del secondo atto già prega per le sorti sue e della sua padrona,
prevedendo il triste epilogo (l’abbandono di Pinkerton).
E
infatti, gli dei giapponesi non intervengono, né muove un dito il Dio
americano. Pinkerton sposa Butterfly e riparte per l’America, promettendole che
sarebbe rientrato “quando fa la nidiata il pettirosso”. Passano tre nidiate.
Quando Sharpless, amico dell’ufficiale e console a Nagasaki, dove la storia è
ambientata, va dalla giovane sposa, lei gli dà il benvenuto “in una casa
americana”, gli offre le sigarette, domanda ogni quanto i pettirossi
nidifichino negli Stati Uniti, e quando lui cerca di convincerla a cedere al
corteggiamento del Principe Yamadori, che vorrebbe prenderla in moglie non
riconoscendola più come sposa di un altro (per la legge giapponese dell’epoca,
una moglie abbandonata era una moglie divorziata), lei ribatte di essere al
sicuro, protetta dalla legge del suo sposo americano, che si è rifatto un’altra
vita, con una Kate qualunque che presto le porta a casa, per riprendersi il
bambino che Butterfly ha dato alla luce in sua assenza.
Povera
Butterfly. Illusa di potersi inchinare come una giapponese e baciare le mani di
un uomo come un’americana, di potersi far ripudiare dai bonzi ma chiedere
d’essere amata “di un bene piccolino” che dai bonzi ha appreso (“noi siamo
gente avvezza alle piccole cose, umili e silenziose”). Convinta, intontita com’è
dall’amore, dalla poca vita che ha alle spalle e dalla dedizione (che in
quest’opera scopriamo essere virtù culturale), che l’amore possa davvero
avvenire “fuori dal mondo”, che riesca a cancellare le barriere, la supremazia,
la protervia, il cannibalismo dei liberatori. S’illude, Butterfly. E quando non
può più evitare la realtà, dove gli scontri tra culture sono anche teatri di
sangue, s’uccide. Mette in mano a suo figlio una bandiera degli Stati Uniti, va
dietro un paravento, prende il pugnale di suo padre e si uccide, mentre
Pinkerton sa solo dire “datele soccorso, mi struggo dal rimorso” (una rima forte
e spietata!) Butterfly-Ciò Ciò San è alle prese con due dimensioni parallele:
quella di una donna che rinuncia felicemente al suo passato e quella di un
sentire che un tempo inconsapevolmente le apparteneva e che ora riaffiora. Seppur
diversamente da Manon, anche lei è preda di un sentimento che va oltre ogni
limite e che muore solo quando viene tradito e offeso.
Madama Butterfly è un’opera che
rappresenta intensamente la capacità dimostrata da Puccini di mettere a fuoco
le innumerevoli sfaccettature dell’universo femminile: un misto fra sensibilità
e aspettative. Ciò Ciò San preferisce morire purché non le si infligga la pena
di vivere senza onore. L’immortale giovinezza, la voglia di vivere, il saper
esser felici anche di poco, il cadere nell’amore, l’affrontare le pene d’amore;
sentimenti che sono stati e saranno riconoscibili al di là dei tempi e delle
mode perché sono dentro i nostri cuori e parlano una lingua universale: i personaggi femminili di Puccini ricordano in
realtà sentimenti comuni ad ognuno di noi, in cui ognuno possa riconoscersi. È
quello che rende universale il mondo femminile protagonista delle opere del
Maestro.
LA FANCIULLA DEL WEST
Agli
inizi del 1907, durante un soggiorno nella metropoli statunitense,b a Puccini
accadde di assistere ad un dramma di David Belasco, dal titolo “The Girl of the Golden West”,
rimanendone molto colpito ed entusiasta. Incaricò allora il poeta Carlo
Zangarini - cui subentrò in un secondo tempo lo scrittore toscano Guelfo
Civinini - di stendere il testo di un libretto. La composizione della “Fanciulla del
West” venne ultimata nel luglio del 1910. L'opera fu rappresentata per la prima
volta al Teatro Metropolitan di New York il 10 dicembre 1910, sotto la
direzione di Arturo Toscanini e con interpreti principali Emmy Destinn (Minnie), Enrico Caruso (Dick
Johnson) e Pasquale Amato (Jack Rance).
Una foto della prima
rappresentazione de “La Fanciulla del West”
al Metropolitan di New York
(1910)
La vicenda
è ambientata in California, ai tempi della febbre dell’oro, e ha come
protagonista Minnie, tenutaria della “Polka”, luogo di svago e ritrovo per
minatori del vicino campo di lavoro, che la venerano, affidandosi completamente
a lei, consegnandole persino i propri risparmi, mentre tutt’attorno si aggira
depredando e taglieggiando una banda di briganti, comandata dal temibile
Ramerrez.
Minnie,
intanto, si innamora di un giovane straniero, giunto una notte nel locale, che
afferma di chiamarsi Dick Johnson ma che in realtà altri non è che Ramerrez,
venuto a studiare di persona la possibilità di rapinare la cassa dove sono
depositati i risparmi dei minatori.
Questi,
conquistato dalla bontà di Minnie, è deciso a redimersi dalla sua vita
sciagurata, ma è catturato da una turba di uomini minacciosi, pronti a
linciarlo, e la sua sorte sarebbe segnata se, d'improvviso, non intervenisse in
suo soccorso Minnie che, con una paziente opera di persuasione, convincerà i minatori a lasciare libero il suo
uomo.
Quest’opera
anomala nella carriera di Puccini non
si affida, come suo solito, alla cantabilità di arie famose (se si eccettua il
“Che ella mi creda libera e lontana”
cantata da Johnson nel terzo anno), ma si traduce sempre in un’orchestrazione
raffinatissima, che interpreta in modo magistrale tutte le atmosfere della
vicenda, mescolando influssi impressionisti ed espressionisti con echi del
folclore americano.
“La Fanciulla del West” è stata considerata da molti critici come
l'opera con la quale Puccini determinò la fine del melodramma.
“The Girl of The Golden West“ di Belasco era un dramma
fatto di scene frammentate e difficilmente ricomponibili in un tutt'uno
organico, con personaggi decisamente poco credibili (Minnie, una fanciulla
gracile e buona ma poco aderente alla ruvidezza del West; Johnson, un principe
azzurro vestito da cow boy; dei minatori piegati al perbenismo piccolo-borghese,
più interessati alle lezioni di cultura religiosa di Minnie che alla vita di
taverna). Come comporre musica che riuscisse ad accentuare i toni del rush gold
e, allo stesso tempo, rendesse l'effetto della leggerezza di un amore? Il genio
non mancava certo, e Puccini lo investì in pieno nella sua “Fanciulla”: nessun motivo
ampio stile-Butterfly,
nessuna melodia distesa sulla scia di Bohème. Il canto in Fanciulla viene negato, quasi
strozzato, schematizzato, ridotto a esclamazioni, mentre è l'orchestra che
vince, la musica trionfa e domina la scena, rende vera Minnie così come i minatori,
sintetizza il West ed esprime la forza di un amore.
La “Fanciulla”
pucciniana
potrebbe dunque rappresentare la fine del melodramma tradizionale, in quanto l’opera
che segna il chiaro passaggio agli stili del teatro musicale del Novecento.
Una scena del II atto de “La Fanciulla del West” all’Opera di
Montecarlo (2012)
con Megan Miller (Minnie) e Zoran Thodorovich (Johnson)
con Megan Miller (Minnie) e Zoran Thodorovich (Johnson)
LA RONDINE
Originariamente
concepita come operetta, in forza di
un contratto con gli impresari del Carltheater
di Vienna, Puccini, insoddisfatto dell'impianto drammatico conferitole dai
librettisti Heinz Reichert ed Alfred Willner, volle trasformare “La
rondine” in un'opera vera e
propria affidandosi al commediografo italiano Giuseppe Adami. Sciolto il contratto con i commissionari
viennesi a causa dello scoppio del primo conflitto mondiale, “La rondine“ fu rappresentata al Grand Theatre di
Montecarlo nel 1917.
Il
successo non mancò quasi mai, ma non poté mai dirsi completo. Dopo la morte di
Puccini, “La rondine“ scomparve presto dai cartelloni dei teatri. Negli anni
recenti le riprese dell'opera si sono fatte comunque sempre più frequenti .
Dopo
il successo de "La Fanciulla del West", passarono
diversi anni e diverse proposte prima che Puccini si convincesse su una storia
da mettere in musica. Nell'aprile del 1914
lo scrittore e librettista austriaco Alfred Maria Willner, insieme a Hainz Reichter,
proposero una trama che veniva finalmente incontro ai gusti di Puccini. Si
trattava di "Die Schwalbe" ( "La rondine"), una storia simile a quella della “Traviata” di Verdi, ma senza grandi problematiche sullo sfondo.
Puccini
fu conquistato dalle vicende di Magda, una mantenuta che cerca di vivere un
sogno impossibile: non ci sono la malattia e la morte, come nel caso di
Violetta, ma soltanto una rinuncia. Sin dal 1907 Puccini pensava di comporre
un'operetta, ma abbandonò presto l'impresa, affidando a Giuseppe Adami il compito di redigere il testo in italiano.
Alla
prima del 1917, stampa e pubblico accolsero con entusiasmo la novità
pucciniana, in Italia tuttavia non mancarono le critiche. Il fatto che si tratti
di un lavoro sostanzialmente "ibrido", da allora in poi non ha
convinto mai più di tanto.
La rondine, costume di scena
Tutta la vicenda de “La
Rondine” è cosparsa di un'ironia leggera. L'ambiente in cui si muovono i
personaggi è cinico e disinvolto, fatto di persone animate da spirito di
concretezza, che pensano a divertirsi e a seguire le voghe che impazzano nella
capitale francese.
Tante melodie, pochi temi (tutti chiaramente privati d'uno
sviluppo qualsiasi e utilizzati come reminiscenze), ben due arie e un duetto,
tanto valzer. Su questa semplice ossatura si regge l’Opera, in una ricerca di
trasparenza sorretta dal ricorso all'impalcatura tradizionale. È sul telaio delle
prime due parti chiuse affidate a Magda nel primo atto («Chi il bel sogno di
Doretta», «Ore dolci e divine»), infatti, che s'intesse tutto l'arco drammatico
del secondo e del terzo atto, in modo che tutto ciò a cui assisteremo avrà
sempre la caratteristica del déjà vu, funzione di cui si farà carico la ripresa ciclica degli
stessi episodi musicali. È modo sottile di fissare un concetto: sino alla fine,
quando Magda sarà costretta a scegliere il proprio futuro, non si vive mai nel
presente, ma nella nostalgia del passato.
Dopo il quadro visivo e musicale vivacissimo del Bal
Bullier, col brindisi all'amore alla maniera del concertato di un finale
centrale del tardo Ottocento, la conferma viene dall'inizio del terzo atto,
dove l'immagine oleografica di un terrazzo sulla Costa azzurra contorna gli
amanti in atteggiamento estatico. Tre mesi dopo l'atto precedente sono ancora
intenti a ricordare il loro incontro, a convincersi che davvero vivono nella
realtà. Ma il loro dialogo si snoda a ritmo di valzer su reminiscenze della
vita parigina, destinate a esercitare il loro fascino sulla protagonista che,
alla fine, di fronte alla prospettiva di un matrimonio con prole in provincia,
sceglie di tornare a fare la mantenuta a Parigi.
Questo
finale seduce ed affascina non solo per i tocchi di campana che lo siglano con
raffinatezza, ma anche perché è del tutto in linea con i presupposti della
vicenda. Magda lascia il suo nido d'amore sulla Costa Azzurra perché ha ben
compreso quanto le costerebbe dar troppa corda all'illusione nata al Bal
Bullier e che l'ha indotta a volare, come una rondine, fino al mare.
Eva Hornyáková (Magda) ne ‘La Rondine’
al National Theatre di
Praga (2016)
Da questo contesto emerge il ritratto di una vera ‘femme fatale’, che conquista
per la sua indipendenza. Magda è anche una donna moderna, che non vuol fare la
stessa fine delle altre eroine pucciniane, delle quali non ha peraltro le
inclinazioni. Certo la sua decisione non può essere presa senza colpo ferire,
ma è una sofferenza dolce e sfumata: in un amore che proprio eterno non è, il
piacere della rinuncia è una sottile ricompensa.
È suggestivo ipotizzare che dietro a ciò vi sia anche una
convinzione ‘d'autore': Puccini che s'allontana dal mondo dei buoni sentimenti per
imbattersi nella sua gelida principessa cinese. Magda de Civry cerca in una
storia vissuta da adolescente il pretesto per incontrare l'amore vero.
Attraverso lei è Puccini che rinunzia al passato, pur rimpiangendolo, per
affrontare un presente che gli prospetta ben altre avventure. Scritta nell'aura
dei capolavori conclusivi, ‘La rondine’, con la sua musica brillante, ironica,
spruzzata di cinismo, è una preziosa gemma che brilla di luce propria.
IL TRITTICO
I tre atti unici “Il
Tabarro”, “Suor Angelica” e “Gianni Schicchi”, furono pensati da Puccini per la
rappresentazione in un’unica serata. La
prima esecuzione di questo Trittico operistico avvenne al Metropolitan di New
York il 14 dicembre 1918.
Il Tabarro
Opera in un atto, su libretto di Giuseppe
Adami , tratto da “La houppelande” di
Didier Gold.
Puccini pensò inizialmente di abbinare
“Il Tabarro” ad una ripresa della sua prima opera, “Le Villi”, all'epoca quasi
dimenticata.
Solo in
seguito all'incontro col librettista Giovacchino Forzano, Puccini decise di
farne il primo pannello di un trittico di opere in un atto, da eseguirsi insieme.
Tanto
al debutto negli Stati Uniti, quanto alla prima italiana (al Teatro Costanzi di
Roma, nel 1919) l'opera fu accolta in modo tiepido, sia dal pubblico che dalla
critica. In seguito, pur senza mai diventare un'opera popolare, Il tabarro si è guadagnato un posto di
tutto rispetto tra le opere di Puccini. L'intenzionale assenza di melodie
facili, di quelle che colpiscono immediatamente l'orecchio, è compensata da
un'estrema densità drammatica e compositiva. Puccini lavora per lo più su
leitmotiv di poche note, elaborandoli sul piano delle sonorità più che su
quello armonico.
Sul piano drammaturgico, Il tabarro
sembrerebbe segnare un inatteso e tardivo omaggio all'opera verista. L'azione
si svolge infatti nei bassifondi di Parigi, in riva alla Senna, tra scaricatori
e donne del popolo. Due decenni prima, nel momento di massima fortuna del
melodramma verista, Puccini aveva evitato di pagare il tributo a questa moda,
rinunciando a mettere in musica La lupa
di Verga.
Nel farlo ora,
fuori tempo massimo, ne rovescia di segno i principi estetici. Nessuno dei suoi
lavori è infatti così lontano dal tono nazional-popolare di Cavalleria rusticana e delle altre
celebri opere della stagione verista.
La più cupa tra le opere di Puccini è
imperniata sull'idea del tempo che passa, incarnata metaforicamente dall'ora
del tramonto, dalla stagione autunnale e soprattutto dal lento, inesorabile
scorrere del fiume, intorno al quale l'intera vicenda si sviluppa. Un'idea alla
quale rinvia anche l'uso massiccio di tempi a struttura ternaria, il cui moto
circolare guida i protagonisti verso la tragedia avvolti in un clima di
danzante erotismo. Dice la protagonista: «Io
capisco una musica sola: quella che fa danzare», ma la musica che
accompagna le sue parole è la stessa che aprirà il suo appassionato duetto
d'amore con Luigi.
Suor Angelica
Ancora
un atto unico, su libretto di Giovacchino Forzano.
Fu
rappresentata per la prima volta il 14 dicembre 1918 al Metropolitan di New York. La
prima europea si tenne nel gennaio del 1919, al Teatro Costanzi di Roma, all'interno de "Il Trittico".
È
tra le poche opere a contenere solo personaggi femminili. Fra le tre opere che
compongono il Trittico era la preferita da Puccini, che aveva una sorella, Iginia,
suora agostiniana nel monastero di Vicopelago di Lucca.
Una scena di ‘Suor Angelica’ (Metropolitan, New York, 2007)
L'azione
si svolge verso la fine del XVII secolo, tra le mura di un monastero.
Da sette anni Suor Angelica, di famiglia
aristocratica, ha forzatamente abbracciato la vita monastica per scontare un
peccato d'amore. Durante questo lungo periodo non ha saputo più nulla del
bambino nato da quell'amore, e strappatole subito dopo la nascita. Nel
parlatorio del monastero Angelica è attesa dalla zia principessa, donna algida
e distante, venuta per chiederle un
formale atto di rinuncia alla sua quota del patrimonio familiare, come dote per
la sorella minore Anna Viola, prossima ad andare sposa.
Ad Angelica che chiede con insistenza
notizie del suo bambino, con implacabile freddezza la zia annuncia che da oltre
due anni il piccolo è morto, consumato da una grave malattia. Nell’animo di
Angelica, straziata dal dolore, si fa
strada l'idea folle e disperata di raggiungere il bambino nella morte per
unirsi a lui per sempre.
Angelica si reca allora nell'orto del
monastero, dove raccoglie alcune erbe velenose e con esse prepara una bevanda
mortale. Ma dopo aver bevuto pochi sorsi del distillato, conscia di essere
caduta in peccato, si rivolge alla Vergine chiedendole un segno di grazia. E
avviene il miracolo: la Madonna appare sulla soglia della chiesetta e, con
gesto materno, sospinge il bambino fra le braccia della morente.
Gianni Schicchi
L'opera
in un atto, su libretto di Giovacchino Forzano, è basata su un episodio del
Canto XXX dell'Inferno di Dante (vv. 22-48).
Gianni
Schicchi, famoso in tutta Firenze per il suo spirito acuto e perspicace, viene
chiamato in gran fretta dai parenti di Buoso Donati, un ricco mercante appena
spirato, perché escogiti un mezzo ingegnoso per salvarli da un'incresciosa
situazione: il loro congiunto ha infatti lasciato in eredità i propri beni al
vicino convento di frati, senza disporre nulla in loro favore.
Inizialmente
Schicchi rifiuta di aiutarli,ma le preghiere della figlia Lauretta innamorata di Rinuccio, il giovane nipote di
Buoso Donati, lo spingono a tornare sui suoi passi e a escogitare un piano, che
si tramuterà successivamente in beffa. Dato che nessuno è ancora a conoscenza
della dipartita, ordina che il cadavere di Buoso venga trasportato nella stanza
attigua in modo da potersi lui stesso infilare sotto le coltri, e dal letto del
defunto, contraffacendone la voce, dettare al notaio le ultime volontà.
Schicchi
declina dinanzi al notaio le ultime volontà, ma quando dichiara di lasciare a
Schicchi, ovvero a sé stesso, le cose più preziose, fra cui l'ambita casa di
Firenze, i parenti si scagliano contro
di lui, che caccia tutti dalla casa, divenuta ora di sua esclusiva proprietà.
Fuori,
sul balcone, Lauretta e Rinuccio si abbracciano teneramente. Schicchi,
contemplando la loro felicità, sorride compiaciuto della propria astuzia, che
pure lo condannerà all'inferno.
Una scena del ‘Gianni Schicchi’ (Wien Staatsoper, 2012)
Puccini, che leggeva
spesso Dante, era contento di musicare un argomento vivace e divertente, riguardante
un personaggio della Commedia.
Trattare un tema
furfantesco, una situazione da commedia dell'arte, ma di taglio moderno, era
senza dubbio una prova singolare e fuori del comune per un temperamento non
incline all'umorismo, nonostante la brillantezza di molte pagine di Bohème e
della Rondine . Pertanto la comicità dispiegata nello Schicchi sorprende più di
quella del Falstaff , considerando che Verdi aveva già dimostrato di possedere
una genuina tendenza a trattare l'elemento comico (come nella Forza del destino
e nel Ballo in maschera).
I principali punti di
contatto fra Gianni Schicchi e Falstaff derivano dalla comune origine del genere
buffo operistico italiano: la voce baritonale per il protagonista, la relazione
sentimentale tra soprano e tenore ostacolata dalle famiglie, la beffa che determina
la soluzione della vicenda. Tuttavia, mentre Verdi riflette, pur nella
leggerezza, profondi principi morali, Puccini pone l'accento sulla dissennata
avidità priva di scrupoli dei parenti di Buoso, valendosi anche di elementi
grotteschi e talora macabri, come la presenza costante del cadavere sulla scena
o l'assoluta spudoratezza di Gianni che, per attuare la sua beffa, si adagia
nello stesso letto del defunto.
Puccini
intese comporre “un'opera più divertente
e organica del Rosenkavalier di Richard Strauss”, realizzando una notevole
concentrazione del materiale musicale grazie alla continua presenza in scena
dei parenti di Buoso, nove solisti nei diversi registri vocali, trattati come
un coro da camera. Le possibilità timbriche delle voci e dell'orchestra furono
ampiamente sfruttate per esprimere le più svariate sfumature, dal tratto ironico
all'esasperazione grottesca: e sono soprattutto i legni, specialmente gli
strumenti ad ancia, a mettere in rilievo i numerosi scorci caricaturali
dell'opera.
Puccini, per la celebre
aria di Lauretta “Oh mio babbino caro”, brano di intensa effusione
lirico-sentimentale, con cui la ragazza supplica il padre di aiutarla a
coronare il suo sogno d'amore, riprende la melodia per la prima volta esposta
nello stornello di Rinuccio, probabilmente per associare alla ‘gente nuova',
esaltata dal fidanzato, il senso dell'affetto familiare di cui i Donati sono
totalmente sprovvisti.
Il personaggio che più
di ogni altro affascina e convoglia l'ammirazione e le simpatie del pubblico, perfettamente
descritto sia dal punto di vista narrativo che musicale, è comunque Gianni
Schicchi: uomo scaltro e astuto, dalla forte personalità, vero rappresentante
di una classe borghese già solida anche al tempo in cui la vicenda è
ambientata.
TURANDOT
E’ un'opera in 3 atti su libretto di
Giuseppe Adami e Renato Simoni, lasciata incompiuta da Puccini e
successivamente completata da Franco Alfano.
La prima rappresentazione ebbe luogo al
Teatro alla Scala di Milano il 25 aprile 1926, sotto la direzione di Arturo
Toscanini, il quale arrestò la rappresentazione a metà del terzo atto, due
battute dopo il verso «Dormi, oblia, Liù,
poesia!», ovvero dopo l'ultima pagina completata dall'autore, rivolgendosi
al pubblico con queste parole: «Qui
termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.» La sera seguente, l'opera fu rappresentata,
sempre sotto la direzione di Toscanini, includendo anche il finale di Alfano.
L'idea per l'opera venne al compositore
in seguito a un incontro con i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni, nel
marzo 1920. Nell'agosto dello stesso anno egli poté ascoltare, grazie al suo
amico barone Fassini, un carillon con temi musicali proveniente dalla Cina.
Alcuni di questi temi sono presenti nella stesura definitiva della partitura.
Il soggetto fu tratto dall'omonima fiaba
teatrale di Carlo Gozzi, già oggetto di importanti adattamenti musicali: dalle
musiche di scena composte da Carl Maria von Weber nel 1809, all'opera di
Ferruccio Busoni, rappresentata nel 1917 e preceduta da suite orchestrale (op.
41) eseguita per la prima volta nel 1906. Più esattamente, il libretto
dell'opera di Puccini si basa, molto liberamente, sulla traduzione di Andrea
Maffei dell'adattamento tedesco di Friedrich Schiller del lavoro di Gozzi.
L'azione si svolge in Cina, «al tempo delle favole».
Nella mitica ‘città violetta’ (Pechino), vive una
bellissima e solitaria principessa, Turandot,
nella quale alberga lo spirito di una sua antenata violentata e uccisa. Da ciò
l'orrore di Turandot per tutti gli uomini. Ma il popolo di Pechino e
l'Imperatore suo padre insistono affinché si sposi. Ella accetta finalmente di
sposare quel giovane di sangue reale che sarà in grado di sciogliere i tre
enigmi da lei proposti: se fallirà, però, morirà decapitato.
L'opera si apre con l'ennesima testa che cade, quella del giovane Principe di Persia. Tra la folla che assiste all’esecuzione c’è Calaf, principe tartaro spodestato, che non riesce a resistere alla bellezza di Turandot e decide di provare a risolvere gli enigmi. Il suo vecchio padre Timur e la fedele schiava Liù, innamorata di lui – che egli ritrova nella calca della grande piazza - e gli stessi ministri di Turandot, tentano inutilmente di farlo desistere.
Calaf si ritrova dunque faccia a faccia con la "bella di ghiaccio" di cui riesce a risolvere tutti e tre gli enigmi. Turandot è disperata, e Calaf le propone a sua volta un enigma: se prima dell'alba la Principessa riuscirà a scoprire il suo nome, egli si dichiarerà vinto e morirà. Altrimenti diventerà suo sposo.
Turandot, riesce a rintracciare Timur e Liù, ma entrambi taceranno, anzi, Liù sentendo di non poter resistere alle torture a cui la stanno sottoponendo, si uccide.
Sarà lo stesso Calaf a rivelare alla principessa il proprio nome, ma solo dopo essere riuscito a darle un bacio appassionato. Bacio che sconvolgerà nell'intimo Turandot, la quale andrà con Calaf davanti all'imperatore suo padre ed al popolo, per annunciare trionfante di aver finalmente scoperto il nome dello straniero: "Amore".
La “Turandot” all’Arena di Verona (2012)
Alla fine della sua parabola creativa
Puccini si cimentò con un soggetto fiabesco, per lui assai inusuale, se si
eccettua la scena finale della sua prima opera, Le Villi. L’opera, però, rimase incompiuta.
Tale incompiutezza è tuttora oggetto di
discussione tra gli studiosi. C'è chi sostiene che Turandot rimase incompleta
non a causa della prematura morte dell'autore, stroncato nel novembre del 1924
da un tumore maligno alla gola, bensì per l'incapacità, o piuttosto l'intima
impossibilità da parte del Maestro di interpretare quel trionfo d'amore
conclusivo, che pure l'aveva inizialmente acceso d'entusiasmo e spinto verso
questo soggetto. Il nodo cruciale del dramma, che Puccini cercò invano di
risolvere, è costituito infatti dalla trasformazione della principessa
Turandot, algida e sanguinaria, in una donna innamorata.
Del finale pucciniano restano solo alcuni
abbozzi, sparsi su 23 fogli che il Maestro portò con sé presso la clinica di
Bruxelles in cui fu ricoverato nel tentativo di curare il male che lo
affliggeva. Puccini non aveva indicato esplicitamente nessun altro compositore
per il completamento dell'opera. L'editore Ricordi decise allora, su pressione
di Arturo Toscanini, di affidare la composizione al maestro napoletano Franco
Alfano. Nella versione completata (comunemente eseguita ancora oggi), Alfano si
attenne fedelmente agli schizzi e agli appunti di Puccini.
A fronte della versione di Alfano, sono
state studiate varie soluzioni alternative. Nel 2001 è stato proposto un nuovo
finale di Turandot, commissionato a Luciano Berio dal Festival de Musica de
Gran Canaria, basato sempre sugli abbozzi lasciati da Puccini.
La piccola Liù,
fulcro dell’opera
(da Andrea Franco)
Se ci fermiamo
a riflettere sul personaggio del principe ignoto ci renderemo subito conto di
quanto sia improbabile un amore come il suo, nato all’istante e già pronto a
sacrificarsi nella morte. La storia ci coinvolge e la finzione, della quale
siamo sempre consapevoli nonostante la completa immersione nell’opera, stempera
i nostri dubbi. Il sacrificio al quale si presta Calaf sembra la normale
conseguenza del suo amore. Altrettanto possiamo dire della principessa di
morte, la crudele Turandot, così immersa nel suo ruolo di atroce mietitrice che
fa apparire improbabile e remota la possibilità di un lieto fine.
In mezzo a questi eccessi spicca la dolcezza passionale e l’umanità di una
schiava, di nascita e d’amore, legata a un gesto semplice e spontaneo: un sorriso. È Liù che lega i due protagonisti
di questa inverosimile storia d’amore, dapprima cercando di salvare la vita del
proprio padrone, poi trovando le parole giuste per fronteggiare colei che tutti
temevano, in una commovente e tenera spiegazione sul significato dell’amore. (Non
è un caso che in passato molti dei più grandi soprano abbiano deciso di
interpretare Liù anziché Turandot).
Un personaggio di sicuro più coinvolgente e umano che
permette anche una vasta possibilità di sfumature e che non lascia impassibile
lo spettatore. Liù è, insieme a Calaf e
in parte ai tre ministri, il personaggio che teatralmente ha la parte più
sviluppata, in contrapposizione alla staticità della principessa che in qualche
maniera vuole rappresentare anche la staticità di sentimenti. Liù è un
personaggio completo, una vera protagonista. Senza la piccola Liù non sarebbe esistita
l’affascinante atmosfera dell’altrimenti fatiscente Pechino e il lavoro di
Puccini non avrebbe trovato quegli sbocchi drammatici che la caratterizzano
così intensamente. Più volte vediamo il principe Calaf esporre il suo lato più
umano proprio in contrapposizione al sincero e disinteressato amore della
schiava. Nel primo atto quando con tenera passione chiede alla donna di
rimanere al fianco del vecchio padre, solo sulla strada dell’esilio, e nel
momento drammatico della morte di lei, allorché per la prima volta il principe
inveisce contro gli artefici di quelle sofferenze, minacciando atroce vendetta.
La stessa
Turandot rimane colpita dal modo in cui la giovane donna affronta le sofferenze
imposte dall’amore e per la prima volta emerge il dubbio in una donna che mai
aveva saputo guardare dentro di sé. In punto di morte è Liù che assesta il
primo colpo alle certezze della principessa, facendola vacillare.
Liù quindi può
essere definita il fulcro della “Turandot”, la forza motrice dell’intera
opera.
Possiamo comprendere allora perché lo stesso compositore avesse un debole per questo meraviglioso personaggio, da lui stesso voluto nella storia. La piccola Liù è forse il personaggio che nel dramma risalta maggiormente, sia per le proprie qualità intrinseche, sia per il mondo nel quale è proiettato che ne favorisce e amplifica lo splendore.
Possiamo comprendere allora perché lo stesso compositore avesse un debole per questo meraviglioso personaggio, da lui stesso voluto nella storia. La piccola Liù è forse il personaggio che nel dramma risalta maggiormente, sia per le proprie qualità intrinseche, sia per il mondo nel quale è proiettato che ne favorisce e amplifica lo splendore.
Katia Ricciarelli nelle vesti di Liù (Vienna, 1983)