RACCONTAMI ...

 

 LA BOTTEGHINA LETTERARIA

 


 Racconti Storie e Leggende

... con le nostre parole

  

 Il blog della 'Bottega delle Maschere' riserva questo spazio alla creatività letteraria di soci e amici. Grazie alla disponibilità degli autori, saranno pubblicati periodicamente i testi inediti che ci verranno proposti.


 


Il pastorello dalla voce d'oro 



 Era un ragazzo che aveva una voce molto bella. Ma lui non lo sapeva, perché nessuno gliel'aveva detto. Era a servizio di  un pastore, gli guardava le  pecore, lo aiutava a far  le  ricotte, e tutte le sere, quando il  sole volgeva al crepuscolo, se ne tornava a casa, con una canestra sotto il braccio, e cantava.

Si riavviava al tramonto, giungeva con le stelle. Attraversava i campi, un bosco, un paesetto, una valle, e arrivava finalmente alla sua vecchia capanna.

Era un piacere, nell'aria fatta triste dalle ombre serali, udire quella voce chiara e vibrante che rompeva il silenzio. Gli uccelli semiaddormentati alzavano il capino, i grossi cani da guardia tendevano le orecchie senza far rumore, e perfino le  foglie  cessavano di frusciare all’alito del vento.

Nel paese la gente, abituata a sentire a una cert' ora, quella voce che squillava come per darsi coraggio, la chiamava “la voce d’oro”; l’ascoltava in religioso silenzio, e sotto il cielo notturno nessuna finestra s'apriva.

Il pastorello cantava le vecchie canzoni della sua terra: le aveva imparate un po' dovunque, e tutti le conoscevano, ma lui le rendeva più nuove, più belle: a quelle parole usate, lui dava un'anima, e anche se qualcosa inventava di suo, le canzoni parevano ogni giorno diverse.

In fondo al paese c'era un antico palazzo. Vi abitava il padrone di tutti quei campi, con molti servi e tanti  cavalli.  Lì, si diceva, abitava una fanciulla molto bella e buona, che nessuno però aveva mai visto.

Una sera, come sempre, il pastorello imboccò la strada buia; metteva avanti a la propria voce per ritrovarla a ogni passo; sotto il braccio la canestra, e un'aria allegra nel ciuffo spettinato.

Quando fu  davanti all’ingresso del  palazzo, una porta s'aprì e qualcuno lo chiamò. Egli si avvicinò titubante. Una fanciulla, come lui non aveva mai vista, gli sorrise.  E gli disse:

- Chi ti ha insegnato queste canzoni? Le canti  così bene che ogni sera ti aspetto, lassù dietro la mia finestra, e la tua voce mi ridà coraggio. Tu non sai cosa voglia dire per me il canto che tu regali al vento…  Non lo sai … ma io ti son grata lo stesso.

Il pastorello teneva il capo basso,  per lo stupore e la vergogna.

          - Quando passi di qui - continuò la fanciulla - è come se tu regalassi a me la tua “voce d’oro”.

Il  ragazzo incominciò a tremare e strinse  più  forte  la sua canestra. il mento piegato sulla gola. La fanciulla gli accarezzò i capelli, e poiché lui si ostinava a tenere la testa in giù, gli sollevò il viso con tutte e due le mani.

    - Bambino - gli disse - tu sei felice, canta.

Poi, così com'era apparsa, scomparve. E il  ragazzo, da quella sera, non seppe più cantare.

(by Anonimo)


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Un omino misterioso 

(come un racconto di natale)



Là, all'imbocco della strada che porta al mare, sul grande incrocio della circonvallazione della città, sosta e vive la sua giornata un omino dalla pelle olivastra, i capelli lunghi, la barba ed il  pizzetto curati assolutamente candidi ad incorniciare un viso con i lineamenti delicati, dolci , illuminati dai grandi occhi neri. Tutti i giorni, fatta eccezione per la domenica e le feste comandate, è seduto lì su una vecchia sedia sgangherata a ridosso del parapetto della curva, ai piedi una discreta quantità di cianfrusaglie di vario genere, roba vecchia probabilmente raccattata tra i rifiuti abbandonati accanto ai cassoni dell'immondizia lungo le strade, o messi a sua disposizione da mani pietose. Vi si trovano vecchi ombrelli, cassette con nastri di registrazione, dischi di vinile, cornici per foto sbeccate col vetro rotto, vasellame povero, bambolotti privi di un arto, peluche sporchi di grasso e tante altre cose, insomma un bazar di cose del tutto inutili.

Lui sta là tutto il giorno, in un orario prestabilito sempre rispettato, imperturbabile, quasi immobile, a proporre in silenzio la vendita di quelle cose prive di interesse. Si finge commerciante, o meglio un improbabile venditore, il venditore del nulla. È avvolto da un alone di immobilità, di inutilità, di apatia incongruenti col  fracasso prodotto  dal traffico frenetico che scorre senza sosta in un'aria satura dei veleni dei gas di scarico. Sul volto di chi gli passa vicino si legge la silente domanda: ma cosa ci sta a fare questo qui? Certo non si può non notare il suo aspetto dignitoso, curato , del tutto incompatibile con la roba di infima qualità che tenta di vendere. Incuriosiscono di lui anche le unghie rosa, molto lunghe, che ingentiliscono le sue mani sottili ed affusolate.

Io gli passo vicino tutti i giorni, a piedi o in bicicletta, e non posso fare a meno di osservarlo; quella presenza è per me strana, inspiegabile, misteriosa, perche' non si capisco come faccia quell'omino a procurarsi gli elementari mezzi di sostentamento. Un giorno, con mia sorpresa, mi ha sorriso ed io gli ho chiesto: di dove sei?  E lui:  Bangladesh.

Quando piove si ripara sotto un ombrello malandato rimanendo seduto tra le sue cose zuppe di pioggia; quando diluvia trova riparo sotto il portico di ingresso de .palazzo dei dipendenti delle Poste, sul lato opposto della strada, a breve distanza dal suo regno. Mi è capitato di constatare che di notte nell' angolo della strada tutta la sua roba, coperta da un telo di platica con accanto la sua sedia sgangherata. Mette in sicurezza solo un tavolo pieghevole, e lo serra al parapetto con una catena di ferro munita di lucchetto. Per la roba non c'è il minimo  rischio che qualcuno gliela porti via.

Manca una decina di giorni a Natale ed ho notato che alle  sue cose ha aggiunto alcune statuine del presepe piuttosto mal ridotte e scolorite, ed una scatola di cartone per le scarpe con dentro alcune palle per l’addobbo dell' albero di Natale (anch'esse scolorite) ed un festone d' argento ingiallito con cui ha avvolto  il parapetto, come se intendesse dare anche lui un contributo al clima festoso del momento.

Questa mattina ero diretto a piedi verso il centro della città. Giunto in prossimità del solito angolo noto un'anziana intenta ad osservare le cianfrusaglie dell’omino, fatto del tutto insolito e mai visto prima d’ora. Avvicinatomi abbastanza e preso da curiosità, con molta circospezione, osservo i loro gesti dei due e ascolto la loro conversazione. Lei chiede in tono cortese, indicando con l' indice una statuina di Gesù Bambino nudo:  quanto viene? E lui  sorpreso da questa inattesa attenzione, titubante, le risponde con un fil di voce, e quasi con vergogna: venti centesimi. La donna prende la statuina e lascia nelle mani dell' omino una banconota di venti euro.  Poi riprende la sua strada stringendo tra le mani il Bambinello, come a volerlo riscaldare.

L'omino non ha ringraziato, è rimasto fermo, incredulo per un po', poi si è ricomposto ed è tornato a sedersi sulla vecchia sedia. E' ritornato ad essere il venditore del nulla, seduto su una sedia sgangherata, immobile, impassibile, assente come sempre. Misterioso.

Il traffico in quello snodo scorre ininterrottamente, senza tregua, l'aria è' sempre più ammorbata dai veleni dei gas di scarico. Sono trascorsi una dozzina di anni. In quell’angolo di strada l'omino non c'è più . Misterioso anche nella sua scomparsa.

Aldo Romano, 2011 


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  L’ultima tazza di tè a Dublino

Ancora più surreale dei sette giorni precedenti. Ancora più malinconica della domenica precedente, in cui avevo dovuto fisicamente lasciare tutto ciò che mi era familiare.

Quel giorno, come nel più storico dei cliché, pioveva, anzi aveva persino grandinato. Avevo sentito il suono dell’acqua sui vetri della finestra, sul terreno, ma soprattutto avevo sentito il forte scroscio dei chicchi di ghiaccio precipitati del cielo proprio quel giorno, proprio quella mattina. Proprio il giorno in cui avrei dovuto prendere l’aereo e, si sa, che non c’è sensazione più serena di quella in cui sali su un autobus volante che si lancia in mezzo ad un cumulo di nubi grige come il fumo di un incendio, un paio d’ore dopo una grandinata, per di più. Ma, e si sa anche questo, che l’aereo è il mezzo più sicuro. Del resto, una parte di me un po’ ci sperava che il volo sarebbe stato cancellato: alla fine, che senso aveva ripercorrere tutta la strada per tornare al punto di partenza? Sembrava una scelta masochistica. Tutto, però, prendeva senso di fronte al fatto che una “scelta” non era stata propriamente possibile.

Dunque, la mia host forse aveva percepito la sconsolatezza che c’era nell’aria e cercò di riempire la mattinata con la conversazione più piacevole e naturale che le riuscisse. Ed in ciò era molto brava, considerando i decenni di esperienza e la sua innata attitudine alla socializzazione. Eravamo sui divani della cucina, barra sala da pranzo, barra salotto. Le mie valigie erano nella stanza in cui ero stata ospitata, chiuse, tecnicamente pronte per il viaggio, ma emotivamente troppo pesanti per muoversi. Fuori, ancora, piovigginava, come se persino il tempo volesse invitarmi a restare seduta, sotto il plaid, con la tipica tazza di tè – di cui avevo fatto largo uso durante tutta la settimana. Ma l’orologio non si fermò, nulla di soprannaturale accadde. Un’altra iperattiva signora dell’agenzia venne a prendermi per accompagnarmi all’aeroporto ed io salutai colei che mi aveva offerto la sua casa ed il suo talento come insegnante di Inglese. Mi sentii inconsolabile. Tutto il tragitto in auto meditai di aprire la portiera e lanciarmi fuori, ma è appurato che sono una fifona.

Giunta all’aeroporto di Dublino, la signora iperattiva mi chiese se volessi essere accompagnata all’interno – a me poco cambiava, io non ci volevo proprio entrare – ma la lasciai andare, perché sapevo che doveva tornare alla sua prole. Così spensi il cervello. So che per molti è semplice farlo, ma per altri no. Eppure fu un atto di sopravvivenza che mi permise di vivere solo il presente, senza riflettere sul fatto che stavo andando incontro al nulla, senza nessun motivo, ma forse era questo il modo in cui doveva andare.

Alla fine, mi imbarcai sul volo. Avrei voluto fare uno di quei filmati poetici in cui si riprende il decollo e, quel giorno, con la pioggia ed il cielo oscurato, sarebbe stato perfetto. Ma la fotocamera del cellulare si focalizzò sulle gocce di acqua sul vetro, senza riuscire a mettere a fuoco al di fuori del finestrino. Sospirai. Alla fine l’aereo decollò – senza che io riuscissi a catturare alcuna prova del momento – e si gettò, effettivamente, tra le dense nuvole cupe.

Quando risbucò al di sopra, il cielo era terso. Sotto di esso, di tutti noi passeggeri, una densa coltre di nubi ci nascondeva definitamente la verde isola.

Francesca Bordignon, 2023

 

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Coppa Davis 2002, alla Russia per la prima volta

 

 

Finale di Coppa Davis 2002. La Francia gioca in casa ed ospita la Russia a Bercy per quest’importantissimo avvenimento. I transalpini si sono aggiudicati l’insalatiera d’argento altre volte in passato, l’ultima nel 2001, mentre i duri uomini della steppa sono ancora a digiuno di vittorie.

In un tripudio di bandiere blu, bianche e rosse, le due squadre sono nel terzo ed ultimo giorno di gare sul punteggio di due incontri pari, dopo tre singolari ed il doppio. Nel singolare decisivo la Francia manda ancora in campo Paul-Henri Mathieu, che due giorni prima, nel match d’apertura, aveva lottato gagliardamente e perso contro il fortissimo ex numero uno mondiale Marat Safin. La Russia, tra lo stupore generale, fa esordire il ventenne Mikhail Youzhny al posto del più esperto ma stanco Evgeny Kafelnikof.

Spinto da un tifo assordante, Mathieu (va ricordato che appena un anno e mezzo prima aveva giocato e perso la finale alla Polisportiva Capanno di Borgo Piave-LT, contro l’italiano Luddi!) fa suoi i primi due set ed illude tutti. Ancora uno sforzo ed il malcapitato russo scapperà con la coda tra le gambe a fare una bella doccia calda.

Tifo contrario, avversario in gran forma, due set di svantaggio, i compagni che ti guardano sconsolati ed in più l’emozione di esordire nell’ultima partita della finalissima in quella corrida chiamata Coppa Davis, sarebbero problemi insormontabili per moltissimi giocatori. Figuriamoci per un giovane e spaesato russo di venti anni.  Questo è quanto deve avere pensato il francesino del proprio avversario, mentre continuava a battersi il pugno sul petto in segno di sfacciata tracotanza. Aveva però fatto male i suoi conti, non calcolando l’insospettabile orgoglio che ancora custodiva in cuor suo Youzhny e che di lì a poco gli avrebbe fatto compiere un’impresa memorabile, di quelle che restano negli annali del tennis.

Il russo non si lascia sopraffare da pensieri negativi e gioca tutte le sue carte. Ritrova il suo tennis migliore, mostra un rovescio da cineteca giocato ad una mano, con il quale riesce a mettere la pallina in qualsiasi punto del court: in back, in top o piatto, disegna geometrie sorprendenti sul campo e con smisurata fiducia in sé stesso riprende coraggiosamente l’inerzia degli scambi e fa letteralmente impazzire Mathieu.

Il pubblico percepisce l’imminenza di un verdetto mai ipotizzato prima. Inizia a materializzarsi un incubo. Di quelli che mai avrebbe potuto avere neppure il più ingordo frequentatore di night club parigini, tentando di dormire dopo aver ingurgitato due dozzine di ostriche, bevuto un paio di scure bottiglie di biondo champagne e ruttato scorie gassose all’aroma di aglio e tabacco per ore ed ore.

Quell’incubo era però li in carne ed ossa, sotto un completino grigio che tanto ricordava il colore del fumo che fa da sfondo in tutti i quadri sulla disfatta napoleonica di Waterloo. Youzhny vince il terzo set e nel quarto si trova sotto 4 a 5 e 30 pari. È a soli due punti dalla sconfitta. Facendo leva sul proprio granitico carattere, riesce comunque a vincere anche il quarto e il quinto set. E’ l’apoteosi per il team russo e per i pochi sostenitori al seguito. Youzhny è sollevato in aria ripetutamente da compagni, tecnico e dirigenti, mentre Mathieu piange disperato sotto il suo asciugamano bianco, consolato dal proprio allenatore.

Anche stavolta l’umile orgoglioso ha trionfato sul superbo presuntuoso.

Danilo Fretta (2023)

 

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 L’albero del nostro nido

Rammenti il nido che sistemammo sui rami che si incrociavano a sostegno? Era di legno colorato, a forma di casetta, una finestrina tonda, un po' di paglia e briciole al suo interno.

Ci arrampicammo e lo legammo stretto con un cordino giallo. Scesi dall’albero lo guardavamo ammirati, e tu mi chiedevi quando un uccellino vi sarebbe entrato. - Presto - ti dicevo - al tempo della cova! - E nei tuoi occhi  fissi a quel rifugio io leggevo l’ansia dell’attesa.

Tornavamo spesso al ‘nostro’ albero, ma un giorno ci accorgemmo che intorno al nido, e anche al suo interno, c’era un brulicare di formiche che portavano via i fili di paglia e le briciole. Ma tu volevi che ci ritornassimo ancora al boschetto del parco, perché la fiducia non ti abbandonava, e l’infondevi in me con l’entusiasmo tuo fanciullo e contagioso.

Giunse l’autunno e diradò le fronde, tra i rami il nido scoloriva anch’esso. Seguirono le altre stagioni. Quella volta eri corso al boschetto tutto speranzoso. Tornasti presto indietro incredulo e affranto:  - Papà, il nido non c’è più, vieni a vedere! - Salimmo sull’albero, frugammo insieme tra il fogliame. - Pà, guarda, il cordino! - Era reciso, e quanto ne restava era ormai prigioniero della corteccia che lo teneva fermo, come incollato. Così perdemmo la comune speranza di sentir provenire dal nido il tenero pigolio degli uccellini implumi. Tu fosti triste per un po’. Poi te ne corresti altrove, verso il parco, verso altri giochi.

Per molti mesi non ne parlammo più, ma io sapevo che non ti eri scordato del nostro nido sui rami di quell’albero nel boschetto. E ne fui certo il giorno che ritornammo insieme al parco: mentre conversavo con degli amici, mi avvidi all’improvviso che tu eri scomparso; in preda all’ansia cominciai a cercarti e a chiedere di te ai passanti, finché non ti rividi. Eri ritornato al boschetto e indicavi l’albero ai tuoi piccoli amici… Rallentai il passo ormai rassicurato e, giunto senza far rumore, sentii che raccontavi loro come ci eravamo arrampicati lassù per legarvi un nido fatto di legno colorato a forma di casetta, delle trepide speranze che vi riponevamo, e infine del giorno in cui tutto ci era stato rubato. - Mio padre - sentivo che dicevi così - lo aveva legato stretto con un cordino giallo, ma la corteccia poi se l’è “ingogliato”! -

Adesso che più di un anno è passato... - tu un po' più grande, ma bimbo ancora - e al parco si ritorna col bel tempo, se pure dai miei sguardi ti allontani, io non ho timori, perché so dove cercarti: ai piedi di quell'albero ti trovo, con gli occhi volti ad osservarne i rami.

Massimo Maggi  (2023)

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