Recondite Armonie II



  


 II

Il melodramma italiano dell'Ottocento, da Verdi a Puccini


 Corso di cultura musicale
Introduzione all'ascolto dell'opera lirica
guidato da  Gius. Berretta

nel programma
dell'Università Popolare di Latina (UPTEL)
Anno Accademico 2017-2018
7 lezioni di 90 minuti
presso la sede UPTEL
Scuola C. Goldoni, via Sezze 25 - Latina 


 IL PERCORSO

L'ultimo Verdi: Otello e Falstaff


Il 'Grand-Opera' all'italiana

Boito, Ponchielli, Catalani

Puccini e l'Opera al femminile
Le Opere di Giacomo Puccini


Le Villi e Edgar
 Dalla Manon al Trittico
Turandot

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Esercizi di ascolto guidato


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 1
LA LEZIONE DELL'ULTIMO VERDI

Le ultime due opere di Verdi, Otello (1887) e Falstaff (1893) sono capolavori assoluti del genere, e non sono inquadrabili entro il periodo storico in cui furono composte. Infatti, sono figlie di stimoli culturali e stilistico-musicali che negli anni '70-'80 portarono Verdi a dirigere l'opera italiana verso dimensioni più europee e costituiscono i punti d'arrivo dell'evoluzione creativa del compositore.

Dopo l’Aida (1871) sembrò che Verdi avesse concluso la sua opera e questo rappresentò anche un periodo di crisi per il teatro musicale italiano. Aida rappresentava una profonda frattura con l'opera italiana e sembrò che con essa fosse terminato il melodramma ottocentesco. Per fortuna Aida non fu l'ultima fatica di Verdi che fu spinto dall'editore Giulio Ricordi a riprendere in mano la penna coinvolgendo anche Arrigo Boito. Questi, nonostante i suoi precedenti da ‘scapigliato’ in evidente contestazione del mondo operistico italiano e di Verdi stesso, avrebbe sviluppato nuove maniere espressive per quello che riguardava la librettistica italiana svecchiandola con contenuti più moderni e nuovi modelli. 

Giuseppe Verdi e Arrigo Boito


Quasi certamente Verdi non sarebbe ritornato a comporre se non fosse stato posto sul tavolo Shakespeare. E' noto, infatti, che Verdi aveva a lungo pensato ad un Re Lear. Nel marzo del 1884, Verdi inizia la composizione di Otello.

OTELLO

Il ritorno di Verdi sulle scene liriche non avrebbe potuto essere più fertile di sviluppi per il teatro europeo del tempo. Egli si mosse in sintonia con la sensibilità della fin de siècle scegliendo come soggetto uno dei drammi psicologici più inquietanti di tutto il teatro di prosa, dove l'azione è prodotta dall'intreccio di passioni tanto assolute quanto devastanti: dall'odio maligno di Jago alla cieca gelosia di Otello sino all'amore innocente di Desdemona.

Pure non è lecito scorgere in questo ennesimo atto di rinnovamento da parte di Verdi la volontà di allinearsi con le tendenze di allora (dal dramma borghese trattato da Massenet a quello "realistico" di Bizet), né affermare che il compositore intendesse colmare le distanze col musikdrama wagneriano, come indicò parte della critica del tempo.

Tornando a Shakespeare dopo Macbeth e il progettato Re Lear, egli coronò un'evoluzione naturale del suo teatro, cresciuto in ambiente romantico e a mano a mano sviluppatosi in una direzione ricca di chiaroscuri. Verdi aveva da tempo preso atto che i valori intorno a lui erano mutati, e che se era tramontato il tempo delle battaglie per i grandi ideali era venuta l'ora di sondare gli abissi vertiginosi dell'animo umano, scavando in profondità nella traccia indicata da alcuni dei suoi personaggi tenorili più inquieti e tormentati, da Riccardo sino allo stesso Don Carlo. L'esito consegnato alla posterità costituisce ancora oggi uno dei drammi più moderni e sconvolgenti del teatro musicale.

Complici le novità stilistiche introdotte dal Boito, Verdi compose una musica altrettanto originale, sperimentando, in Otello, il principio strutturale della forma 'aperta', con un percorso sonoro in cui i motivi frammentati sono immersi in uno sviluppo melodico continuo in grado di disegnare l'azione e la psicologia dei personaggi con estrema pertinenza.
Analisi dell’Opera


Atto I - Dopo l'impatto potentissimo a piena orchestra su cui si leva il sipario, la furia degli elementi s'ingigantisce progressivamente sino a toccare l'apice nella preghiera corale "Dio fulgor della bufera".  Le immani proporzioni di questa bufera, che la musica fa rivivere con intensità sconvolgente, mettono in risalto il valore del protagonista. Nell'"Esultate!" di Otello (poche frasi declamate in Do diesis maggiore) si concentra dunque non solo l'eco della lotta appena sostenuta, ma anche quella delle mille battaglie di una vita eroica che gli ha meritato il grado. - La tempesta passa.  Inizia il dialogo fra Roderigo e Jago, la cui frenetica e capillare azione metterà in moto un dramma dal passo implacabile. La maligna sottigliezza dell'alfiere emerge poi nella chanson à boire "Innaffia l'ugola".  - Chiude il primo atto il duetto con Desdemona, segnato da sonorità venate di erotismo, in cui il Moro intona i versi allitteranti di Boito ("Già nella notte densa"). L'intero brano è costruito su un mosaico di brevi sezioni modellate su stati d'animo cangianti: l'orgoglio del protagonista ("Pingea dell'armi il fremito") sollecitato dalla moglie ("Quando narravi"), la compassione ("E tu m'amavi per le mie sventure"), desiderio e paura ("Venga la morte!").  - Poi il canto di Otello scivola con un'incrinatura cromatica ("che più non mi sarà concesso"). Ogni tensione s'acqueta nel lirismo di Desdemona ("Disperda il ciel gli affanni") sino all'invocazione di "Un bacio". "Vien Venere splende" è un invito esplicito al connubio che culmina nel La bemolle emesso dal tenore in pianissimo. - Questo duetto sarà l'unico scorcio sottratto alle necessità del dramma, una finestra sulla fugace felicità amorosa del protagonista sinora mai spalancata da Verdi in termini di così aperta sensualità. 

                 
Duetto Otello - Desdemona, nell'interpretazione di P. Domingo e B. Frittoli        (Teatro alla Scala, Milano, 2002)


Atto II - Il recitativo di Jago (Credo) rappresenta l’emblema musicale di un genio del male in continuo divenire. Nel monologo ideato da Boito, il baritono esprime convinzioni estranee al personaggio di Shakespeare, pure le fattezze scapigliate del brano identificano con straordinaria efficacia il nichilismo di Jago, per cui "La Morte è il Nulla. È vecchia fola il Ciel".
         
    Il 'Credo' di Jago nell'interpretazione di Justino Diaz (dal film di F. Zeffirelli)
L'indifferenza per ogni valore morale permette all'alfiere d'imporsi su Otello nel successivo colloquio, perché sa fargli intendere quel che vuol sentire e vedere ciò che vuol vedere, deformando i contorni originali delle situazioni.  - L'incubo viene messo a fuoco quando compare la protagonista, mentre Otello soffre di gelosia: la visione dell'innocenza della moglie ridona solo temporaneamente al Moro la fiducia, subito smarrita nel recitativo seguente. "Ora e per sempre addio" è il solenne congedo dalla propria gloria oramai tramontata, dove il canto del tenore si eleva per l'ultima volta, prima che il perfido sogno di Jago faccia lievitare la tensione sino al culmine del delirante giuramento su cui cala il sipario.

Atto III - Il veleno di Jago è penetrato tanto a fondo nell'animo del Moro da ottenebrarne la coscienza. Il duetto Otello-Desdemona, che per complessità si situa tra i vertici dell'arte di Verdi, vede opposti due mondi impenetrabili: Desdemona, la cui ingenua innocenza è condizione altrettanto assoluta della cieca gelosia del marito, prosegue imperterrita a perorare la causa di Cassio, Otello cerca soltanto la conferma dei suoi sospetti. Accasciato e vinto, e rimasto solo, Otello intona "Dio mi potevi scagliar", un monologo in cui il protagonista dà motivazioni inequivocabili della propria sofferenza. - Il breve duetto tra Jago e Cassio serve a provare un tradimento che non esiste. Jago rimane solo con Otello a decidere l'uccisione di Desdemona e del suo presunto amante. Il suono delle trombe interrompe. Il Moro si reca a incontrare gli ambasciatori ma non è più in grado di contenere le proprie reazioni e s'accascia: di fronte a lui Desdemona intona il più grande di tutti i concertati del teatro verdiano. Gli affetti vengono condensati nell'immobilità del canto, e il tempo si ferma, fino a che il Moro si riscuote e di fronte all'orrore generale maledice la sposa. Tutti escono lasciando il Moro a terra insieme al suo oppressore: Otello delira.

Atto IV - Apre l’atto la grande scena di Desdemona, intrisa di tocchi di poetico realismo come, nell'intensa Canzone del salice. E ancora l'"Ave Maria" ripetuta una seconda volta tra sé e sé, mentre la melodia accorcia il tempo del dramma verso le ultime parole: "... nell'ora della morte".  - La reminiscenza del tema musicale del bacio segna la continuità del sentimento che porta Otello al delitto, compiuto al culmine di un episodio intenso e sempre più concitato. Nel finale, pagando con la propria vita, il protagonista riconquisterà una dimensione umana, a partire dal "Niun mi tema", desolato monologo declamato sugli accordi in pianissimo dell'orchestra. Poco per volta il canto riacquista l'espressione lirica che l'azione di Jago aveva corrotto, e il sentimento amoroso, liberato da ogni scoria, cresce sino alle ultime visionarie battute, quando Otello rivive il momento in cui era entrato nella camera della sposa. 
 
  La scena finale di Otello, interprete M. Del Monaco 
(dal film di R. Matarazzo)

FALSTAFF



In Otello si compiva pienamente quanto Verdi aveva più volte cercato di realizzare a cominciare dal 1847 con Macbeth: esprimere e quasi spiegare in linguaggio musicale, in tutta la sua ricchezza di caratteri e di esperienze, in tutta la sua pienezza, il mondo del più grande drammaturgo della letteratura mondiale. Dopo il successo trionfale di Otello, Boito provò con prudenza e diplomazia, ad infervorare Verdi all'idea di una nuova opera da realizzare insieme, proponendogli l'abbozzo di un libretto per un'opera comica tratta da Le allegre comari di Windsor di Shakespeare. In Verdi era ancora vivo il desiderio di cimentare la sua arte - che si era sempre dedicata alla rappresentazione di destini tragici e passioni sconvolgenti - nella raffigurazione del comico.  Nessun'altra figura comica di Shakespeare poteva avvincere il Maestro più di Falstaff, nel quale il comico e il tragico si fondono in maniera unica. Così la proposta di Boito fece presa su Verdi.



Con grande sensibilità psicologica Boito seppe via via addurre proprio gli argomenti che il "gran vegliardo" desiderava ascoltare, poiché lo rafforzavano nelle sue più segrete aspirazioni. Così egli scriveva a Verdi il 9 luglio 1889: "C'è un solo modo di finir meglio che coll' Otello ed è quello di finire vittoriosamente col Falstaff. Dopo aver fatto risuonare tutte le grida e i lamenti del cuore umano finire con uno scoppio immenso d'ilarità! C'è da far strabiliare!".  Ma la composizione procedette a rilento. Verdi dichiarava di scrivere quest'opera solo per proprio divertimento, e che non pensava in alcun modo ad una rappresentazione. Egli sapeva bene che questa sarebbe stata la sua ultima opera:  "Tutto è finito! Va, va, vecchio John… Cammina per la tua via, finché tu puoi… Va, va… Addio!!!".



Il 9 febbraio 1893 Falstaff fu rappresentato per la prima volta. Come già per Otello, anche ora erano affluiti a Milano critici ed entusiasti da tutto il mondo per ascoltare quella composizione con cui il più grande Maestro dell'opera italiana del secolo XIX concludeva definitivamente la sua straordinaria attività.



Il posto eminente che il Falstaff verdiano occupa nella storia dell'opera non deriva esclusivamente dalla sua musica ineguagliabile, ma anche in misura significativa dal libretto di Arrigo Boito. Questi seppe ancora una volta trasformare magistralmente un’opera di Shakespeare in un libretto, senza sacrificare le dimensioni dell'argomento. Al centro dell'opera sta il grasso cavaliere sir John, la cui immagine si arricchisce ed approfondisce di quei tratti che Boito rilevò dal dramma shakespeariano Enrico IV (di qui Boito ricevette ad esempio l'impulso per la "canzone del paggio" - "Quand'ero paggio del Duca di Norfolk" -  e per il monologo di Falstaff sull'onore).



Sir John Falstaff non è una figura solamente comica; non è solo il cavaliere decaduto del declinante medioevo che, ridottosi ormai a vivente anacronismo, tenta di condurre un'esistenza parassitaria a carico dei borghesi inglesi arricchiti, ma è anche un filosofo dalla tragica saggezza, che è consapevole delle dubbiezze della vita e delle nozioni etiche convenzionali, e che alla fine con ironia superiore e filosofia sorridente ravvisa nella follia una prerogativa universale: "Tutto nel mondo è burla, l'uom è nato burlone, nel suo cervello ciurla sempre la sua ragione". 

              
Falstaff,  finale - interpretato da R. Raimondi 

(Teatro Comunale, Firenze, 2011)


È soprattutto nell’ambivalenza di tragico e comico, dei limiti fluttuanti di queste due forme del genere drammatico, che l'anziano Verdi si avvicinò veramente a Shakespeare. Il suo cammino per acquisire tali cognizioni era stato duro e difficile, e quasi identico al suo cammino creativo quale artista. Fin dai primi tempi il genio drammatico di Shakespeare aveva costituito per Verdi l'ideale al quale si era orientata la sua attività compositiva e si erano formate le sue idee sull'opera d'arte teatrale.



Verdi coronava così, con una commedia musicale, la sua produzione, che era stata espressione di una tragica visione del mondo, con tutte le sue vette e i suoi abissi. In questa commedia i tratti seri e gravi del vivere si sottendono ad un riso inesorabile, ma liberatorio ed irrefrenabile. Per esso tutti i problemi si dissolvono nel nulla. È il riso di un uomo che ha conosciuto le oscurità abissali dell'esistenza come pochi altri, e che ora fa udire contro e su di esse la sua risata.



L'eccezionalità di Falstaff è data dal fatto che la sua schiacciante serenità non è mai caratterizzata da un ottimismo piatto e spensierato, ma appare invece come il rovescio del tragico, con cui si lega indissolubilmente. In questa ultima opera Verdi, il grande tragico del teatro musicale, volle far proprio un atteggiamento di ridente superiorità, che intende l'intera vita come una commedia e la risata come l'ultima risorsa del saggio.


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Le due ultime opere di Verdi, Otello e Falstaff, sono strettamente legate tra loro. La tragedia e la commedia della gelosia incarnano due possibilità estreme di interpretare artisticamente la realtà. In esse è racchiuso l'intero mondo teatrale verdiano, un mondo di umanità che nella sua ricchezza è paragonabile soltanto a quello di Shakespeare.



La musica di Falstaff si distingue per ricchezza d'inventiva, brio e per un accento di giovanile freschezza, e al tempo stesso per una straordinaria maturità tecnica e maestria compositiva. Da ogni battuta di questa partitura trapela l'immensa esperienza artistica di un compositore che per tutta una vita aveva vagliato le potenzialità teatrali del linguaggio musicale; ma d'altra parte Falstaff porta anche tutti i segni della novità assoluta, rappresentando nella produzione verdiana e quindi nella storia dell'opera comica italiana un inizio nuovo, quasi privo di premesse storiche.



In Falstaff Verdi non si riallaccia - come sarebbe stato naturale - alla tradizione dell'opera buffa italiana che si era  interrotta intorno alla metà dell' Ottocento, ma crea un tipo completamente nuovo di commedia musicale, che sarà esemplare per l'ulteriore sviluppo dell'opera comica italiana fino a Gianni Schicchi di Giacomo Puccini (1917).



Falstaff è un'opera d’insieme per eccellenza, qui le voci si rimandano l'un l'altra per ampi tratti e con elastica leggerezza motivi più o meno brevi.



Un ruolo importante e nuovo ha in Falstaff l'orchestra; questa non si limita a creare una base armonica o uno sfondo suggestivo per gli eventi scenici e per le voci dei cantanti, ma per così dire partecipa al "parlando" generale, commentando e facendo la caricatura, accompagnando l'azione con una assai incisiva capacità di raffigurazione gestuale.



Questa orchestra che sa così vivacemente sussurrare, sorridere, strepitare, e persino gesticolare in maniera divertita, viene per lo più trattata da Verdi con grandissima trasparenza, dove sono rilevati solisticamente soprattutto gli strumenti a fiato.



Nel suo tema, si esprime la quintessenza di quella filosofia della vita che Verdi esprime nel gioco vivido e ingegnosamente intrecciato delle voci in combinazioni sempre nuove e diverse. Solo la forma della fuga era atta a contenere in una struttura compatta quanto fino a quel punto si era dispiegato liberamente e secondo le esigenze dell'azione scenica.  



Quando Boito fa dire a Falstaff, ormai stanco e soddisfatto, "un coro e terminiam la scena!", lo strappa alla finzione scenica. Questo prima che tutti i personaggi diano vita all'ultimo inseguimento reciproco e si incontrino sul do sovracuto di Alice, che chiude l'opera. A quel punto, con la sua frase, Falstaff ha fatto uscire i personaggi dalla loro gabbia, e non esistono più. Esistono le ‘persone’ che danno il via ad una vorticosa fuga sulle parole "Tutto nel mondo è burla".



Così Verdi traccia in questa fuga finale le linee conclusive della sua opera: l'abile trama delle sue voci costituisce il massimo emblema artistico di quella visione del mondo in una prospettiva di commedia, che nella sua ultima opera egli ha delineato in misura così completa.

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Le ultime due opere di Verdi, Otello (1887) e Falstaff (1893) sono capolavori assoluti del genere, e non sono inquadrabili entro il periodo storico in cui furono composte. Infatti, sono figlie di stimoli culturali e stilistico-musicali che negli anni '70-'80 portarono Verdi a dirigere l'opera italiana verso dimensioni più europee e costituiscono i punti d'arrivo dell'evoluzione creativa del compositore.  


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IL 'GRAND OPERA' ALL'ITALIANA  (*)



In Francia, nella seconda metà dell’Ottocento, sulla scia del melodramma italiano tracciata da musicisti che avevano frequentato l’ambiente culturale parigino, come Rossini, Bellini e lo stesso Verdi, si sviluppa un’opera caratterizzata dalle ampie proporzioni (con molti personaggi, cori, balletti e intermezzi strumentali), dalla grandiosità della messinscena e dal virtuosismo spinto dei cantanti. I maggiori esponenti di questo genere furono  Daniel Auber, Fromental Halèvy , Giacomo Meyerbeer, e ancora  Charles Gounod, Georges Bizet e Jules Massenet che si dedicheranno nella seconda metà del secolo all'opéra-lyrique, un genere più vicino alla tradizione musicale italiana.



Verdi  si accostò al grand opéra con Les vêpres siciliennes (rappresentata a Parigi nel 1855), cui seguì La Forza del Destino (Pietroburgo, 1862), Don Carlos (Parigi, 1867), Aida (Cairo, 1871).



L’eredità di Verdi  sembrò  raccolta – nelle forme del grand opéra, ma con particolare attenzione agli sviluppi del dramma musicale wagneriano – da autori di sicuro talento come Arrigo Boito e Amilcare Ponchielli, e  più tardi da Alfredo Catalani.






Arrigo Boito





Arrigo Boito nacque a Padova nel 1842, il padre un pittore miniaturista e la madre una contessa polacca. Abile poeta e geniale musicista, fu uno dei maggiori esponenti della Scapigliatura milanese, insieme a Emilio Praga, al Rovani e al Dossi.





Arrigo Boito




Sotto il profilo letterario, la sua poesia, specie la sua lunga allegoria ‘Re Orso’, rivela un chiaro romanticismo nordico, dovuto specialmente all'influenza di Baudelaire e Victor Hugo. Boito fu un romantico, e forse non è troppo azzardato affermare che il romanticismo ebbe in lui il suo primo e unico poeta e il suo più tipico musicista in Italia.

Boito aveva un istinto innato per la poesia melodrammatica - qualità che, insieme alla sua conoscenza della musicalità del linguaggio, lo rendevano librettista ideale.  La caratteristica della sua verseggiatura è l'andamento irrequieto, pieno di ricercatezze lessicali e di bizzarrie sonore, con frequenti giuochi di parole. Si può dire che dalle parole nascano ritmo e armonia: perché nel poeta vive, soprattutto, il musicista.
Tra i suoi numerosi libretti La Gioconda (per Ponchielli), in cui domina il contrasto fra Barnaba, personificazione del male, e l'idea del bene; Otello (per Verdi), mirabile sintesi della gigantesca tragedia in cui la personalità del Boito, pur conservando il pathos shakespeariano, si afferma nel foggiare - figura cara al proprio spirito -  il personaggio di Jago, genio maligno come Barnaba, Mefistofele, Re Orso. Infine Falstaff (ancora per Verdi), in sei quadri snelli e leggiadri, nei quali il panciuto personaggio appare nella sua figura di avventuriero spregiudicato e tuttavia nella sua profonda umanità, in una veste verbale scintillante, ricca, festosa.

 Boito ebbe per il Verdi una profonda devozione. Da giovane aveva avuto per lui parole ingenerose: ma il pentimento fu sincero e il ravvicinamento definitivo. Dall'Otello in poi è una fedeltà che assume aspetti commoventi. Al Boito si deve se il "colosso di bronzo" (come egli chiamava il Verdi) risonò ancora con gioia grande dello stesso Boito, che al Bellaigue scriveva: "L'atto della mia vita di cui maggiormente mi compiaccio è la volontaria servitù che ho dedicato all'uomo giusto, nobile fra tutti e veramente grande".




Nella sua musica, in confronto con la poesia, si nota una maggiore semplicità di stesura, in un quadro stilistico assai composito ma non privo di tratti personali e di momenti felici.  L’adattamento del Faust di Goethe per il proprio Mefistofele rappresenta uno dei tentativi più riusciti di riduzione per la scena lirica di quel poema tanto complesso.


Il libretto del Mefistofele (più nella sua prima forma che nella seconda) rivela una piena coscienza del mondo goethiano, rappresentando efficacemente l'antagonismo fra le due forze avverse, Dio e Satana. Faust e Mefistofele, non sono altro che "le due parti di una sola unità, due aspetti dell'anima di Faust che si è sdoppiata e ha preso due forme umane, una che pensa e indaga e spera e dispera e palpita e freme e sente l'entusiasmo e lo sconforto, l'altra che sogghigna e nega" (I. Pizzetti).



Il libretto del Mefistofele




Nella sua forma primitiva il Mefistofele, aveva un libretto assai corposo, sicuramente più vicino al poema goethiano. In netto contrasto con le tradizioni del tempo,  alla sua prima rappresentazione - che avvenne al Teatro alla Scala di Milano il 5 marzo 1868, direttore lo stesso autore - l'opera fu accolta con freddezza dal pubblico e dalla critica, e Boito venne accusato di "wagnerismo".



In realtà Boito aveva assistito a Parigi alla rappresentazione del Tannhäuser e ne aveva concepito un'immensa ammirazione per Wagner. Anch'egli volle essere il librettista di sé stesso e, di più, cercò di applicare, nella sua attività di musicista, principî, se non wagneriani, certamente diversi da quelli che in quel tempo imperavano nel melodramma. Egli intese raggiungere una più viva e piena verità drammatica, abbandonando formule convenzionali e giovandosi di un maggiore sviluppo armonico e ritmico.



Boito, si dedicò allora ad un lungo lavoro di rielaborazione dell’opera che finalmente andò in scena, questa volta con successo, sette anni dopo, a Bologna, nel 1875. 



Il Mefistofele segna un punto importante nell'evoluzione dell'opera teatrale italiana. "Mentre i maestri più stimati e più famosi del teatro italiano chiedono ai poeti librettisti niente altro che situazioni, un giovine di venticinque anni sente, primo in Italia, che l'opera musicale non può essere opera di vita e di bellezza se non sia ispirata ad una grande, profonda opera di poesia" (I. Pizzetti).



Direttore del Conservatorio di Parma, Arrigo Boito trascorse gli ultimi anni di vita a Milano lavorando alla sua monumentale opera "Nerone". Nel 1901 ne pubblicò il testo letterario, ma non riuscì a portarla a termine. L’opera fu ripresa e completata da Arturo Toscanini e rappresentata postuma al Teatro alla Scala nel  1924.

Arrigo Boito si spense a Milano nel 1918, ed ebbe sepoltura nel cimitero monumentale.





Amilcare Ponchielli



Amilcare Pochielli, nato a Paderno, nel cremonese, nel 1834, fin da bambino dimostrò un naturale talento musicale. Studiò quindi composizione presso il Conservatorio di Milano, da cui ne uscì con una solida preparazione di musicista compositore. 





Amilcare Ponchielli



L’esordio di Ponchielli avvenne nel 1872 alla Scala di Milano con l’opera I Promessi Sposi, sul libretto di Emilio Praga tratto dal romanzo di Manzoni. Nel marzo del 1874 presentò alla Scala I Lituani, opera ‘grandiosa’ per le scene e il cast, un vero Grand-Opéra all’italiana.  (*)

Reduce da quesiti successi e sostenuto dall’editore Ricordi, Ponchielli si pose al lavoro per una nuova opera su libretto di Arrigo Boito: La Gioconda. L’opera ebbe un periodo di gestazione travagliato e fu sottoposta ad ampi rifacimenti di cui il definitivo (1879) può essere considerato il capolavoro di Ponchielli.

Negli ultimi anni della sua vita Ponchielli assunse la docenza di “alta composizione” al Conservatorio di Milano dal 1881 (fra i suoi allievi Giacomo Puccini e Pietro Mascagni).

La vita e la carriera di Ponchielli furono stroncate da una polmonite, il 16 gennaio 1886.


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Ponchielli iniziò la sua carriera in un momento critico e di transizione dell’opera italiana: da quella tradizionale e verdiana per eccellenza, a quella pucciniana e verista. Il passaggio avvenne in un clima di polemiche, di raffronti con altre culture. I due nuovi contrastanti modelli di riferimento erano costituiti dal Grand-Opéra per la sua spettacolarità e dall’opera wagneriana con il sinfonismo drammatico che in essa si incarnava.

Ponchielli era del tutto consapevole del problematico momento storico che stava vivendo. La sua opera ben rappresenta questo momento di crisi e di mutamenti. Con I Lituani Ponchielli si trova ad affrontare un ambiente di altissimo livello culturale ed artistico,  quello del Teatro alla Scala. L’opera rivela l’impegno del compositore nella creazione di un Grand-Opéra all’italiana, imponente per le dimensioni e per la grandiosità delle scene ambientate in terre nordiche e semibarbare. 


Il modello al quale Ponchielli attinge non è certo quello wagneriano, del quale in quegli anni si aveva in Italia soltanto una conoscenza indiretta, quanto quello francese e in particolare l’opera di Meyerbeer. Notevoli sono infatti in quest’opera le grandiose scene concertate con ampi interventi orchestrali che, con una strumentazione raffinata, creano atmosfere particolari, quale quella cupa, caratterizzante tutta l’opera. 


Se la grandiosità era l’intento profuso nei Lituani, con La Gioconda Ponchielli. punta invece alla spettacolarità. Egli trovò non poche difficoltà nel mettere in musica il nuovo testo, sia per l’artificiosità della versificazione, sia per i tratti psicologici marcati dei personaggi sia per le situazioni complesse e di difficile resa scenico-musicale.

Anche quest’opera si rivela un tipico esempio di Grand Opéra all’italiana con ampio dispiegamento di mezzi spettacolari e con molteplice articolazione dello spazio scenico e sonoro. L’ambientazione veneziana offriva varie occasioni per interventi corali e orchestrali con funzioni pittoresca e realizzati con linguaggi musicali differenti (barcarole, cori festanti, danze fokloristiche, balli coreografici, cori ecclesiastici, preghiere). Su questo sfondo si inseriscono le tinte più oscure della vicenda animata da passioni e sentimenti estremi. 

Innegabili sono gli aspetti innovativi della Gioconda: la funzione dell’orchestra che con le nuove sonorità rende fluido il discorso musicale e focalizza l’attenzione drammatica, i richiami tematici che percorrono l’opera, la vocalità adattata sia alla versificazione, sia ai personaggi. 

Il Figliuol prodigo e Marion Delorme sono a tutt’oggi opere meno note. Con Marion Delorme Ponchielli si inoltra in uno sperimentalismo che venne accolto male dal pubblico e dalla critica ma che, più attualmente, viene ritenuto elemento di passaggio al nuovo teatro operistico italiano fin de siècle.
 

La struttura drammaturgica dell’opera presenta aspetti anticonvenzionali, come quelli ispirati alla tematica romantica della commistione del tragico e del comico. Questi elementi contrastanti, che non trovano ancora soluzione nell’opera ponchielliana – l’integrazione del tragico e del comico, le tensioni drammatiche quasi ‘veriste’ e le atmosfere più intime bohèmien, la vocalità ora lirica e ‘belcantistica’, ora in declamato – costituiscono tuttavia preannunci di un radicale rinnovamento e la concreta eredità lasciata da Ponchielli alle generazioni successive, in particolare a Mascagni, a Leoncavallo e a Puccini.





Alfredo Catalani
 
Alfredo Catalani nacque a Lucca nel 1854, figlio di un maestro di musica. Iniziò a studiare nella sua città natale, poi a Parigi, e infine al Conservatorio di Milano. Esordì con un breve lavoro eccentrico e vigoroso intitolato La falce, egloga araba per due voci e coro su libretto di Arrigo Boito.
 

Alfredo Catalani



In seguito Catalani si avvicinò alla scapigliatura milanese, tenendo conto, oltre che della lezione di Richard Wagner, del rinnovamento sinfonico e del dramma lirico francese. Ma da questo impegno scaturirono solo alcune opere, considerate unanimemente secondarie dalla critica (Elda,, Dejanice  ed Edmea).  

Nel 1880 succedeva al Ponchielli nella cattedra di composizione al conservatorio di Milano, ove insegnò fino alla morte.
Sempre più attento a certe atmosfere nordiche, si accinse alla composizione della sua opera successiva: Loreley. Il 17 febbraio 1890 fu rappresentata con un certo successo al teatro Regio di Torino.


Della Loreley fu particolarmente apprezzata la danza delle Ondine, una pagina musicale dall'orchestrazione trasparente e raffinata, ricca di un lirismo delicato e descrittivo accostato giustamente ad espressioni pittoriche di certi Macchiaioli, l'esatto contrario della danza delle Ore ponchielliana, assai esuberante e decorativa. Non mancarono al Catalani le solite critiche di wagnerismo, del tutto immeritate.



Nell'aprile del 1888 si fidanzò con una cugina, con la quale però, dopo pochi mesi, arrivò ad una dolorosa rottura. In questo periodo, fra l'altro, iniziò a comporre quella che sarà la sua ultima opera: La Wally, tratta da un romanzo d’appendice tedesco di Wilhelmine de Hillern, Die Gaier-Wally.

La Wally fu rappresentata alla Scala di Milano il 20 gennaio del  1892. Quest'opera rimane una pietra miliare nell'evoluzione della musica lirica italiana. Gustav Mahler, che la diresse ad Amburgo la considerava "la migliore opera italiana". Dopo la prima scaligera, La Wally venne splendidamente ripetuta al Teatro del Giglio di Lucca, con la direzione di Arturo Toscanini, grande estimatore di Catalani.

Prostrato dalla tisi,  il 7 agosto 1893, dopo alcuni giorni di agonia, Alfredo Catalani, a soli 39 anni, moriva dopo una vita drammatica e tormentata. 


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L'opera del Catalani, tacitata e oppressa dall'invadenza del melodramma verista, ebbe fortune alterne. Nonostante l'apprezzamento del pubblico, la critica ufficiale si mostrò sempre poco benevola verso il compositore, al quale fu spesso rimproverato di essere troppo "wagneriano" (e quindi poco italiano). Non è un caso, del resto, che due opere come Cavalleria rusticana e Pagliacci si affermavano in modo più deciso rispetto alle coeve Loreley e La Wally.


Giuseppe Verdi non apprezzò le opere del Catalani. Considerò La Wally “opera tedesca, priva di cuore e ispirazione.

Il proposito di cercare il "vero", mostra  con chiarezza il punto di flessione del gusto operistico italiano del tardo Ottocento, fuori dal solco verdiano e oltre la retorica esperienza teatrale di Ponchielli. Fu, la posizione di Catalani più prossima alle arti figurative e alla poetica decadentista, che non al gusto operistico corrente.

L'arte raccolta e gentile del Catalani costituisce sicuramente un'inversione curiosa alla tendenza "verista" che a fine secolo interessava tanta parte d'Europa. Catalani appare oggi come la figura più indicativa del Romanticismo nel teatro musicale italiano, un Romanticismo spontaneo e non cosmopolita, scevro di quelle velleità letterarie che ebbe Boito. Una disposizione prettamente crepuscolare, che viene anche al Catalani da una congenita mestizia toscana tutta pervasa di sognante nostalgia e di precoce fatalismo.

La morte prematura impedì al Catalani di mutare l'itinerario e le fortune dell'opera italiana, dopo Verdi e prima dei più giovani esponenti del verismo.




(*) Per grand opéra si intende un genere operistico che ha dominato la scena francese nel pieno Ottocento. I primi esempi italiani di grand opéra sono rappresentati dal Guglielmo Tell di Rossini (1829) e dal Don Carlos di Giuseppe Verdi (1867). Fra gli autori più rappresentativi del genere va segnalato Giacomo Meyerbeer (1791-1864, compositore tedesco trasferitosi a Parigi), che raggiunse il successo grazie ad alcune pregevoli opere tra cui L'Africana (L'Africaine), rappresentata postuma. Nel grand opéra acquistano particolare rilievo le scene spettacolari, caratterizzate dall'impiego di numerose comparse, cortei, sfilate e balletti. Ai cori viene inoltre affidato sempre più spesso un ruolo di primaria importanza. L'orchestrazione è costituita normalmente da un organico fortemente ampliato, onde poter accentuare ulteriormente la spettacolarità e la tensione drammatica dell’opera.





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PUCCINI E L'OPERA AL FEMMINILE

  Giacomo Puccini




Giacomo Puccini



Nato a Lucca, il 22 dicembre 1858, da una famiglia di musicisti, dopo aver perduto il padre all’età di cinque anni, fu mandato a studiare presso uno zio, che lo considerava un allievo non particolarmente dotato e soprattutto poco disciplinato. La tradizione dice che la decisione di dedicarsi al teatro musicale nacque dopo aver assistito nel 1876 ad una rappresentazione dell’Aida di Verdi a Pisa, dove si sarebbe recato a dorso di mulo. 


Dal 1880 Puccini studiò al conservatorio di Milano, allievo di Amilcare Ponchielli. Nel 1883 partecipò al concorso per opere in un atto indetto dall’editore Sonzogno. Le Villi, non vinse il concorso, ma nel 1884 fu rappresentata al Teatro dal Verme di Milano. 


Nel frattempo, Puccini aveva intrapreso una convivenza destinata a durare tra varie vicissitudini tutta la vita con Elvira Bonturi, moglie del droghiere lucchese Narciso Gemignani. Dalla loro unione nacque l’unico figlio del compositore, Antonio.


Dopo un mediocre Edgar, la terza opera – Manon Lescaut – ebbe un successo straordinario, forse il più autentico della carriera di Puccini. Essa segnò inoltre l’inizio di una fruttuosa collaborazione con i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa. Illica e Giacosa avrebbero scritto poi i libretti delle successive tre opere, le più famose e rappresentate di tutto il teatro pucciniano.


Puccini con Giacosa e Illica



La prima, La Bohème (basata sul romanzo di Henri Murger Scènes de la vie de Bohème), è forse la sua opera più celebre. Tra i capolavori del panorama operistico tardoromantico, La bohème è un esempio di sintesi drammaturgica, strutturata in 4 quadri (è indicativo l’uso di questo termine in luogo del tradizionale "atti") di fulminea rapidità. 


La successiva, Tosca, rappresenta l’incursione di Puccini nel melodramma storico a tinte forti. Il soggetto, tratto da Victorien Sardou, può richiamare alcuni stereotipi dell’opera verista, ma le soluzioni musicali anticipano piuttosto, specie nel secondo atto, il nascente espressionismo musicale. 


Madama Butterfly (basata su un dramma di David Belasco) è la prima opera esotica di Puccini. Il suo debutto alla Scala nel 1904 fu un solenne fiasco, probabilmente almeno in parte orchestrato dalla concorrenza; ma dopo alcuni rimaneggiamenti l’opera raccolse un successo pieno e destinato a durare.


David Belasco
(drammaturgo americano, 1853 - 19319




Nel 1909 una tragedia e uno scandalo colpirono profondamente il musicista: a ventitré anni la domestica Doria Manfredi, perseguitata dalla gelosia ossessiva di Elvira, si suicidò avvelenandosi. Il dramma aggravò i rapporti con la moglie ed ebbe pesanti strascichi giudiziari. Nel 1912 morì anche Giulio Ricordi, l’editore al quale Puccini era profondamente legato e che considerava un secondo padre.


Sul fronte artistico, la passione per l’esotismo (da cui era nata Butterfly) spingeva sempre più il musicista a confrontarsi con il linguaggio e gli stili musicali legati ad altre tradizioni musicali: nacquero così, nel 1910 La fanciulla del West, un western ante-litteram, e nel 1917 La rondine, concepita come operetta e diventata in seguito un singolare ibrido tra questo genere e quello dell’opera lirica. 


Sin dagli ultimi anni dell’Ottocento Puccini tentò anche, a più riprese, di collaborare con Gabriele d’Annunzio, ma la distanza spirituale tra i due artisti si rivelò incolmabile.

L’eclettismo pucciniano, e insieme la sua incessante ricerca di soluzioni originali, trovarono piena attuazione nel cosiddetto Trittico, ossia in tre opere in un atto rappresentate in prima assoluta a New York nel 1918. I tre pannelli presentano caratteri contrastanti: tragico e verista Il tabarro, elegiaca e lirica Suor Angelica, comico Gianni Schicchi


Puccini morì a Bruxelles nel 1924, per complicazioni sopraggiunte durante la cura di un tumore alla gola e fu sepolto nella cappella della sua villa di Torre del Lago. 


Turandot  fu l’ultima opera di Puccini. Tratta da una fiaba teatrale di Carlo Gozzi, Turandot è la prima opera pucciniana di ambientazione fantastica, la cui azione – come si legge in partitura – si svolge ‘al tempo delle favole’. In quest'opera l'esotismo perde ogni carattere ornamentale o realistico per diventare forma stessa del dramma: la Cina diviene così una sorta di regno del sogno e dell'eros e l'opera abbonda di rimandi alla dimensione del sonno, nonché di apparizioni, fantasmi, voci e suoni provenienti dalla dimensione altra del fuori scena.



Manifesto per la Turandot
(litografia di Leopoldo Metlicovitz, 1868-1944)


Puccini si entusiasmò subito al nuovo soggetto e al personaggio della principessa Turandot, algida e sanguinaria, ma fu assalito dai dubbi al momento di mettere in musica il finale, coronato da un insolito lieto fine, sul quale lavorò un anno intero senza venirne a capo.

L'opera rimase incompiuta poiché Puccini morì a Bruxelles nel 1924, per un infarto miocardico acuto, sopraggiunto qualche giorno dopo un disperato intervento chirurgico eseguito per estirpare un diffuso cancro alla gola.


Le ultime due scene di Turandot furono terminate da Franco Alfano, sotto la supervisione di Arturo Toscanini, ma la sera della prima rappresentazione lo stesso Toscanini interruppe l’esecuzione là dove il maestro l’aveva interrotta, con la morte di Liù. 


Nel 2001 vide la luce un nuovo finale, composto da Luciano Berio e basato sul medesimo libretto e sugli abbozzi pucciniani.


***


Puccini è una delle maggiori figure dell'opera Italiana tra l’Ottocento e il Novecento, colui che ha cercato di rompere il vincolo con la corrente "verista" (stile artistico italiano il cui intento era quello di dare un'immagine della società e delle persone come queste si presentavano nella vita quotidiana) prima e con la "dannunziana" poi (stile artistico connesso al poeta Gabriele D'Annunzio), per dar vita ad un nuovo stile personale tutt'oggi apprezzato e celebrato.


Nel corso della sua vita compose solo dodici opere – compresi i tre atti unici del Trittico – poiché il suo interesse principale era quello di perfezionare i suoi meccanismi teatrali fino a realizzare opere perfette, che fossero in grado di entrare a far parte dei repertori dei maggiori teatri lirici di tutto il mondo. 


Illustrazioni per i manifesti del Trittico



Il pubblico, per quanto talvolta confuso dall'originalità delle sue opere, lo seguiva con grande interesse, mentre il mondo della critica musicale, specialmente quella italiana, lo guardava in maniera del tutto sospetta, forse per il timore che la particolare enfasi data alla melodia potesse finire per svalorizzare il melodramma classico. Ma nell'ultima decade del secolo, la sua opera fu rivalutata e altamente apprezzata dai maggiori autori del suo tempo come Stravinskij, Schoenberg, Ravel.


Lo stile orchestrale di Puccini, mostra comunque la forte influenza di Wagner nei timbri e nelle configurazioni orchestrali: spesso infatti è l'orchestra a creare l'atmosfera di scena.




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Puccini e le sue donne

(da  Lisa La Pietra, musicologa)



Il rapporto fra il compositore italiano  e  l’universo femminile è sempre stato un campo fortemente indagato,  sia  in  riferimento  ai personaggi delle  sue opere,  che in rapporto alle donne incontrate nella sua vita. La convinzione più diffusa è che Puccini sia riuscito a trarre ispirazione prevalentemente da Elvira Bonturi, sua moglie. Per quanto infatti il compositore abbia frequentato più donne, sembra che fu proprio Elvira a fornirgli il filo conduttore dell’ispirazione di tutta una vita.



Elvira Bonturi 

In realtà Puccini aveva bisogno di innamorarsi per poter comporre, per potersi sentire ispirato doveva provare quel sentimento forte, passionale, dolce e struggente che è l’amore. Le sue piccole trasgressioni Giacomo li chiamava i “piccoli giardini”, delle evasioni innocenti, per poter avere sempre uno spirito ringiovanito e regalare sempre così al pubblico della musica viva ed appassionata.

Seppur crudele e ignorante, Elvira fu l’unica donna in grado di tenere agganciato a sé Giacomo Puccini, nonostante gli innumerevoli tentativi che egli fece per liberarsi di lei. La loro storia iniziò a Lucca, quando lei, ventiquattrenne, già sposata e madre di due figli, non si fece premura di iniziare una travolgente relazione con Giacomo allora ventiseienne. Elvira, una volta rimasta incinta, si trasferì a Milano col suo amato portando con sé la figlia maggiore, mentre abbandonò il maschio che rimase con suo padre; uno scandalo di proporzioni enormi per l’epoca.

La passione finì subito dopo la nascita del figlio Antonio, ma questa ragione non servì affatto a separare i due che, ciononostante, portarono avanti la loro relazione, seppur a caro prezzo.

Nella maggior parte delle bibliografie che ho consultato su Puccini è riportato che Elvira odiava la musica, gli amici di lui e ogni cosa che lo allontanasse dal suo soffocante controllo e che, più che gelosa, fosse paranoica a livelli patologici tanto da divenire persino violenta e alzare le mani su Giacomo. Elvira usò tutte le armi per tenersi quell’uomo che neanche lei amava più, ma che doveva essere solo suo.

Si potrebbe sostenere che Giacomo non riuscendo a fuggire nella realtà, fuggisse con donne immaginarie, quelle delle sue opere. Donne che erano proprio il contrario di Elvira: dolci, miti, arrendevoli, disposte al sacrificio.

Frequente e quasi leggendaria è l’immagine di Puccini come impenitente donnaiolo, alimentata da diverse vicende biografiche e dalle stesse parole con cui amò definirsi «un potente cacciatore di uccelli selvatici, libretti d’opera e belle donne». In realtà Puccini non fu il classico dongiovanni: il suo temperamento era cordiale ma timido e la sua natura ipersensibile lo portava a non vivere con troppa leggerezza i rapporti con le donne. Era stato d’altronde circondato dal gentil sesso sin da bambino, cresciuto dalla madre e con cinque sorelle ed un solo fratello più piccolo. 

Puccini visse in un momento storico, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento,  in cui i temi di imprese eroiche e glorie patrie iniziavano a non riscuotere più il successo che invece avevano avuto nel secolo precedente. Perciò egli iniziò un nuovo modo di presentare le vicende e lo fece prestando attenzione al recupero di un sentimento soggettivo. Ed è forse per questo che la figura della donna occupa una centralità inequivocabile nelle sue opere. 

Tutte donne le sue eroine, appassionate e tragiche. Puccini trasferirà infatti, inconsciamente, il suo senso di colpa, nei suoi personaggi femminili, a partire dalla sua prime opere, nell’Anna de Le Villi e nella Fidelia di Edgar, donne che pagano con la morte il loro amore “colpevole”. E anche l’attrazione sessuale, che Puccini subirà per tutta la sua vita, sarà sempre sentita, più o meno inconsciamente, come un tradimento della Madre, se non addirittura come un inconfessabile sentimento incestuoso. Tutte le sue donne saranno, come lui, vulnerabili e insicure, malate di solitudine e malinconia, malate d’amore. 


Contrariamente a ciò che scrive in certe lettere, in cui appare cinico e calcolatore artefice dei suoi personaggi teatrali, che sembrano essere studiati a tavolino, Puccini amò profondamente tutte le “sue” donne, a partire dalla Manon Lescaut, «donna leggera e impudente, amante infelice, peccatrice senza malizia», come la definì lo stesso abate Prevost, porto accogliente e caldo, tante volte fantasticato dalla sua indole ardente e sensuale. Una donna, insomma, tutta carne e sesso, di quelle che fanno impazzire con i loro capricci e la loro imprevedibilità, ma che alla fine ripagano i loro amanti in una morbida pienezza di sudditanza e di abbandoni, anche se sono destinate a rimanere «sole, perdute, abbandonate in lande desolate», e a maledire la loro bellezza. Puccini ebbe il merito – scrisse un suo acerrimo critico – di sentire in sé «una certa poesia animale», fatta di intimità e comprensione delle piccole gioie e degli umili dolori, con una sensualità facile che ha sinceri ritorni di candore compassionevole. 


Kristine Opolais e Jonas Kauffman 
 in Manon Lescaut (Royal Opera House, 1914)


C’è chi ha sostenuto l’idea che ogni aspetto di Elvira abbia dato vita ad un personaggio femminile nelle opere pucciniane (**) : Manon Lescaut, l’avventuriera che trascina alla rovina Des Grieux, potrebbe essere quell’Elvira che, a Lucca, seduce e conquista Puccini; Mimì somiglierebbe all’Elvira appena giunta a Milano, senza risorsa alcuna, in povertà quasi totale; Butterfly sarebbe invece l’Elvira che si sacrifica rinunciando alla sua vita di donna borghese e perbene per inseguire l’amore; infine Turandot, che, sebbene sia il personaggio più difficilmente accostabile ad Elvira, potrebbe essere considerata la donna onirica che cinge di gelo la vita dell’artista.




(**) Giampaolo Rugarli, La divina Elvira: L’ideale femminile nella vita e nell’opera di Giacomo Puccini, Venezia, Marsilio Editore.



 
5
LE OPERE DI GIACOMO PUCCINI

 
LE VILLI  (1884)


Opera-balletto in due atti su libretto di Ferdinando Fontana.

E’ l'opera d'esordio di Puccini.Il successo convinse l'editore Ricordi ad accogliere Puccini nella sua scuderia, commissionandogli immediatamente una seconda opera, l’Edgar.

Puccini scrisse Le Villi poco dopo essersi diplomato in composizione presso il Conservatorio di Milano. Fu il suo insegnante, Amilcare Ponchielli, a suggerirgli di prendere parte al concorso bandito dall'editore Sonzogno e a metterlo in contatto con il poeta Fontana.Fontana trasse il soggetto delle Villi dal racconto di Alphonse Karr  “Les Willis”(1852), a sua volta ricavato dal balletto Giselle (1841) musicato da Adolphe Adam su libretto di ThéophileGautier.
 



Le Villi, dipinto di Bartolomeo Giuliano (1906)


 
Quella delle Villi - le creature ultramondane, spietate vendicatrici d'amore - è un'antica leggenda, originaria dell'Europa Centrale e molto nota in Austria. Simili soggetti fantastici, ricchi di suggestioni magiche e metafisiche, erano di moda nell'Italia settentrionale di quegli anni, prediletti in particolare dagli autori della Scapigliatura, il movimento letterario a cui Fontana apparteneva.



EDGAR



Opera lirica originariamente in quattro atti, ancora su libretto di Ferdinando Fontana.

Il felice esito delle Villi, indusse l'editore Giulio Ricordi a commissionare a Puccini una seconda opera da rappresentare al Teatro alla Scala. La storia si ispira liberamente al dramma in versi di Alfred de Musset “La coupe et les lèvres”.

Il nuovo lavoro vide la luce il 21 aprile 1889: ebbe un certo successo ma non molto caloroso. Nel 1892 l'opera – largamente rivista dall’autore - andò di nuovo in scena raccogliendo discreti apprezzamenti.



 

La copertina di un antico libretto dell’Edgar




MANON LESCAUT



Ispirata al romanzo dell'abate Antoine François Prévost “Storia del cavaliere DesGrieux e di Manon Lescaut”, l'opera in quattro atti fu composta fra il 1889 e il 1892. Laboriosa fu la gestazione del libretto, passato tra le mani di cinque letterati. Iniziato da Ruggero Leoncavallo, che abbandonò presto il lavoro, fu scritto in gran parte da Marco Praga e Domenico Oliva. A completarlo e rifinirlo fu però Luigi Illica. Questa girandola di librettisti dimostra come l'unico vero "autore" di Manon Lescaut sia stato lo stesso Puccini.



La prima rappresentazione ebbe luogo nel 1893 al Teatro Regio di Torino, dove l'opera ottenne un successo clamoroso.Terza opera di Puccini in ordine cronologico, Manon Lescaut è generalmente considerata la sua prima partitura operistica completamente matura e personale.



Lo stesso soggetto aveva già ispirato Daniel-François Auber (1856) e Jules Massenet (1884). Quando Marco Praga gli fece notare che avrebbe dovuto affrontare il confronto con la fortunata opera di Massenet, Puccini rispose: «Lui la sentirà alla francese, con la cipria e i minuetti. Io la sentirò all'italiana, con passione disperata
                                 


L’Intermezzo Orchestrale all’Atto III


C’è una tale concentrazione di commozione, di tenerezza, e anche di sofferenza (vista la fine che attende di lì a poco i due protagonisti), che è impossibile restare indifferenti davanti a tanta bellezza timbrica, cantabile, malinconica, davanti a questa parentesi sinfonica pura, inserita come una gemma nel potente dramma lirico che racconta la fine tragica e dolorosa di un amore, quello dello studente De Grieux e della bella Manon: l’amore inteso come “maledizione”, come “passione disperata”, splendidamente colorate da questo Intermezzo. E’ stato scritto che con questa prova di abilità e dolcezza orchestrale Puccini ha dato il suo primo esempio di musica della memoria e del dolore, come avrebbe poi fatto in modo altrettanto indimenticabile mettendo in musica la morte disperata delle sue eroine successive: Mimì, Butterfly, Angelica.



Manon muore nel quarto atto del capolavoro, «in America, su una landa sterminata ai confini della Louisiana», come precisa il libretto stesso dell’opera, dove i due protagonisti sono fuggiti insieme su una nave salpata dal porto francese di Le Havre.



Ciò che è emozionante è l’attacco dell’Intermezzo, in cui la solitudine disperata e la malinconia di Renato Des Grieux – che vede la sua amante Manon rinchiusa in una nave destinata Oltreoceano, e non sa come raggiungerla – vengono espresse con una musica per soli archi, in un inizio prettamente cameristico, con il violoncello che introduce il tema, poi con l’ingresso della viola, poi di nuovo il violoncello, con un traiettoria della melodia che va sempre più in basso verso i registri più gravi, al quale Puccini affida lo stato d’animo più sofferente del protagonista; e alla fine di questa “discesa” entra un violino che riporta in luce la scena (e figurativamente il malessere interiore), finché l’assolo di viola riprende la traiettoria della melodia nella direzione opposta, al termine della quale s’affaccia l’intera orchestra.

Questo Intermezzo è una sorta di riassunto delle vicende dei due amanti. Giustamente è stato scritto che c’è un pathos che emerge da questa musica, una disperazione (prima cantata, poi sinfonica, poi di nuovo cantata), un segreto malessere, un cupo pessimismo che prefigura il dramma di Manon e di De Grieux, del loro amore impossibile, che tragicamente si spezzerà in una desolata landa della Louisiana.
 





Manon Lescaut, in una immagine di programma per la stagione 2016

del Dutch National Opera di Amsterdam





LA BOHEME



E' un'opera lirica in quattro quadri, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica.



L'opera è tratta dal romanzo d'appendice "Scènes de la vie de bohème" di Henri Murger. All'epoca anche il compositore Ruggero Leoncavallo stava infatti lavorando ad un'adattamento musicale della medesima opera.


Quando l'opera debutto nel 1896 al Teatro Regio di Torino (diretta da un ventinovenne Arturo Toscanini), ebbe un buon successo di pubblico, al contrario dell'opera di Leoncavallo che, rappresentata la prima volta l’anno seguente, fu presto dimenticata. La critica in principio si dimostrò piuttosto  fredda nei confronti dell'opera di Puccini; in seguito però si allineò al generale consenso riscosso in molti teatri.



L'esistenza gaia e spensierata di un gruppo di giovani artisti costituisce lo sfondo dei diversi episodi in cui si snoda la vicenda dell'opera, ambientata nella Parigi del 1830.

 



                                      Il primo manifesto per la Bohéme , di Adolf Hohenstein




Quattro giovani bohémiens, un pittore, un poeta, un filosofo ed un musicista, vivono insieme in una vecchia soffitta, perennemente in arretrato con l’affitto. Una sera che Rodolfo, il poeta, si trova solo in casa, riceve la visita di una vicina, Mimì, che gli chiede aiuto per riaccendere il lume: tra i due si crea subito una profonda, intima intesa che sfocia in un travolgente amore.


Al caffè Momus, intanto – dove si intrattiene il resto del gruppo – Marcello, il pittore, incontra Musetta, sua vecchia fiamma, ed entrambi scoprono che l’antica, reciproca passione non si è mai sopita. Quelle di Rodolfo e Mimì e quella di Marcello e Musetta, saranno due storie parallele e molto travagliate, fino a giungere entrambe alla separazione. Mimì, malata di tisi, intanto si aggrava.



Qualche tempo dopo Musetta incontra Mimì: la ragazza è molto debole e sta male. Musetta l’accompagna subito a casa dei quattro giovani e tutti insieme si prodigano per cercare di aiutare l’inferma. Ma Mimì muore, ed il racconto si chiude con la disperazione di Marcello che non ha mai smesso di amarla e che continua ad invocarne il nome fra lacrime e grida di dolore.



La storia, descritta con rapide efficaci pennellate, e caratterizzata da repentini passaggi dalla malinconia all’esuberanza, dalla poesia all’amara quotidianità, offre vari momenti di alta drammaticità e bellezza, come nelle arie divenute celebri “Che gelida manina” e “Sì, mi chiamano Mimí”, del primo atto, “Donde lieta uscì”, nel terzo, e “Sono andati? Fingevo di dormire”, nel quarto.



La Bohème di Puccini e noi
(da Franco Bergamasco, 2003)

Quando, sullo sfumare di un accordo minore in pianissimo, cala il sipario che chiude l'ultimo "quadro" della Bohème di Giacomo Puccini, spesso l'applauso - che poi diventerà fortissimo - stenta un po'a partire. Qual è il motivo? La maggior parte degli spettatori ha un nodo alla gola, parecchi stanno praticamente piangendo, i pochi immuni da fenomeni di questo genere sono quelli che sostanzialmente non hanno capito cos'è ciò che hanno visto e sentito. Ciò accade pressoché invariabilmente (se il cast è all'altezza) dal 1896 a oggi, e accade spesso, se è vero che questa è, in tutto il mondo, l'opera più rappresentata dell'intero repertorio melodrammatico.

Ma perché si finisce per piangere, quando si va in un teatro d'opera a vedere la Bohème? Certo il libretto di Illica e Giacosa, contiene tutti gli ingredienti atti a suscitare quello che un po' spregiativamente si potrebbe chiamare l'effetto patetico: i quattro giovani bohémiens - un poeta, un pittore, un filosofo e un musicista - vivono spensierati e squattrinati in una soffitta sotto "i cieli bigi" della capitale francese, quando per uno di essi, il poeta Rodolfo, l'amore fiorisce irresistibile dall'incontro casuale con la personcina semplice di una vicina di casa, Mimì. Gli amori (c'è anche quello fra il pittore e la volubile Musetta) vivono, cadono, rifioriscono tra slanci e gelosie, abbandoni e precarie riconciliazioni, sullo sfondo allegro del Quartiere Latino, ma anche su quello squallido di una periferia, mentre l'inverno stringe sempre di più la sua morsa. Mimì è ammalata del più classico dei mali ottocenteschi, la tisi; Rodolfo la lascia più per l'impossibilità di assisterla adeguatamente in quella fredda soffitta che per gelosia; nel finale Mimì torna in quella soffitta perché vuole morire vicino all'uomo che ama e agli altri pochi amici della sua piccola vita.

Non si tratta però solo di un meccanismo narrativo che scatta alla perfezione e produce i suoi effetti, e nemmeno solo dal senso fortissimo di autenticità espresso dalla musica di Puccini. Forse può essere uno scrittore, Enzo Siciliano, a portarci nella sua bella biografia di Puccini sulla strada giusta: "la giovinezza è un momento del vivere, splendido per inconsistenza e non per altro, così che quando pare di averlo afferrato, sparisce"; passioni, rabbie, scherzi, pochi soldi, vita in comune, allegria, delusioni, speranze: questo è la Bohème, e, al di là della trama e dei personaggi, cos'è tutto ciò se non la giovinezza, come ogni spettatore istintivamente sente?

Nell'ultimo quadro dell'opera non ci immedesimiamo solo nella morte di un personaggio; quando muore Mimì è tutto quel mondo che si spegne, nel cuore di tutti i personaggi e anche nel nostro, perché quello che noi spettatori viviamo non è altro che il sentimento della morte della giovinezza. Quella di ognuno di noi; è di questo che in realtà parla la Bohème, ed è per questo che ogni volta abbiamo un nodo alla gola.

                                  
            
     Bozzetto di scena per La Bohéme (Adolf Hohenstein)



TOSCA



L'opera, in tre atti, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica,fu rappresentata per la prima volta a Roma, al Teatro Costanzi, il 14 gennaio 1900.Il libretto deriva dal dramma“ La Tosca” di Victorien Sardou, il cui successo era legato soprattutto all'interpretazione di Sarah Bernhardt nei panni della protagonista.

Giuseppe Verdi  confiderà qualche anno più tardi al suo biografo che, se non fosse stato per l'età, avrebbe voluto lui stesso musicare Tosca.



Inizialmente criticata da una parte della stampa, che si attendeva un lavoro più in linea con le due precedenti opere di Puccini, Tosca si affermò molto  presto e nel giro di tre anni fu rappresentata nei maggiori teatri lirici del mondo.



L'azione si svolge a Roma nel 1800, nell'atmosfera tesa che segue l'eco degli avvenimenti rivoluzionari in Francia, e la caduta della prima Repubblica Romana. La vicenda si concentra sul triangolo Scarpia - Tosca - Cavaradossi, delineando il dramma dell'amore perseguitato, un tema che interessava Puccini più del grande affresco storico condito di delitti e di sangue.




Il primo manifesto per la Tosca , di Adolf Hohenstein

Tosca è considerata l'opera più drammatica di Puccini, ricca di colpi di scena che tengono lo spettatore in costante tensione. Il discorso musicale si evolve in modo rapido, caratterizzato da incisi tematici brevi e taglienti, spesso costruiti su armonie dissonanti, come quella prodotta dalla successione degli accordi del tema di Scarpia che apre l'opera. La vena melodica di Puccini ha modo di emergere nei duetti tra Tosca e Mario, nonché nelle tre celebri romanze, una per atto ("Recondita armonia", "Vissi d'arte", "E lucevan le stelle"), che rallentano in direzione lirica la concitazione della vicenda.

L'acme drammatico è invece costituito dal secondo atto, che vede come protagonista il sadico barone Scarpia, nel quale l'orchestra pucciniana assume sonorità che anticipano l'estetica dell'espressionismo musicale tedesco.

Vissi d'arte, vissi d'amore...
da ‘Donna in Musica’ di Francesca Santucci (web 2016)

Le note cupe che accompagnano a morte Cavaradossi  e la scena dell'addio  alla vita, causa di non pochi contrasti  con i librettisti Illica e Giacosa, poiché  Puccini, uomo di teatro imbevuto di sensualità, proprio non era interessato ad un congedo dalla vita di stampo filosofico ma voleva pochi versi intensi,  che esprimessero non  la disperazione  del  condannato a morte che sta per essere fucilato, ma dell'amante che non potrà mai più abbracciare il corpo fragrante della sua donna.

Tosca non una creatura timida e riservata come Mimì, la piccola fioraia della Bohème, ma una splendida eroina, forte e volitiva. Puccini credette molto nella Tosca,  e  l’operaebbe, fin dalla prima rappresentazione del 14 gennaio del 1900 al teatro Costanzi di Roma, un clamoroso successo.Successo che perdura ai giorni nostri, poiché è l'opera più rappresentata al mondo in assoluto.

Il melodramma in tre atti, che ha come sfondo storico i contrasti fra i filofrancesi Angelotti e Cavaradossi e il reazionario capo della  Polizia, il filoaustriaco Scarpia, nella Roma papalina, è costruito essenzialmente sulla gelosia di Tosca, personalità femminile dalle caratteristiche psicologiche più che mai consone alla sensibilità artistica pucciniana, che tanto era piaciuta anche a Giuseppe Verdi.

Tosca è pervasa da un sentimento corrosivo,  la gelosia distruttiva che la trascinerà alla rovina, prima costringendola a subire le insidie di Scarpia e poi ad assistere alla morte dell'amato, ma, come già per altre sue eroine, Puccini le riserva un crudele destino di espiazione: sarà lei stessa a darsi la morte lanciandosi dagli spalti di Castel Sant'Angelo.

A proposito di quest'opera si è spesso parlato di verismo, anche crudo ed eccessivo specialmente nel II atto, per le scene di tortura, il tentativo di stupro, l'assassinio di Scarpia, la drammaticità dei dialoghi tra Scarpia e Cavaradossi, e Scarpia e Tosca, ed in effetti più che  la trama sociale e politica, avvinse l'estropucciniano propriol'analisi dei sentimenti. Puccini scrisse: “Tosca è un'opera che richiede una donna ultradrammatica  e un buonissimo baritono”.

A Cavaradossi l'autore affidò un'aria che riscuote sempre un grande successo, una delle pagine più belle dell'opera, “E lucean le stelle”, ma è indubbio che i personaggi portanti sono Tosca e Scarpia, per i quali sono indispensabili grande talento sia vocale che scenico.

Tosca richiede un ruolo di grande impegno, occorrono doti di soprano lirico, lirico-spinto, un forte temperamento, un accento drammatico e un grande talento di attrice, e molte cantanti sono state  affascinate dal personaggio interpretandolo con preziosismi belcantistici ma, in seguito, anche  con  un'impostazione più verista, più recitata.

Maria Callas intraprese un grande lavoro interpretativo con la Tosca, che raggiunse il vertice affiancata da Giuseppe Di Stefano e Tito Gobbi.



                             Maria Callas interprete di Tosca



L'interprete più celebre di Cavaradossi fu Enrico Caruso che cantò il personaggio per quasi vent'anni dispiegando la sua bellissima voce  con accenti drammatici ma senza mai esagerare in preziosismi virtuosistici; però in qualità di timbro, fascino e fraseggio,Cavaradossi ideale fu Giuseppe Di Stefano.


Scarpia è sicuramente il personaggio più nuovo nel panorama pucciniano, per la cui interpretazione occorrono doti  sia di grande cantante  che di grande  attore: basti pensare solo al secondo atto in cui è sempre in scena per quarantacinque minuti. Ruolo difficile, dalle mille sfumature, con possibilità di dispiegare la voce in un canto disteso, ma anche versatile nel recitativo, dove l'interprete deve però evitare eccessi e facili cadute di gusto, riuscendo a rendere la malvagità di quest'uomo potente, terribile e spietato, che dispiega interamente la sua arroganza: ”Io di sospiri e di lattiginose albe lunari poco m'appago (…) La cosa bramata perseguo,me ne sazio  e via la getto, volto a nuova esca”.


Così si esprimeva Tito Gobbi, grande interprete di Scarpia, riguardo alle due battute che precedono il suo ingresso in scena al I atto di quest'uomo davanti al quale tremava tutta Roma“L'ho eseguita circa novecento volte, ispirato sempre dal magico potere che Puccini m'infonde. Egli offre all'interprete Scarpia uno dei momenti più grandi dell'opera, e se l'artista non riesce a trasmettere al pubblico un immediato senso di terrore e repulsione, tanto vale che abbandoni il ruolo. Elegante, terribile, senza scrupoli, Scarpia deve saper  sprigionare subito dal suo primo apparire la forza del male che, dall'orchestra, attraverso la sala, raggiunge le ultime file della galleria. Non è soltanto ‘tutta Roma’ a tremare davanti a lui: ogni singolo spettatore dovrebbe provare questo sentimento di paura.




Maria Callas (Tosca) e Tito Gobbi (Scarpia) 
al Covent Garden di Londra, nel 1964



Scarpia è la personificazione del male, e dunque, oltre ad avvincere con una bella voce, e un bel canto, deve anche essere elegante e arrogante per il potere che esercita, deciso, sicuro e affascinante, perché risulta sempre più difficile resistere alla lusinga e alla seduzione che si presenta sotto una bella veste, perciò il rifiuto di Tosca appare ancora più eroico, e di questo ben consapevole era Puccini che amava le donne e ne comprendeva la psicologia.


Tosca è l'opera più fortunata in assoluto, una delle più eseguite  nella storia del teatro lirico, che ha sempre incontrato  il gusto e la passione popolare. E pur se tutta l'opera dispiega arie indimenticabili, la melodia che più di ogni altra resterà eternamente a segnarla sarà proprio “E lucean le stelle”: un canto d'angoscia e di disperazione, di evocazioni dolci e languide, di un uomo  che, prossimo alla morte, dichiara il suo amore alla sua donna e  alla vita  e che muore innocente   sullo sfondo  dell'alba di Roma: “Svanì per sempre il sogno mio d'amore... - L'ora è fuggita e muoio disperato!... - E non ho amato mai tanto la vita”!






MADAMA  BUTTERFLY



E' un'opera in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica - originariamente "tragedia giapponese in due atti" - dedicata dall’Autore alla regina d'Italia Elena di Montenegro.

Puccini scelse il soggetto della sua sesta opera dopo aver assistito a Londra, nel 1900, all'omonima tragedia in un atto di David Belasco, a sua volta tratta da un racconto dell'americano John Luther Long del 1898.

Per la realizzazione del dramma Puccini si documentò minuziosamente sui vari elementi orientali che ritenne necessario inserirvi. Lo aiutarono particolarmente una nota attrice giapponese, SadaYakko, e la moglie dell'ambasciatore nipponico in Italia, da cui apprese gli usi e i costumi dell'affascinante popolo orientale.

Il 17 febbraio 1904 la Madama Butterfly cadde clamorosamente al Teatro alla Scala di Milano. Appena tre mesi dopo, dopo una prima revisione da parte dell’autore, l’opera venne invece accolta entusiasticamente al Teatro Grande di Brescia, e da quel giorno iniziò la sua fortunata esistenza.
Un appunto autografo di Puccini
dopo il fiasco della prima della Butterfly alla Scala


Madama Butterfly è una storia d’amore che dice molte cose sulla credulità femminile e sulla fatuità maschile, ma è soprattutto la storia di una conversione che avviene sull’intersezione di due mondi. Un’opera piena di mondo. “Pigri e obesi son gli dei giapponesi! L’americano Iddio son persuasa ben più presto risponde a chi l’implori”, dice Butterfly, la nostra eroina (una geisha diciottenne, bellissima ex ricca, che tre anni prima ha sposato, amandolo abbastanza da ripudiare famiglia, Buddha e leggi giapponesi, l’ufficiale della marina statunitense Pinkerton, uno yankee impostore e fatuo) a Suzuki, la sua fedele governante, che all’inizio del secondo atto già prega per le sorti sue e della sua padrona, prevedendo il triste epilogo (l’abbandono di Pinkerton).
E infatti, gli dei giapponesi non intervengono, né muove un dito il Dio americano. Pinkerton sposa Butterfly e riparte per l’America, promettendole che sarebbe rientrato “quando fa la nidiata il pettirosso”. Passano tre nidiate. Quando Sharpless, amico dell’ufficiale e console a Nagasaki, dove la storia è ambientata, va dalla giovane sposa, lei gli dà il benvenuto “in una casa americana”, gli offre le sigarette, domanda ogni quanto i pettirossi nidifichino negli Stati Uniti, e quando lui cerca di convincerla a cedere al corteggiamento del Principe Yamadori, che vorrebbe prenderla in moglie non riconoscendola più come sposa di un altro (per la legge giapponese dell’epoca, una moglie abbandonata era una moglie divorziata), lei ribatte di essere al sicuro, protetta dalla legge del suo sposo americano, che si è rifatto un’altra vita, con una Kate qualunque che presto le porta a casa, per riprendersi il bambino che Butterfly ha dato alla luce in sua assenza.
Povera Butterfly. Illusa di potersi inchinare come una giapponese e baciare le mani di un uomo come un’americana, di potersi far ripudiare dai bonzi ma chiedere d’essere amata “di un bene piccolino” che dai bonzi ha appreso (“noi siamo gente avvezza alle piccole cose, umili e silenziose”). Convinta, intontita com’è dall’amore, dalla poca vita che ha alle spalle e dalla dedizione (che in quest’opera scopriamo essere virtù culturale), che l’amore possa davvero avvenire “fuori dal mondo”, che riesca a cancellare le barriere, la supremazia, la protervia, il cannibalismo dei liberatori. S’illude, Butterfly. E quando non può più evitare la realtà, dove gli scontri tra culture sono anche teatri di sangue, s’uccide. Mette in mano a suo figlio una bandiera degli Stati Uniti, va dietro un paravento, prende il pugnale di suo padre e si uccide, mentre Pinkerton sa solo dire “datele soccorso, mi struggo dal rimorso” (una rima forte e spietata!) Butterfly-Ciò Ciò San è alle prese con due dimensioni parallele: quella di una donna che rinuncia felicemente al suo passato e quella di un sentire che un tempo inconsapevolmente le apparteneva e che ora riaffiora. Seppur diversamente da Manon, anche lei è preda di un sentimento che va oltre ogni limite e che muore solo quando viene tradito e offeso.
Madama Butterfly è un’opera che rappresenta intensamente la capacità dimostrata da Puccini di mettere a fuoco le innumerevoli sfaccettature dell’universo femminile: un misto fra sensibilità e aspettative. Ciò Ciò San preferisce morire purché non le si infligga la pena di vivere senza onore. L’immortale giovinezza, la voglia di vivere, il saper esser felici anche di poco, il cadere nell’amore, l’affrontare le pene d’amore; sentimenti che sono stati e saranno riconoscibili al di là dei tempi e delle mode perché sono dentro i nostri cuori e parlano una lingua universale:  i personaggi femminili di Puccini ricordano in realtà sentimenti comuni ad ognuno di noi, in cui ognuno possa riconoscersi. È quello che rende universale il mondo femminile protagonista delle opere del Maestro.


Una scena di Madama Butterfly (atto I)   
in un allestimento al Metropolitan di New York del 2016







LA FANCIULLA DEL WEST



Agli inizi del 1907, durante un soggiorno nella metropoli statunitense,b a Puccini accadde di assistere ad un dramma di David Belasco, dal titolo “The Girl of the Golden West”, rimanendone molto colpito ed entusiasta. Incaricò allora il poeta Carlo Zangarini - cui subentrò in un secondo tempo lo scrittore toscano Guelfo Civinini - di stendere il testo di un  libretto. La composizione della “Fanciulla del West” venne ultimata nel luglio del 1910. L'opera fu rappresentata per la prima volta al Teatro Metropolitan di New York il 10 dicembre 1910, sotto la direzione di Arturo Toscanini e con interpreti principali  Emmy Destinn (Minnie), Enrico Caruso (Dick Johnson) e Pasquale Amato (Jack Rance).


Una foto della prima rappresentazione de “La Fanciulla del West”
al Metropolitan di New York (1910)

La vicenda è ambientata in California, ai tempi della febbre dell’oro, e ha come protagonista Minnie, tenutaria della “Polka”, luogo di svago e ritrovo per minatori del vicino campo di lavoro, che la venerano, affidandosi completamente a lei, consegnandole persino i propri risparmi, mentre tutt’attorno si aggira depredando e taglieggiando una banda di briganti, comandata dal temibile Ramerrez. 
Minnie, intanto, si innamora di un giovane straniero, giunto una notte nel locale, che afferma di chiamarsi Dick Johnson ma che in realtà altri non è che Ramerrez, venuto a studiare di persona la possibilità di rapinare la cassa dove sono depositati i risparmi dei minatori. 
Questi, conquistato dalla bontà di Minnie, è deciso a redimersi dalla sua vita sciagurata, ma è catturato da una turba di uomini minacciosi, pronti a linciarlo, e la sua sorte sarebbe segnata se, d'improvviso, non intervenisse in suo soccorso Minnie che, con una paziente opera di persuasione,  convincerà i minatori a lasciare libero il suo uomo.
Quest’opera anomala nella carriera di Puccini non si affida, come suo solito, alla cantabilità di arie famose (se si eccettua il “Che ella mi creda libera e lontana” cantata da Johnson nel terzo anno), ma si traduce sempre in un’orchestrazione raffinatissima, che interpreta in modo magistrale tutte le atmosfere della vicenda, mescolando influssi impressionisti ed espressionisti con echi del folclore americano. 


“La Fanciulla del West” è stata considerata da molti critici come l'opera con la quale Puccini determinò la fine del melodramma. 

“The Girl of The Golden Westdi Belasco era un dramma fatto di scene frammentate e difficilmente ricomponibili in un tutt'uno organico, con personaggi decisamente poco credibili (Minnie, una fanciulla gracile e buona ma poco aderente alla ruvidezza del West; Johnson, un principe azzurro vestito da cow boy; dei minatori piegati al perbenismo piccolo-borghese, più interessati alle lezioni di cultura religiosa di Minnie che alla vita di taverna). Come comporre musica che riuscisse ad accentuare i toni del rush gold e, allo stesso tempo, rendesse l'effetto della leggerezza di un amore? Il genio non mancava certo, e Puccini lo investì in pieno nella sua “Fanciulla”: nessun motivo ampio stile-Butterfly, nessuna melodia distesa sulla scia di Bohème. Il canto in Fanciulla viene negato, quasi strozzato, schematizzato, ridotto a esclamazioni, mentre è l'orchestra che vince, la musica trionfa e domina la scena, rende vera Minnie così come i minatori, sintetizza il West ed esprime la forza di un amore.
 

La “Fanciulla” pucciniana potrebbe dunque rappresentare la fine del melodramma tradizionale, in quanto l’opera che segna il chiaro passaggio agli stili del teatro musicale del Novecento.



 



Una scena del II atto  de “La Fanciulla del West” all’Opera di Montecarlo (2012) 
 con  Megan Miller (Minnie) e Zoran Thodorovich (Johnson)






LA RONDINE

Originariamente concepita come operetta, in forza di un contratto con gli impresari del  Carltheater di Vienna, Puccini, insoddisfatto dell'impianto drammatico conferitole dai librettisti Heinz Reichert ed Alfred Willner, volle trasformare “La rondine in un'opera vera e propria affidandosi al commediografo italiano Giuseppe Adami.  Sciolto il contratto con i commissionari viennesi a causa dello scoppio del primo conflitto mondiale, “La rondine fu rappresentata al Grand Theatre di Montecarlo nel 1917. 
Il successo non mancò quasi mai, ma non poté mai dirsi completo. Dopo la morte di Puccini, “La rondine“ scomparve presto dai cartelloni dei teatri. Negli anni recenti le riprese dell'opera si sono fatte comunque sempre più frequenti .
Dopo il successo de "La Fanciulla del West", passarono diversi anni e diverse proposte prima che Puccini si convincesse su una storia da mettere in musica. Nell'aprile del 1914  lo scrittore e librettista austriaco Alfred Maria Willner, insieme a Hainz Reichter, proposero una trama che veniva finalmente incontro ai gusti di Puccini. Si trattava di "Die Schwalbe" ( "La rondine"), una storia simile a quella della “Traviata di Verdi, ma senza grandi problematiche sullo sfondo.
Puccini fu conquistato dalle vicende di Magda, una mantenuta che cerca di vivere un sogno impossibile: non ci sono la malattia e la morte, come nel caso di Violetta, ma soltanto una rinuncia. Sin dal 1907 Puccini pensava di comporre un'operetta, ma abbandonò presto l'impresa, affidando a Giuseppe Adami il compito di redigere il testo in italiano.
Alla prima del 1917, stampa e pubblico accolsero con entusiasmo la novità pucciniana, in Italia tuttavia non mancarono le critiche. Il fatto che si tratti di un lavoro sostanzialmente "ibrido", da allora in poi non ha convinto mai più di tanto. 

   

La rondine, costume di scena
 
Tutta la vicenda de “La Rondine” è cosparsa di un'ironia leggera. L'ambiente in cui si muovono i personaggi è cinico e disinvolto, fatto di persone animate da spirito di concretezza, che pensano a divertirsi e a seguire le voghe che impazzano nella capitale francese. 
Tante melodie, pochi temi (tutti chiaramente privati d'uno sviluppo qualsiasi e utilizzati come reminiscenze), ben due arie e un duetto, tanto valzer. Su questa semplice ossatura si regge l’Opera, in una ricerca di trasparenza sorretta dal ricorso all'impalcatura tradizionale. È sul telaio delle prime due parti chiuse affidate a Magda nel primo atto («Chi il bel sogno di Doretta», «Ore dolci e divine»), infatti, che s'intesse tutto l'arco drammatico del secondo e del terzo atto, in modo che tutto ciò a cui assisteremo avrà sempre la caratteristica del déjà vu, funzione di cui si farà carico la ripresa ciclica degli stessi episodi musicali. È modo sottile di fissare un concetto: sino alla fine, quando Magda sarà costretta a scegliere il proprio futuro, non si vive mai nel presente, ma nella nostalgia del passato.
Dopo il quadro visivo e musicale vivacissimo del Bal Bullier, col brindisi all'amore alla maniera del concertato di un finale centrale del tardo Ottocento, la conferma viene dall'inizio del terzo atto, dove l'immagine oleografica di un terrazzo sulla Costa azzurra contorna gli amanti in atteggiamento estatico. Tre mesi dopo l'atto precedente sono ancora intenti a ricordare il loro incontro, a convincersi che davvero vivono nella realtà. Ma il loro dialogo si snoda a ritmo di valzer su reminiscenze della vita parigina, destinate a esercitare il loro fascino sulla protagonista che, alla fine, di fronte alla prospettiva di un matrimonio con prole in provincia, sceglie di tornare a fare la mantenuta a Parigi.
Questo finale seduce ed affascina non solo per i tocchi di campana che lo siglano con raffinatezza, ma anche perché è del tutto in linea con i presupposti della vicenda. Magda lascia il suo nido d'amore sulla Costa Azzurra perché ha ben compreso quanto le costerebbe dar troppa corda all'illusione nata al Bal Bullier e che l'ha indotta a volare, come una rondine, fino al mare.


Eva Hornyáková (Magda) ne  ‘La Rondine’
al National Theatre di Praga (2016)
Da questo contesto emerge il ritratto di una vera ‘femme fatale’, che conquista per la sua indipendenza. Magda è anche una donna moderna, che non vuol fare la stessa fine delle altre eroine pucciniane, delle quali non ha peraltro le inclinazioni. Certo la sua decisione non può essere presa senza colpo ferire, ma è una sofferenza dolce e sfumata: in un amore che proprio eterno non è, il piacere della rinuncia è una sottile ricompensa. 
È suggestivo ipotizzare che dietro a ciò vi sia anche una convinzione ‘d'autore': Puccini che s'allontana dal mondo dei buoni sentimenti per imbattersi nella sua gelida principessa cinese. Magda de Civry cerca in una storia vissuta da adolescente il pretesto per incontrare l'amore vero. Attraverso lei è Puccini che rinunzia al passato, pur rimpiangendolo, per affrontare un presente che gli prospetta ben altre avventure. Scritta nell'aura dei capolavori conclusivi,La rondine’, con la sua musica brillante, ironica, spruzzata di cinismo, è una preziosa gemma che brilla di luce propria.

 
IL TRITTICO
I tre atti unici Il Tabarro”, “Suor Angelicae Gianni Schicchi,  furono pensati da Puccini per la rappresentazione in un’unica serata.  La prima esecuzione di questo Trittico operistico avvenne al Metropolitan di New York il 14 dicembre 1918.


Il Tabarro 
Opera in un atto, su libretto di Giuseppe Adami , tratto da “La houppelande” di Didier Gold.
Puccini pensò inizialmente di abbinare “Il Tabarro” ad una ripresa della sua prima opera, “Le Villi”, all'epoca quasi dimenticata.Solo in seguito all'incontro col librettista Giovacchino Forzano, Puccini decise di farne il primo pannello di un trittico di opere in un atto, da eseguirsi  insieme.
Tanto al debutto negli Stati Uniti, quanto alla prima italiana (al Teatro Costanzi di Roma, nel 1919) l'opera fu accolta in modo tiepido, sia dal pubblico che dalla critica. In seguito, pur senza mai diventare un'opera popolare, Il tabarro si è guadagnato un posto di tutto rispetto tra le opere di Puccini. L'intenzionale assenza di melodie facili, di quelle che colpiscono immediatamente l'orecchio, è compensata da un'estrema densità drammatica e compositiva. Puccini lavora per lo più su leitmotiv di poche note, elaborandoli sul piano delle sonorità più che su quello armonico.

Sul piano drammaturgico, Il tabarro sembrerebbe segnare un inatteso e tardivo omaggio all'opera verista. L'azione si svolge infatti nei bassifondi di Parigi, in riva alla Senna, tra scaricatori e donne del popolo. Due decenni prima, nel momento di massima fortuna del melodramma verista, Puccini aveva evitato di pagare il tributo a questa moda, rinunciando a mettere in musica La lupa di Verga. Nel farlo ora, fuori tempo massimo, ne rovescia di segno i principi estetici. Nessuno dei suoi lavori è infatti così lontano dal tono nazional-popolare di Cavalleria rusticana e delle altre celebri opere della stagione verista. 
La più cupa tra le opere di Puccini è imperniata sull'idea del tempo che passa, incarnata metaforicamente dall'ora del tramonto, dalla stagione autunnale e soprattutto dal lento, inesorabile scorrere del fiume, intorno al quale l'intera vicenda si sviluppa. Un'idea alla quale rinvia anche l'uso massiccio di tempi a struttura ternaria, il cui moto circolare guida i protagonisti verso la tragedia avvolti in un clima di danzante erotismo. Dice la protagonista: «Io capisco una musica sola: quella che fa danzare», ma la musica che accompagna le sue parole è la stessa che aprirà il suo appassionato duetto d'amore con Luigi.


Suor Angelica
 
Ancora un atto unico, su libretto di Giovacchino Forzano.
Fu rappresentata per la prima volta il 14 dicembre 1918  al Metropolitan di New York.  La prima europea si tenne nel gennaio del 1919, al Teatro Costanzi di Roma,  all'interno de "Il Trittico".
È tra le poche opere a contenere solo personaggi femminili. Fra le tre opere che compongono il Trittico era la preferita da Puccini, che aveva una sorella, Iginia, suora agostiniana nel monastero di Vicopelago di Lucca.




Una scena di  ‘Suor Angelica’ (Metropolitan, New York, 2007)


L'azione si svolge verso la fine del XVII secolo, tra le mura di un monastero.

Da sette anni Suor Angelica, di famiglia aristocratica, ha forzatamente abbracciato la vita monastica per scontare un peccato d'amore. Durante questo lungo periodo non ha saputo più nulla del bambino nato da quell'amore, e strappatole subito dopo la nascita. Nel parlatorio del monastero Angelica è attesa dalla zia principessa, donna algida e distante,  venuta per chiederle un formale atto di rinuncia alla sua quota del patrimonio familiare, come dote per la sorella minore Anna Viola, prossima ad andare sposa. 
Ad Angelica che chiede con insistenza notizie del suo bambino, con implacabile freddezza la zia annuncia che da oltre due anni il piccolo è morto, consumato da una grave malattia. Nell’animo di Angelica, straziata dal dolore,  si fa strada l'idea folle e disperata di raggiungere il bambino nella morte per unirsi a lui per sempre. 
Angelica si reca allora nell'orto del monastero, dove raccoglie alcune erbe velenose e con esse prepara una bevanda mortale. Ma dopo aver bevuto pochi sorsi del distillato, conscia di essere caduta in peccato, si rivolge alla Vergine chiedendole un segno di grazia. E avviene il miracolo: la Madonna appare sulla soglia della chiesetta e, con gesto materno, sospinge il bambino fra le braccia della morente.



Gianni Schicchi



L'opera in un atto, su libretto di Giovacchino Forzano, è basata su un episodio del Canto XXX dell'Inferno di Dante (vv. 22-48).

Gianni Schicchi, famoso in tutta Firenze per il suo spirito acuto e perspicace, viene chiamato in gran fretta dai parenti di Buoso Donati, un ricco mercante appena spirato, perché escogiti un mezzo ingegnoso per salvarli da un'incresciosa situazione: il loro congiunto ha infatti lasciato in eredità i propri beni al vicino convento di frati, senza disporre nulla in loro favore.
Inizialmente Schicchi rifiuta di aiutarli,ma le preghiere della figlia Lauretta  innamorata di Rinuccio, il giovane nipote di Buoso Donati, lo spingono a tornare sui suoi passi e a escogitare un piano, che si tramuterà successivamente in beffa. Dato che nessuno è ancora a conoscenza della dipartita, ordina che il cadavere di Buoso venga trasportato nella stanza attigua in modo da potersi lui stesso infilare sotto le coltri, e dal letto del defunto, contraffacendone la voce, dettare al notaio le ultime volontà.
Schicchi declina dinanzi al notaio le ultime volontà, ma quando dichiara di lasciare a Schicchi, ovvero a sé stesso, le cose più preziose, fra cui l'ambita casa di Firenze, i parenti  si scagliano contro di lui, che caccia tutti dalla casa, divenuta ora di sua esclusiva proprietà.
Fuori, sul balcone, Lauretta e Rinuccio si abbracciano teneramente. Schicchi, contemplando la loro felicità, sorride compiaciuto della propria astuzia, che pure lo condannerà all'inferno.



Una scena del  ‘Gianni Schicchi’ (Wien Staatsoper, 2012)


Puccini, che leggeva spesso Dante, era contento di musicare un argomento vivace e divertente, riguardante un personaggio della Commedia.  
Trattare un tema furfantesco, una situazione da commedia dell'arte, ma di taglio moderno, era senza dubbio una prova singolare e fuori del comune per un temperamento non incline all'umorismo, nonostante la brillantezza di molte pagine di Bohème e della Rondine . Pertanto la comicità dispiegata nello Schicchi sorprende più di quella del Falstaff , considerando che Verdi aveva già dimostrato di possedere una genuina tendenza a trattare l'elemento comico (come nella Forza del destino e nel  Ballo in maschera).
I principali punti di contatto fra Gianni Schicchi e Falstaff derivano dalla comune origine del genere buffo operistico italiano: la voce baritonale per il protagonista, la relazione sentimentale tra soprano e tenore ostacolata dalle famiglie, la beffa che determina la soluzione della vicenda. Tuttavia, mentre Verdi riflette, pur nella leggerezza, profondi principi morali, Puccini pone l'accento sulla dissennata avidità priva di scrupoli dei parenti di Buoso, valendosi anche di elementi grotteschi e talora macabri, come la presenza costante del cadavere sulla scena o l'assoluta spudoratezza di Gianni che, per attuare la sua beffa, si adagia nello stesso letto del defunto.
Puccini intese comporre  “un'opera più divertente e organica del Rosenkavalier di Richard Strauss”, realizzando una notevole concentrazione del materiale musicale grazie alla continua presenza in scena dei parenti di Buoso, nove solisti nei diversi registri vocali, trattati come un coro da camera. Le possibilità timbriche delle voci e dell'orchestra furono ampiamente sfruttate per esprimere le più svariate sfumature, dal tratto ironico all'esasperazione grottesca: e sono soprattutto i legni, specialmente gli strumenti ad ancia, a mettere in rilievo i numerosi scorci caricaturali dell'opera.

Puccini, per la celebre aria di Lauretta “Oh mio babbino caro”, brano di intensa effusione lirico-sentimentale, con cui la ragazza supplica il padre di aiutarla a coronare il suo sogno d'amore, riprende la melodia per la prima volta esposta nello stornello di Rinuccio, probabilmente per associare alla ‘gente nuova', esaltata dal fidanzato, il senso dell'affetto familiare di cui i Donati sono totalmente sprovvisti. 
Il personaggio che più di ogni altro affascina e convoglia l'ammirazione e le simpatie del pubblico, perfettamente descritto sia dal punto di vista narrativo che musicale, è comunque Gianni Schicchi: uomo scaltro e astuto, dalla forte personalità, vero rappresentante di una classe borghese già solida anche al tempo in cui la vicenda è ambientata.
               
    Tito Gobbi, un celebre Gianni Schicchi


TURANDOT 

E’ un'opera in 3 atti su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, lasciata incompiuta da Puccini e successivamente completata da Franco Alfano.

La prima rappresentazione ebbe luogo al Teatro alla Scala di Milano il 25 aprile 1926, sotto la direzione di Arturo Toscanini, il quale arrestò la rappresentazione a metà del terzo atto, due battute dopo il verso «Dormi, oblia, Liù, poesia!», ovvero dopo l'ultima pagina completata dall'autore, rivolgendosi al pubblico con queste parole: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.»  La sera seguente, l'opera fu rappresentata, sempre sotto la direzione di Toscanini, includendo anche il finale di Alfano.
L'idea per l'opera venne al compositore in seguito a un incontro con i librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni, nel marzo 1920. Nell'agosto dello stesso anno egli poté ascoltare, grazie al suo amico barone Fassini, un carillon con temi musicali proveniente dalla Cina. Alcuni di questi temi sono presenti nella stesura definitiva della partitura.
Il soggetto fu tratto dall'omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi, già oggetto di importanti adattamenti musicali: dalle musiche di scena composte da Carl Maria von Weber nel 1809, all'opera di Ferruccio Busoni, rappresentata nel 1917 e preceduta da suite orchestrale (op. 41) eseguita per la prima volta nel 1906. Più esattamente, il libretto dell'opera di Puccini si basa, molto liberamente, sulla traduzione di Andrea Maffei dell'adattamento tedesco di Friedrich Schiller del lavoro di Gozzi.

L'azione si svolge in Cina, «al tempo delle favole»
Nella mitica ‘città violetta’ (Pechino), vive una bellissima e solitaria principessa, Turandot, nella quale alberga lo spirito di una sua antenata violentata e uccisa. Da ciò l'orrore di Turandot per tutti gli uomini. Ma il popolo di Pechino e l'Imperatore suo padre insistono affinché si sposi. Ella accetta finalmente di sposare quel giovane di sangue reale che sarà in grado di sciogliere i tre enigmi da lei proposti: se fallirà, però, morirà decapitato.

L'opera si apre con l'ennesima testa che cade, quella del giovane Principe di Persia. Tra la folla che assiste all’esecuzione c’è Calaf, principe tartaro spodestato, che non riesce a resistere alla bellezza di Turandot e decide di provare a risolvere gli enigmi. Il suo vecchio padre Timur e la fedele schiava Liù, innamorata di lui – che egli ritrova nella calca della grande piazza -  e gli stessi ministri di Turandot, tentano inutilmente di farlo desistere.

Calaf si ritrova dunque faccia a faccia con la "bella di ghiaccio" di cui riesce a risolvere tutti e tre gli enigmi. Turandot è disperata, e Calaf le propone a sua volta un enigma: se prima dell'alba la Principessa riuscirà a scoprire il suo nome, egli si dichiarerà vinto e morirà. Altrimenti diventerà  suo sposo.

Turandot, riesce a rintracciare Timur e Liù, ma entrambi taceranno, anzi, Liù sentendo di non poter  resistere alle torture a cui la stanno sottoponendo, si uccide.

Sarà lo stesso Calaf a rivelare alla principessa il proprio nome, ma solo dopo essere riuscito a darle un bacio appassionato. Bacio che sconvolgerà nell'intimo Turandot, la quale andrà con Calaf davanti all'imperatore suo padre ed al popolo, per annunciare trionfante di aver finalmente scoperto il nome dello straniero: "Amore".


La  “Turandot” all’Arena di Verona (2012)


Alla fine della sua parabola creativa Puccini si cimentò con un soggetto fiabesco, per lui assai inusuale, se si eccettua la scena finale della sua prima opera, Le Villi. L’opera, però, rimase incompiuta.
Tale incompiutezza è tuttora oggetto di discussione tra gli studiosi. C'è chi sostiene che Turandot rimase incompleta non a causa della prematura morte dell'autore, stroncato nel novembre del 1924 da un tumore maligno alla gola, bensì per l'incapacità, o piuttosto l'intima impossibilità da parte del Maestro di interpretare quel trionfo d'amore conclusivo, che pure l'aveva inizialmente acceso d'entusiasmo e spinto verso questo soggetto. Il nodo cruciale del dramma, che Puccini cercò invano di risolvere, è costituito infatti dalla trasformazione della principessa Turandot, algida e sanguinaria, in una donna innamorata.
Del finale pucciniano restano solo alcuni abbozzi, sparsi su 23 fogli che il Maestro portò con sé presso la clinica di Bruxelles in cui fu ricoverato nel tentativo di curare il male che lo affliggeva. Puccini non aveva indicato esplicitamente nessun altro compositore per il completamento dell'opera. L'editore Ricordi decise allora, su pressione di Arturo Toscanini, di affidare la composizione al maestro napoletano Franco Alfano. Nella versione completata (comunemente eseguita ancora oggi), Alfano si attenne fedelmente agli schizzi e agli appunti di Puccini.  
A fronte della versione di Alfano, sono state studiate varie soluzioni alternative. Nel 2001 è stato proposto un nuovo finale di Turandot, commissionato a Luciano Berio dal Festival de Musica de Gran Canaria, basato sempre sugli abbozzi lasciati da Puccini.

La piccola Liù, fulcro dell’opera
(da Andrea Franco)

Se ci fermiamo a riflettere sul personaggio del principe ignoto ci renderemo subito conto di quanto sia improbabile un amore come il suo, nato all’istante e già pronto a sacrificarsi nella morte. La storia ci coinvolge e la finzione, della quale siamo sempre consapevoli nonostante la completa immersione nell’opera, stempera i nostri dubbi. Il sacrificio al quale si presta Calaf sembra la normale conseguenza del suo amore. Altrettanto possiamo dire della principessa di morte, la crudele Turandot, così immersa nel suo ruolo di atroce mietitrice che fa apparire improbabile e remota la possibilità di un lieto fine. 
In mezzo a questi eccessi spicca la dolcezza passionale e l’umanità di una schiava, di nascita e d’amore, legata a un gesto semplice e spontaneo:  un sorriso. È Liù che lega i due protagonisti di questa inverosimile storia d’amore, dapprima cercando di salvare la vita del proprio padrone, poi trovando le parole giuste per fronteggiare colei che tutti temevano, in una commovente e tenera spiegazione sul significato dell’amore. (Non è un caso che in passato molti dei più grandi soprano abbiano deciso di interpretare Liù anziché Turandot).

Un personaggio di sicuro più coinvolgente e umano che permette anche una vasta possibilità di sfumature e che non lascia impassibile lo spettatore.  Liù è, insieme a Calaf e in parte ai tre ministri, il personaggio che teatralmente ha la parte più sviluppata, in contrapposizione alla staticità della principessa che in qualche maniera vuole rappresentare anche la staticità di sentimenti. Liù è un personaggio completo, una vera protagonista.  Senza la piccola Liù non sarebbe esistita l’affascinante atmosfera dell’altrimenti fatiscente Pechino e il lavoro di Puccini non avrebbe trovato quegli sbocchi drammatici che la caratterizzano così intensamente. Più volte vediamo il principe Calaf esporre il suo lato più umano proprio in contrapposizione al sincero e disinteressato amore della schiava. Nel primo atto quando con tenera passione chiede alla donna di rimanere al fianco del vecchio padre, solo sulla strada dell’esilio, e nel momento drammatico della morte di lei, allorché per la prima volta il principe inveisce contro gli artefici di quelle sofferenze, minacciando atroce vendetta. 


La stessa Turandot rimane colpita dal modo in cui la giovane donna affronta le sofferenze imposte dall’amore e per la prima volta emerge il dubbio in una donna che mai aveva saputo guardare dentro di sé. In punto di morte è Liù che assesta il primo colpo alle certezze della principessa, facendola vacillare. 
Liù quindi può essere definita il fulcro della “Turandot”, la forza motrice dell’intera opera.

Possiamo comprendere allora perché lo stesso compositore avesse un debole per questo meraviglioso personaggio, da lui stesso voluto nella storia. La piccola Liù è forse il personaggio che nel dramma risalta maggiormente, sia per le proprie qualità intrinseche, sia per il mondo nel quale è proiettato che ne favorisce e amplifica lo splendore.



Katia Ricciarelli nelle vesti di Liù (Vienna, 1983)