OASI 2023

 

 l'OASI culturale della Bottega

Anno Sociale 2022-23

 

(3 ottobre 2022)

La ‘Bottega delle Maschere’ di Latina, all’11° anno di attività, apre la sua OASI culturale con un incontro storico-letterario sulla più celebre tra le laudi del Duecento, attribuita a Francesco di Bernardone di Assisi, il santo patrono d’Italia di cui si celebra la festività il 4 di ottobre.

Laudes Creaturarum, o Cantico delle Creature - conosciuto anche come “Il cantico di Frate sole” -  è un inno di lode al Creatore che ha regalato all’uomo la bellezza, la familiarità e la gioia di innumerevoli creature figlie della sua generosa fecondità.

Il Cantico delle creature è considerato il primo spartiacque tra le ombre lunghe del medio evo e le sue cieche superstizioni, e gli albori di una modernità allo stato nascente che osa sognare un mondo pacificato e redento dalla gratuità dell’amore.

 

Laudes creaturarum


FRANCESCO DI PIETRO DI BERNARDONE

 

  1182, nasce ad Assisi, da un ricco mercante di stoffe da Pietro Bernardone dei Moriconi e dalla nobile Pica Bourlemont

  Istruito in latino, in francese, e nella lingua e letteratura provenzale, da giovane Ffa una vita spensierata e mondana

  A vent’anni partecipa alla guerra tra Perugia e Assisi. Fatto prigioniero; torna a casa gravemente malato.  

  Nel 1205, ormai guarito, Francesco pensa di cambiare la propria vita e decide di vivere in solitudine per meditare e pregare.

  Un giorno, il crocifisso della Chiesetta di San Damiano, nelle campagne di Assisi, gli parla: “Va, ripara la mia casa che è in rovina”.

  Francesco si dedica allora a opere di carità tra i lebbrosi, e al restauro di edifici di culto in rovina (come quello di San Damiano)

  Francesco vende le stoffe della bottega del padre e porta i soldi al sacerdote di San Damiano; poi,  dinanzi al vescovo di Assisi,  si spoglia dei suoi ricchi abiti e dichiara di rinunciare per sempre ai beni paterni. Il padre, adirato, decide di diseredarlo

  Con la spoliazione ha Inizio la sua predicazione del Vangelo. Lo seguono 12 compagni (i primi confratelli del suo futuro ordine)

  I Dodici eleggono Francesco loro superiore, e scelgono come prima sede la chiesetta della Porziuncola

  1210: l’ordine francescano è riconosciuto da papa Innocenzo III come ‘odine dei minori’

  1212: Chiara d'Assisi veste l’abito monastico e fonda il  secondo ordine francescano (quello delle clarisse)

  1219: Francesco parte per la Terra Santa, allo scopo di convertire il Sultano (al ritorno, per il dissenso tra i suoi frati, Francesco si dimette dall'incarico di superiore)

  1223: L’ordine dei frati minori  è riconosciuto anche da papa Onorio III

  1224: dopo 40 giorni di digiuno e sofferenza in  eremitaggio, Francesco riceve il dono delle stigmate

  1926: Per essere meglio curato, dopo anni tormentati da sofferenza fisica e cecità quasi totale, Francesco è trasferito presso il vescovado di Assisi.  Chiede allora  di tornare a morire nel suo "luogo santo" preferito: la Porziuncola. Qui la morte lo accoglie la sera del 3 ottobre.

  Francesco (oggi patrono d'Italia) sarà canonizzato nel 1228 da papa Gregorio IX (Ugolino d’Anagni, vescovo di Ostia)

 

SCRITTI

Per l'ordine da lui fondato (1210) Francesco stese in latino la Regula prima (1221), poi rielaborata dall’amico vescovo Ugolino (Regula secunda). Questi testi, assieme ai postumi Testamentum e Admonitiones, costituiscono la sua produzione ufficiale in un latino ecclesiastico piuttosto rozzo e primitivo.

Ma l'opera che più fortemente rivela la sensibilità francescana è Laudes creaturarum (o Cantico di Frate Sole, o Cantico delle creature), una lauda ritmica in volgare umbro, vero inno alla creazione, in cui Francesco riprende spunti biblici e liturgici rielaborati attraverso la sua propria spiritualità.

 

“LAUDES CREATURARUM”

Laudes creaturarum” (o il "Cantico delle creature") fu scritto da Francesco nel 1224 e terminato poco tempo prima della sua morte. Il Cantico si inserisce perfettamente nell’ideale di purezza ascetica e di povertà economica e sociale di Francesco, anzi esprime in forma poetica l'ideale teologico e spirituale della sua Weltanschauung che si configura in conformità con il nuovo spirito religioso dei movimenti pauperistici nati all'inizio del 1200.

l testo della lauda rivela una concezione positiva della natura, capace di interagire con l'uomo come stimolo nel cammino verso la salvezza. La scelta delle parole, rivela la preferenza dell'autore per immagini di forte contenuto cromatico, capaci di parlare all'immaginazione, magari non educata sul piano culturale, ma vivida, come quella delle persone comuni.

Il tema di fondo è il ringraziamento di Francesco a Dio, perché ha creato il mondo con tutte le sue creature. Francesco ringrazia Dio per la sua bontà. Tutto il mondo creato è molto bello: il sole, la luna, le stelle, il vento l'aria, l'acqua, la madre terra. Queste cose sono belle ed utili alla vita degli uomini.

Ma ciò che colpisce della lauda è certamente il  grande afflato mistico e religioso che pervade tutta la poesia. L'afflato mistico è in tutte le cose del creato che si riverbera nella grande fratellanza che esiste tra tutti gli esseri della terra. Una profonda fratellanza fra le cose inanimate, gli animali e l'uomo che accomuna tutte le creature del mondo in un solo destino, in un solo ambiente naturale che è il padre di ogni forma vivente.

Il messaggio centrale del Cantico è il ringraziamento di Francesco (e con lui di tutta l'umanità), a Dio e alla sua bontà, per le bellezze del mondo naturale e le meraviglie dell'universo che Lui ha creato. Il candore e lo stupore di Francesco di fronte alla bellezza del creato è un messaggio ancora oggi attuale. Noi uomini di oggi siamo ancora chiamati a rispettare la natura che ci appare così malata e moribonda.

 

La ‘Lauda’

Il Cantico delle Creature è il più antico componimento in volgare italiano umbro, in forma di lauda.

Le "laude" si erano diffuse nel tra il XII e il XIII secolo  in tutta l'Italia del Nord. I laudari (ne restano circa 200) ebbero come centri di produzione soprattutto Perugia e Assisi. Le laude erano liriche e drammatiche, pasquali e passionali, secondo l'argomento religioso trattato. Solo con Iacopone da Todi (1230/36 – 1306), tuttavia, la lauda si elevò a dimensione artistica.

Il Cantico è formato da strofe irregolari, dai due a cinque versi. La semplicità del testo si rispecchia in un linguaggio semplice, nel quale abbondano gli aggettivi.

 

Come in molti testi medievali, la numerologia biblica gioca un ruolo fondamentale:

a) i 4 elementi (aria, acqua, fuoco, terra) sono accompagnati da 4 indicatori:

 

                                   vento = aere, nubilo, sereno, (omne) tempo;

acqua = utile, humile, pretiosa, casta;

fuoco = bello, iocundo, robustoso, forte;

            terra = diversi-fructi, coloriti-fiori.

 

b) al firmamento (immagine divina)  - diviso in 3 - luna, sole, stelle - corrisponde una triade qualificativa attribuita alle stelle: chiarite, preziose, belle.

A Dio (trinità) corrispondono:  

                               3 appellativi: altissimo, onnipotente, buono;

3 omaggi: lode, gloria, onore;

3 azioni: benedite, ringraziate, servite.

 c) per l’uomo troviamo il 2:

perdonano, sostengono;

infermità, tribolazioni;

guai, beati;

peccati, sante volontà.

 

 Analisi

 

       L'atteggiamento di Francesco nei confronti di Dio rispecchia una semplicità che non è però assenza di profondità. Francesco propende per la celebrazione della gloria divina attraverso il rapimento e l'estasi, piuttosto che per l'enunciazione filosofica.

       Sui contenuti del messaggio, è forse opportuno chiarire che la lista delle creature offerta dal Cantico rappresenta - sul modello biblico - il sistema di tutta la realtà cosmica (allora conosciuta), strutturata in un ordine poetico dotato di grande sinteticità oratoria.

       La lode al Signore trova inizio con l'ammirazione degli astri, dei quali sono sottolineate la bellezza ed utilità: al Sole è dedicata maggior attenzione, anche perché porta in modo particolare "significatione" di Dio.

       Francesco quindi passa alla lode per i quattro elementi fondamentali: il vento, l'acqua, il fuoco e la terra. Al vento e ad ogni variazione del tempo non sono collegati grandi eventi distruttivi, ma essi sono descritti e lodati per ciò che naturalmente sono, ossia fonte di sostentamento per le creature; il vento è anche simbolo (del soffio vitale del Creatore, della ‘ruach’ divina). Anche l'acqua è vista come "utile" e "pretiosa"; la sua umiltà e castità  la caratterizzano come mezzo di purificazione.

       La terra, infine, è la madre che nutre le sue creature: si può intravedere il richiamo all'immagine della terra che fa crescere il grano, ma anche un parallelismo con la terra nella quale ha riposato il corpo morto di Gesù e dalla quale il risorto è tornato.

       Il tono della lauda ora muta: l'inno si incentra sull'uomo che, come abbiamo visto, solo con Dio può essere beato.

       Da qui Francesco passa al tema della morte, anch'essa sorella: nessun uomo la può evitare e, per l'uomo in stato di grazia, anch'essa sarà il passaggio alla vera vita con Dio. La morte secunda, che si può riferire sia al fatto che il giusto, nel giorno del giudizio, non dovrà temere la seconda morte, quella definitiva, dell'anima.

       Nella conclusione, Francesco formula l'invito agli uomini toccati dal Cantico a lodare e benedire Dio, servendolo con umiltà.

       Il tono emotivo della poesia è sicuramente il sentimento di stupore e di meraviglia che affascina Francesco dinanzi allo stupendo spettacolo della natura e del cielo. Questo sentimento di stupore e di meraviglia, che attraversa tutto il Cantico e trasforma la Lauda in una preghiera, manifesta l'ammirazione di Francesco per tanta bellezza, utilità e bontà. Una preghiera che non chiede niente a Dio, ma che si rivolge al popolo umile dei credenti.

 

 

(10 - 17 - 24  ottobre 2022)

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I Vangeli - i libri più letti al mondo - nella  loro  disarmante  sempicità  ci  parlano  della rivoluzione cristiana che ha segnato la storia: una rivoluzione paradossale e incompiuta, che trascorre i tempi e rimane una sfida aperta  alla sapienza umana e alle ragioni della natura.

Guardare ‘oltre la siepe’, spingere lo sguardo al di là delle incrostazioni culturali e dei pregiudizi religiosi che hanno offuscato la chiarezza della ‘buona notizia’ portata da Yehoshua l’Ebreo, confondendo e tradendo il suo significato originario, è un’impresa coraggiosa e non facile.

Ma andare, cercare, attendere - pur nel frastuono della nostra epoca -  è ancora oggi possibile itinerario di luce.

I

La 'bella notizia'

I Vangeli rappresentano oggi la parte centrale del cosiddetto ‘Nuovo Testamento’, che costituisce il completamento della Bibbia ebraica.

La Bibbia (‘Biblìa’ in greco = raccolta di libri), il testo religioso fondativo della cultura ebraica, parla di un’antica storia d’amore, quella tra Jahvè e Israele, raccontata in 73 capitoli (46 in una prima parte, il ‘Primo Testamento’, 27 nella seconda, il ‘Nuovo Testamento’).

La parola ‘vangelo’ (dal greco ‘eu-anghelion’) significa ‘bella notizia’: i Vangeli annunciano una ‘bella notizia’ al popolo d’Israele e all’uomo in un certo momento della storia. Ma in che cosa consiste questa ‘bella notizia’? E chi l’ha mandata? E perché?

Il Vangelo (la ‘bella notizia’) ci giunge in forma di parola scritta. Sono stati ritrovati più di 20.000 manoscritti (di cui circa 6.000 in lingua greca) riguardanti direttamente o indirettamente - la ‘bella notizia’. Una quarantina sono considerati più vicini allo spirito originario dell’annuncio evangelico, ma solo quattro quelli riconosciuti dalla tradizione cattolica, fin dal II secolo dell’era cristiana, come documenti autentici della ‘bella notizia’ data da Dio al suo popolo.

 

 

Quattro dunque i ‘Vangeli canonici’ (attribuiti a Marco, Matteo, Luca e Giovanni), mentre gli altri - definiti ‘apocrifi’ (segreti, riservati) - sono stati esclusi dalla silloge neotestamentaria in quanto generalmente ritenuti non del tutto attendibili.

Fra tanta sovrabbondanza di materiali, è lecito chiedersi se sia facile oggi leggere, capire e interpretare il messaggio evangelico. Occorre innanzitutto risolvere un problema preliminare: per quale via intraprendere l’esplorazione e la ricerca, e come guardare oltre la fitta siepe nella boscaglia che si è formata nel tempo sulla narrazione della ‘bella notizia’? Non è impresa facile né agevole. Si tratta di cominciare ad affrontare una serie di notevoli difficoltà, scogli pericolosi che minacciano la navigazione e impediscono la sicurezza dell’approdo: 1) la lingua delle scritture evangeliche, 2) i generi letterari dei racconti, 3) lo spirito del tempo che ne caratterizza le modalità narrative, 4) le traduzioni in lingue e culture diverse da quelle originarie, 5) le effettive intenzionalità degli autori …

Riguardo al genere letterario (storico, letterario, didascalico, scientifico, drammatico, normativo, dottrinale, poetico …) occorrerà molta attenzione per evitare il rischio di incagliarsi in una strettoia di significati incerti e non coerenti con la complessità del racconto.

Lo spirito del tempo (che in tedesco si definisce zeitgeist) in cui sono nati i vangeli è fondamentale a facilitarne la corretta collocazione storica mediante alcune coordinate riferibili ad eventi e svolte epocali, come la crisi dell’impero romano, le invasioni barbariche, l’espandersi della lingua e della cultura ellenistiche, il nazionalismo ebraico in continua effervescenza, l’interesse verso nuove forme di religiosità e misteriosofie provenienti dall’Oriente.

Circa la lingua e le traduzioni, è’ appena il caso di pensare alla fonte linguistica della ‘bella notizia’, l’antico aramaico, e alle successive traslazioni in scritture diverse, specialmente il greco della koiné mediterranea.

Sull’intenzionalità degli autori (ma anche su quella dei destinatari) è opportuno sondarne i possibili orientamenti: intendevano semplicemente raccontare, oppure tramandare notizie, o istruire e formare …?
A questo punto, si pone una domanda fondamentale: che cos’è – e cosa non è – il Vangelo?

Il Vangelo non è un testo di storia – un racconto biografico – un’opera letteraria – una narrazione fantastica, ma è semplicemente la ‘bella notizia’ contenuta nelle parole e nelle parabole di Yehoshua l’Ebreo.


II

Yhoshua l'Ebreo 

 


Yehoshua (in ebraico יְהוֹשֻׁ עַ = la salvazione) è l’uomo di Palestina fattosi portatore della ‘bella notizia’ di Javhè al suo popolo. Egli, nell’annunciare la ‘parola’ (dabàr, in ebraico traslitterato) di Dio-Jahvé, ha affermato di essere l’incarnazione della stessa parola, come il ponte che unisce il cielo alla terra, il nuovo canale di comunicazione tra Dio e l’uomo. Yehoshua ha consegnato all’uomo le parole della ‘bella notizia’: ora tocca all’uomo ascoltarle, capirle, accoglierle. Un compito arduo, difficile e facile nello stesso tempo.

La prima grande difficoltà (come si è già accennato) - e forse la più rilevante - è nella lingua in cui la parola ha avuto origine e in tutte quelle che ne sono diventate veicoli lungo i secoli. Annunciata da Yehoshua in antico aramaico (una lingua semitica di origini mesopotamiche ancora diffusa in Palestina ai suoi tempi) è stata presto trasferita nel greco della koiné ellenistica, lingua con cui oggi conosciamo i vangeli canonici.

È da notare che le lingue semitiche del vicino Oriente (come l’aramaico e poi l’ebraico) e le lingue del bacino mediterraneo (come il greco e il latino) costituiscono i tessuti sui quali sono stati tracciati i segni di culture molto diverse. Atene e Gerusalemme sono patrie di culture tra loro differenti e non facilmente omologabili attraverso gli accostamenti lessicali, morfologici, sintattici tipici degli idiomi che le raccontano. Se infatti nel mondo ebraico descritto dalla Bibbia Adam e Hawa (Adamo e Eva) - e quindi Qain e Havl (Caino e Abele) - nel loro essere in relazione, sono i protagonisti archetipici della vicenda umana in cammino verso l’Olam dell’eterna riconciliazione, nel mondo greco Odisseo, il navigatore solitario, insegue il suo destino che lo spinge verso l’orizzonte di un mare da dominare e ricondurre al kosmos del tempo e della storia. Così mentre il senso ultimo della cultura greca è il logos (la parola-pensiero che cerca e indaga) e la soggettività dell’essere-uomo con la sua forza dominatrice sugli oggetti che lo circondano, il senso della cultura ebraica è nell’etos che si sostanzia nella relazione e nella risposta al richiamo dell’alterità.

Da quanto detto fin qui deriva la radicale divergenza tra le due modalità narrative greca ed ebraica. Per i Greci l’autore osserva dalla sua singolare postazione i personaggi e le storie del racconto, per gli Ebrei l’autore vi si assimila pienamente e vi partecipa senza sentirsene estraneo. Nella fabula greca il protagonista - sull’onda impietosa del suo destino - è l’eroe rivolto alla vittoria finale sull’oggetto (l’avversario), nelle storie ebraiche la dominante è l’amore, declinato nelle sue molteplici contraddizioni dalla ineludibile presenza dell’Altro che dà senso a una temporalità aperta alle novità di un futuro migliore (la ‘terra promessa’). Così, dove la scrittura dei Greci tende a rappresentare la realtà oggettiva, quella degli Ebrei si svolge per similitudini, suggestioni, analogie, parabole.

La ‘bella notizia’ è stata pensata e annunciata inizialmente nelle forme (linguistiche e culturali) dei modelli di comunicazione tipici dell’ebraismo. Ma la sua diffusione è avvenuta mediante gli strumenti della traduzione, principalmente in greco e poi in latino. Il meticciato culturale prodotto dalla traduzioni è il nocciolo della comprensibilità dell’autentico messaggio originario, inevitabilmente compromessa dalle deviazioni semantiche e dagli innumerevoli equivoci derivanti dalle differenti letture di lingue differenti. A fronte di tale difficoltà (che mette sicuramente a dura prova la nostra capacità di cogliere il senso della ‘bella notizia’), si può tentare una strada: tornare a Yehoshua, l’autore dell’annuncio.

Yehoshua (Jesus nel greco-latino) carpentiere galileo, nacque (illegittimo?) intorno alla metà del 7° secolo dalla fondazione di Roma, a Nazareth, da Myriam e Ioseph. Idealista, contestatore e rivoluzionario, probabile simpatizzante del gruppo religioso degli Esseni, intorno a trent’anni si rivelò capo carismatico, guaritore taumaturgo, rabbi esperto nell’interpretazione delle scritture. Divenuto bersaglio di invidie, persecuzioni politiche e religiose, fu presto vittima degli eventi che lo portarono al fallimento totale, fino alla morte per crocifissione decretata da Pilato, allora governatore romano della Giudea.

Proclamatosi ‘figlio d’uomo’ e insieme ‘figlio di Dio’, fu riconosciuto dai discepoli - fedeli alla sua resurrezione dai morti - come l’Atteso dai profeti, il messia- liberatore (in greco Kristòs = l’Unto) promesso da Jahvé a Israele, la pietra angolare (iesod in ebraico) del nuovo tempio, l’agnello offerto in sacrificio per la riconciliazione dell’uomo con Dio. Per la contaminatio ebraico-ellenistica, Yehoshua il Cristo - fin dal 1° secolo - venne identificato con il logos greco, la ‘parola’ di Dio divenuta ponte di comunicazione tra cielo e terra, tra il divino e l’umano, tra Jahvé e il suo popolo.

Tra le numerose fonti probanti la realtà storica di Yehoshua e della sua predicazione (in greco kerigma = proclama), basterà ricordare le testimonianze degli scrittori latini Tacito, Plinio il Giovane, Svetonio, Dione Cassio; del greco Luciano di Samosata; dell’ebreo Giuseppe Flavio e del Talmud Babilonese; nonché quanto desumibile dalle numerose fonti cristiane canoniche (i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le Lettere apostoliche) e non canoniche (in particolare i Vangeli apocrifi).

 


Al di là del discorso solo accennato sulla storicità di Yehoshuà l’Ebreo, è innegabile che quest’uomo fiorito in terra di Palestina al tempo di Augusto e Tiberio sia stato il latore della ‘bella notizia’ raccontata da Paolo di Tarso e dai quattro evangelisti, l’ultimo profeta il cui messaggio paradossale lo ha collocato sul crocevia della storia, da lui stesso segnata da due millenni.
 

III

Il 'volto' di Dio

Alzare coraggiosamente lo sguardo ‘oltre la siepe’ significa disporsi ad ascoltare, capire, accogliere il significato semplice della ‘parola dell’incontro’ (dabar) pronunciata da Yehoshua, pur nella boscaglia dei segni narrativi in cui oggi sembra essersi smarrita.

Yehoshua, il ‘figlio d’uomo’ che ha cambiato la storia svelando all’uomo il volto di Dio, ha iniziato la sua missione profetica con un annuncio agli ‘ultimi’ della terra, quelli che gli Ebrei chiamavano “anawim”, i poveri, gli inutili, i lebbrosi, i reietti, i disperati … In essi, proprio per la loro condizione di nulla-tenenti, potrà germinare il seme della salvezza.

Nel suo primo discorso - riportato da Matteo - così Yehoshua ribalta le certezze del comune umano sentire disegnando otto paradossi:

- A voi disperati (‘poveri di spirito’, cioè nudi, senz’anima, senza terra, diseredati e avvolti nell’ombra di morte), a voi è riservato il respiro del cielo
- voi sofferenti, prigionieri del dolore e della carne malata, voi otterrete la guarigione
- voi deboli incapaci di progettare il male, di aggredire, di difendervi, voi sarete gli eredi di tutta la terra
- voi che invocate la giustizia negata ai giusti, voi ne sarete abbondantemente saziati
- voi che conoscete la compassione per i miseri (gli ‘anawim’), voi avrete la ricompensa alla vostra misericordia
- voi dal cuore libero dalle zavorre materiali, voi vedrete la pura essenza di Dio
- voi costruttori di pace, voi sarete riconosciuti come veri figli di Dio
- voi perseguitati perché camminate sulla retta via, a voi è destinato il regno di Dio.

Nelle otto promesse di riscatto per gli ultimi della terra, Yehoshua svela il senso della ‘bella notizia’ data a tutti gli uomini e il volto di Dio: nel suo amore senza confini si consumano “tutta l’antica Legge e i Profeti”.

E indica con chiarezza i tempi e il percorso per i deserti del nuovo Sinai:
- il tempo della chiamata di Dio: “Vieni e seguimi”
- il tempo della ‘conversione’: l’inversione a U del viaggio: destinazione ultima il cielo, e non la terra
- il tempo della misericordia: l’esercizio continuo dell’amore incondizionato, a somiglianza dell’amore di Dio

Nei testi evangelici sono esplicitati, spesso in forma di parabole, modelli concreti di imitazione di Dio nella misura del suo amore. Quattro esempi.

 

Il pastore giusto e la pecora perduta (da Luca, 15, 4-6)

  

 Un pastore conta le sue cento pecore, al termine della pastura. Si accorge che ne manca una. S’è persa. Egli non esita un momento: lascia il gregge nel deserto e corre alla ricerca della pecora perduta, finché non la trova, stanca e spaventata. La prende in braccio, se la carica sulle spalle e la riporta a casa. Poi chiama i vicini e gli amici: “Fate festa con me, perché ho ritrovato la mia pecora, quella che si era smarrita”

  

Il figlio lontano e il suo ritorno a casa (da Luca, 15, 11-32)

 

Un uomo aveva due figli. Un giorno il più giovane - insofferente del lavoro nell’azienda familiare e sognando un mondo migliore - disse a suo padre: “Voglio ora la parte di eredità che mi spetta”. Il padre divise allora i suoi beni e gli consegnò quel che aveva richiesto. Partito per un paese lontano, il figlio sconsiderato sperperò tutto quello che aveva e, sopravvenuta una carestia, si ridusse a fare il guardiano di porci, fino a contendere agli animali le ghiande per mettere qualcosa sotto i denti e sfamarsi. Nella sua disperazione, rientrò in sé stesso: “A casa mia tutti i servi hanno da mangiare in abbondanza, mentre io muoio di fame. E se provassi a tornare da mio padre, supplicandolo di trattarmi, non certo come un figlio, ma solo come l’ultimo dei suoi servi…” ? Allora si fece coraggio e si mise in cammino. Non lo spingeva il pentimento né la consapevolezza del suo errore, ma il bisogno, il calcolo e la convenienza. Il padre, invece, era ancora lì, nella casa semivuota, a scrutare l’orizzonte, nella testarda attesa di un ritorno improbabile eppure tanto desiderato. Quando vide in lontananza, tra le sabbie del deserto, un punto muoversi verso di lui, il cuore gli balzò nel petto, e si diede a corrergli incontro. Il figlio sciagurato voleva dire qualcosa, ma non riuscì a balbettare parole, soffocato dai baci e dagli abbracci del padre che chiamava a raccolta i servi: “Presto, rivestite mio figlio con gli abiti più belli, dategli nuovi sandali e mettetegli al dito l’anello, sigillo della sua signoria. Poi si prepari un banchetto e si faccia insieme una grande festa, perché questo mio figlio che credevo morto è tornato in vita, lo avevo perduto e ora l’ho ritrovato”. E questo, nonostante il comprensibile dissenso del figlio maggiore, che apertamente gli rimproverava ingratitudine e ingiustizia.

 

Nel deserto, da Jerusalem a Jericho (Luca 10, 25-37)

  

 
Sulla pista arida che porta a Jericho, un uomo giace quasi senza vita dopo essere incappato nei briganti che lo hanno derubato percosso massacrato e abbandonato (‘semivivo relicto’ nella traduzione latina). Passa un sacerdote che lo vede ferito e sanguinante, ma sa bene che se lo tocca si macchierà di impurità, e così cambia strada e si affretta ad andare oltre. Anche un levita del Tempio passa, si accorge del malcapitato, ma l’urgenza del servizio al Tempio lo richiama al suo dovere, e se ne va.

Passa uno straniero in viaggio dalla Samarìa verso la Giudea, vede l’uomo per terra, si ferma, ne prova compassione, gli si avvicina, prende il vino e l’olio che ha di scorta per il suo viaggio, gli lava le ferite e gliele fascia ben bene. Ma sa che non basta, non può lasciarlo solo.

Lo carica sul suo asino e si mette in cammino, finché non giunge a una locanda dove si ferma e lo assiste per tutta la notte. Il giorno seguente, rassicuratosi, prima di rimettersi in viaggio, paga con monete d’argento l’albergatore, raccomandandogli di aver cura del malato fino al suo ritorno, quando gli rifonderà tutto quello che avrà speso per accudirlo e aiutarlo a rimettersi in sesto.

  

 Le vergini dissennate (Matteo, 25, 1-13)

 

Una parabola riportata da Matteo (riferibile forse ad un racconto di origine mesopotamica) parla di dieci aspiranti concubine che attendono in casa l’arrivo dello Sposo per celebrare la prima notte di nozze. Ognuna di esse porta con sé la propria lampada, ma cinque si provvedono di vasetti d’olio per l’eventuale alimentazione di emergenza delle lampade, le altre non lo fanno. Lo Sposo tarda e le donne sonnecchiano, poi si addormentano. A mezzanotte si leva un grido: “Lo Sposo! Arriva lo Sposo! Presto, andategli incontro!” Tutte accendono le lampade, ma cinque sono rimaste senz’olio. Le vergini previdenti ne hanno a sufficienza nei vasetti che avevano portato per precauzione, mentre alle cinque imprevidenti e stolte, non rimane che chiedere dell’olio alle compagne. Queste, temendo che poi l’olio non sarebbe bastato durante la notte a tenere accese le lampade né alle une né alle altre, le mandano a provvedersene dai rivenditori. Intanto giunge lo Sposo. Le vergini pronte, con la lampada accesa, entrano con lo Sposo nella sala delle nozze, e la porta si chiude. Quando le ritardatarie arrivano trafelate e chiedono di entrare, la voce perentoria dello Sposo le gela: “Non vi conosco!”

*    *    *

Nelle sue allegorie paraboliche (come in quelle appena riferite) Yehoshua svela il volto di Dio. Egli è il pastore buono che ama ciascuna delle sue pecore, veglia su di esse e se una sola abbandona il gregge, egli lascia tutte le altre per andare a cercarla, e non si dà pace finché non l’avrà ritrovata e messa in salvo. È il padre silenzioso che non esprime giudizi sul comportamento sconsiderato del giovane figlio, e lo lascia andare per la sua strada; ma lo aspetta sempre, col cuore in pena, sperando nel suo ritorno; e quando lo vedrà ritornare, non avrà per lui che parole di gioia e abbracci d’amore. È lo straniero che si piega sulla miseria di uno sconosciuto ferito a morte, che non chiede nulla e dà tutto per sanare quelle ferite. È lo Sposo che chiede alle amate di non abbandonarsi al sonno, ma di vegliare con le lampade accese fino a quando egli verrà, al colmo della notte.

Il Vangelo - la ‘bella notizia’, è dunque una dichiarazione d’amore: l’amore senza condizioni di Dio per l’uomo, la sua creatura prediletta. Il vero volto di Dio è l’amore. Adombrato in mille racconti nei 46 libri dell’Antico Testamento, è confermato nella pienezza dei tempi, con semplicità e chiarezza da Yehoshua. “Un giorno, un dottore della Legge gli domandò: “Maestro, qual è, secondo la legge, il grande comandamento?”. e Yehoshua gli rispose: ‘Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua e con tutta la tua mente'. questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo, simile a esso, è: 'Ama il tuo prossimo come te stesso'. In questi due comandamenti consistono tutta la legge e i profeti”. (Matteo 22, 36-40).

Dio è Amore, cioè incontro, relazione. Yehoshua insegna come riconoscerne il volto: nel volto dell’Altro, del fratello della nostra carne, nello straniero, nel diverso, dell’amico, ma anche del nemico. In ogni figlio d’uomo c’è il volto di Dio. E segnatamente in tutti gli ‘anawim’, i miseri della terra, che non siamo chiamati a giudicare, ma soltanto ad amare. 

Se allora l’unico comandamento è la risposta all’amore incondizionato di Dio con l’amore incondizionato verso il prossimo, allora non c’è che un solo peccato: la negazione dell’amore, il cieco egoismo che soffoca la lampada destinata a rischiarare la notte.

Dio è Amore che chiama all’amore. L’amore è il suo respiro, lo stesso respiro (ruah, in ebraico) che ci dà la vita. La misericordia che si fa compassione verso gli ‘anawim’ rende l’uomo costruttore del Regno, fedele erede della completezza (= la perfezione) di Dio e della vita vera (= eterna) che non conosce il pungolo della morte.

(gius, 22)

 

 II 

(7  novembre 2022)

 

 

 

La ‘Scuola Genovese’ fu un movimento culturale-artistico sviluppatosi agli inizi degli anni 60, legato alla canzone d’autore italiana. Il movimento prese ispirazione dai cantautori francesi (Brel, Brassens, Aznavour) e dal movimento filosofico esistenzialista francese (Sartre, Camus, ecc..).

Tale Scuola determinò una profonda rottura con la musica italiana tradizionale dell’epoca attraverso un mutato approccio stilistico, un linguaggio più aderente alla realtà e nuove tematiche (il disagio giovanile, l’emarginazione, la guerra, l’amore con le sue diverse sfaccettature, la politica, ecc.).

La scuola genovese nasce dall’incontro di 4 ragazzi (Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Luigi Tenco e Gino Paoli) nel quartiere della Foce di Genova. Il luogo degli incontri era il bar latteria Igea, oggi Mixing bar, in via Casaregis, all’angolo di via Cecchi.

A questi si aggregarono poi anche altri amici, in particolare i fratelli Reverberi (i quali erano soprattutto musicisti) e Fabrizio De Andrè.

 

I magnifici '4 Gatti'

  

UMBERTO BINDI (1932 – 2002)


Uno dei maggiori esponenti della scuola genovese. Il più preparato musicalmente (studiò fisarmonica e poi pianoforte). Si definì "il cantante Cicala" (sperperò infatti tutti i suoi soldi) che amava la musica ma odiava le parole. Le sue canzoni sono pervase di melodie eleganti, raffinate e alcune si avvicinano alla musica classica.Scriveva musica ma per le parole si faceva aiutare spesso dall’amico Giorgio Calabrese.

Debuttò (negli anni 60) con “Arrivederci” che, grazie anche a Don Marino Barreto jr, vendette un buon numero di copie.

“Il nostro concerto” è sicuramente il suo capolavoro, dove Bindi mise a frutto i suoi studi classici corredandolo di una splendida e armoniosa introduzione strumentale. La canzone, per 10 settimane rimane in testa alle classifiche delle vendite.

Bindi partecipò al festival di Sanremo nel 1961 con “Non mi dire chi sei” una bella canzone che non ebbe particolare successo, ma il pubblico e i critici più feroci si concentrarono sull’anello vistoso che portava alla mano sinistra e presero a criticare la sua omosessualità. Da allora iniziarono i suoi guai. Non venne più chiamato in Rai e cominciò il suo lento declino.

Morì in povertà aiutato negli ultimi anni dalla pensione per meriti artistici che l’amico Gino Paoli riuscì a fargli ottenere.

Altre sue canzoni significative: “È vero” cantata da Mina, “La musica è finita” cantata da Ornella Vanoni e “Il mio mondo”.

 

BRUNO LAUZI  (1936 - 2006)


Definì la Scuola Genovese “Una piccola rivoluzione culturale

Era stato designato dagli altri 3 come lo storico del gruppo, ovvero colui che avrebbe dovuto raccontare le innovazioni di questo movimento, cosa che fece anni dopo nella sua biografia.

Si avvicinò alla musica giovanissimo imparando a suonare la chitarra. Negli anni 50 formò un piccolo gruppo musicale con il suo amico e compagno di banco Luigi Tenco, con lui al chitarrino (simile all’ukulele) e Tenco al clarino, e iniziò a comporre i primi brani musicali. Appassionato di Jazz ma anche dei cantautori francesi (Brel, Brassens, Aznavour) si dedicò alla musica e lasciò gli studi universitari a pochi esami dalla laurea in legge.

Le sue prime canzoni erano in dialetto genovese con delle sonorità brasiliane (“A Bertoela”, “O Frigideuro”), ma gli aprirono le porte del Cabaret (il Derby di Milano).

Ritornerai”, del 1963, fu il suo primo successo.  Nello stesso anno compose il suo capolavoro: “Il Poeta

Quando diminuì la sua popolarità si affacciò alla casa discografica “Numero 1” di Battisti e Mogol, i quali sfornavano un successo dopo l’altro. A Lauzi affidarono una canzone che ebbe subito  successo, “Amore caro amore bello”, in cima alle classifiche di vendita per diverse settimane.

Lauzi scrisse canzoni anche per altri artisti, in particolare per Mia Martini (come  Piccolo uomo”, e “Almeno tu nell’universo”).

Ammalatosi di Parkinson, incise negli ultimi anni di vita un cd per contribuire alla ricerca della malattia.

 

LUIGI TENCO (1938- 1967)


 È considerato dalla critica uno dei più importanti cantautori italiani. “La mia ambizione”, diceva, “è far capire chi sono io attraverso le mie canzoni”.

Il padre morì prima della sua nascita. Tenco scoprì, da ragazzo, che il suo vero padre era il figlio di una famiglia di notabili di Torino, dove la mamma era stata cameriera, e questo condizionerà molto il suo carattere. La madre incinta era fuggita via da Torino per la vergogna, e si era trasferita con la famiglia a Genova dove, con l’altro figlio Valentino, aprì una rivendita di vini piemontesi in Via Cecchi, alla foce.

Tenco intraprese da giovane lo studio del pianoforte e poi quello del sax contralto, e sviluppò ben presto la sua vera passione, il jazz (in particolare Charlie Parker e Paul Desmond) e, come cantante, si ispirò soprattutto a Nat King Cole.

Frequentando il bar alla foce conobbe gli altri amici e cominciò a scrivere canzoni. “Quando”, del 1961, fu la prima sua canzone, eseguita anche da Peppino Di Capri. La sua amicizia con il maestro Reverberi, lo aiutò, i primi tempi, ad armonizzare al meglio i suoi pezzi (“Ti ricorderai” in particolare). Le sue tematiche furono: l’amore (spesso complicato), le esperienze esistenziali, il disagio giovanile, la guerra, la critica sociale, chiari collegamenti con l’esistenzialismo francese. Il suo amico Fabrizio De Andre’ ebbe a dire pubblicamente: “Senza Luigi Tenco io non ci sarei mai stato”, sottolineando il grande vuoto artistico dopo la sua morte.

Tenco incise per la Ricordi: “Ti ricorderai”, “Mi sono innamorato di te”, “Ho capito che ti amo”, e per l’RCA: “Vedrai vedrai”, “Lontano lontano”, “Un giorno dopo l’altro”, “Ciao amore”. La casa discografica multinazionale RCA  gli permise di diventare sempre più famoso (incise la sigla dello sceneggiato tv  ‘Maigret’, fece varie esibizioni in Rai e anche in locali importanti, come la Casina Valadier a villa Borghese). Nel 1962 ebbe un ruolo di attore coprotagonista nel film “La Cuccagna” di Luciano Salce, film di modesto successo.

Partecipò al Festival di Sanremo del 1967 in coppia con la famosa cantante Dalida, ma la canzone “Ciao amore” venne eliminata e non entrò in finale. Quella notte stessa morì suicida nella sua stanza d’albergo. Molti dubbi si sollevarono subito su quella strana morte nonché tanti pettegolezzi.

Salvatore Quasimodo scrisse il giorno dopo la sua morte sulla prima pagina del Corriere della Sera che “Tenco con la sua musica e con la sua morte volle colpire a sangue il sonno mentale dell’italiano medio dormiente rispetto ai cambiamenti della società”.

 

GINO PAOLI  (1934)

 


Dopo la sua nascita, la famiglia si trasferì a Genova (il padre era un ingegnere navale). Poco incline da ragazzo agli studi si innamorò presto della musica grazie alla madre pianista. Imparò la chitarra e formò con gli amici Tenco, Lauzi, De André, e i Reverberi,  i Diavoli del Rock che si esibivano in piccoli bar e locali di Genova. Allora cominciò a scrivere le prime canzoni.

L’amico maestro Reverberi convinse Tenco Paoli, Bindi e Lauzi a tentare una audizione alla Casa discografica Ricordi, nella quale egli lavorava.

Sassi”, “La tua mano” del 1961, furono le prime incisioni che non ebbero particolare successo. Il successo arriva inaspettatamente con “La Gatta” che entrò nelle classifiche di vendita. Paoli prese parte al festival di Sanremo del ‘61 con “Un uomo vivo”, una canzone poco riuscita.  Il trionfo di Paoli arrivò con “Il cielo in una stanza” cantata da Mina, che Mogol fece incidere nello stesso anno, e che rimase nelle classifiche delle vendite per 6 mesi.

L’anno seguente, in un locale della Versilia, Paoli conobbe Stefania Sandrelli e se ne innamorò. Lei era allora sedicenne, così la loro storia divenne uno scandalo, sia per la giovane età della Sandrelli e anche perché Paoli era sposato e con la moglie in dolce attesa.

La collega cantante Ornella Vanoni fu la musa che ispirò a Paoli canzoni bellissime come “ Senza fine”, “Che cosa c’è”, che furono portate al successo dalla stessa Vanoni. Ancora un altro grande successo arrivò per Paoli nel ‘63 con “Sapore di sale” (arrangiamento di Morricone) che scalò tutte le classifiche di vendite.

Nello stesso anno per problemi esistenziali, Paoli tentò il suicidio, con un colpo di pistola, ma fu salvato in tempo. Dopo un lungo periodo di crisi di popolarità, tornò al successo con il disco “Matto come un gatto” e soprattutto con la canzone “Una lunga storia d’amore”, colonna sonora del film “Una donna allo specchio” con la Sandrelli protagonista.

Paoli, insieme alla Vanoni, nell’85, realizzò un tour trionfale di coppia artistica per i teatri di tutta Italia. E continua ancora oggi, alla sua età, a portare con il pianista Danilo Rea i suoi successi in giro per l’Italia.

Grazie ai prodromi della ‘Scuola genovese’ sorsero poi tantissimi cantautori di successo:  uno tra tutti De Andrè e poi Sergio Endrigo, Nico Fidenco, Ivano Fossati, Antonello Venditti, Francesco De Gregori e tanti altri. 


 

  III 

(14-21-28  novembre 2022)

 

        L'Immaginario è il luogo mentale dove si raccolgono le nostre infinite esperienze, quelle di ogni giorno e quelle di tutta la vita. Registrate, archiviate, classificate, e conservate in forma di 'immagini', costituiscono il tesoretto personale delle risorse che ci permettono di sopravvivere e di affrontare il viaggio dell'esistenza.

     Saper guardare, leggere e capire le immagini è il primo passo per comprendere il mondo che abitiamo, tutto ciò che chiamiamo 'realtà' e, finalmente, noi stessi. 

     Una escursione nelle contrade dell'Immaginario, e una introduzione alla 'grammatica del linguaggio iconico', per cogliere il senso del monito dell'antico oracolo delfico che indicava la porta maestra della vera sapienza:

  "CONOSCI TE STESSO"!

 

 *    *   *

 LEGGERE LE IMMAGINI
(da Pietro Conti)

Noi conosciamo il mondo che ci  circonda  grazie ai messaggi  che esso ci trasmette  e che i nostri sensi
percepiscono. Gli stimoli sensoriali ci permettono di percepire il rapporto tra noi e l’ambiente circostante.

Tutte le immagini trasmettono un messaggio. Saperle osservare è essenziale per saper leggere descrivere e comprendere i diversi tipi di immagine con cui entriamo in contatto continuamente.

Gli stimoli luminosi vengono catturati dall’occhio e inviati al cervello mediante le vie nervose. Le aree della visione cerebrali (area della corteccia, area della visione visive), attraverso un procedimento complesso ma breve, li interpretano, individuando forme, colori, distanze, significati, ecc.. 

 


Alla base di questo complesso meccanismo di «cattura» delle immagini vi sono alcune caratteristiche, comuni a molti esseri umani, che condizionano la capacità di vedere ed osservare. Quando, ad esempio, analizziamo un immagine, alcuni elementi ci colpiscono maggiormente rispetto ad altri che vengono percepiti in un secondo tempo: è la tendenza del cervello a distinguere la figura dallo sfondo.

 

Le funzioni comunicative delle immagini

Ogni  immagine  trasmette  un  proprio messaggio,  cioè ha una particolare  funzione  comunicativa che
occorre distinguere per interpretare in modo coretto l’elemento visivo.

·           La funzione emotiva - tipica, in generale, in tutte le opere d’arte (pittura, scultura, architettura, fotografia, cinema) - mira a coinvolgere lo spettatore e a suscitare emozioni come la gioia, il dolore, lo stupore …

·             Le funzioni poetica ed estetica riguardano le immagini che intendono richiamare aspetti formali come le linee, i colori. Le creazioni di moda o le arti decorative si servono di messaggi visivi che richiamano queste funzioni.

·                 La funzione persuasiva mira a modificare i comportamenti dei destinatari, come i cartelli indicativi o di divieto, le immagini pubblicitarie, le illustrazioni o le fotografie che intendono sensibilizzare il pubblico su problematiche sociali.

·             La funzione Informativa ci permette di comprendere il significato dei numerosi messaggi visivi presenti nell’ambiente circostante,  mediante l’attitudine a una corretta interpretazione del linguaggio impiegato per la loro produzione. Ogni linguaggio infatti possiede un codice specifico: come il linguaggio verbale utilizza la parola, il linguaggio visivo è composto dai segni visivi con cui si creano le immagini (il punto, le linee, la superficie, i giochi di luce, il colore, i volumi, le rappresentazioni dello spazio nelle sue diverse dimensioni).

   

(da Francesca Savino)

 

La grammatica della lingua italiana è fatta di punti, h, accenti e apostrofi che, messi al posto giusto, ci aiutano a capire un testo e dargli significato.E quella delle immagini, cosa contiene? Ma, soprattutto, come viene letta dal nostro cervello?


La lettura delle immagini

Quando guardiamo un’immagine, l’occhio viene attirato da un punto di interesse principale, poi prosegue ad analizzare tutto il resto.

Il punto focale

Il punto focale, che cattura subito la nostra attenzione deve corrispondere al soggetto, il protagonista dell'immagine. Se non definiamo bene il soggetto, la comunicazione è imprecisa perché non riusciamo a capire subito di cosa stiamo parlando.

Il soggetto è rappresentato da un volto, un gesto, un oggetto, un paesaggio, un momento… Può essere già davanti a noi oppure emergere dalla nostra immaginazione.

L'ambientazione

L’ambientazione è data dallo sfondo e dagli elementi che completano l'immagine e che possono essere più o meno facilmente leggibili.

Uno sfondo neutro, uniforme o molto sfocato evidenzia al massimo il soggetto principale. 

 


Mentre uno sfondo ricco di dettagli aggiunge una serie di dati legati al luogo o al momento che si son voluti rappresentare. Il contesto aiuta a delineare il soggetto, a connotarlo, a farlo emergere.

Questi elementi essenziali, prima di parlare a noi, devono dialogare tra loro. Che tipo di rapporto li lega? Possiamo stabilirlo, componendo l’immagine.

La composizione

Comporre un’immagine vuol dire cogliere l’equilibrio fra i vari elementi. Significa guidare l’occhio verso il soggetto. Ma questo non è un gesto meccanico: perché si tratta di ricostruire tutta l’immagine.

L’occhio umano è naturalmente attratto dagli elementi geometrici. È alla costante ricerca di forme che (ri)conosce e ne segue sempre le linee.

Le linee-guida

Possono essere quelle naturali, come la linea dell’orizzonte o le pendici di una montagna. Oppure immaginarie (linee-guida). Come hanno osservato gli studiosi della psicologia della Gestalt, il nostro cervello tende a semplificare la scena, a raggruppare gli elementi presenti nell’immagine e a unirli idealmente.

         le linee orizzontali esprimono un significato di staticità,

         le linee verticali hanno un significato di slancio, movimento,

         le linee oblique o diagonali manifestano un significato di tensione, movimento, profondità,

         le linee spezzate, a zig zag, miste esprimono un significato di dinamismo, confusione (essendo il risultato di più forze convergenti in un punto o divergenti da un punto).

         le linee curve, ondulate determinano significati di tensione e dinamismo. 

 

                                                                        


 La forma

Quando si rappresenta un’immagine, si trasferisce il mondo reale, quindi tridimensionale, su un piano (cartaceo o digitale) che, invece, ha solo due dimensioni.

Nella rappresentazione bisogrerà quindi restituire tridimensionalità all’immagine. 

La collocazione sulle linee.guida dello spazio fisico in cui è riprodotta (come una tela, o un foglio di carta) ne riflette le particolari caratteristiche della rappresentazione mentale dell'artista. Ogni immagine dunque nasce dell'Immaginario di chi la produce.


Le ombre aiutano a riconoscere il soggetto e a dargli importanza. La luce aiuta a disegnarne il contorno, a dare corpo agli elementi e alle caratteristiche che vogliamo metterne in risalto.

Il contrasto

Il contrasto è dato dalla differenza tonale, cioè dalla quantità di toni intermedi tra le zone chiare e quelle più scure di un’immagine.

Se lo stacco tra le parti in luce e le parti in ombra è molto netto si ottiene un’immagine molto contrastata, drammatica e misteriosa. Se la luce è soffusa invece, le ombre saranno morbide, con più sfumature, e l’immagine risulterà più delicata.


 

Il colore

Il significato che attribuiamo ai vari colori è determinato dall’esperienza e dalla cultura di appartenenza dell’artista. Possiamo comunque dividere lo spettro cromatico tra toni caldi (i rossi e i gialli) e toni freddi (i blu e i verdi). La tonalità cromatica crea un’atmosfera. Il colore, infatti, colpisce e fa nascere uno stato d’animo ancor prima di identificare il soggetto dell’immagine.

Pensiamo, ad esempio, al senso di calore e intimità che trasmette la luce di una candela, o il fuoco di un camino acceso. O all’idea di freschezza e natura a cui rimanda il verde.

Il colore può attirare lo sguardo e far risaltare immediatamente un soggetto. È possibile  ottenere un’immagine molto forte e di impatto giocando con il contrasto dato dai colori complementari: il rosso e il verde, il giallo e viola, il blu e l’arancione. Oppure creare una composizione armonica rimanendo sui toni dello stesso colore.

 

La superficie

Mettere in risalto la struttura del soggetto, la texture di un elemento, dona una sensazione tattile all’immagine. In tal modo si dà l’impressione di poter toccare con mano qualcuno o qualcosa di vero. Pensiamo alla morbidezza di un tessuto, alla buccia ruvida di un agrume, alla trasparenza del vetro o alle lentiggini sulla pelle del viso di una persona: enfatizzare la texture, oltre ad aggiungere un’informazione in più, coinvolge i sensi e stimola una reazione emotiva maggiore perché rende il soggetto tangibile.

 

Comunicare con le immagini

Comunicare con le immagini vuol dire far passare un concetto attraverso il mezzo visivo.

Vuol dire coinvolgere, emozionare, entusiasmare, stimolare una riflessione. In sostanza interpretare, cioè esprimere una personale versione della realtà. Dietro ci deve essere un intento preciso. 

L’immagine comunica davvero quando è la sintesi di un’idea.


IV 

(12 dicembre 2022)

 

  
In un cortometraggio ispirato all’Othello di Shakespeare, Pasolini poeta e geniale creatore di immagini, dipinge la vita come un viaggio incomprensibile, e la morte come unica rivelatrice del suo significato. Vita nella vita attraverso il suo compiersi nella morte. La vita rifiorisce nel momento in cui la morte schiude il mistero dell'esistenza: vita - morte - resurrezione.

Finalmente liberi dai lacci di un oscuro burattinaio e dai suoi inquietanti copioni, tornati alla terra, rivolti gli occhi alle nuvole nel cielo, i burattini umanizzati del film sentono il richiamo dell’eternità, e avvertono - morendo - il sentimento ineffabile del ‘folle amore’, che dà senso di appartenenza a un’altra dimensione, quella dell’immortalità.

E raccontano la metafora enigmatica del nostro esistere … 

*    *    *

 "CHE COSA SONO LE NUVOLE"
(da Michela Pellegrini)

 

 

Che cosa sono le nuvole?  è il quarto episodio - compreso nel film corale Capriccio all’italiana  - firmato da Pier Paolo Pasolini nel 1968. Poco più di venti minuti densi di poesia e soprattutto di quella poesia tipica del suo autore il quale andava traducendola dalla pagina scritta al cinema proprio in quegli anni. 

La scoperta non è tanto la scoperta delle nuvole, quanto più il clamore di sapere o intuire che quelle non sono che un’invenzione, un artificio, ma proprio per questo non meno insondabile e degno di amore di altri che si scoprono ugualmente innaturali: strazianti e meravigliosi, come viene pronunciato con afflato declamatorio e struggente nella scena conclusiva da un inedito Totò-Jago. È proprio la dialettica bruciante del vero/falso il tema di questa breve pellicola, complessa e poeticissima. Una dialettica della verità e della menzogna che si esplica attraverso la recita nella recita e confonde la realtà vissuta con la finzione agita dai personaggi burattini sul palcoscenico di un teatraccio di marionette.

Ma non sono soltanto verità e menzogna a contendersi la scena, perché l’apparizione di Totò è sintomatica di un’altra dualità, segno inequivocabile dell’intera opera: il dramma – quello dell’Otello rappresentato dai burattini protagonisti – e accanto a lui una smorfia a smentirlo o stemperarlo. Comico e drammatico che si fondono dando luogo a una potenza disarmante perché completamente disarmata. Questo disarmo della realtà tipicamente pasoliniano assume qui il connotato ambivalente e sinistro di tutto il comico che deforma il mondo. La tipica deformità del volto di Totò viene esasperata dal trucco verde che lo tinge tutto, e questo ormai nei suoi abiti naturali sembra finalmente incarnare – alla sua ultima apparizione sullo schermo – il personaggio archetipo che da sempre in lui si celava come riferimento assoluto: il burattino dal corpo dinoccolato e le giunture degli arti troppo visibili e forse per questo più frangibili e più umane.

È il comico che si insinua e rende impossibile la tragedia di Otello. Il Moro è qui un troppo ingenuo Ninetto Davoli dai riccetti di ragazzo, alle prese con la verità che non è più la verità del presunto adulterio della propria sposa, ma è la verità tout court, quella del mondo e di sé stesso: lui è veramente l’assassino di Desdemona (Laura Betti), o è il moto di ribellione contro i fili di burattino che lo tengono legato a questo personaggio? 

 


La fede nella realtà propria di Pasolini di fronte a tale domanda non aderisce più completamente alla cinepresa. C’è soltanto un grande infinito imperscrutabile. Da qui origina la poesia.

La risoluzione non è altro che lo stupore di scoprire le nuvole, poco importa se il cielo è il fondale bucato di un teatro o quello vero e imprendibile. Nel finale i solidali Jago e Otello sono veramente i padroni del creato, proprio nell’attimo in cui avvertono l’esistenza e tanto basta. L’elemento comico da smorfia si stempera nel sorriso, si stempera in un “a bocca aperta” che lascia passare la vita, le contraddizioni dell’identità e della realtà.

Eppure qualcosa di questa “pura realtà” pasoliniana resta proprio in questa incorruttibilità della vita che poi non è che l’innocenza, e che facilmente coincide con un non adattamento fiero e a volte inconsapevole, laddove ancora nulla si è lasciato sporcare e piegare dal peccato della modernità. I burattini forse non sono davvero puniti tra i rifiuti, (per una colpa nemmeno commessa), se sopra il bidone dove vengono stipati si trova scritta, sorprendentemente, una parola che sa assumere significati opposti: “MONDEZZA” che ha il senso di purezza e insieme, per una storpiatura, il suo senso opposto.

 

Di fronte alle nuvole che non si sa che sono, questi due personaggi, ormai senza fili, sembrano assumere quasi le forme di fanciulli che giocano il tempo o la vita. Sono diventati i derubati che sorridono e che sorridendo rubano qualcosa al ladro come canta la voce di Domenico Modugno in questo piccolo capolavoro. È un enigma dell’esistenza, non quello della gelosia che non viene sciolto, non accetta una verità così da rendere questo cielo meno indifferente agli occhi di Davoli e di Totò.

 

(9  gennaio - 6  febbraio 2023)

Nel gran ‘Teatro dell’Opera’ le Muse insieme, nelle volute della loro danza, raccontano mille storie senza tempo, sogni e passioni scaturiti dalla inesauribile sorgente del cuore umano.

La finzione scenica si fa allora poesia, musica, gioco di colori, rappresentazione … un ‘in-canto’ sinfonico che vola in alto, verso le atmosfere rarefatte dell’immaginario catartico della realtà.

‘Turandot’, parabola eterna dell’amore che sboccia nella diversità, che si nutre di desiderio e di speranza, che sfida lo sguardo gelido della morte e dei suoi enigmi, nello slancio verso l’ultima conquista.

‘Turandot’, la donna e il suo mistero, simbolo generativo e mortale, archetipo di quell’ ‘in-canto’  che solo l’arte può ancora svegliare …

 *    *    *

LA FIABA

A Pechino, al tempo delle favole, vive Turandot, bellissima principessa dal cuore di ghiaccio. Molti principi chiedono la sua mano, ma la principessa sottopone tutti ad una terribile prova: se non risolveranno tre enigmi difficilissimi, il boia taglierà loro la testa. Il principe Calaf, figlio del re dei Tartari, sulla spianata della Città Violetta incontra casualmente suo padre Timur, arrivato lì dopo un lungo esilio; con lui c’è anche la fedele schiava Liù. Il principe, per non correre rischi, raccomanda loro di tenere segreta la sua identità.

Calaf rimane affascinato da Turandot (apparsa al sorgere della luna, per ordinare la decapitazione dell’ultimo sfortunato pretendente, il giovane principe di Persia) – e decide di tentare a sua volta la prova degli enigmi; i dignitari imperiali Ping, Pong e Pang lo sconsigliano dal compiere un’impresa così rischiosa; anche il padre e Liù lo supplicano di rinunciare, ma il principe non sente ragioni.

Il giorno seguente Calaf sfida la credele Turandot e riesce a risolvere tutti i suoi enigmi. Non vuole tuttavia averla contro la sua volontà, perciò le offre una alternativa: se lei riuscirà a indovinare il suo nome prima dell’alba, potrà condannarlo a morte.

Turandot quella notte ordina che nessuno dorma a Pechino: le sue guardie bussano di porta in porta in cerca del nome del principe straniero. Alla fine arrestano Timur e Liù, e li conducono di fronte a Turandot.  Liù svela  il suo amore segreto per il principe e poi, per paura di lasciarsi sfuggire il suo nome sotto tortura, si uccide con una spada. Il vecchio Timur e tutto il popolo piangono la sua morte.

Calaf, rimasto solo con Turandot, la affronta con fermezza, finché con un bacio non riesce finalmente  a sciogliere il suo cuore di ghiaccio. Ormai è l’alba del nuovo giorno: Calaf le rivela il suo nome, e con il nome pone la propria vita nelle sue mani. Davanti all’imperatore suo padre e alla folla esultante, Turandot dichiara di conoscere il nome dello straniero: il suo nome è ‘Amore’.

 

L'OPERA 

La Turandot è l’ultima opera composta da Puccini, rimasta incompiuta per la morte dell’autore.

Puccini, interessato agli esotismi teatrali e musicali in voga negli anni successivi al primo conflitto mondiale, rimase affascinato da Turandotte, una delle dieci ‘fiabe drammatiche’ di Carlo Gozzi il cui soggetto fu tratto da una raccolta di fiabe persiane tradotte nel ‘700 in francese, e contenuto anche in una edizione delle Mille e una notte tradotta all’inizio dello stesso secolo da Antoine Galland.  

Il poeta Renato Simoni - incaricato da Puccini a stendere il libretto insieme a Giuseppe Adami -propose al Maestro di introdurre nella trama quegli elementi di umanità assenti nell’originale di Gozzi. Simoni, inoltre, fornì a Puccini il testo dell’adattamento prodotto agli inizi dell’800 da Friedrich Schiller per una rappresentazione di Turandot di Gozzi per il Teatro di Weimar. Puccini accolse favorevolmente la proposta di Adami, purché rimanesse intatto il suo interesse principale, ovvero la rappresentazione di una donna terrorizzata dal rapporto con un uomo, il cui stato d’animo è influenzato dalla tragica esperienza di una sua lontana antenata vittima della crudeltà e della brutalità di uomo.


Turandot è una adolescente e queste paure le impediscono uno sereno rapporto con l’altro sesso e la rendono, nonostante la sua acclarata bellezza, scostante, gelida e inflessibile, condizioni che la inducono a proporre i suoi tre difficilissimi enigmi la cui mancata soluzione costringerà gli spasimanti a subire la morte. Il Principe Ignoto sovvertirà questo stato di fatto ma troverà una fanciulla ancora acerba ed ancorata alle sue idee che dovrà portare allo scongelamento’ per condurla all’amore. Egli risolve i tre enigmi, ma vista la tenacia di Turandot nel rifiutare qualsiasi rapporto con un uomo, le propone, a sua volta, una sola prova. Il principe era sconosciuto a Pechino e quindi le chiede di scoprire il suo nome: se la principessa riuscirà a saperlo lui morrà altrimenti lei dovrà essere sua.

Alla storia fu aggiunto il personaggio di Liù, che Simoni inserì disegnando una figura dai caratteri opposti, romantici ed eroici, particolarmente affine al modello di donna rappresentato da Puccini.

La gestazione dell’opera fu però travagliata e comune a tutte le imprese musicali che hanno caratterizzato la vita compositiva di Puccini. Egli giunse fino alla prima scena del terzo atto completando musica, parte vocale ed orchestrazione. In questa scena si assiste al suicidio di Liù che per evitare la minaccia della tortura si toglie la vita come ultimo atto d’amore verso il Principe Ignoto che ha scosso il suo cuore.

Dopo questa scena Puccini trovò difficoltà nel rappresentare il seguito della trama che nel finale, dopo un duetto d’amore, doveva portare al lieto fine. Molti furono i tentativi dei librettisti di produrre un testo letterario utile a questo scopo. Puccini iniziò comunque ad abbozzare la musica ma, purtroppo, intervenne la terribile malattia che lo portò alla repentina morte avvenuta il 29 novembre 1924.

 

L’INCOMPIUTA

Puccini ha lasciato una partitura che arriva fino al suicidio di Liù seguito da una commovente marcia funebre che fa da cornice al trasporto del corpo di Liù al quale segue un accordo che avrebbe dovuto dare inizio al duetto tra il principe ignoto (che solo nel finale comprendiamo che si tratta di Calaf) e Turandot con relativo coro festoso finale. Il testo letterario era pronto e Puccini iniziò ad abbozzare la musica per un ‘lieto fine’ che, comunque, non era nelle sue corde emotive.

Il musicista ebbe a disposizione quasi un anno per concludere il suo capolavoro. In questo periodo, però, produsse solo 36 pagine di abbozzo senza giungere al completamento compositivo. Ciò dimostra la difficoltà di realizzare una scena che, con molta evidenza, non faceva parte delle sue corde emotive.

Dopo la morte di Puccini, comunque, fu valutato necessario un completamento. Per il difficile compito fu scelto - anche con il parere di Arturo Toscanini allora direttore stabile del Teatro alla Scala presso il quale fu eseguita il 25 aprile del 1926 la prima assoluta - il musicista Franco Alfano il cui stile compositivo era giudicato affine a quello di Puccini e, quindi, adatto a tradurre quelle 36 pagine abbozzate da Puccini in musica finita. Toscanini, poco convinto di questo completamento, diresse solo la prima rappresentazione e la interruppe fin dove era arrivato Puccini. Poi non diresse più Turandot.

Il finale di Alfano appare pomposo e stilisticamente differente dalla musica composta da Puccini, possedendo solo la prerogativa di dare compimento all’azione teatrale, non riuscendo però ad eliminare quel senso di ‘incompiuto’ che pervade il finale di questo capolavoro.

Degli altri finali adottati nel tempo alla Turandot pucciniana, oggi uno dei più apprezzati è quello composto da Luciano Berio nel 2001 ed eseguito alla Scala nel 2015 sotto la direzione di Riccardo Chailly. Il Finale di Berio, in alcuni passi più raffinato, ma forse meno aderente allo stile dell’opera, si caratterizza per una scrittura sinfonica particolarmente accentuata che gli consente di costruire meglio i legami tra i vari appunti lasciati da Puccini.

Tali incertezze compositive sul finale dell’opera trovano forse una spiegazione nel fatto che il capolavoro di Puccini è un prodotto classico del ‘900 che risente particolarmente delle nuove e diverse poetiche musicali che ne hanno caratterizzato il decorso nel XX secolo. Chiare sono infatti, per la parte strumentale, le derivazioni dal Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg (1912) e da La Sagra della Primavera di Igor Stravinskij (1913), composizioni tra le più emblematiche di tutto il ‘900. Inoltre nello spiccato senso dell’esotismo già presente nelle precedenti opere di Puccini ma che in Turandot entra completamente nel tessuto connettivo dell’opera divenendone parte integrante. Al loro fianco una parte corale di grande rilievo, dove il coro assume un innegabile ruolo di co-protagonista il cui impianto fa pensare alle grandi pagine corali del Boris Godunov di Modest Musorgskij.

(da Claudio Listanti)

 

VI 

(13 - 27  febbraio 2023)

 

              Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.

        C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno

       A quanti uomini, presi nel gorgo d’una passione, oppure oppressi dalla tristezza, farebbe bene pensare che c’è sopra il soffitto il cielo, e che nel cielo ci sono le stelle. Così, anche se l’esserci delle stelle non ispira in noi un conforto religioso, contemplandole, s’inabissa la nostra inferma piccolezza, sparisce nella vacuità degli spazi, e non può non sembrarci misera e vana ogni ragione di tormento.
 
        ... E l’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno.
                                              
(da Luigi Pirandello)
 
 
Luigi Pirandello

Nato nel 1867 a Caos, una contrada presso Girgenti (oggi Agrigento) da una famiglia di proprietari di zolfare, ebbe un’infanzia serena ma caratterizzata da una difficoltà a relazionarsi con gli adulti, in particolare con il Padre.

 Studiò Filologia Romanza, prima a Palermo e poi a Roma. In Germania completò i suoi studi, laureandosi all’università di Bonn conuna tesi sul Dialetto di Girgenti.

 Ventiquattrenne sposò Antonietta Portulano, figlia di un ricco socio del padre, dalla quale ebbe tre figli, Stefano, Lietta e Fausto. Tornato a Roma, ebbe modo di frequentare giornalisti e scrittori, mentre insegnava Letteratura Italiana al Magistero. Il suo primo romanzo: “L’esclusa”.

 A causa di difficoltà economiche familiari - dovute all’allagamento di una zolfara in Sicilia - Antonietta cadde in una depressione che con il tempo divenne pazzia. Quando Antonietta venne ricoverata in una clinica psichiatrica, Pirandello prese a interessarsi delle teorie di Freud sulla Psicoanalisi.

 Il secondo romanzo, “Il fu Mattia Pascal”, ebbe un notevole successo. Seguirono le “Novelle” e il saggio “L’Umorismo”, in cui egli proponeva la sua poetica, rel rapporto tra comicità e umorismo in letteratura

 Dal 1910 si aprì per Pirandello un periodo fecondo sul piano creativo in ambito teatrale: notevoli i testi di  Pensaci Giacomino!”, ”Liolà”, “Il Berretto a sonagli”, “La giara”, “Il giuoco delle parti”, “Questa sera si recita a soggetto”, “Sei personaggi in cerca d’autore”.

 Aderì al Fascismo, o per ‘ingenuità politica’, o con la speranza di avere un appoggio del Governo per la diffusione del teatro italiano nel mondo. A questo scopo fondò, insieme all’attrice Marta Abba, la Compagnia del Teatro d’Arte. Dopo la pubblicazione del suo ultimo romanzo, “Uno, nessuno e centomila”, cominciò a collaborare alle sceneggiature e all’adattamento cinematografo di alcune sue opere.

 Nel 1934 ottenne il premio Nobel per la Letteratura. Morì due anni dopo e le sue ceneri furono deposte presso una pietra della terra in cui era nato, nella campagna del Caos.

 

Le maschere e il Volto

Tra le principali tematiche affrontate nelle opere di Luigi Pirandello troviamo l'irriducibile conflitto tra l'essere e l'apparire, esemplificato da un oggetto: la maschera.

Celebre frase di Pirandello, ripresa dal romanzo “Uno, nessuno e centomila:  “Imparerai  a  tue  spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”.

Il significato della citazione è noto: l’autore, fuor di metafora, critica una società che alla sostanza preferisce l’apparenza fatta di molti finti sorrisi, di un perbenismo ipocrita e vacuo. Rendendo manifesta l’antitesi tra maschera e volto. Nelle opere di Pirandello il tema della maschera ritorna spesso poiché si lega strettamente alla percezione dell’identità personale.

Nella concezione pirandelliana - derivata dal Decandentismo, movimento che alla fine dell’Ottocento segna la crisi del Positivismo e della spiegazione scientifica della realtà - Tutto è relativo, imprevedibile, scostante. La vita stessa appare come “un magma vulcanico” in continua ebollizione, un continuo fluire. La tragedia dell’uomo consiste proprio in questo: nel perenne fluire dell’esistenza anche l’Io si smarrisce, si disgrega, assume diverse sembianze.

La frantumazione dell’Io deriva dalle teorie psicologiche che si svilupparono a inizio Novecento, in particolare dalle teorie di Sigmund Freud sulla Psicoanalisi. Non esistono valori e verità  assolute, ma tutto è relativo e si esemplifica nel dualismo tra vita e forma.

L’identità individuale è un magma informe e sfuggente che la società cerca di governare a tutti i costi imponendogli una forma prestabilita, ovvero la maschera. Vivere nel mondo significa dunque assumere diverse maschere come se si recitasse come attori su un grande palcoscenico. È ciò che Luigi Pirandello definisce poeticamente la “recita del mondo”.

“C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno”. Con queste parole lo scrittore esemplifica la crisi dell’individuo, che sarà l’elemento cardine della letteratura novecentesca. È in realtà l’inizio di una crisi che permane ancora oggi, sotto altre forme e aspetti, nella moderna società liquida teorizzata da Bauman in cui l’unica costante è il cambiamento, la metamorfosi continua. La maschera sociale immobilizza l’identità ma, così facendo, soffoca la vita.

Smarrito l’uomo si domanda: “chi sono io?” La sua identità tuttavia è in perenne divenire, non può essere intrappolata stabilmente in una forma precisa né dal punto di vista fisico né da quello mentale. Alla dualità dell’uomo, esemplificata dalla metafora della maschera, Luigi Pirandello ha dedicato gran parte delle sue opere, ma soprattutto due grandi romanzi: Il fu Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e centomila (1926) considerati i testi cardine del suo pensiero.

Con “Il fu Mattia Pascal” Pirandello dà voce a uno dei temi centrali del suo pensiero sviluppando la riflessione sul doppio che alberga nelle vite di tutti noi, mostrando l’assurdità della condizione umana divisa tra la percezione della coscienza e il valore fittizio della forma.

“Uno, nessuno e centomila”, fu definito da Luigi Pirandello il suo romanzo testamentario. Si tratta infatti dell’ultima sua opera che segna il punto d’arrivo della sua riflessione sulla frantumazione dell’Io. “La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo”.

Nei suoi romanzi e in tutta la sua opera Luigi Pirandello ha dato voce a uno smarrimento dell’identità che nella società contemporanea si è acuito oltre misura, prendendo le forme del conformismo e della ricerca costante di approvazione ora tradotta nell’unità di misura dei like di Facebook e dei cuori su Instagram.

La vera sfida, questo lo scrittore non lo dice ma lo lascia intendere, è la ricerca della propria autenticità: essere veri, pur nella propria differenza. I protagonisti delle opere pirandelliane non sempre ci riescono, ma almeno ingaggiano la loro lotta contro il mondo che li vuole omologati, tentando a modo loro di intraprendere una strada nuova sia pure attraverso la follia.

La metafora pirandelliana della maschera contiene in nuce un ammonimento, che può essere letto anche come un comandamento di vita: provare a diventare sè stessi.

(da Alice Figini, 2022)

 

La patente

La novella 'La patente', pubblicata nel 1915, come molte altre opere di Pirandello rappresenta il dramma dell'uomo costretto in un’immagine nella quale gli altri lo hanno calato. Tema costante e fondamentale per l'autore è infatti quello dell'impossibilità dell'individuo di avere un'identità; l'uomo non è uno, ma è tanti quante sono le sue relazioni con gli altri, costretto in una ’forma' o 'maschera' che gli altri gli attribuiscono.

La storia del povero Rosario Chiàrchiaro, padre di famiglia allontanato dalla società per la maschera che gli era stata creta per la sua fama di jettatore, perde il lavoro e vive di stenti. Il personaggio, che chiama in tribunale i suoi diffamatori non per ottenerne la condanna, ma per vedersi ufficialmente riconosciuta la qualifica di jettatore, appare decisamente grottesca e bizzarra; in realtà in questa novella Pirandello esprime il suo pessimismo e rivela grande comprensione per il triste destino degli uomini. 

 
Totò nell'episodio 'La patente' del film "Questa è la vita" di  G. Pastina (1954)

Chiàrchiaro è imprigionato nella ‘maschera’ dello jettatore dalla stupidità e dalla cattiveria dei suoi concittadini, e cerca di liberarsene in un modo inconsueto e grottesco: non cerca, infatti, di uscire dalla  maschera ma vuole, invece, renderla vantaggiosa per sé. Vuole, insomma, che diventi la sua identità, tanto da diventare uno jettatore patentato dal regio tribunale e non più solo uno jettatore per diceria. Così decide di rivolgersi alla giustizia, rappresentata dalla persona del giudice D’Andrea, uomo semplice e buono, profondamente lacerato dal conflitto fra il senso del dovere e la consapevolezza che talvolta la legge può sovrastare su ogni valore morale. Egli decide dunque di convocare il querelante per convincerlo a ritirare la querela che, secondo la sua opinione, avrebbe finito per penalizzarlo ulteriormente.

"La patente è un racconto rappresentativo di quello che può causare la superstizione in un piccolo contesto sociale. In questo caso abbiamo un uomo onesto che, per il casuale concatenarsi di circostanze, finisce per essere indicato dai più come jettatore gettandolo nella più nera disperazione senza che nessuno si senta responsabile del grave danno arrecatogli.

Come nella maggior parte della produzione di Pirandello, anche qui al lettore rimane in bocca un sapore amaro. Nel mondo che ci racconta lo scrittore siciliano gli individui sembrano staccarsi dalla realtà per riflettere sulla propria condizione ma finendo per accettare il proprio marchio. Come il protagonista, tutti abbiamo una maschera in cui siamo stati intrappolati, maschera che a volte ci è stata data dalla crudeltà o dalla incapacità delle persone che ci circondano di capirci veramente.

I rapporti tra le persone spesso sono condizionati da false immagini e convinzioni che ognuno si costruisce dell'altro; l'immagine dell’essere umano può essere così deformata dalle situazioni e dall’ambiente che lo circonda da non lasciar vedere di lui che una maschera che questi finisce per accettare così da essere riconosciuto dai suoi simili e poter comunicare con loro. Chiàrchiaro da vittima diventa persecutore; il suo gesto non è quello di un folle ma quello di un saggio perché vuole sfruttare la situazione a suo vantaggio. Ignoranza e superstizione hanno trasformato Chiarchiaro in un emarginato che decide di trarre dalla sua disgrazia il massimo profitto.  

Come Rosario (il protagonista), ognuno di noi ha una 'maschera', una 'forma' in cui resta imbrigliato e che spesso deriva dalla crudeltà o dalla incapacità di comprendere i nostri sentimenti da parte delle persone che ci circondano.

La sua storia, divertente e caricaturale, ma comunque triste e commovente cela, sotto un superficiale umorismo, una vena di profonda amarezza e di autentica pietà e diventa emblematica della beffa della vita e delle menzogne in cui l'uomo si dibatte, in una società ignorante e superstiziosa.

 

La giara

La giara è una novella di Luigi Pirandello, da cui l’autore stesso, nel 1916 ne elaborò un adattamento teatrale. Successivamente sono state realizzate anche due trasposizioni cinematografiche dell’opera: una prima, del 1954, diretta da Giorgio Pàstina e inserita all’interno del film a episodi Questa è la vita; una seconda realizzata dai fratelli Taviani trent’anni dopo, anch’essa inserita in un film a episodi, Kaos.

La novella, una delle più celebri e fortunate dell'autore, sviluppa molti dei punti cardinali della poetica di Pirandello: l'attenzione per situazioni paradossali e al limite del grottesco, la focalizzazione su personaggi caratterizzati da una fissazione maniacale (come quella di don Lollò Zirafa), il ricorso ad una soluzione "umoristica" per sciogliere le intricate vicende narrate.

Il protagonista della novella è don Lollò Zirafa, un ricco e avaro proprietario terriero sempre pronto ad attaccare briga e a denunciare chiunque sia sospettato di attentare al suo patrimonio. Non contento delle quattro giare già possedute, prevedendo l’abbondanza del prossimo raccolto d’olive, don Lollò decide di acquistare una quinta, enorme e splendida giara per conservare l’olio ricavato.

Durante la raccolta delle olive, però, i contadini trovano la giara misteriosamente rotta a metà. L’iniziale disperazione di Zirafa si trasforma nella necessità di aggiustare al più presto il prezioso contenitore e il mattino successivo arriva al podere Zi’ Dima Licasi, "conciabrocche" e inventore di un mastice miracoloso. L’uomo propone a Zirafa di sistemare la giara solo con il proprio mastice, ma il ricco proprietario terriero insiste perché usi anche dei punti metallici, assicurandosi così la sua perfetta tenuta. Controvoglia, Zi’ Dima si mette all’opera: prepara i fori, stende il mastice ed entra nella giara per unirne i lembi e serrarli con i punti. Terminato il lavoro, però, si rende conto di essere rimasto intrappolato all’interno della giara, ormai sistemata, e dal collo troppo stretto per poter scivolare fuori. L’unica soluzione perché possa uscirne è rompere di nuovo, e questa volta per sempre, la giara.

 
 Franco Franchi e Ciccio Ingrassia nell'episodio 'La giara' del film "Kaos" diei F.lli Taviani (1984)
 

Don Lollò, tra le risa generali, decide di recarsi dal suo legale di fiducia. Se Zi’ Dima resta chiuso nella giara, don Lollò potrebbe essere accusato di sequestro di persona, ma l’artigiano non può certo uscirne senza rimborsarlo del valore del recipiente ormai condannato a morte (del suo valore da rotta o da nuova? E quanto vale la giara ora che è riparata?, si preoccupa don Lollò).
Una volta rientrato al podere, Zirafa spiega la situazione a Zi’ Dima, che divertito si rifiuta di uscire dalla giara. Essendosi ormai fatta sera, sconvolto, Zirafa va a dormire, mentre i contadini trascorrono la serata intorno a Zi’ Dima mangiando, bevendo, cantando e ridendo.
Al colmo dell’esasperazione, don Lollò si precipita infuriato dagli uomini e spinge giù per la collina la giara, che si spacca contro un ulivo.

Per la sua ambientazione siciliana e il suo tema portante (il culto della "roba"), La giara richiama le novelle del Verga. Don Lollò Zirafa è un uomo ossessionato dalla "roba", dalla sua ricchezza e dalle proprietà accumulate.  L’ossessione di Zirafa è un’ossessione umoristica e astorica, che rispecchia una condizione esistenziale indifferente al passare del tempo.

L’umorismo pirandelliano (il "sentimento del contrario") permea l’intera novella. Umoristiche sono le manie dei protagonisti (come Zirafa è attento alla propria roba, così Zi’ Dima è testardamente desideroso di mostrare la propria abilità di artigiano), umoristica e ai limiti del grottesco la situazione narrata, umoristico il finale risolutivo proposto.

La giara, fu già portato sullo schermo nel 1954 da Giorgio Pàstina, come il terzo episodio del film “Questa è la vita”.  Ma solo trent’anni dopo, I geniali cineasti Paolo ed Vittorio Taviani, ispirandosi ai profondi significati dell’universo pirandelliano, con il film “Kaos” (1984) sono riusciti a toccare vette evocative e poetiche di rado raggiunte sul grande schermo.

Nell’episodio “La giara”, sono protagonisti Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, due straordinarie maschere del nostro cinema, all’ultima loro fatica per il grande schermo. Due ruoli che incarnano la dicotomia tra opposti targata Pirandello e l’anima di un’isola incantata, “figliola prodiga” della Grecia, eterna come la tradizione artistica di Franchi e Ingrassia.

Al centro della storia e della masseria di don Lollò (Ciccio), la giara, pronta per essere riempita con l’olio di un’annata eccezionale. Ma, al risveglio del grande giorno, il latifondista si trova dinnanzi al simbolo del suo potere spaccato in due. La risposta al danno apparentemente fatale arriva da Sara, la “sua” donna (una licenza cinematografica dei Taviani), figlia del popolo, anello di congiunzione tra la sfera materiale e il mondo magico. “Vorresti farmi credere ai miracoli?”  -  “C’è chi li fa ancora”. Si tratta del conciabrocche zi’ Dima, nel quale Franco dispiega il suo immenso lato drammatico.

La volontà dell’artigiano viene violentata dal potere economico ed è costretto, oltre all’utilizzo del “mastice miracoloso”, alla riparazione attraverso la cucitura dei punti sull’urna: così tradisce il suo modus operandi e vi resta imprigionato. Per liberarsi, vuole rompere la giara saldata, ma si trova con l’opposizione feroce di don Lollò. Nasce tra di loro un battibecco potenzialmente infinito, che il latifondista cerca - di nuovo, invano - di risolvere attraverso una legalità estranea. Né soldi né avvocati: la sua prepotenza ha interrotto il movimento magico dell’artista e la punizione arriva al calare del sole.

Sotto la luce di Selene si sovverte l’ordine diurno e i salariati danzano attorno alla fatale giara : zi’ Dima ha preso il posto dell’olio e diventa un maestro di cerimonie pagano, un Sabba interrotto ancora una volta da don Lollò, che distrugge la giara con un calcio. Il conciabrocche è libero: la sapienza antica rinasce e si prende la rivincita, seppur momentanea, sull’ordine artificiale. Il cortile quadrato della masseria imprigionava il cerchio dei danzatori proletari, i quali imprigionavano il piedistallo quadrato (con quattro scivoli, formando una croce), trono della giara.

Una giara che, però, è un altro cerchio. È l’eccezionale rappresentazione simbolica della natura arbitraria del potere, ripercorsa con precisione dai Taviani nella loro filmografia, lo specchio dell’antagonismo tra mondo antico e società moderna.

Quello tra da don Lollò e zi’ Dima è un conflitto eterno e insanabile perché si trova alla radice della vicenda umana. È possibile attenuarlo?

 

 Uno nessuno e centomila

Il romanzo Uno, nessuno e centomila, scritto da Luigi Pirandello a partire dal 1910 e pubblicato nel 1926, racconta la crisi d’identità del protagonista, Vitangelo Moscarda, causata dalla scoperta di essere visto dal prossimo diversamente da come si vede lui stesso, e che questa visione cambia da persona a persona. Vitangelo arriva alla conclusione di essere:

  • uno (cioè l’immagine che lui ha di sé stesso),
  • centomila (come le forme che gli vengono attribuite dagli altri)
  • e, in conclusione, nessuno (perché l’idea che lui ha di sé non coincide con nessuno di quelle che gli altri hanno di lui, e non si sa quale sia la più giusta). 

 


 Il romanzo è tipico della prima metà del Novecento, poiché il protagonista è al centro di un discorso che unisce poche sequenze narrative, ma soprattutto molte riflessive e dialogiche. Presenta tematiche tipiche di quell’epoca, come lo smarrimento d’identità, la follia e il malessere psichico. Inoltre Pirandello non è nuovo al tema della scomposizione delle identità (infatti aveva già affrontato questo tipo di argomento nel Fu Mattia Pascal).

Il suo significato è universale e atemporale. Il narratore, lo stesso Moscarda, racconta la sua esperienza attraverso una focalizzazione fissa e una distanza narrativa mimetica. Spesso si rivolge direttamente al lettore, come se stesse conversando con lui, perciò il linguaggio utilizzato è scorrevole e il lessico è quotidiano, anche se di tanto in tanto vi sono presenti alcuni vocaboli oggi in disuso. 

 

 VII

(13 - 20 marzo 2023) 

 



 


 
 1

IL CERVELLO E I SUOI SEGRETI

 

Il cervello umano è ancora un perenne campo di ricerca. Sono molti, infatti, i quesiti ai quali la scienza non è ancora riuscita a dare risposta. Sono soltanto state avanzate alcune spiegazioni, tutte affascinanti.

Il nostro cervello rappresenta solo il 2% del nostro corpo. Eppure, consuma il 20% dell’ossigeno totale e dell’energia presente nel nostro organismo. Se potessimo collegare un elettrodo al cervello, la sua energia consentirebbe di accendere solo una lampadina da 60 watt. Nonostante ciò, questo orango ha trasformato l’intero pianeta.

I nostri neuroni sono visibili solo al microscopio. Sono più di 100.000 milioni, ma sono incapaci di riprodursi. Con quest’organo colossale, la razza umana è potuto divenire quello che è oggi. 

 


 

 I segreti della memoria

Uno dei grandi enigmi del cervello umano è il modo in cui si attivano i diversi tipi di memoria. Vi è la memoria a breve termine e a lungo termine. Vi è la memoria esplicita, che si incarica dei dati esatti. E la memoria implicita, che riguarda le azioni, come i saper nuotare o l'andare in bicicletta.

Gli studiosi sospettano che vi sia un elemento comune in tutti i tipi di memoria, ma non lo hanno ancora trovato a livello molecolare. Non sanno nemmeno come e perché i ricordi si modificano o cancellano.

Le emozioni

Non si è ancora giunti a un consenso unanime sulla definizione delle emozioni da un punto di vista neurologico. Si sa che sono stati cerebrali e che tali stati permettono di assegnare un valore ai fatti. Si sa anche che a partire da ciò si genera un piano di azione.

Le emozioni hanno un referente fisico. Alterano la tensione muscolare, i battiti cardiaci, la temperatura corporea.. Si verificano anche cambiamenti cerebrali a livello di neurotrasmettitori. A ogni modo, si ignora il funzionamento dettagliato di questo insieme di processi.

L’intelligenza

Oggi non esiste una definizione condivisa dell’intelligenza. Per precisare il concetto di intelligenza, si ricorre a idee associate alla sua valutazione. Non esiste, invece, uno schema cerebrale che possa essere utilizzato come definizione di tale capacità. Si sa che ai fenomeni intellettivi prendono parte contemporaneamente diverse aree cerebrali e diversi meccanismi di pensiero.

Il sonno e i sogni

Da sempre il dormire e il sognare sono stati associati al riposo. Tuttavia, negli ultimi decenni si è scoperto che il cervello rimane molto attivo durante il sonno. In alcune fasi del sonno, infatti, il cervello lavora più di quando la persona è sveglia.

Sul sonno e sul sogno vi sono alcune ipotesi largamente accettate, ma ancora non sappiamo perché dormiamo e sogniamo. Sebbene abbia una funzione rigenerativa, essa non è l’unica finalità del sonno. Sembra infatti che dormendo si risolvono meglio i problemi e si fissano i dati appresi, dunque che si tratti di una preparazione all’azione.

La coscienza 

La coscienza è insieme un concetto filosofico, psicologico e antropologico, ma è anche un argomento neurologico. Al momento attuale si sa che il contatto con le cose materiali genera modifiche cerebrali.

Tuttavia, uno dei grandi misteri del cervello umano riguarda il modo in cui si producono i diversi livelli di coscienza. La cosiddetta “coscienza superiore” ovvero la capacità di riconoscere la realtà universale in termini obiettivi sembra essere il risultato di una retroazione massiva dei circuiti cerebrali.

La proiezione del futuro

Uno dei poteri più sorprendenti del nostro cervello è la capacità di immaginare il futuro e prevedere cosa accadrà. Non si sa come il cervello riesca a produrre tale simulazione. Si suppone che essa dipenda dalla creazione di modelli e dal loro contrasto con la memoria.


 
 2


La percezione extrasensoriale o ESP (acronimo dell'espressione inglese extra-sensory perception) è una asserita capacità paranormale che permetterebbe la ricezione di informazioni non attraverso i normali cinque sensi ma attraverso la mente. Il termine fu proposto per indicare presunte capacità paranormali quali la telepatia, la chiaroveggenza, precognizione (e retrocognizione).

I sostenitori dell'esistenza di questi fenomeni portano a sostegno delle loro tesi alcune ricerche sulle quali però vengono sollevati dubbi significativi riguardo alla loro validità metodologica, tanto che la comunità scientifica contesta ancora questi esperimenti, considerandoli carenti di un metodo di ricerca rigoroso oltre che di solida base teorica.

Le percezioni extrasensoriali vengono chiamate in modi diversi a seconda della loro natura:

        Chiaroveggenza: capacità di percepire oggetti o eventi a distanza, o in altre dimensioni oltre quella fisica.  

         Telepatia: capacità di comunicare con il pensiero.

         Precognizione: capacità di prevedere eventi futuri.

Le percezioni extrasensoriali avverrebbero sia nella veglia che in altri stati di coscienza, ad esempio in trance oppure nel sonno e nel sogno. 

Il campo di studio delle percezioni extrasensoriali (e di altre manifestazioni paranormali come la psicocinesi) è proprio della parapsicologia.

 *   *   *

Forme di percezione extrasensoriale sono state descritte fin dall'antichità. Secondo Filostrato, il filosofo Apollonio di Tiana, mentre si trovava ad Efeso, descrisse l'assassinio dell'imperatore Domiziano, che si stava consumando a Roma nello stesso momento, come se stesse avvenendo sotto i suoi occhi.

San Filippo Neri, canonizzato dalla Chiesa cattolica, era famoso per la chiaroveggenza ed il potere telepatico. Si dice che sapesse percepire le persone che si avvicinavano, presagire gli eventi futuri, leggere i pensieri di quanti gli stavano di fronte e condividere con loro i propri pensieri in silenzio. Con regolarità ha inoltre predetto correttamente l'esito delle elezioni papali. Riferendosi a lui, Goethe parlava delle «doti naturali più straordinarie che sembrano oscillare tra l'estremamente intellettuale e l'estremamente fisico».

Si racconta che lo studioso svedese Swedenborg abbia percepito in una visione a Göteborg nel 1756 un incendio che si stava svolgendo contemporaneamente a Stoccolma. Il filosofo tedesco Immanuel Kant chiese ad un amico locale in Svezia di verificare questo fatto, ricevendone un riscontro positivo, che riferì in una lettera datata 10 agosto 1763, ma Kant accolse con rifiuto e senso del ridicolo le rivelazioni di Swedenborg dal regno degli spiriti.

Rudolf Steiner, il fondatore dell'antroposofia, sosteneva di essere chiaroveggente, di essere in grado di vedere nel futuro e di leggere la cronaca dell'akasha, una sorta di memoria eterea del mondo in cui sarebbe immagazzinata tutta la conoscenza del passato. Questa capacità, insita a suo dire in ogni essere umano, può essere raggiunta attraverso la pratica sistematica sotto la guida di un maestro spirituale. Nell'agosto 1923 Steiner tenne in particolare alcune lezioni a Torquay, che trattavano di teoria e pratica della chiaroveggenza.

Il frate italiano Padre Pio, successivamente canonizzato, fu esaminato più volte per casi di ESP a lui attribuiti. Si dice che riferisse ai fedeli durante la confessione i peccati che costoro omettevano di confidargli. Parimenti, oltre alla stigmatizzazione, gli viene attribuita la bilocazione, ossia la presenza simultanea in due luoghi diversi.

  *   *   *


Nella letteratura specializzata i Fenomeni ESP sono indicati come paranormali, poiché non obbediscono alla “norma”, ossia alle note leggi dello spazio, tempo e casualità.

La telepatia è quel fenomeno per cui si ipotizza che un uomo acquisisca una conoscenza interagendo con la mente di un altro uomo per vie che non sono quelle mediate dai sensi conosciuti. In particolare, in base all’etimo greco, la telepatia (da téle- lontano e pathos- sofferenza, sentimento) indica ciò che si prova, che si sperimenta, che si sente da lontano, quindi anche un’impressione, un sentimento, un turbamento a distanza.

La chiaroveggenza è la capacità di vedere con l’intelletto oggetti ed eventi che l’occhio non percepisce. 

La precognizione è, forse, il fenomeno più affascinante fra tutti quelli studiati in parapsicologia. Si può definire come quel fenomeno per cui un individuo acquisisce una conoscenza di un avvenimento prima che questo si verifichi e che è logicamente e statisticamente imprevedibile.In particolare, la retrocognizione sarebbe la percezione extrasensoriale di eventi accaduti nel passato.

Fondamentalmente telepatia, chiaroveggenza e precognizione potrebbero considerarsi manifestazioni della stessa capacità di interazione fra l’uomo e l’ambiente.

Alla base della fenomenologia paranormale vi sarebbe un’energia extrafisica responsabile in genere della percezione extrasensoriale, la quale potrebbe essere convertita in energia fisiologica del sistema nervoso centrale al fine di portare alla coscienza le capacità paranormali inconsce. Il processo di percezione extrasensoriale, considerato come attività psicologica, è infatti interamente inconscio, per lo più irregolare, altamente instabile e apparentemente spontaneo e involontario. 
 
 
 
 3
 (2 marzo 2023)
 

SOGNARE ... FORSE
 
Il filosofo e mistico cinese Zhuāngzǐ nato nel 369 a.C. e fondatore del dadaismo, nel testo daoista da lui scritto e chiamato col proprio nome, racconta una storia molto interessante chiamata “Zhuangzi sognò di essere una farfalla”.

Zhuangzi racconta che una notte sognò di essere una farfalla che volava leggera e spensierata. Nel momento in cui si svegliò era confuso: si domandò come potesse sapere con certezza se lui stesso fosse veramente un uomo che aveva appena finito di sognare di essere una farfalla, o una farfalla che aveva appena iniziato a sognare di essere un uomo.

Nella vita quali sono i contorni che delimitano con chiarezza ciò che è reale da ciò che è sogno? Zhuangzi, mentre sognava, si vedeva farfalla, ma allo stesso tempo era anche essere umano; contemporaneamente una farfalla che sogna Zhuangzi si vede essere umano ma allo stesso tempo è anche una farfalla

 


 Il racconto di Zhuangzi induce a pensare che la dimensione dell’esperienza sia disposta su due piani: il primo piano è quello del sogno e il secondo è quello della veglia.

L’enigma del sogno, che ha affascinato da sempre gli esseri umani sollecitandone infinite spiegazioni, è diventato oggetto di studi e indagini scientifiche lungo tutto il XX secolo, a partire dalla pubblicazione de ‘L’interpretazione dei sogni’ di Sigmund Freud (1900). Oggi la ricerca sperimentale sugli ‘stati di coscienza’ (nei tre livelli della veglia, del sonno e del sogno) è condotta prevalentemente nell’ambito delle neuroscienze e della psicobiologia.


Il sogno: l’enigma degli enigmi

La nostra esistenza è come un cammino lungo la cima di un muro. Procediamo sospesi tra due profondità: quella che abbiamo imparato a decifrare mediante le categorie dello spazio e del tempo - nella quale ci adattiamo a convivere insieme a tutti i nostri simili - che chiamiamo ‘realtà’; l’altra - oscura impenetrabile misteriosa - che ci avvolge nell’ombra di una solitudine assoluta, spingendoci alla deriva su un oceano senza approdi e senza confini, che chiamiamo ‘sonno’. Tra queste due profondità, uno squarcio abbagliante come un lampo nella notte, l’esperienza spaesante e inafferrabile del ‘sogno’

Il sogno balenante tra il giorno e la notte è l’enigma degli enigmi, in cui da sempre l’uomo ha tentato di leggere un senso e a cui attribuire un significato. La voce degli dei? I presentimenti della mente e del cuore? La rappresentazione delle mille sensazioni corporee? Fantasticherie del pensiero in libera uscita?

I livelli di coscienza

-          La vita: siamo cellule di un mirabile organismo in continuo rinnovamento che si autoconserva in un universo di cui non conosciamo gli orizzonti. Il destino di ciascun vivente: mantenere accesa fino alla fine la lampada della propria vita parcellare, per conservare la vita alla propria specie.

         L’esistenza: un soffio di vita (anima?), un tratto di strada da percorrere, un compito temporaneo assegnato ad ogni essere vivente. Usciti dal tunnel del nulla, sul binario dell’esistenza è il nostro breve/lungo viaggio di esplorazione, di scoperta, di ritorno.

        La coscienza: nell’animale-uomo, la consapevolezza riflessa di vivere e di esistere. E con tale consapevolezza, la curiosità di sapere di più, la fuga dal presente verso i ricordi passati o l’immaginazione del desiderio, le gioie le inquietudini e i tormenti del continuo lottare per esistere.

I meccanismì regolatori della vita, dell’esistenza individuale e, nell’uomo, di ogni forma e grado di consapevolezza (coscienza di sé e conoscenza del mondo esterno), sono localizzati nella scatola cranica, in un organo di controllo perennemente operativo: l’encefalo.

Nell’encefalo - come in una cabina di regìa automatica - si coordinano i ritmi e le caratteristiche dei livelli di coscienza, riconducibili a 3 stati: lo stato di veglia, lo stato di sonno e - durante il sonno - l’esperienza onirica (del sognare).

Il nostro vivere quotidiano si articola dunque sui tre livelli di coscienza che si producono durante la veglia, durante il sonno e nel particolare tempo del sogno.

Utilizzando una metafora pirandelliana, potremmo descrivere la nostra esistenza come una grande rappresentazione teatrale:

-       lo stato di veglia è la vita reale, la performance in cui recitiamo la nostra parte, intessiamo reti di rapporti, interagiamo, costruiamo e spezziamo legami, giochiamo ad essere e ad apparire come vogliamo, e come desideriamo che gli altri ci percepiscano;

-       il sonno è la pausa di riposo che segue la nostra rappresentazione sulla scena dell’esistenza reale: le luci si spengono e un tranquillo silenzio avvolge tutta la location teatrale: dormono le maestranze, gli autori e gli attori, in attesa della successiva messa in scena;

-       nella quiete notturna, c’è chi pensa a come sono andate le performances precedenti: la mente si sofferma sugli errori commessi e sul modo di correggerli, mentre la fantasia si figura quello che succederà domani , vedendoselo davanti agli occhi come se fosse vero… il sogno è un modo per prepararsi a un nuovo incontro con la realtà.

 

I sogni e l'Inconscio in Psicoanalisi

Il sogno appare nel moderno panorama scientifico all’alba del XX secolo (1900), con la pubblicazione dell’opera “Traumdeutung” (L’ “Interpretazione dei sogni”) del medico viennese Sigmund Freud. 

 


Freud dedicò lunghi anni allo studio dei sogni, raccogliendo le sue osservazioni e le sue ipotesi  interpretative in ‘Traumdeutung’, ove è anche proposta una suggestiva teoria riguardante la struttura dell’apparato psichico umano,
descritta con la nota metafora dell’iceberg.

Secondo Freud l’attività mentale è in gran parte sommersa, invisibile e inconsapevole, la parte emerge e che è consapevole è molto limitata. Ciò significa che le nostre scelte, i nostri comportamenti sono generalmente determinati dalla parte sommersa.

L’apparato psichico sarebbe quindi formato da due elementi o ‘istanze’ principali:

-   l’inconscio (o mente conscia), contenente tutti gli eventi che sono stati dimenticati, rimossi, o intollerabili, ma anche capacità non ancora emerse alla coscienza

-  il conscio (o mente inconscia), luogo dei contenuti psichici consapevoli, a contatto con la realtà esterna attraverso i sensi.

 

In un periodo successivo, Freud ridisegnò nel modo seguente la topografia dell’apparato psichico:

-  l’Es (inconscio), il potenziale energetico attivatore di tutte le pulsioni (sessuali, aggressive, autoconservative) innate ed apprese;

-  il Super-Io, vero e proprio sistema di controllo, rappresentazione imperativa e normativa della coscienza morale, frutto della prima formazione genitoriale, dell’educazione e della cultura;

-   l’Io, il sistema operativo mediatore tra le richieste della realtà e le imposizioni del Super-Io; sede del pensiero vigile e consapevole. 

 


L’Es - sostiene Freud - è il pozzo profondo dal quale la mente attinge i contenuti del sogno: contenuti spesso lontani nel tempo, dimenticati, o rimossi a causa delle censure del Super-Io; l’esperienza onirica li ripropone all’attenzione dell’Io in forma mascherata (sotto… mentite spoglie!) affinché l’Io, riflettendosi in essi, riconosca la propria realtà vera, e ritrovi la strada per riconciliarsi con se stesso.

Nel sogno sono distinguibili due contenuti: a) il contenuto manifesto è la parte di sogno che si ricorda, costituita da elementi conseguenziali, ripercorribili ed esprimibili in forma narrativa: tuttavia - poiché il linguaggio del sogno non ha carattere logico ma analogico - ogni elemento ha valenze simboliche che devono essere correttamente interpretate per poter arrivare al significato profondo del sogno; b) il contenuto latente rappresenta l’insieme dei significati velati dagli elementi manifesti del sogno: il contenuto latente custodisce il messaggio che, in forma onirica, l’inconscio trasmette alla possibile consapevolezza dell’Io.

  

Carl Gustav Jung - allievo di Freud - rielaborando il concetto di ‘inconscio’ del Maestro, propose una duplice articolazione dell’Es:

- l’inconscio personale, contenente - come suggeriva Freud - tutti gli elementi dimenticati, rimossi, intollerabili o ancora nascosti alla coscienza,

-  l’inconscio collettivo, condiviso con gli altri membri della specie umana, e comprendente memorie latenti del nostro passato ancestrale ed evolutivo (gli ‘archétipi’).

Di notte, nel sogno, le barriere difensive create dal Super-Io si indeboliscono e l’Io - secondo Jung - possono entrare in contatto con l’inconscio collettivo, serbatoio di tutti i miti, i simboli, le credenze del mondo (gli archetipi), comuni a tutti i popoli e a tutte le civiltà.

L’inconscio non sarebbe così solo la sede dell’esperienza onirica, ma il laboratorio della fantasia, della rappresentazione, della creatività artistica, dei linguaggi, della cultura e dello stesso pensiero razionale.

 

Il cervello tra sonno e sogno

Il cervello - luogo delle funzioni psichiche – è una centralina elettrica in continua attività.  L’attività elettrica del cervelloere evidenziata grazie alle tecniche dell’elettroencefalografia messe a punto alla fine degli anni 20 dal medico tedesco Hans Berger.

L’elettroencefalografia ha rivelato diverse tipologie di onde elettromagnetiche (ritmi elettrici) in relazione all’attività cerebrale:

 

-       ritmo delta (0,5-04 cicli/sec.):  tipico del sonno profondo

-       ritmo theta (04-07 cicli/sec.):  tipico del sonno leggero, del relax  e del pensiero creativo

-       ritmo alfa (07-14 cicli/sec.): tipico del sogno e dei sogni lucidi

-       ritmo beta (14-30 cicli/sec.): tipico della veglia attenta

 


 

Nel 1953 Nathaniel Kleitman ed Eugene Aserinsky, pionieri della ricerca sperimentale sul sonno, scoprirono che durante il riposo notturno l’attività elettrica del cervello del dormiente, caratterizzata dal ritmo delta, subisce delle improvvise brevi impennate (della durata di dieci minuti circa, a distanza di poco più di 90 minuti ciascuna) con comparsa del ritmo alfa e di rapidi movimenti oculari (rapid eyes movement), chiaramente coincidenti con l’esperienza del sogno. Da allora, i livelli di coscienza noti come veglia e sonno, sono stati riformulati nelle tre dimensioni di veglia, sonno REM, sonno Non-REM.

 

 


 

L’esperienza vissuta nello stato di veglia sulla traccia spazio-temporale, le oscure profondità del sonno, la mirabile rappresentazione onirica del sogno tanto fantasiosa quanto verosimile, rappresentano i tre pilastri fondamentali dell’esperienza. Tutta la nostra esistenza  si mantiene su queste colonne portanti.

 

 

Il sogno e la realtà

Se la nostra coscienza si muove sui tre piani dell’esistenza: 1) la ‘realtà’ dell’esperienza vigile, 2) la condizione letargica del ‘sonno’, e 3) l’esperienza allucinatoria del ‘sogno’ così tanto simile alla vita reale, è inevitabile una domanda: qual è il confine tra realtà e sogno? Quella che consideriamo ‘realtà’, è forse un prezioso ricamo trapunto su una grande tela onirica? E il ‘sogno’ potrebbe essere la cifra rivelatrice della realtà interiore di ciascuno di noi?

Cos’è allora il sogno? Cos’è la realtà? Seguendo la traccia indicata da Freud, il sogno (nudo, libero dalle maschere, dai travestimenti e dalle costruzioni linguistiche che adoperiamo nella quotidiana vita di relazione) ci regala, nell’intimità del sonno, brevi spazi di autentico confronto con noi stessi: momenti di assoluta verità che ci permettono di guardarci allo specchio e di conoscerci senza le ombre degli autoinganni e delle illusioni presso cui cerchiamo rifugio per ripararci dalla luce del giorno. Nella notte l’Io si spinge fino alle frontiere dell’Es, là dove il finito sconfina nell’infinito.

Leggere i sogni non è facile, ma neppure impossibile.I sogni - plasmati dall’Io con il materiale grezzo della ‘verità’- più reali del reale, ci parlano con sensazioni primitive in forma di immagini. Il linguaggio logico-verbale della nostra vita di relazione, sfuma nel linguaggio analogico a-spaziale e a-temporale, che liberamente si leva in voli che non sanno di previsti approdi, alla ricerca solo del al quale rivelarsi.

Il sogno è davvero reale?  La realtà è solo un sogno?  

 


Pascoli era convinto che il sogno fosse “l’infinita ombra del vero” e che la vita stessa fosse la realizzazione di un sogno.

Ancora Shakespeare fa dire al vecchio Prospero: “Siamo anche noi della stessa sostanza dei sogni, e la nostra breve vita si racchiude nello spazio e nel tempo d’un sogno

Ghandi, la ‘Grande Anima, insegnava che “il senso della vita non andrà perduto, finché nel cuore ci sarà posto per un sogno”, perché, a dire del Paracelsius, “il sogno dirada le ombre della saggezza che abita nell’uomo, le ombre velate alla coscienza durante la veglia

Sull’orma della filosofia buddhista che invita a seguire i sogni, perché “essi conoscono la via”, il cantautore americano Jim Morrison affermava che “ognuno di noi ha due ali, ma solo chi sogna impara a volare”, e chi crede nei sogni potrà raggiungere le stelle.

Il mondo, infatti, “è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni” (Pauolo Coelho).

Ma noi umani non siamo creature solitarie. La nostra esistenza si declina nella dialettica della condivisione universale. Fin dall’inizio della vita - frutto di un primo dialogo creativo - gli ‘altri’ sono i compagni del nostro lungo-breve viaggio per le vie del mondo. Ad ogni risveglio, il ‘sogno’ della notte disabitata (che non è altro che il ‘più vero essere noi stessi’) dovrà risolversi in un nuovo ‘dono di vita’ all’umanità che opera per la realizzazione della propria storia. Ci ricorda un proverbio indiano, “Se si sogna da soli, il sogno resta un sogno. Se si sogna insieme è la realtà che comincia”.

Nessuno rubi allora i nostri sogni, né quelli vaganti tra le allegorie notturne, né quelli accarezzati nelle trasparenze luminose del giorno. Che i nostri sogni siano tenaci più della pietra, così che nessuna pietra possa distruggerli.


 

 VIII

(3 aprile 2023) 

 Il cantico dei cantici



Il Cantico dei cantici (in ebraico: ‘shìr hashirìm’, in greco ‘ásma asmáton’), è un testo biblico, tradizionalmente attribuito al re Salomone, celebre per la sua saggezza, e composto intorno al IV secolo a.C. È formato da otto capitoli contenenti dialoghi d'amore tra un uomo (Dodì) e una donna (la Sulammita).

Il Cantico, contenuto in uno dei cinque rotoli letti in occasione delle principali feste ebraiche, è uno dei testi più lirici e inusuali delle sacre scritture. Racconta in versi l'amore tra due innamorati, con tenerezza ma anche con un tono ricco di sfumature erotiche. Per l’autore (o gli autori), anche l'amore sensuale dei due amanti ha origine divina, come «una fiamma del Signore».

Molte sono state le interpretazioni del testo, L'interpretazione letterale lo vede come la descrizione del rapporto nuziale uomo-donna, in una rapsodìa di diversi inni cantati durante i riti matrimoniali. Un’altra lettura ne sottolinea la dimensione onirica, rappresentata da una sequenza di sogni d'amore. La tradizione ebraica (e oggi anche l’esegesi cattolica) lo considerano un’immagine allegorica del rapporto tra Javhé e Israele, tra Dio e l’uomo: l'amore di Javhé per Israele - e quello tra la chiesa di Cristo per il suo Dio - sono paragonati all'amore tra due amanti.

«Il mondo intero non vale il giorno in cui è stato scritto il Cantico dei Cantici. Tutte le Scritture sono sante: ma il Cantico dei Cantici è il santo dei santi» scriveva il teologo ebreo Rabbì Aqiba, attorno al 100 d.C. 

 

 *   *   * 

 

 Dal  ‘CANTICO dei CANTICI’


SHULAMMÌT
Mi sazia di baci la tua bocca:
i giochi d’amore con te sono più dolci del vino.
Com’è bello sentire sulle mie labbra il tuo respiro:
sei tu il profumo penetrante
che tutte le ragazze desiderano.

Trascinami con te nella tua corsa,
portami nella tua casa,
dove godremo e proveremo piacere insieme.
i giochi d’amore con te sono più dolci del vino.
Per te tutte le ragazze fremono di desiderio.

Io sono bruna,
ma ho delle belle forme, vedete?
Non ditemi che sono scura:
è il sole che mi ha abbronzata!

Lei - Ti sogno vicino a me, nel tuo letto profumato,
         sul guanciale dei miei seni.

Lui - Come sei bella amica mia,
         come sei bella, occhi di colomba!
  Una rosa tra i rovi  tu sei, anima mia.

Lei -  Ho gran voglia di rannicchiarmi nella tua ombra,
         voglio sentire il tuo dolce frutto nella mia bocca.
         Portami, ti prego, nella tua stanza segreta,
         pianta su di me il tuo stendardo, amore.
         E voi, figlie di Ierusalem, presto,
         portatemi dolci d’uva passa,
         confortatemi con torte di mele,
         perché sono malata d’amore!

Lui - Vi prego, figlie di Ierusalèm,
         per gli spiriti dei campi, vi scongiuro,
         non risvegliate il mio amore,
         non svegliatela, non svegliatela …
         Lasciatela sognare …

SHULAMMÌT
Una voce!  E’ lui, l’amor mio!
Eccolo: viene volando per le montagne,
saltando per le colline.
A un cerbiatto somiglia il mio Dodì.

L’AMATO
Ecco, l’inverno è passato,
cessata è la pioggia, è andata via.
Alzati, amica, mia bella, vieni.
I fiori sono riapparsi sui campi,
il tempo del canto è tornato
e la voce della tortora vaga per le campagne.

Come sei bella, dolce amica, come sei bella!
I tuoi occhi sono colombe, tra le tue trecce brune!
Una melagrana aperta
è la tua guancia sotto il velo.
Le tue mammelle sono come due gemelli di gazzella
che pascolano tra i gigli.
Prima che torni a spirare la brezza del giorno
e scendano di nuovo le ombre della sera,
io verrò sulle tue colline profumate.

SHULAMMÌT
Sì … Io dormo, ma il mio cuore veglia.

Un rumore!
E’ Dodì che bussa alla mia porta.

L’AMATO
–  Aprimi sorella,
dolce amica, mia colomba!
La mia testa è tutta umida di rugiada notturna,
i miei capelli sono bagnati –

SHULAMMÌT
Ma io mi sono nuda …
devo rivestirmi?

Oh! …
Dodì ha messo la sua mano nello spiraglio della mia porta
e un fremito ha sconvolto il mio grembo …

Le mie mani ora sono piene di mirra,
mirra che fluisce tra le dita
che tengono il chiavistello della mia porta.

Apro a Dodì, l’amor mio …

Il mio amore è sceso nel suo paradiso,
pascola il suo gregge nella mia oasi e coglie fiori.
Io sono tutta del mio Dodì
e il mio Dodì è tutto mio.

L’AMATO
Sei tutta bella, dolce amica,
piena di luce …
Oh, ti prego, distogli da me i tuoi occhi assassini,
il tuo sguardo mi turba!

Voglio scendere nel tuo giardino
per vedere l’erba verdeggiante della valle,
per vedere la vigna che mette i suoi germogli,
per vedere fiorire i melograni.

Un desiderio misterioso mi trascina.
Il tuo corpo somiglia a una palma,
e a dolci grappoli i tuoi seni.
Sulla palma io voglio salire
per cogliere i suoi datteri succosi.
Ah, i tuoi seni sono grappoli d’uva
e di meli è l’odore del tuo respiro …

SHULAMMÌT
… E la tua bocca è dolce come il vino
che scorre sulle labbra degli amanti,
e dov’esso è colato nascono parole.
Io appartengo al mio amore:
sento  il suo desiderio su di me.
Vieni, Dodì, corriamo per i campi:
passeremo la notte in una capanna, in mezzo agli orti,
là ti darò il mio latte …

SHULAMMÌT e L’AMATO
    … E tu,
Ponimi come sigillo sul tuo cuore,
come un sigillo sul tuo braccio,
perché l’amore è forte come la morte …

SHULAMMÌT
… e la passione brucia con fiamme roventi,
come i fulmini del Signore.

L’AMATO
Così le grandi acque
non potranno mai spegnere l'amore
né i fiumi travolgerlo.

 


IX

(17 - 24 aprile 2023) 

  

 

Allegro non troppo è un film prodotto e diretto da Bruno Bozzetto nel 1976. Bruno Bozzetto animatore, disegnatore e regista italiano, è autore di sette film e di numerosi cortometraggi in cartoni animati.

Nato a Milano nel 1938, sin da piccolo manifestò una spiccata passione per il disegno. Appena quindicenne, insieme ai compagni di scuola realizzò il suo primo cortometraggio , un ‘Donald Duck’ ispirato al personaggio di Walt Disney, ma in  versione grottesca

Il suo primo film è però Tapum! La storia delle armi, del 1958. Nel 1960 crea il Signor Rossi, il personaggio animato che gli darà un successo internazionale. Nel 1965 realizza il lungometraggio West and Soda, seguito nel 1976 da Allegro non troppo.  Segue, nel 1986, il primo lungometraggio dal vero Sotto il ristorante cinese.

Bozzetto ha operato anche nel campo della divulgazione scientifica, realizzando con Piero Angela circa 100 filmati inseriti nella rubrica televisiva Quark (1981-1988).

Ma dopo cinema e televisione Bruno Bozzetto ha continuato ad esplorare le potenzialità derivate dall'animazione. Con Europe and Italy, infatti, ha inaugurato una nuova era dell'animazione d'autore, quella legata ad Internet. Europe and Italy è il primo cartoon realizzato con Flash, il software oggi di punta per creare animazioni sul web.

Bruno Bozzetto ha detto della propria arte: "L'idea è fondamentale, tutto nasce da un’idea. La frase più bella l’ho sentita da un bambino quando parlava di un disegno: 'Che cos'è un disegno? È un'idea con intorno una linea'. Bellissimo, questa è tutta la mia vita".


Allegro non troppo


Allegro non troppo è un film a tecnica mista, in parte dal vero e in parte d'animazione, prodotto e diretto da Bruno Bozzetto.

Dichiaratamente ispirato a Fantasia di Walt Disney, si compone di sei episodi animati (più un finale composto da diversi cortometraggi di pochi secondi), ciascuno accompagnato da un celebre brano di musica classica, inseriti in un film-cornice girato dal vero, in bianco e nero.

In un teatro vuoto, un pomposo presentatore introduce un insolito spettacolo: mentre un direttore d'orchestra fa eseguire una serie di brani a un'improbabile orchestra formata da vecchiette in abiti Belle Époque, un disegnatore, tenuto incatenato per anni, ne realizza in tempo reale la versione animata. Ma i rapporti tra il direttore e il disegnatore vanno via via deteriorandosi, finché il disegnatore tramuta se stesso e la ragazza delle pulizie in personaggi animati, - il Principe azzurro e Biancaneve -  e se ne vola via con lei.Il presentatore, rimasto solo, è costretto a trovare un finale adatto per il film. Telefona a un mostruoso essere chiamato Franceschini perché lo cerchi in archivio … 

 

Gli inserti musicali e gli episodi animati

Preludio al pomeriggio di un fauno di Claude Debussy: in un mondo idilliaco ricco di dettagli e allusioni sessuali, un vecchio fauno cerca compagnia femminile ma, per quanto tenti di migliorare il proprio aspetto, è rifiutato dalle giovani ninfe ed è costretto a rimanere solo senza sapere che le colline su cui cammina sono il seno di una donna.


 

Danza slava Op. 46 n° 7 di Antonín Dvořák: in una comunità di primitivi, un uomo decide di lasciare le caverne per costruirsi una capanna. Tutti gli altri però lo imitano e quando lui costruisce una casa moderna, lo imitano di nuovo. Per liberarsi della scomoda compagnia, verificato che gli altri continuano a imitare il suo comportamento anche quando compie gesti bizzarri, comincia a marciare a passo militare, prontamente seguito da tutti gli altri, e si butta oltre un dirupo, aggrappandosi a un ramo appena sotto il ciglio, convinto che gli altri lo seguiranno e cadranno nel vuoto. Ma nessuno precipita dietro di lui e quando risale per vedere cos'è successo, trova tutti gli altri disposti in fila a mostrargli il fondoschiena.

 

Bolero di Maurice Ravel: dal liquido di una Coca-Cola abbandonata da un'astronave comincia l'evoluzione della vita, a partire da un brodo primordiale, attraverso creature delle forme più diverse tra cui una scimmia che si approfitta delle altre creature, fino ad arrivare all'uomo, che domina tutte le altre, ma che dentro di sé non è altro che quella scimmia.


Valse triste di Jean Sibelius: un gatto si aggira per una casa in rovina, pensando malinconicamente ad un passato che non c'è più. I suoi ricordi (scene di vita familiare tra le pareti della grande casa) sembrano prendere vita e diventare realtà, accendendo le sue speranze, ma ogni volta nel giro di pochi istanti scompaiono, facendo ripiombare il povero animale in una devastata desolazione. In realtà anche il gatto non è altro che un ricordo del passato, destinato a svanire un attimo prima che la casa venga definitivamente abbattuta.

 

Concerto in do maggiore RV 559 di Antonio Vivaldi: il tranquillo picnic di una metodica ape è disturbato da una coppia di innamorati che ha scelto quel prato per amoreggiare. Prima è costretta a spostarsi a causa dell'ombra creata dai loro corpi, poi è travolta dai due che si rotolano nell'erba, ma si prende la giusta rivincita pungendo l'uomo.

 

L'uccello di fuoco di Igor' Stravinskij: come racconta la Genesi, Dio crea Adamo ed Eva e il serpente offre loro il frutto della conoscenza ma, inaspettatamente, entrambi lo rifiutano. Allora il serpente mangia il frutto e viene sprofondato in un mondo infernale, in balia dei demoni, che lo espongono agli aspetti peggiori della società consumistica contemporanea. Tornato infine nell'Eden da Adamo ed Eva, si libera di tutti i simboli della civilizzazione e striscia via.

 

 

X

(8 maggio 2023) 


Lolita, il libro più famoso di Vladimir Nabokov, fu pubblicato nel 1955 da un piccolo editore parigino dopo essere stato rifiutato da una serie di editori americani. Vietato dal governo francese e osannato da scrittori, professori e critici, il libro è ormai diventato un classico, anche grazie alle indubbie doti letterarie di Nabokov. E il termine “lolita” è diventato parte del linguaggio comune per indicare un’ “adolescente precoce, che, anche per i suoi atteggiamenti maliziosi, già suscita desideri sessuali, specialmente in uomini maturi”.

Il romanzo è infatti innanzi tutto la storia della preversa relazione tra un uomo di mezza età e una ragazzina appena dodicenne. La trama, prende il via da una prefazione fittizia in cui si spiega che il manoscritto riporta la confessione di Humbert Humbert che morì in prigionia nel 1952, poco prima dell’inizio del suo processo.

Humbert è un professore di letteratura che si trasferisce nella piccola cittadina di Ramsdale in New England, con l’obiettivo di condurvi una vita tranquilla. Qui prende in affitto una camera presso la giovane vedova Charlotte Haze. La donna ha una figlia, Dolores, di dodici anni, “una miscela di tenera infantilità sognante e inquietante volgarità”, nelle parole di Humbert. Questi infatti è solito provare un’eccitazione insana per le bambine di quell’età, che gli deriva da quando, poco più che dodicenne, ha amato una ragazzina fatale di nome Annabel Leigh: “E in verità”, confessa “non ci sarebbe stata forse nessuna Lolita se un’estate, in un principato sul mare, io non avessi amato una certa iniziale fanciulla”. Da allora la sua mente è rimasta pericolosamente invischiata nella passione sconsiderata per le ragazzine molto giovani.

Per restare vicino alla ragazza, Humbert ne corteggia la madre e infine la sposa. La donna scopre le intenzioni del professore leggendo il suo diario, ma di lì a poco rimane poi fortuitamente vittima di un incidente mortale e Humbert si ritrova così libero di realizzare i propri sogni con Lolita. L’uomo la costringe a diventare la sua amante. Ma Lolita non è la fragile vittima di un uomo depravato, anzi è capace di seduzione ed è proprio il contrasto tra la giovane età e questi tratti corrotti del suo carattere che infiammano il desiderio di Humbert.

Per assecondare la passione della ragazza per il teatro, Humbert concede a Dolores di iscriversi a un corso di recitazione tenuto da Quilty, drammaturgo amico della madre. La ragazza intreccia quindi una relazione clandestina con Quilty fino a che, non riesce a fuggire con lui. Humbert, solo tre anni dopo riceve una lettera, in cui Dolores gli rivela di essere sì fuggita con Quilty, ma di essere poi scappata anche da lui e di essere ora incinta di un terzo uomo che ha in seguito sposato. Humbert, avendo finalmente la certezza che è Quilty il responsabile della fuga della sua amata, lo uccide e per questo sarà processato e condannato.

Molto si è discusso se Lolita sia pornografia o semplicemente una storia d’amore. Nonostante lo scandalo suscitato dal romanzo al momento della pubblicazione, non esistono termini osceni nel libro.  Innegabilmente Humbert ama Lolita, anche se si tratta di un amore anormale ed eccessivo. Anche quando rivede la ragazza dopo anni, non più dodicenne, male in arnese e in aggiunta incinta, il suo trasporto per lei non diminuisce: “La guardai. La guardai. Ed ebbi la consapevolezza, chiara come quella di dover morire, di amarla più di qualsiasi cosa avessi mai visto o potuto immaginare. Di lei restava soltanto l’eco di foglie morte della ninfetta che avevo conosciuto. Ma io l’amavo, questa Lolita pallida e contaminata, gravida del figlio di un altro. Poteva anche sbiadire e avvizzire, non mi importava. Anche così sarei impazzito di tenerezza alla sola vista del suo caro viso.”

E inoltre - come disse Stanley Kubrick, che dal libro di Nabokov ha tratto il film omonimo - la storia «usa come criteri lo shock totale e lo straniamento, che gli amanti, in tutte le grandi storie d’amore del passato, hanno prodotto sulle persone intorno a loro. Se si considerano “Romeo e Giulietta”, “Anna Karenina”, “Madame Bovary”, “Il rosso e il nero”, tutti presentano un aspetto in comune: l’elemento dell’illecito, o almeno ciò che era considerato illecito al loro tempo, in ogni caso un fattore che ha causato la loro completa alienazione dalla società».

 (da Silvia Maina – Letture)

 


I  LETTURA

 Incipit

 Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia.

Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti:  Lo. Li. Ta.

Era Lo, semplicemente Lo al mattino, dritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sui documenti.

Ma tra le mie braccia era sempre Lolita.

Una ragazza simile l’aveva preceduta? Ah sì, certo che sì!

Ma non ci sarebbe stata forse nessuna Lolita se un'estate, sul mare, io non avessi amato una certa iniziale fanciulla.

Oh quando? Tanti anni prima della nascita di Lolita, quanti erano quelli che avevo io quell’estate.

  

II  LETTURA

Annabel, il primo amore

Ci innamorammo, pazzamente, spudoratamente, tormentosamente; e senza speranza. Non potevamo accoppiarci, come due monelli di strada avrebbero senz'altro saputo fare.

A pochi passi dai grandi, stavamo sdraiati tutta la mattina sulla rena soffice, in un pietrificato parossismo di desiderio, e approfittavamo di ogni benedetto lapsus di spazio e di tempo per toccarci: la sua mano, seminascosta dalla sabbia, avanzava furtiva verso di me; le sottili dita abbronzate, come sonnambule, si facevano sempre più vicine; e poi il suo ginocchio opalescente iniziava un lungo, cauto tragitto; qualche volta un castello di sabbia, costruito dai bambini più piccoli, ci forniva riparo sufficiente per sfiorarci le labbra cosparse di salsedine. Quei contatti incompleti portavano i nostri giovani corpi, sani e inesperti, a un tale stato di sovreccitazione che neppure l'acqua fredda e azzurra, nella quale continuavamo a spingerci, poteva darci sollievo.

Una sera lei era riuscita ad eludere l’accanita vigilanza dei suoi. Ci appollaiammo su un muretto alle spalle della loro villa, in un trepidante boschetto di mimose dalle foglie sottili. Ricordo un profumo di talco, una fragranza dolciastra di muschio che si mescolava al suo odore di biscotto, e i miei sensi furono d’un tratto colmi fino all’orlo … Un improvviso trambusto nel cespuglio vicino impedi loro di traboccare...

L’ultimo giorno di quell’estate fatale, col più futile dei pretesti, fuggimmo dal caffè alla spiaggia, e lì, in un tratto solitario, all’ombra di certe rocce rosse che formavano una sorta di grotta, ci abbandonammo ad un rapido scambio di avide carezze. Io ero in ginocchio, e sul punto di possedere il mio tesoro … quando due bagnanti barbuti emersero dai flutti lanciando verso di noi una salva di scurrili incoraggiamenti.

Quattro mesi dopo, Annabel morì di tifo a Corfù.

Quel boschetto di mimose - la caligine delle stelle, il fremito, la vampa, l’ambrosia e il dolore -, è rimasto con me, e quella bambina dalle membra di mare e la lingua ardente non ha mai cessato di perseguitarmi; sinché finalmente, ventiquattro anni più tardi, non ho spezzato il suo incantesimo incarnandola in un’altra.

 

III  LETTURA

 Primo incontro con Lolita

Senza il minimo preavviso, un’onda marina si gonfiò sotto il mio cuore, e su una stuoia immersa in una polla di sole, seminuda, sdraiata, e poi in ginocchio, e poi voltata sulle ginocchia, ecco la mia innamorata della Costa azzurra che mi squadrava al di sopra dei suoi occhiali scuri.

Era la stessa bambina, le stesse spalle fragili e sfumate di miele, la stessa schiena nuda e flessuosa, gli stessi capelli castani. Un foulard nero a pois, annodato sul petto, nascondeva ai miei occhi di attempato scimmione, ma non allo sguardo della memoria, i seni immaturi che avevo accarezzato in un giorno immortale.

E come la nutrice nella fiaba della principessina... riconobbi il minuscolo neo bruno sul suo fianco. Sgomento ed esultante rividi il suo adorabile addome rientrante dove la mia bocca, diretta a sud, aveva brevemente indugiato …  E quei fianchi puerili sui quali avevo baciato l’impronta dell’elastico dei calzoncini - quell’ultimo, folle giorno immortale dietro le Roches roses.

I venticinque anni che avevo vissuto da allora si affusolarono in una punta palpitante e svanirono.

Mi è molto difficile esprimere, con forza che ebbe, quel lampo, quel brivido, quel sussulto di improvvisa passione. Nell’attimo iniettato di sole in cui il mio sguardo scivolò sulla bambina inginocchiata mentre le passavo accanto travestito da adulto (io, un grande, possente, splendido esemplare di virilità hollywoodiana), il vuoto aspirante della mia anima riuscì a risucchiare tutti i dettagli della sua radiosa bellezza, così corrispondenti a quelli della mia promessa sposa defunta.

  

IV  LETTURA

 La prima notte

Le diedi un sonnifero. La mia politica restava quella di preservare risolutamente la sua purezza, agendo soltanto nel cuore della notte, soltanto su un piccolo nudo completamente anestetizzato. Se avessi raggiunto la meta, la mia estasi sarebbe stata tutta tenerezza. Io pensavo che ci sarebbero voluti mesi, forse anni, per trovare il coraggio di rivelarmi a Dolores, ma alle sei lei era completamente sveglia e alle sei ed un quarto eravamo, tecnicamente, amanti. Sto per dirvi una cosa molto strana: fu lei a sedurre me.

Quando udii il suo primo sbadiglio mattutino ostentai un bel profilo dormiente. Sentii i suoi occhi su di me, e quando infine emise quell'ilare singulto che tanto amavo, seppi che gli occhi le ridevano. Mi roto accanto, e i suoi tiepidi capelli castani mi si posarono sulla clavicola. Feci la mediocre imitazione di un uomo che si sveglia, e poi restammo un po' in silenzio. Le carezzai piano i capelli e ci baciammo con dolcezza. Il suo bacio, con mio rapito imbarazzo, aveva una certa comica ricercatezza in fatto di guizzi e sondaggi, da cui arguii che dovesse esser stata istruita da una piccola lesbica. Come se volesse appurare se fossi sazio, Lo si ritrasse e mi scrutò. Aveva gli zigomi accesi e  il tumido labbro inferiore luccicante; la mia dissoluzione era vicina. Tutto d'un tratto, con un empito di gioia maliziosa (il marchio della ninfetta!) mi accostò la bocca all'orecchio e rise, poi si scostò i capelli dal viso, e provò di nuovo. A poco a poco, mentre capivo quello che proponeva, mi pervase la strana sensazione di vivere in un mondo nuovo di zecca , un mondo folle e onirico dove tutto era permesso. Risposi che non sapevo a che gioco avessero giocato lei e Charles. I suoi lineamenti si contrassero in una smorfia di incredulo disgusto.

 "Ma tu… Non hai mai.." ?    mi chiese. Presi a sbaciucchiarla un pochino. "Dai,    piantala" disse con un gemito nasale,  scostando in fretta la spalla bruna dalle mie labbra.

" Vuoi dire"  insistè, inginocchiata sopra di me "che da ragazzino non l'hai mai fatto?"

"Mai". Era la pura verità.               

"Okay" disse Lolita. "Allora si comincia così".

Ma non tedierò i miei lettori con un dettagliato resoconto della presunzione di Lolita. Basti dire che in quella bellissima, acerba ragazzina irrimediabilmente corrotta dalle moderne scuole miste, dai costumi giovanili, dal raggiro delle serate intorno al falò e via dicendo, io non riuscii a vedere la minima traccia di modestia. Ai suoi occhi l'atto puro e semplice era soltanto parte del furtivo mondo dei ragazzini, sconosciuto agli adulti. La mia vita fu  maneggiata dalla piccola Lo in modo energico e sbrigativo, come se fosse un aggeggio privo di sensibilità del tutto separato da me.

 

V  LETTURA

Epilogo

 

Lei era li, con la sua bellezza distrutta, le mani strette e le vene in rilievo, da donna matura, e le braccia bianche con la pelle d’oca, e  le ascelle non rasate. Era la mia Lolita, irrimediabilmente logora a diciassette anni, con quel bambino che già sognava dentro di lei… E la guardai, la guardai…         E               capii che l’amavo più di qualunque cosa avessi mai visto o immaginato sulla terra, più di qualunque cosa avessi sperato in un altro mondo. Di lei restava soltanto il fievole odore di viole, l’eco di foglia morta della ninfetta sulla quale mi ero rotolato un tempo con grida forti come un’eco sull’orlo di un precipizio fulvo ... ma grazie a Dio io non veneravo soltanto quell’eco. Il vizio egoista, quello lo cancellai e lo maledissi. Il mondo sappia quanto amavo la mia Lolita, quella Lolita, pallida e contaminata, gravida de1 figlio di un altro, ma sempre con gli occhi grigi, sempre con le sopracciglia fuligginose castano e mandorla, sempre Carmencita, sempre mia. Anche se quei suoi occhi si fossero sbiaditi, e i suoi capezzoli si fossero gonfiati e screpolati, e il suo adorabile, giovane delta vellutato e soave si fosse corrotto e lacerato…  anche così sarei impazzito di tenerezza alla sola vista del tuo caro viso esangue, al solo suono della tua giovane voce rauca, Lolita mia.

 

“Lolita” dissi… Vieni così come sei. E vivremo per sempre felici …”.

Mi coprii la faccia con la mano e piansi le lacrime più cocenti che avessi mai                                    versato.

Le sentii serpeggiare tra le dita, e scottarmi, e non riuscivo a smettere.  Poi lei mi toccò il polso.

Se mi tocchi muoio” dissi Sei sicura che non verrai con me? Non c’è       speranza che tu venga? Dimmi soltanto questo”

Norispose.” No, caro, no”.

Non mi aveva mai chiamato ‘caro’.

Ciao-ciaao! disse con voce cantilenante il mio dolce amore americano, morto e immortale; perchè lei è morta ed immortale, se voi, oggi, state leggendo queste    pagine.

XI

(15 maggio 2023) 


Vincent Van Gogh apre un capitolo nuovo nell’arte europea dopo la crisi dell’impressionismo. 

Figlio di un pastore protestante, nasce nel 1853 a Zundert, nei Paesi Bassi. Divenuto anche lui un predicatore, fino all’età di 27 anni condivide con i minatori di carbone del Borinage le loro sofferenze e le loro fatiche.

Accusato dalle autorità religiose di follia mistica abbandona tutto per dedicarsi alla pittura, grazie anche alla spinta del fratello Theo che lavorava in una galleria d’arte di Parigi. Negli ultimi dieci anni della sua vita, Van Gogh dipinge un numero enorme di quadri, oltre 850!

Van Gogh, rispetto agli impressionisti, tende a proiettare nella realtà sé stesso, e quindi a trasformarla, trasfigurandola secondo i suoi sentimenti. Usa la linea non come mezzo descrittivo, ma con funzione espressiva, trasformando il colore reale per renderlo suggestivo: il colore non è dunque quello vero ma quello che suggerisce l’emozione, un colore attraverso cui Van Gogh si esprime con più forza. L’importante quindi non è descrivere in modo oggettivo, ma il significato umano di ciò che si rappresenta, così come lo si sente.

Nel 1886 - anno in cui si trasferisce a Parigi - nella pittura di Van Gogh avviene una svolta: egli infatti supera i limiti dell’Impressionismo, orientandosi verso le nuove forme pittoriche più attente alla solidità delle immagini e alla libertà del segno e del colore.

Nel 1888 si trasferisce ad Arles, nel sud della Provenza, regione ricca di colori e luminosità. In questo luogo vorrebbe aprire un “Atelier del Sud”, dove tutti gli artisti avrebbero potuto rifugiarsi alla ricerca di pace e tranquillità: e invece qui la sua situazione mentale peggiora ed è costretto a ricoverarsi diverse volte in case di cura. Nonostante tutto in questo periodo dipinge circa 200 opere di notevole livello.

Nella ‘Camera da letto’ egli tende a rappresentare il senso di riposo assoluto; raffigurando tutto in modo traballante, descrive invece l’angoscia della camera. Il quadro esprime una forte tensione soprattutto per mezzo delle linee prospettiche del pavimento spezzate da oggetti disposti trasversalmente e in modo deciso come il letto, le sedie, il tavolino, dai quadri sopra il letto messi obliquamente e dai colori senza ombre e accostati l’uno all’altro.


Tornato a Parigi, dopo tre giorni si trasferisce nel paese di Auvers-sur-Oise, dove il 27 Luglio 1890 si toglie la vita con un colpo di rivoltella al cuore. In questi due ultimi mesi nascono capolavori che rappresentano la carica interiore con la quale Van Gogh trasfigura la realtà.

Nella ‘Chiesa di Auvers’ ad esempio, l'edificio si flette, la linea non è retta (tranne quella verticale). L’artista esprime nel quadro la propria ansia, il proprio stato d’animo, facendo vivere drammaticamente alla chiesetta la sua stessa vita. La costruzione barcolla angosciosamente, mentre il movimento è accentuato dalla divergenza delle due stradine e dalle molteplici pennellate che le striano continuamente. Il colore ha un ruolo primario denso di significato.

L’angoscia, la tristezza e la solitudine estrema sono ancora più evidenti nel ‘Campo di grano con volo di corvi’. In questa tela, composta con autentico furore creativo, a colpi di pennello, le direzioni seguono i piani prospettici, o si scontrano e si accavallano come ondate in tempesta. I colori sono senza mezze tinte, essenziali. Qua e là svolazzano i corvi, linee nere zig-zaganti, come presenze minacciose. Il movimento anche qui è espresso dal divergere dalle stradine, dalle pennellate intense che formano il campo di grano e il cielo vorticoso, creando quasi uno stato di pesante angoscia. La natura si deforma secondo lo stato d’animo dell’artista, quell’angoscia e quella tristezza che venti giorni dopo lo porteranno al suicidio.

 
 Per molto tempo Van Gogh è stato studiato in chiave psicanalitica, nel tentativo di capire quanto le sue turbe psichiche abbiano potuto influire sul suo modo di esprimersi. Le opere di Van Gogh appaiono infatti come l’espressione del disagio esistenziale dell’uomo moderno in un momento di crisi dei grandi valori tradizionali che lo avevano rassicurato nel corso dell’Ottocento.

 

Vincent van Gogh, Autoritratto (1887)


XII

(22 maggio 2023) 


Il 'Preludio' musicale

Il concetto di preludio è antico; appartiene alla musica - ma anche all’arte retorica - ed esprime la necessità di introdurre, di preannunciare ciò che seguirà immediatamente dopo.

Con il termine 'preludio' sono state denominate un gran numero di composizioni musicali, anche molto diverse tra loro dal punto di vista formale: da quelle brevi, di poche battute, a quelle che occupano molte pagine, come i preludi delle Suite inglesi di Bach. Si passa poi dalle fantasie dell’organista che improvvisa ‘preludiando’ sullo strumento, a composizioni sinfoniche di ampio respiro, concepite come pezzi unici. 

Chopin, Liszt, Verdi, Wagner e altri maestri lo consacreranno a composizione autonoma, nella quale si conserverà talvolta un legame sottile con il passato, con una lieve reminiscenza di estemporaneità.  

 

I due preludi della 'Traviata' di Verdi

Due preludi sono presenti nel melodramma verdiano: quello iniziale e quello del terzo atto. Entrambi appaiono fortemente legati. Verdi riuscì, con questi due brani (ma anche con tutta l'opera) ad avvicinarsi al mondo dell'intimità e della quotidianità dell'ambiente borghese con intensa passione e occhi disincantati.

Il preludio del I atto (molto famoso, se non altro per i numerosi spot pubblicitari che lo hanno usato come colonna sonora) è una sorta di rilettura a ritroso dell’opera: infatti ne ripercorre i momenti principali, ma partendo dalla fine per poi concludersi con l’inizio.

La composizione  contiene in sequenza tre temi facilmente distinguibili. Il primo tema, drammatico, trasmette le tensioni e le sofferenze della protagonista, Violetta; tema che verrà ripreso anche nel preludio del III atto, quando Violetta sarà ormai malata e morente. Il secondo tema musicale è quello che anticipa il grido di Violetta al II atto, ‘Amami, Alfredo!“, sintesi dell’amore e del sacrificio che guidano le sue azioni. Infine, nel terzo tema la melodia si fa via via più frivola, per introdurre la scena con cui si apre l’opera: una festa in cui Violetta e i suoi invitati passano il tempo nell’ebrezza dei piacere mondani.

Nel  I preludio (e nei suoi temi) sono quindi presenti i tre aspetti principali del personaggio di Violetta: la martire, la donna innamorata che si sacrifica per amore, la cortigiana spensierata.

 


 La Traviata - Preludio atto I - Dir. H. von Karajan

Il preludio del III atto penetra nell'epilogo del dramma, ormai - come Violetta - consumato, e par che lo dica coi suoni, con quei suoni così acuti e tristi ed esili, quasi senza corpo, eterei, malati di morte imminente.  

Verdi chiude così, con una tessitura filigranata di meno di quattro minuti, il cerchio di amore e morte entro cui si gioca il destino di tutte le donne e di tutti gli uomini che vivono nel sogno di una felicità senza fine. Prima che il sipario si alzi sul frantumarsi delle ultime speranze di Violetta, il preludio ci introduce alla narrazione scenica anticipandone la trama nel disegno di una mirabile atmosfera musicale: il canto dolorante e straziato di Violetta nel gemito acuto dei violini, incalzato dai tocchi di corda degli archi bassi che segnano i passi inesorabili del tempo fino al confine di ogni storia d'amore.

 

La Traviata - Preludio atto III - Dir. G. Solti

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