Carlo Goldoni (1707 – 1793)
La vita e le opere
Carlo Goldoni nacque a Venezia da Margherita Salvioni
e da Giulio, medico di professione; una famiglia benestante, in cui la passione
per il teatro risaliva al nonno paterno, che era solito organizzare recite
nella propria villa di campagna. E furono proprio alcuni "domestici"
spettacoli di marionette ad accendere nel fanciullo il primo entusiasmo per le
rappresentazioni sceniche.
Giulio
Goldoni, vedendo recitare il figlio dodicenne, ebbe a dire sorridendo che il
giovane Carlo non sarebbe mai diventato un grande attore. Ma il ragazzo non si
scoraggiò: se la carriera d’attore gli era preclusa, fortunatamente poteva
dischiudersi quella di organizzatore teatrale e di commediografo. Cominciò a
leggere i maestri del passato, la commedia latina, quella francese, la Mandragola
di Machiavelli. Intanto scriveva piccole scene, canovacci, libretti d’opera.
Studente di filosofia presso una scuola di domenicani
a Rimini, riuscì a familiarizzare con una compagnia di commedianti
professionisti, tanto che per seguirli fuggì dalla scuola su un barcone, per
poi raggiungere i genitori a Chioggia. Mentre frequentava la facoltà di
giurisprudenza a Pavia, un’impudente satira contro le ragazze pavesi gli costò,
nel 1725, l’espulsione dall’università. Nel 1731 Goldoni conseguì a Padova la
sospirata laurea in legge. Dal 1745 al 1748 fu avvocato a Pisa. Ma il suo
principale obiettivo rimaneva quello di comporre commedie.
La sua prima opera degna di nota è il Momolo
cortesan (1738), di cui era interamente scritta solo la parte del
personaggio principale. La donna di garbo, invece, è la prima partitura
completa in tutti i ruoli. Ciò costituì una vera e propria rivoluzione, dato
che allora gli autori al servizio delle compagnie teatrali erano semplici
"soggettisti": si limitavano cioè a delineare una vicenda e a
sceneggiarla sommariamente, lasciando gli attori liberi di improvvisare
dialoghi, monologhi, battute comiche e movimenti scenici.
Ma la prima grande svolta della carriera goldoniana fu
l’incontro con uno dei più famosi capocomici del tempo, Girolamo Medebach, che
gli offrì di lavorare a Venezia. Goldoni abbandonò così definitivamente la
carriera di avvocato. Fu Medebach a dargli ampia libertà di condurre la sua
battaglia per una riforma che mirava a restituire centralità al ruolo
dell’autore nell’opera comica. Nella stagione teatrale 1750-1751, lo scrittore promise
all’esigente pubblico veneziano ben sedici commedie nuove; promessa rischiosa ma
incredibilmente mantenuta.
Della
ricchissima produzione di quel periodo alcune delle commedie più rinomate e
riuscite furono: La bottega del caffè, La
famiglia dell’antiquario, La serva amorosa, e La locandiera ,
che da sola bastò a conferire all’autore il carisma dell’eccezionalità. Nell’aprile
del 1762 Goldoni lasciò Venezia allettato da una nuova avventura: andare a
dirigere il teatro della "Comédie italienne" di Parigi.
Scena da 'La Locandiera"
Qui
però le difficoltà si rivelarono maggiori del previsto a causa di una più dura
resistenza dei "comici dell’arte" a rinunciare ai loro privilegi per
inchinarsi alla volontà dell’autore, e della diffidenza del pubblico francese.
Parigi infatti aveva già una lunga tradizione di teatro comico riformato,
avviata da Molière; quando il pubblico si recava alla "Comédie
italienne", voleva assistere a un teatro diverso, più popolare e meno
nobile di quello messo in scena alla "Comédie française" .
Ottenuto
l’incarico, da parte del re di Francia Luigi XV, di maestro d’italiano delle
principesse reali Clotilde ed Elisabetta, sorelle del futuro Luigi XVI, per più
di vent’anni Goldoni divise la sua vita tra la reggia di Versailles e i
palcoscenici cittadini, dove fu assai attivo come organizzatore di spettacoli;
ma la sua vena di commediografo s’era ormai inaridita. Con un ultimo sussulto
del suo estro creativo si prese una grande rivincita componendo in francese il
suo ultimo capolavoro, Il burbero benefico (Le bourru bienfaisant),
che nel 1771 andò in scena alla "Comédie française" e alla corte
reale estiva di Fontainebleau, dove ottenne uno strepitoso successo.
Dal
1784 si diede alla stesura della propria autobiografia, i Mémoires (Memorie).
Visse negli ultimi anni con una dignitosa pensione di Corte;
scoppiata la Rivoluzione.
La ‘riforma’ goldoniana
Come
si è detto, nel ‘700, agli scrittori al servizio delle compagnie teatrali era
riservato un ruolo del tutto marginale: essi avevano il compito di inventare
soggetti, al resto avrebbero pensato gli attori. Ciò era decisamente riduttivo
rispetto alle aspettative di Goldoni e andava decisamente contro la sua idea di
teatro: egli riteneva che le opere teatrali avrebbero riacquistato dignità
letteraria se il loro testo sarebbe stato fissato nella sua forma compiuta in
libri stampati.
Sogno
ambizioso quello del Goldoni, perché andava contro le più solide convenzioni
della sua epoca. E probabilmente egli non sarebbe riuscito nel suo intento se
non avesse trovato la piena collaborazione di autorevoli capocomici e impresari
(come il Medebach) i quali lo sostennero in quest’avventura, comprendendone il
significato e la necessità.
Goldoni
riuscì nel difficile intento di costringere l’attore ad abbandonare
l’improvvisazione per adeguarsi a un copione scritto e imparato a memoria. Ma
questo è solo l’aspetto preliminare e più vistoso della riforma goldoniana. Del
resto una tradizione di teatro scritto e attento alle esigenze della messa in
scena esisteva già da secoli: il teatro greco e latino, le commedie di Ariosto,
di Machiavelli, di Ruzzante, e poi il teatro elisabettiano, quello spagnolo e
quello francese. Persino alcuni "comici dell’arte" avevano avvertito
l’esigenza di trasporre diverse commedie in una forma "premeditata".
Che rivoluzione poteva mai essere, allora, quella di sostituire ai canovacci
delle partiture scritte, se da secoli mille altri commediografi lo avevano già
fatto? Si sarebbe trattato di una semplice restaurazione.
Dalla commedia ‘di intreccio’ alla commedia ‘di carattere’
Il
vero nucleo della riforma goldoniana consiste invece in un ben più drastico
passaggio dalla commedia "di
intreccio" a quella "di
carattere". Nella commedia "di
intreccio", l’indole dei
personaggi e il loro comportamento erano predeterminati e stereotipati,
perfettamente chiari a tutti fin dall’inizio della rappresentazione; le
maschere erano sempre — nel modo di agire, di muoversi, di pensare — uguali a
se stesse. E sebbene anche il lieto fine fosse prevedibile, il pubblico era
attratto dallo sviluppo della vicenda, ricca di storie fantasiose, intricate
peripezie, equivoci, scambi di persona, sorprendenti colpi di scena: si sapeva
già a quale esito sarebbe approdata la storia, ma non in quale modo.
Nella
commedia "di carattere",
invece, il carattere, appunto, dei personaggi va definendosi progressivamente,
con l’avanzare dell’azione, davanti agli occhi dello spettatore; le trame sono
assai meno complesse, l’interesse è tutto rivolto allo scavo psicologico dei
singoli individui, la sorpresa viene dalla loro interiorità e non da
strabilianti eventi esterni. Evidentemente dovevano sparire le maschere: dietro
di esse è pressoché impossibile per l’attore dare spessore psicologico al
personaggio. Parimenti, era necessario che le strampalate avventure della commedia dell’arte, proiettate tutte in
un mondo inverosimile, cedessero il passo ai più comuni fatti della vita: il
pubblico avrebbe trovato sulla scena una sorta di specchio nel quale rivedere
se stesso, con le normali passioni, speranze, sentimenti, pregi e difetti
d’ogni essere umano. Si tratta, come è facile capire, di un primo passo verso
una forma di teatro "naturalistico", verso il moderno dramma
borghese.
La
riforma di Goldoni rappresenta la diretta conseguenza del razionalismo
illuminista, nonché di un diverso modo di concepire la storia, vista non più
come sequenza di guerre e di alte strategie diplomatiche, ma come l’insieme dei
costumi, dei fatti, delle azioni, dei pensieri della gente comune, che ne
diventa la vera protagonista. La grande diffusione dei giornali (in particolare
a Venezia "L’Osservatore" e
"La Gazzetta veneta")
conferma il crescente spostarsi dell’interesse generale sui fatti della cronaca
quotidiana: a essa viene dato sempre maggior peso e spazio; in essa l’emergente
classe borghese (esattamente come nel teatro goldoniano) rivede se stessa, si
interroga e riflette sul proprio essere e sul proprio ruolo sociale, acquisisce
sempre maggior coscienza della propria funzione. Lo stesso Goldoni, nella
prefazione alla prima stampa delle sue commedie, afferma che l’osservazione del mondo, della vita reale,
sta alla base del suo teatro.
A
fronte di queste novità, va pure sottolineata la continuità con molti
essenziali aspetti della tradizione sia scenica sia letteraria dell’epoca. Da
un lato, infatti, Goldoni supera ma non rinnega gli insegnamenti della commedia dell’arte: egli stesso, nella
prefazione al Servitore di due padroni, lascia liberi gli attori che
reciteranno la parte di Truffaldino di introdurvi le loro personali invenzioni
e raccomanda solo di rispettare la dignità dell’opera evitando qualsiasi gesto
scurrile.
Sostituiti
gradualmente intrecci avventurosi, maschere e scenari esotici con vicende
realistiche, personaggi comuni e ambientazioni familiari, andava pur sempre
conservata quella tecnica teatrale fatta di una giusta scansione del ritmo, di
un’appropriata successione di varie situazioni sceniche, d’una calibrata
miscela dei toni e dei personaggi. Inoltre, la stessa abilità degli attori
professionisti, se era indispensabile per le funamboliche improvvisazioni della
vecchia commedia, a ben vedere non era meno necessaria per rendere credibile un
personaggio realistico, per disegnarne il carattere con le più sottili
sfumature psicologiche. Perciò in Goldoni la vecchia arte rappresentativa non
muore, ma si trasfonde in un teatro diverso, più moderno, destinato a perdurare
sino ai giorni nostri.
di A. Dendi, E. Severina, A. Aretini
Carlo Signorelli Editore, Milano, 2002
Vittorio
Alfieri nacque il 16 gennaio 1749 ad Asti e morì a Firenze l'8 ottobre 1803.
Considerato il maggiore poeta tragico del Settecento italiano, ebbe una vita piuttosto avventurosa, diretta conseguenza del suo carattere tormentato che lo rese, in qualche modo, precursore delle inquietudini romantiche.
Considerato il maggiore poeta tragico del Settecento italiano, ebbe una vita piuttosto avventurosa, diretta conseguenza del suo carattere tormentato che lo rese, in qualche modo, precursore delle inquietudini romantiche.
Egli
ripercorse il suo cammino formativo in un'autobiografia, la Vita,
che cominciò a scrivere intorno al 1790. Non mancano in essa le componenti
agiografiche, visto che il proposito latente dello scrittore è quello di
rapportare la propria vita alle vicende tragiche dei protagonisti delle sue
opere: fornire di sé un ritratto eroico, quello di un uomo che ha lottato
contro il destino e contro la società per poter affermare il proprio talento.
Nato, dunque, da famiglia nobile, dal 1758 al 1766 frequenta l'Accademia militare di Torino, considerata uno dei migliori collegi d'Europa, con risultati mediocri (nell'autobiografia di questi anni l'Alfieri parlerà come di anni di "ineducazione"). A conclusione degli studi viene nominato alfiere dell'esercito regio. Da questo momento comincia una lunga serie di viaggi: Alfieri passa da un paese all'altro (e da un amore all'altro) senza requie, visita prima l'Italia e poi l'Inghilterra, la Francia, la Prussia, l'Olanda, la Scandinavia.
Nato, dunque, da famiglia nobile, dal 1758 al 1766 frequenta l'Accademia militare di Torino, considerata uno dei migliori collegi d'Europa, con risultati mediocri (nell'autobiografia di questi anni l'Alfieri parlerà come di anni di "ineducazione"). A conclusione degli studi viene nominato alfiere dell'esercito regio. Da questo momento comincia una lunga serie di viaggi: Alfieri passa da un paese all'altro (e da un amore all'altro) senza requie, visita prima l'Italia e poi l'Inghilterra, la Francia, la Prussia, l'Olanda, la Scandinavia.
Questo continuo vagabondare termina nel 1775, l'anno della
"conversione" alla letteratura: rinnegando i dieci anni precedenti di
"viaggi e di dissolutezze" l'Alfieri torna a Torino, completa una
prima tragedia, Cleopatra, e si dedica furiosamente allo studio. Il successo
della rappre-sentazione di Cleopatra lo sprona a dedicarsi alla carriera di
scrittore tragico.
Lo stesso Alfieri racconta che un giorno,
mentre vagabondava in preda alla sua rabbiosa furia di trovare qualche ideale
per cui vivere e morire e mentre passava da un amore a un duello, da una crisi
di disperazione all'esaltazione per la propria originalità e per il proprio
ingegno, sorse in lui la precisa volontà di "farsi di ferro in un secolo
in cui gli altri erano di polenta".
Fu in un momento di noia e tranquillità che
egli intuì la sua strada: era al capezzale di un’ammalata (la marchesa
Gabriella Turinetti, di cui si era follemente innamorato) , quando, per
ammazzare il tempo, pensò di scrivere una tragedia su Cleopatra, la cui
immagine sembrava guardarlo da un arazzo appeso al muro. Subito la scrisse, la
limò, fece correggere tutte le sgrammaticature dovute alla sua scarsa
istruzione e la fece rappresentare. “Cleopatra” ebbe un successo enorme, con tre
repliche applauditissime al Teatro Carignano di Torino: era la prima tragedia
scritta decorosamente da un italiano dopo tanto, tanto tempo di silenzio.
Vittorio Alfieri capì subito che se voleva intraprendere la strada dell'arte e
del teatro con dignità doveva al più presto formarsi una solida cultura.
"Volli, e volli sempre, e
fortissimamente volli", in questa frase
egli intese esprimere tutta la sua grande forza di volontà... Ma c'è di più. Si racconta che fosse solito
farsi legare alla sedia con corde strettamente annodate sia per poter
"digerire" in un tempo relativamente breve una vera e propria
montagna di libri, sia per non farsi distrarre dalle frivolezze che la vita
agiata gli offriva.
Dal '76
all'86 scrisse diciannove Tragedie, tra le quali il Saul e la Mirra,
concordemente ritenute i suoi capolavori.
La
tragedia è la forma artistica da lui prescelta perché la più adatta a
rappresentare la sua concezione della vita basata sullo scontro tra oppressi ed
oppressori, tra uomini eroici e tiranni, i quali non vanno intesi come simboli
del potere assolutistico o di qualsiasi altro regime realmente esistente, ma
rappresentano invece tutti quei limiti che impediscono la piena realizzazione
dell'individualità umana.
La
libertà, che è il motivo trainante delle tragedie dell'Alfieri, non è una
libertà politica, ma una libertà esistenziale. Risulta perciò chiaro come mai
l'Alfieri scelga sempre personaggi già famosi, mitici, (Antigone, Saul, Bruto)
per le sue opere e appare anche evidente la sua lontananza da quel "dramma
borghese" che trionfava in tutta Europa.
Nel
1777 avviene un incontro fondamentale per la vita dell'Alfieri, conosce infatti
Luisa Stolberg, contessa d'Albany, praticamente separata dal marito Carlo
Edoardo Stuart, pretendente al trono d'Inghilterra. Nasce un rapporto che
Alfieri manterrà sino alla morte e che mette fine alle sue irrequietezze
amorose. L'anno successivo fa dono alla sorella di tutti i suoi beni,
mantenendo per sé solo una rendita annua, e dopo vari soggiorni si trasferisce
a Firenze e poi a Siena, per apprendere l'uso del toscano che, per lui
piemontese e perciò familiare all'uso del suo dialetto e del francese, era
stata una lingua morta imparata sui libri.
Gli
anni che vanno dal 1775 al 1790 sono i più operosi della sua vita: oltre alle
tragedie compone trattati e gran parte delle Rime. Nel 1786 si stabilisce con
la fedele contessa a Parigi, dove assiste alla rivoluzione. Gli sviluppi della
rivoluzione però, probabilmente orientati verso forme troppo democratiche, lo
deludono, come lo spaventano le manifestazioni della plebe, che non corrisponde
certo al popolo da lui sognato nelle tragedie. Così fugge da Parigi nel 1792.
Tornato a Firenze, dedica gli ultimi anni della sua vita alla composizione
delle Satire, di sei commedie, della seconda parte della Vita e di traduzioni
dal latino e dal greco. Nel 1803, a soli cinquantaquattro anni, muore assistito
dalla Stolberg. La salma riposa nella chiesa di Santa Croce a Firenze.
Le tragedie
Nelle tragedie
più intensamente si manifesta l'anima eroica e appassionata dell'A.: essa si
proietta così nella figura del tiranno, eroe del male, come in quella di coloro
che al tiranno si oppongono, eroi della giustizia, della libertà, della purità,
del sacrificio: la tragedia alfierana è sostanzialmente il dramma della volontà
indomita, sia che riesca a piegare gli uomini e gli eventi, sia che ad essi
soccomba; sia che si rivolga al bene, e sia al male. Di qui il palpito eroico
che anima tutte le tragedie, anche le più povere e nude, e l'insegnamento a
fortemente sentire e operare.
Alfieri riesce
a condensare nei suoi drammi un'approfondita lettura psicologica, rappresentando le più
recondite passioni umane. Queste
passioni sono legate poi al conflitto
tra tiranno ed eroe in quasi tutte la tragedie. Entrambi i
personaggi sono uniti dal senso della loro grandezza, ma sono posti in antitesi
e in lotta tra loro. In questa opposizione l'eroe è colui che ama e combatte
per la libertà, mentre il tiranno deve opprimere per scacciare la più forte
delle sue paure: quella della morte.
Il Saul (1782) e la Mirra (1786) sono le tragedie
artisticamente meglio riuscite.
Saul titano prende coscienza del proprio fallimento, e con il sentimento e la volontà urta contro la ragione e i limiti. Egli vive nel contrasto fra le ambizioni e la realtà e la sua condizione perpetua è di chi vuole affermare la propria personalità ed è consapevole che gli sforzi finiranno nel nulla che egli invoca e desidera affrettare. Saul corre verso la morte in combattimento ma quando la morte gli sarà preclusa, perché è sopraggiunta la sconfitta, e quando i suoi figli saranno morti combattendo, egli si darà la morte contro la forza superiore e per affermare la propria libertà e il proprio eroismo. Nel protagonista, titano sconfitto, l'individualismo ha una nota di tragica fatalità.
Mirra innamorata del padre lotta contro se stessa e invano
cerca di resistere alla passione che sente colpevole e peccaminosa. Il
conflitto interno, nascosto a forza, è rivelato dopo lunga angoscia e la donna
si uccide con la spada del padre stesso, in una disperazione che cerca la
libertà nella morte.
SAUL
Saul fu composta nel 1782. Alfieri trae il soggetto del dramma dalla Bibbia, dalla storia della
morte del re Saul nella guerra contro i Filistei. Saul è il re scelto da
Dio per salvare Israele, per mano del profeta Samuele. Ma presto si ribella al
volere di Dio, compiendo diversi atti empi, peccando di superbia. Il nuovo
campione di Israele scelto da Dio è David,
un giovane pastore, cosa che suscita la gelosia di Saul. I sentimenti del re
verso il giovane sono ambigui, da una parte invidia e gelosia, dall'altra
ammirazione. Inoltre David stringe amicizia con il figlio del sovrano, Gionata e diventa sposo
della figlia, Micol.
Alfieri si concentra
su come Saul viva l'ineluttabilità che viene dall'alto, dal volere di Dio,
che non si manifesta mai in maniera oggettiva, ma viene sempre visto attraverso
la fede dei sacerdoti. Questa incertezza porta Saul a credere che sia in atto
una congiura contro di lui.
Lo sfondo della tragedia è la guerra
tra Israele e i Filistei, presso i quali David è costretto a rifugiarsi.
David durante la guerra torna in Israele per aiutare il suo popolo, nonostante
il rischio di essere ucciso da Saul. Il sovrano infatti desidera
mettere a morte il giovane, ma dopo un colloquio con lui si convince ad
affidargli il comando dell'esercito.
La comparsa di un sacerdote che annuncia l'incoronazione di David e la condanna
di Saul da parte di Dio, porta l'empio sovrano al delirio. Il sacerdote viene fatto uccidere e David è costretto a
fuggire nuovamente. Saul in un incubo terribile prevede la sua morte e la
sconfitta del suo esercito. Il figlio Gionata viene ucciso nella battaglia, i
Filistei vincono. Infine Saul, ritrovata la lucidità, rimpiangendo di aver
cacciato David e comprendendo la realtà dei fatti, decide di uccidersi.
IL TEATRO DI
GOLDONI E QUELLO DELL’ALFIERI
Nella seconda
metà del Settecento la storia del teatro italiano è caratterizzata da due
grandi personalità: Carlo Goldoni
e Vittorio Alfieri.
Goldoni attraverso la
sua paziente e graduale opera di commediografo, rinnovò il teatro comico,
riscattando la commedia dalla ripetitività e dalla volgarità in cui, negli
ultimi tempi, la commedia dell’arte era caduta.
Dal punto di
vista tecnico infatti sostituì agli
schematici canovacci della commedia dell’arte e all’improvvisazione dei vecchi
comici, testi teatrali completamente scritti, organici e composti che gli
attori dovevano limitarsi a interpretare e a recitare.
Quando poi ai
contenuti, egli, in linea con le istanze della cultura illuministica, attenta
alle cose pratiche e ai problemi reali, portò
finalmente sulla scena la vita quotidiana, cioè personaggi veri e situazioni
vere, facendo così non più un teatro di maschere ma un teatro di
caratteri e di ambienti. Di segno
diverso, almeno in apparenza, è invece l’operazione teatrale compiuta da Alfieri nel campo della tragedia.
Alfieri infatti
si limitò a recuperare la tragedia
classica e la ripropose tale e quale dal punto di vista tecnico e
formale. Tuttavia la rinnovò
dall’interno portandola ad esprimere, nelle sue forme alte e solenni e
attraverso i suoi personaggi “antichi”, le
passioni e i sentimenti più attuali.
In particolare,
Alfieri, nelle sue tragedie, diede voce alle inquietudini che agitavano la sua
epoca e che sarebbero esplose nel Romanticismo:
– l’individualismo;
– l’ansia di libertà da ogni costrizione
materiale e morale;
– il contrasto tra ciò che si
vorrebbe essere e ciò che si è;
– il bisogno di infinito.
GOLDONI
|
ALFIERI
|
Scrive commedie
|
Scrive tragedie
|
Scrive assecondando il gusto del pubblico
|
Disprezza il pubblico, specie quello borghese che
affolla i teatri dell’epoca, e vuole tenerlo lontano dalle sue
rappresentazioni
|
Rappresenta le sue commedie nei teatri più in voga
|
Organizza rappresentazioni private, ad esempio in
palazzi nobiliari, poiché non vuole confondersi con il teatro contemporaneo
che lui ritiene frivolo e volgare
|
Scrive spesso i suoi personaggi adattandoli agli
attori che dovranno recitarli
|
Disprezza la classe degli attori, incapaci di
sostenere degnamente la parte degli eroi, quindi spesso recita lui stesso la parte
del protagonista
|
Considera la classe borghese attiva ed operosa,
depositaria di pochi vizi e di molte virtù
|
Odia la classe borghese volgare e troppo legata alle
cose materiali
|
Scrive per mettere in ridicolo i difetti dei nobili
|
Scrive perché gli uomini imparino ad essere liberi,
forti e generosi. Non tanto quelli dell’epoca presente quanto quelli
dell’epoca futura
|
IL XIX SECOLO
L'EPOCA "ROMANTICA"
Il Romanticismo
Il Romanticismo è un movimento culturale che consegue al
mancato trionfo della ragione illuministica e delle rivoluzioni.
Esso nasce sul terreno storico della restaurazione come ripiegamento delle energie e della volontà nell'interiorità dell'io individuale e del sentimento che costituisce la nuova base di certezza e di fiducia.
Esso nasce sul terreno storico della restaurazione come ripiegamento delle energie e della volontà nell'interiorità dell'io individuale e del sentimento che costituisce la nuova base di certezza e di fiducia.
La borghesia che lo esprime abbandona il materialismo e il
sensismo settecenteschi e il metodo scientifico affidandosi a princìpi più
vaghi.
I romantici accrescono il dissidio tra il reale e l'ideale,
creano un'atmosfera di pessimistica sfiducia intorno alla realtà e dai
condizionamenti che il mondo esterno pone sono indotti a rinchiudersi nella
consapevolezza dolorosa dell'esistenza e nella solitudine del mondo interiore e
dei sogni, nell'«ideale». Il valore del mondo esterno non è fatto derivare
dalla conoscenza oggettiva ma dalla conoscenza che se ne ha attraverso la
percezione intuitiva della sensibilità e del sentimento soggettivi.
L'individuo è la scoperta dei romantici; esso, consapevole
dei propri limiti, cerca le proprie certezze nella religione intesa come
appagamento del desiderio di infinito, di immortalità, di purificazione, di
giustizia, nel ritorno alla fede negata dal materialismo o al cristianesimo non
dogmatico, al sentimento spontaneo di comunione degli animi. Non raramente,
però, lo spiritualismo vago e nostalgico di approdi nel passato si ancorò a una
certa religiosità torbida e vittimistica del Medioevo.
Viandante sul mare di nebbia (C. David Friedrich, 1818)
Uno dei manifesti del romanticismo europeo
Altre forme di certezza la sensibilità dell'individuo
ricerca nella natura primitiva e innocente avvertita misticamente o
panteisticamente quale regressione verso un mondo materno idealizzato e
contrapposto alla società e alla civiltà corrotte; nell'amore in cui si esalta
la passione o si drammatizzano il contrasto tra reale e ideale nonché i limiti
della natura e delle regole (contrasti passionali, sentimenti assoluti, amore e
morte, amore e religione, amore e patria, amore illecito, amore e condizione
sociale etc.); nell'esotismo di ambienti e personaggi amati nella diversità per
la novità capace di aprire mondi interiori spontanei; nell'arte sconfinata
proiezione del desiderio di infinito e di fuga dalla realtà, fascinosa entità
che può assorbire lo spirito dell'individuo il quale a tutte queste speranze e
ideali si rivolge con atteggiamento da titano o da vittima, da futuro vincitore
o da vinto.
Il fenomeno romantico si svolge in modo diverso da nazione a
nazione e diverse sono le colorazioni ideologiche che sopravvengono nel tempo,
a seconda delle condizioni politiche e sociali sicché in Italia dopo la
sconfitta di Napoleone abbiamo una risalita dell'aristocrazia che si appoggia
ai governi assolutisti e al clero restauratore, seguita dalla diffusione del
pensiero liberale nei vari strati sociali borghesi e artigiani, di quello di
Mazzini ancora più avanzato e democratico.
Il Romanticismo è in Italia il fenomeno storico degli anni
(1815-40) che sono caratterizzati dalla restaurazione dei governi assoluti e
dall'attività dei liberali per un'Italia nazione indipendente ma non possono
essere conglobati in esso tutti coloro i quali espressero conflitti interiori e
idealità patriottiche o religiose.
In Germania, dopo la metà del Settecento, una concezione
filosofica spiritualistica e idealistica opponendosi al razionalismo francese
provoca in letteratura l'imitazione dei modelli classici e il sorgere di
un'arte fondata sul sentimento e sulla libera espressione. Questa scuola
letteraria si chiamò Sturm und Drang (impeto e assalto) e nel 1797 fu
detta «romantica» da Federico Schlegel la nuova poesia sorta nell'ambito della
rivista «Athenaeum» e dei suoi intellettuali.
In Italia nel 1816 Germaine Necker baronessa di Staël
(1766-1817), svizzero-francese, di pensiero religioso-moderato, avversaria di
Napoleone in quanto, continuatore della Rivoluzione francese, in un articolo Sull'utilità
delle traduzioni pubblicato sulla milanese austriacante Biblioteca
italiana invitava gli italiani a liberarsi dal culto esclusivo dei classici
e a conoscere le grandi letterature moderne d'Europa per combattere la nostra
decadenza culturale. Gli interventi polemici che ne seguirono divisero il campo
letterario in classici (sostenitori della tradizione, della mitologia, del
formalismo) e romantici (sostenitori delle letterature moderne) e le posizioni
letterarie diventarono ben presto polemiche i classicisti sostenitori di
regole, armonia, equilibrio spirituale vennero considerati austriacanti,
conservatori, inattuali, i romantici, inquieti, cristiani, dediti alla ricerca
interiore vennero identificati con i liberali.
Giovanni Berchet (1783-1851) Sul «Cacciatore feroce» e
sulla «Leonora» di Bürger, Lettera semiseria di Grisostomo (1816) in
cui l'autore presentava una traduzione in prosa delle liriche di Bürger e
alcune osservazioni sulla poesia. Berchet rifiuta le regole, l'imitazione dei
classici e sostiene che la poesia deve essere dei «vivi» e non dei «morti»,
cioè moderna. Lo scrittore rifiuta anche gli aspetti più patetici del
romanticismo straniero. Uno dei motivi centrali della polemica di Berchet è la
determinazione del concetto di quel «popolo» al quale deve rivolgersi la
poesia: né alfabeti né aristocratici raffinati fanno parte del popolo che è
costituito dai certi borghesi e artigiani.
Nelle polemiche vennero ribaditi i principi della Lettera
semiseria attraverso il rifiuto dell'imitazione servile dei classici, dei
generi letterari, della mitologia, l'allargamento dei contenuti dell'arte
(leggende cristiane, credenze del popolo, favole cavalleresche, racconti
orientali), l'utilità della letteratura, l'espressione delle convinzioni
religiose del popolo, l'uso di un linguaggio adatto alla comunicazione con un
pubblico più largo.
Quantunque il romanticismo italiano abbia una sostanza
moderata e abbia assorbito diversi motivi illuministici esso presenta nei punti
sopra indicati molti elementi nuovi, ai quali sono da aggiungere: l'esigenza di
una letteratura nutrita di idee, l'interesse per la contemporaneità e per il
problema politico nazionale nonché il tentativo di stabilire un rapporto più
diretto con il pubblico.
Lo svolgimento di queste linee culturali e socio-culturali
non poté avvenire con facilità perché il Romanticismo come particolare
atteggiarsi della cultura della borghesia italiana in risposta alle condizioni
storiche degli Stati e alle sue esigenze di egemonia politica e sociale
nell'unità nazionale fu implicitamente legato alla debolezza, alla
inadeguatezza dei programmi riformatori che hanno spinto quella borghesia a
cercare alleanze o convergenze con gli interessi di ceti feudali per abbattere
i privilegi dell'«ancien régime» e del clero e che quindi hanno condizionato il
carattere della sua ideologia e della sua cultura.
La letteratura romantica
La letteratura risorgimentale storico-patriottica ha generi
letterari funzionali al nuovo pubblico e alla ricerca di una unità culturale
fondata sulla libertà nazionale, sul rapporto tra scrittore e vita sociale,
sull'interesse per la realtà: la ballata, la lirica patriottica, il romanzo e
il dramma storico, gli scritti di memorie. I contenuti nuovi e moderni, cioè,
si creano le loro forme espressive. I contenuti sono, da parte loro, legati
ideologicamente alle due tendenze romantiche individuate da Mazzini: una
tendenza moderata che ha come massimo scrittore Manzoni e una tendenza
antitirannica rappresentata da Foscolo.
I lirici patriottici della prima generazione romantica
mirarono a suscitare entusiasmi politici e militari verso la lotta con un
linguaggio che rispecchiava il sentimento. Lo strumento linguistico di alcuni
di essi non è adeguato alla funzione popolare, altri non possiedono una
conoscenza vera della vita del popolo, altri sono patrioti ideologicamente
retrogradi perché antifrancesi sicché i limiti di questa lirica sono evidenti
sul piano dell'arte.
Sono da ricordare anche tra quelli della generazione
successiva Luigi Mercantini (1821-72) di Ripatransone autore della Spigolatrice
di Sapri (1857, scritta in seguito al fallimento della spedizione di
Pisacane, dell'Inno di Garibaldi per i volontari garibaldini del
1859-60); Arnaldo Fusinato (1817-89) di Schio; Gabriele Rossetti (1783-1854)
poeta della rivoluzione napoletana, esule a Londra, animato da spinti mistici e
umanitari, da ideologie stilnovistiche e riformatrici religiose; Goffredo
Mameli (1827-49) genovese, poeta di intenso sentimento romantico, autore
dell'inno, morto alla difesa di Roma.
Il romanzo storico, «un misto di storia e d'invenzione» come
lo definì Manzoni, era stato creato da Walter Scott (1771-1832) e in Italia —
dove l'ambientazione storica fu variamente manipolata — servi come veicolo di
ideologia politica e pedagogica.
Il teatro romantico e l' "opera" italiana
Le commedie goldoniane continuano ad avere fortuna nell'età romantica.
Il teatro tragico in Inghilterra, Germania, Francia risentì
della sensibilità romantica e ne fu rinnovato con Goethe, Schiller, Shelley,
Hugo. In Italia scarso apprezzamento fu riservato alle tragedie del Foscolo (Aiace, Tieste, La Ricciarda) e al teatro di Silvio Pellico (Francesca
da Rimini). Di maggiore spessore la produzione teatrale del Manzoni (Adelchi e Il Conte di Carmagnola), sicuramente innovativa sia sotto il profilo drammatico che quello letterario.
L'attività teatrale italiana nell'età romantica è soverchiata
tuttavia dal teatro d'opera (o opera lirica) che in Italia ebbe una immensa fortuna
popolare in quanto espressione di passioni drammatiche ed elementari. Uno dei
motivi della democrazia delle forme d'arti musicali è certamente la capacità
della musica di interpretare sentimenti che riescono inadeguati con altre forme
di espressione. Il melodramma romantico con Gioacchino Rossini (1792-1868),
Gaetano Donizetti (1797-1848), Vincenzo Bellini (1801-35) esprime le condizioni
di vita italiane del tempo e le aspirazioni nazionali sostituendo, soprattutto
con Giuseppe Verdi (1813-1901), la realtà della storia, della società, degli
individui moderni all'interesse popolare che le passioni dei tragici greci
(amore paterno, vendetta, fato inesorabile, etc.) avevano suscitato in tutta
Europa.
Interno del Teatro alla Scala di Milano nel primo Ottocento
Verdi, musicista di origine contadina e genio romantico,
sintetizza lo stato drammatico-sentimentale della cultura borghese e popolare,
per la prima volta unitaria. Nella sua musica per la prima volta si riconosceva
un popolo nella sua abbozzata etnia di sentimenti naturali, semplici,
inostacolabili perché dilatabili in una nuova espressione, più di quanto non
potessero fare la lirica, il romanzo, îl teatro. Dal melodramma scendeva nel
popolo disperso che non aveva nome la parola essenziale ed elementare, essa
diventava voce o reintrepretava voci rimaste inespresse.
Anche se i libretti
non hanno valore letterario, nella sintesi con la musica esprimono in simboli
storici (Nabucco, 1842; Battaglia di Legnano), in figure di
fuorilegge (Trovatore, 1853), in vittime della nobiltà (Rigoletto,
1851; Traviata, 1853), in persone semplici la realtà umana di chi cerca
liberazione e identificazione. In Verdi il genio musicale popolare si unificava
con le aspirazioni popolari in quel determinato momento e in quella particolare
forma d'arte in cui il popolo intuiva una libertà senza compromessi.
Il teatro europeo nell’Ottocento
Il
teatro europeo all’inizio dell’Ottocento fu dominato, in modo particolare in Germania,
dal dramma romantico.
Tra romanticismo e
neoclassicismo si situa il genio di Wolfang Goethe (1749-1832), che vide nell’espressione
artistica la sola via per ridare dignità all’uomo innalzandolo al di sopra
degli interessi particolari. All’interno di tale contesto, il teatro avrebbe
occupato un posto particolare nell’educazione e formazione di una coscienza
nazionale. Il capolavoro di questo teatro è il dramma-poema di
Goethe Faust, che esprime la
tensione verso il «lontano» e l'«oltre», e la nostalgia di chi sa che non potrà
mai raggiungere un simile traguardo. Il Faust
si propose come un grande poema drammatico capace d’interpretare l’anima della nuova
nazione tedesca, in cerca di unità politica. Nella sua qualità di direttore del
teatro di Weimar, Goethe contribuì a fare del teatro una presenza socialmente
rilevante, ritenendolo una fucina di continua sperimentazione e stimolo di riflessione
e di educazione per la società.
Ritratto di W. Goethe, elaborazione di Andy Warhol (1982)
Temi
simili emergono dall’opera di Friedrich Schiller (1759-1805), dalla quale emerge la
coscienza che valori quali giustizia, universalità e libertà siano perseguibili
soltanto seguendo il sentiero dell’armonia e del bello. Molti ideali romantici
e neoclassici trovarono la propria forma artistica in tragedie ispirate a temi
storici o mitologici, argomenti che comparvero anche nel teatro d’Opera. Con
Schiller tramonta il vecchio genere della tragedia e si afferma il nuovo
genere del dramma storico romantico. Opere come il Gugliemo Tell o il Don
Carlos incendiano i palcoscenici e calamitano l’attenzione del
grande publico.
In
Inghilterra,
intorno alla metà del secolo, le grandi tragedie cedettero il posto al dramma
borghese, privo di pretese letterarie e caratterizzato dai temi domestici, da
un intreccio ben costruito e un abile
uso degli espedienti drammatici.
La
tendenza si estese anche alla Francia, con autori quali Eugène Scribe e Victorien Sardou, in concomitanza con l’emergere del naturalismo
che, alla fine dell’Ottocento, avrebbe trovato la più alta espressione
nell’aspra critica sociale di Emile Zola.
Temi
analoghi si ritrovano, in Italia, nel teatro verista di Giovanni Verga.
Il dramma borghese, ispirato alla rappresentazione della realtà contemporanea, è
presente in Norvegia e in Svezia con Henrik Ibsen (1828-1906)
e August Strindberg (1849-1912). In
realtà il teatro di Ibsen e Strindberg non è affatto un contenitore neutrale o
pacifico. Esso fa spazio a violenti contrasti psicologici, concentrati di
preferenza sui temi della crisi della famiglia. Il teatro di Ibsen e di
Strindberg costituisce l’ultima forma di teatro realmente sociale in quanto,
per quell’élite sociale costituita dalla classe borghese, il teatro è
effettivamente un mezzo potente di diffusione e di discussione delle idee, come
la nuova idea «femminista», divulgata nel 1879 da quel rivoluzionario dramma
che fu Casa di bambola di Ibsen.
H. Ibsen al Gran Café (di E. Munch, 1898)
Sempre
nella seconda metà del secolo, in Germania, come reazione al
descrittivismo del teatro realista, giudicato superficiale, Richard
Wagner (1813-1883) riprese le idee romantiche: per lui, il
ruolo del drammaturgo era quello di creare miti e dipingere un mondo ideale;
nell’immagine teatrale il pubblico avrebbe potuto ritrovare la propria essenza
al di là delle apparenze. Wagner criticò inoltre la mancanza di unità tra le
diverse discipline che formano l’arte drammatica e pensò al teatro come un’opera
d’arte totale nella quale confluissero tutte le discipline artistiche.
Ritratto di R. Wagner (J. Renoir, 1882)
In
Russia,
il teatro iniziò a svilupparsi verso la fine del XVIII secolo per opera di
importanti autori, quali Nikolaj Gogol
e Alexander Ostrovskij, il cui stile
era improntato a un netto realismo. Alla
fine dell’Ottocento, con i drammi di Lev
Tolstoj e Maksim Gor’kij, il
naturalismo divenne la tendenza dominante. Anche Anton Cechov (1860-1904) può essere considerato come un continuatore della
tradizione naturalista russa. Nel 1898 K.
Stanislavski fondò il teatro d’arte di Mosca per presentare drammi, in
particolare di Cechov, nei quali l’attore, dopo un apprendistato, era portato a
immedesimarsi con il personaggio provando ed esprimendone le emozioni.
Ritratto di A. Cekov (0. Braz, 1898)
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IL FAUST
DI GOETHE
Nel 1832 usciva la prima edizione del poema drammatico “Faust” ad opera di
uno dei più grandi interpreti della cultura e della letteratura tedesca, Johann
Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, 28 agosto 1749 – Weimar, 22 marzo
1832). Goethe lavorò a quest’opera per sessant’anni, dal 1772 al 1831,
scrivendo bozze, revisionando e aggiungendo le sue conoscenze e le sue dottrine
culturali. Quando Goethe ebbe terminato, nella primavera del 1831, si rese
conto egli stesso della complessità della sua opera: per questo volle che
l’intera opera venisse resa pubblica solo dopo la sua morte, che avvenne nel
1832.
A teatro, per la prima volta venne rappresentata la prima parte il
giorno 19 gennaio 1829 al
teatro nazionale di Braunschweig. Da allora gli allestimenti dell’opera si
sono succeduti frequentemente e con successo in tutto il mondo.
La tradizione di Faust
Faust è un personaggio tratto da una leggenda tedesca del XVI secolo, che apparve
per la prima volta nel 1557 in un libro pubblicato a Francoforte. E’ la storia
di un uomo che stringe un patto con il
diavolo. Il motivo è comune e risale al Medioevo. Ma qui si aggiunge un
elemento prettamente cinquecentesco: Faust fa un patto con Mefistofele per
conoscere e studiare la Natura, e non perché ricerca ricchezze, piaceri o
potere. Per soddisfare la sua sete di conoscenza è disposto a consegnarsi al
diavolo.
Questa volontà di conoscenza dell’uomo moderno conferiva al mondo terreno
un nuovo valore, con uno sfondo religioso, che trovò in Paracelso (1493-1541)
il suo maggiore esponente. Alla sua figura venne associata quella altrettanto
diabolica di un tale Georg Faust, vissuto all’inizio del XVI secolo, mago e
erudito vagante.
Ma se era da ritenere blasfema l’idea di un patto con il diavolo, appariva
interessante il motivo che lo determinava: la conoscenza del mondo così come
Dio l’aveva creato. Questo concetto riuscì ad essere rappresentato poeticamente
solo nell’epoca di Goethe, quando, con l’avvento dell’Illuminismo, si
giustificò l’immagine spirituale de “l’uomo che cerca” in quella che fu
definita “pansofia” o “sapienza universale”. Anche se non si riusciva a
raggiungere la conoscenza assoluta, non si voleva limitare l’anelito alla
conoscenza stessa.
In Inghilterra il clima culturale era diverso, e da esso venne fuori il
“Faust” di Christopher Marlowe (1564-1593), autore che intuì la grandezza della
materia faustiana. Egli sviluppò l’elemento tirannico, più legato all’opera
originaria popolare: Faust, come mago, vuole essere un dio in terra, e la sua
fame di godere è senza fine.
Da Marlowe il tema del Faust tornò in Germania come “dramma del terrore”
prima, e come teatro delle marionette poi, sempre in forma di prosa. Goethe lo
scoprì proprio attraverso il teatro delle marionette. Solo nel 1818 ebbe
occasione di leggere il dramma di Marlowe.
Genesi dell'opera
Nell’autunno del 1775 Goethe giunse a Weimar portando con sé alcune parti di un dramma su Faust, metà in prosa e metà in poesia. Durante la lettura, la damigella di corte Luise von Göchhausen ne fu talmente entusiasta da farsi prestare il manoscritto per ricopiarlo. In seguito Goethe riscrisse e modificò l’opera, ma alla fine, non soddisfatto la distrusse. Nel 1887 Erich Schmidt scoprì tra le carte della damigella von Göchhausen la copia del manoscritto e la fece pubblicare con il titolo di “Urfaust”.
In questa prima fase, è evidente l’influsso del movimento dello “Sturm und Drang”. Goethe aveva composto quadri separati, senza pensare ad un loro collegamento. Si iniziano a creare i due gruppi di scene: la tragedia del sapere e la tragedia dell’amore.
Goethe proseguì nell’opera, ma ad un certo punto si accorse dei vuoti e delle mancanze. Cercò di colmarle, ma, non ancora soddisfatto, anche se non voleva rimandare oltre la pubblicazione, lo diede alle stampe nel 1790 con il nome di “Faust. Ein Fragment”, che è in effetti una rielaborazione. Fu soltanto nel 1808 che riuscì a far emergere il nesso interiore della vicenda, e a renderla peculiare rispetto alla tradizione. Uscì allora “Faust. Parte prima della tragedia”, che comprende anche il “Prologo in cielo”, che serve sia alla prima che alla seconda parte.
Comincia da qui ad elaborare la storia di Elena, della mitologia greca, e del mondo antico, indirizzandosi verso gli ideali Romantici di rievocazione della classicità. Nel 1826 l’atto era terminato, ma, per colmare la lacune, Goethe scrisse la celeberrima “Notte di Valpurga”, alla fine del secondo atto. Con la stesura del quinto atto, nel 1830 poteva dirsi conclusa “Faust. La parte seconda della tragedia”.
La vicenda faustiana contiene una grande varietà di motivi, che affascinarono Goethe nel corso della sua esistenza, e, allo stesso tempo, le molteplici esperienze di vita diventarono dei simboli da inserire nell’opera stessa. La delusione per le scienze accademiche, la felicità e la colpa dell’amore furono i temi che caratterizzarono la giovinezza. In età adulta fu attratto dalla bellezza di Elena, di omerica memoria, e dalla concezione generale della vita umana. In vecchiaia, Goethe vede Faust come dominatore della natura, colui che anela al segreto della creatività e delle forze umane originarie.
Lo “Streben”, l’anelito, è, insieme
all’Amore il tema dominante dell’intero poema.
La trama
Faust è un professore universitario, scienziato ed alchimista. Ha studiato tutta la vita, ma si rende conto che, per quanto l’uomo si sforzi, la sua conoscenza è nulla.
Ed ho studiato, ahimè, filosofia,
giurisprudenza, nonché medicina:
ed anche, purtroppo, teologia.
Da cima a fondo, con tenace ardore.
Eccomi adesso qui, povero stolto;
e tanto so quanto sapevo prima.
Mi chiamano Maestro: anzi Dottore.
Sono dieci anni che menando vo
pel naso i miei scolari,
di sù di giù, per dritto e per traverso
Ma solo per accorgermi
che non ci è dato di sapere, al mondo,
nulla di nulla.
E quasi mi si strugge, ardendo il cuore.
Si dedica allora alla magia, per cercare di svelare i segreti della Natura. Il suo è un anelito, un tendersi verso qualcosa che sembra irraggiungibile, quello che viene definito in tedesco “Streben”.
Faust evoca il Diavolo per ottenere lo scopo.
Faust e Mefistofele |
Costui, Mefistofele, fa un patto con lui: lo servirà per tutta la vita, esaudirà ogni suo desiderio, mettendogli a disposizione i suoi poteri. In cambio, Faust lo servirà nell’altra vita. L’uomo però non crede alla vita futura e muta il patto in una scommessa: “Se dirò all’attimo: sei così bello, fermati! – allora tu potrai mettermi in ceppi”. Mefistofele è convinto che, anche se Faust non pronuncerà la frase, cadrà comunque nella perdizione e nella disperazione. La posta in gioco è la libertà.
Inizia la vita piena di piaceri e desideri appagati. E’ in questo contesto che avviene l’incontro con Margherita, una ragazza umile, che Faust cerca di abbordare mentre esce di chiesa. Con l’aiuto di Mefistofele, le regalerà gioielli, e inevitabilmente corromperà la sua anima semplice. Più tardi si verrà a sapere che Margherita dovrà subire la pena capitale per infanticidio: dopo aver partorito il figlio di Faust, che l’aveva abbandonata, la disperazione l’aveva portata alla follia e all’uccisione del figlio. Verrà salvata in punto di morte, e andrà in Cielo, per via della sua buona fede e del suo cuore semplice tratto in inganno.
La salvezza di Margherita |
Nella seconda parte della tragedia si inseriscono i personaggi tratti dalla classicità, fra cui spicca la storia con Elena di Troia. Si avvicendano figure mitologiche, personaggi storici e filosofi.
Lentamente si arriva alla vecchiaia di Faust. Adesso rimpiange l’ umanità, che aveva rinnegato, maledicendo la vita e affidandosi alla magia. Non scaccia più l’Angoscia, che già una volta l’aveva portato vicino al suicidio. Prossimo alla morte, ormai cieco, Faust ha la visione della bonifica di un immenso acquitrino, che permetterà agli uomini di “stare su suolo libero con un libero popolo”.
In quell’ultimo istante, a quel pensiero, pronuncia le parole del patto: “All’attimo direi: Sei così bello, fermati!”
Aprirò
spazi dove milioni di uomini
vivranno non sicuri, ma liberi e attivi.
Verdi, fertili i campi; uomini e greggi
subito a loro agio sulla terra nuovissima,
al riparo dell'argine possente
innalzato da un popolo ardito e laborioso.
Qui all'interno un paradiso in terra,
laggiù infurino pure i flutti fino all'orlo;
se fanno breccia a irrompere violenti,
corre a chiuderla un impeto comune.
Sì, mi sono votato a questa idea,
la conclusione della saggezza è questa: merita libertà e la vita solo
chi ogni giorno le deve conquistare.
Così vivranno, avvolti dal pericolo
magnanimi il fanciullo, l'uomo e il vecchio.
Vorrei vedere un simile fervore,
stare su suolo libero con un libero popolo.
All'attimo direi: Sei così bello, fermati!
Gli evi non potranno cancellare la traccia dei miei giorni terreni.
Presentendo una gioia così alta
io godo adesso l'attimo supremo.
vivranno non sicuri, ma liberi e attivi.
Verdi, fertili i campi; uomini e greggi
subito a loro agio sulla terra nuovissima,
al riparo dell'argine possente
innalzato da un popolo ardito e laborioso.
Qui all'interno un paradiso in terra,
laggiù infurino pure i flutti fino all'orlo;
se fanno breccia a irrompere violenti,
corre a chiuderla un impeto comune.
Sì, mi sono votato a questa idea,
la conclusione della saggezza è questa: merita libertà e la vita solo
chi ogni giorno le deve conquistare.
Così vivranno, avvolti dal pericolo
magnanimi il fanciullo, l'uomo e il vecchio.
Vorrei vedere un simile fervore,
stare su suolo libero con un libero popolo.
All'attimo direi: Sei così bello, fermati!
Gli evi non potranno cancellare la traccia dei miei giorni terreni.
Presentendo una gioia così alta
io godo adesso l'attimo supremo.
Mefistofele è felice di aver vinto la scommessa e aver dimostrato che la vita è inutile e sarebbe meglio “il Vuoto Eterno”. Ma quando si aprono le porte dell’Inferno, una schiera di angeli viene a prendere la parte immortale di Faust e la conduce in Cielo.
Egli è stato salvato perché “Chi sempre faticò a cercare, noi possiamo redimerlo”.
Il poema si chiude con le parole del Coro Mistico: “L’Eterno Femminile ci farà salire in alto”. La forza creatrice che muove l’universo è il principio femminile dell’Amore. Amore e “Streben”.
Ricerchiamo in quei soavi e cari
sguardi
dai quali viene solo la grazia e la salute,
la virtù che meglio ci prepari il cuore
a ricevere con gratitudine le eterne fiamme della beatitudine;
onde gli umani affetti si rivolgano con viva fede a te,
Vergine, Madre, Imperatrice e Dea.
Dal sublime e stellato tuo seggio mostrati a noi propizia.
dai quali viene solo la grazia e la salute,
la virtù che meglio ci prepari il cuore
a ricevere con gratitudine le eterne fiamme della beatitudine;
onde gli umani affetti si rivolgano con viva fede a te,
Vergine, Madre, Imperatrice e Dea.
Dal sublime e stellato tuo seggio mostrati a noi propizia.
(dal web: cultura.biografieonline.it)
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IL TEATRO DI FINE OTTOCENTO
L’epoca del naturalismo
Nel corso del XIX
secolo si andò affermando un'esigenza di realismo, che diverrà dominante nel
secondo Ottocento.
In
stretto rapporto con i romanzieri del naturalismo (come Zola e Verga)
nacque a Parigi il Théâtre Libre (Teatro libero) di André Antoine (inaugurato nel
1887). Esso si proponeva di svecchiare il repertorio e le forme della
recitazione, superando il protagonismo artificioso dei grandi mattatori e
portando sulla scena la vita reale: la recitazione avrebbe dovuto
imitare i comportamenti quotidiani, le suppellettili di scena dovevano essere
quelle reali. Occorreva inscenare insomma una tranche de vie, un pezzo
di vita. Agli attori era richiesto non
tanto di «entrare nella pelle di un ruolo, ma di adattare piuttosto il
ruolo a se stessi», recitando «come a casa, ignorando le emozioni suscitate
nel pubblico» (Jean Jullien); l'arco di proscenio, si diceva, dovrebbe
essere una specie di «quarta parete, trasparente per il pubblico, e opaca
per l'attore».
Il
secondo Ottocento prepara quindi il trionfo del dramma borghese, ispirato
alla rappresentazione della realtà contemporanea.
Il dramma borghese
Il dramma borghese nasce dalle teorie di Diderot, uno dei filosofi
dell’Illuminismo che auspicava un nuovo genere serio e intermedio tra tragedia
e commedia che si doveva basare sul realismo scenico. In Inghilterra nascevano
i sottogeneri delle domestic tragedy e sentimental drama. Nell’età del
Romanticismo il teatro si indirizzò al teatro tragico e a quello dei drammi di
tipo epico e storico (Adelchi di Manzoni, Cromwell di Hugo).
A metà Ottocento si diffuse un nuovo gusto per il Realismo anche nel
teatro come nella narrativa e nacque la commedia di costume (La dama delle
camelie di A. Dumas figlio, 1852).
Il Naturalismo e Verismo avevano dato importanza all’analisi sociale e ai
ritratti veritieri della realtà. Zola scriveva nel 1881: ”Io immagino una
pièce moderna così fatta: un fatto semplice che si sviluppi grazie al solo
studio logico delle passioni e dei caratteri” I personaggi dunque forgiano
l’azione che diventa il naturale sviluppo degli stati d’animo. Nel teatro
naturalista predomina una concreta situazione ambientale, una trama fondata su
eventi, esistono personaggi con caratteristiche precise. Nel Verismo con Capuana
e Verga si delinea la scelta di bozzetti scenici ovvero atti
unici, con pochi personaggi, una scena fissa, un’azione concentrata. Il
linguaggio però stenta a diventare teatrale e resta letterario; così la realtà
viene vista, in genere, nei suoi particolari esterni e pittoreschi, come nella Lupa
o in Cavalleria rusticana.
Il dramma borghese in Europa e in Italia
Le espressioni migliori del realismo scenico vengono dal dramma borghese
che raccolse le esigenze dei naturalisti con maggiore maturità scenica.
La tragedia classica era lotta, ribellione eroica all’idea stessa del
fallimento, protesa contro il destino; il dramma borghese è constatazione di
una sconfitta già avvenuta. Molti drammi cominciano perciò quando tutto è già
irreparabilmente finito: i personaggi non fanno che analizzare l’accaduto. Se i
drammi romantici erano segnati dal gesto, dall’azione, il dramma borghese è un
teatro dove si agisce poco; inoltre le analisi che hanno portato i personaggi
alla sconfitta si concentra non più sui grandi tradimenti politici bensì sui
problemi familiari, personali (disgregamento della famiglia, tradimenti
coniugali, fallimento della propria rispettabilità sociale).
Su questi
presupposti si sviluppa il teatro europeo del norvegese Ibsen e
dello svedese Strindberg. Il loro nodo drammatico di partenza è
il dissidio tra l’essere e il voler essere, una condizione di duplicità
incarnata specialmente nelle figure femminili, divise tra ruolo di mogli e
madri ideali e donne-amanti.
I protagonisti di Ibsen sono lo specchio perplesso di un
mondo ormai moderno, senza più eroi; si tratta di un mondo di vittime che
percepiscono il crollo degli antichi valori (come in Casa di bambola,
1879), ove la coscienza inquieta, malata di fine ‘800 si riverbera nei
personaggi, mentre l’antefatto viene spesso relegato sullo sfondo,
rievocato solo per frammenti.
Eleonora Duse in "Casa di bambola" di Ibsen |
In Strindberg, il tema della crisi della coppia e
dell’istituto matrimoniale sfocia nell’angoscia, non c’è comunicazione tra
coniugi se non nelle forme dell’odio e del rancore (Danza macabra -1901)
. Il dramma borghese come la narrativa di fine Ottocento ama concentrarsi sulle
problematiche della vita familiare e soprattutto della coppia con il motivo
dell’adulterio. Tocca al teatro mettere in scena lo sgretolamento dei valori
tradizionali, i germi dell’incomunicabilità, della menzogna che cominciano a
intaccare la cultura razionalista positivistica.
Nei testi teatrali del russo Anton Cechov la problematica
relativa alla crisi dei rapporti coniugali e dell’’istituto matrimoniale (come
nelle Tre sorelle) si caratterizza per un intimismo molto netto,
un’attenzione alle aspirazioni di donne che si consumano sognando un avvenire
incerto (Elena e Sonja in Zio Vanja). La donna delle opere cechoviane
non si ribella ma diventa protagonista perché la sua sensibilità è più reattiva
a cogliere un turbamento generale, una perdita di speranza che coinvolge anche
altre persone. Un segno di tale ripiegamento interiore è la difficoltà a
comunicare all’interno della coppia. L’arte teatrale di Cechov rappresenta un’evoluzione
del teatro tardo ottocentesco dalle forme chiuse e mimetiche del Naturalismo a
quelle più aperte che preannunciano il Novecento. Nei drammi di Cechov i
personaggi sembrano muoversi senza comunicare realmente. Le storie di Cechov
sono già concluse in partenza: quasi tutto è già avvenuto prima che si alzi il
sipario. Le parole dei personaggi si riflettono a specchio, ognuno bloccato nel
suo spazio interiore; i monologhi con le pause frequenti (sono i silenzi più
dei gesti e delle stesse parole gli elementi più emblematici) sottolineano la
difficoltà comunicativa.
Cechov e i personaggi de "Il giardino dei ciliegi" |
A proposito della drammaturgia di Cechov il regista Stanislavskij
(attore e regista di Mosca-1863-1938) dirà nel suo libro, La mia vita
nell’arte, che per rappresentare i suoi testi quello che conta è
comprendere che l’azione scenica deve essere colta nel suo significato
interiore, creando le sue immagini interne, perché in Cechov è interessante
l’anima dei suoi personaggi. La scena teatrale si restringe alle dimensioni
dell’io intimo.
Come quelle di Cechov, anche le commedie dell’austriaco Arthur
Schnitzler (1862-1931), sono basate sull’introspezione. In tal modo il
dramma borghese evolve nelle forme novecentesche del teatro simbolista e
poi del teatro dell’assurdo. Nelle scene delle commedie di Cechov e di
Schnitzer le battute sono come frantumate, passando da dialogo a monologo,
quasi a sottolineare la frantumazione psicologica dei personaggi; il parlare è
un monologare spento, pieno di pause, incertezze, salti logici.
In Italia, dal teatro verista di fine Ottocento e agli albori del nuovo
secolo, emergono le figure di Giacosa (1847-1906) e Praga
(1862-1929).Nelle loro opere si riflette la condizione sociale dell’Italia di
fine Ottocento, un'epoca caratterizzata dall’affermazione della borghesia e
dall’espansione dei traffici commerciali e dell’industria. I temi trattati in
teatro sono quindi determinati dai nuovi valori della cultura dominante: il
possesso della ricchezza, la rispettabilità sociale. Nei drammi si riscontra il
venir meno dell’ottimismo tipico del positivismo, e questo disagio si riflette
nella dissoluzione dei valori tradizionali, e soprattutto nella crisi della
vita di coppia, come nella commedia di Giacosa, Come le foglie (1900) o
ne La moglie ideale di Marco Praga (1890)
Giuseppe Giacosa, nato vicino a
Torino, frequentò l’ambiente 'scapigliato' e poi, dopo aver scritto qualche
dramma storico, spinto dai consigli dell’attrice Eleonora Duse, cominciò a
scrivere commedie d’ispirazione psicologica ambientate in epoca contemporanea.
Il suo primo successo fu Tristi amori (1887) recitato dalla stessa Duse.
Scrisse anche tre libretti d’opera per l’amico musicista Puccini: Bohème,
Tosca, Madama Butterfly.
Marco Praga, figlio dello scrittore
scapigliato Emilio Praga, raggiunse il successo teatrale con Le Vergini
(1889). Nella Moglie ideale dipinse il tipo dell’eroina dalla pratica
mentalità borghese. Sofferente di crisi depressive morì suicida nel 1929.
IL TEATRO CONTEMPORANEO
Il teatro
contemporaneo si è andato sviluppando tra gli inizi del Novecento e i
giorni nostri, caratterizzandosi come la reazione al teatro verista della fine
del XIX secolo.
Il
Novecento si apre con la rivoluzione copernicana della centralità
dell'attore. Il teatro della parola si trasforma in teatro dell'azione
fisica, del gesto, dell'emozione interpretativa dell'attore con il lavoro
teorico di Kostantin Sergeevic Stanislavskij.
K.S. Stanislavskij (1863-1938) |
Il metodo Stanislavskij
Il metodo Stanislavskij è il primo importante sistema dedicato alla recitazione dell'attore. Si tratta della prima volta in cui si pensa all'educazione dell'attore al di là della messa in scena dello spettacolo. Prima di Stanislavskij l'attore imparava a recitare grazie all'osservazione e l'imitazione degli altri attori più esperti. Il suo apprendistato era frutto della reale esperienza sul palcoscenico. Stanislavskij ha voluto dare basi razionali all'apprendimento dell'arte della recitazione.
Stanislavskij iniziò a
mettere a punto il suo famoso metodo in un periodo difficile della sua carriera
artistica: nel 1904 era morto Cechov, il teatro d’Arte era all’apice del suo
successo. Nel 1905 Stanislavskij si concentra sull’attore in quanto
coefficiente teatrale di maggior rilievo. Inizia a riflettere su come l’attore
possa portare ad alti livelli il meccanismo di creazione. Alla base del suo
‘metodo’ c’è il concetto di ‘creazione organica’. La creazione organica è
possibile solo se l’attore può immedesimarsi nel personaggio con facilità. Per
Stanislavskij raggiungere questo ‘stato creativo’ è tuttavia un avvenimento
raro e la maggior parte degli attori ricorre all’uso di cliché, cioè di
atteggiamenti stereotipati che generano una recitazione esteriore, artificiosa.
Ciò non porta a creazioni vive, credibili e efficaci ma a situazioni in cui l’attore
sembra il personaggio, dove invece dovrebbe esserlo.
Il lavoro teatrale
inizia quindi con l’addestramento dell’ io dell’attore. Si tratta di conoscere
a fondo se stessi e arricchire le proprie potenzialità, le proprie conoscenze
delle forme e della letteratura teatrali e la propria creatività. L’attore deve
educare innanzitutto se stesso e la propria coscienza. Nel lavoro su se stesso
l’attore deve poter intervenire razionalmente sui meccanismi interiori (emotivi
e psicologici) che stanno alla base dell’immedesimazione, attraverso esercizi
di rilassamento, concentrazione, comunicazione, ingenuità e immaginazione.
Gli esercizi di
rilassamento servono ad eliminare la tensione muscolare e le resistenze del
corpo che impediscono il lavoro dell’attore.
Gli esercizi di
concentrazione impediscono che fattori esterni, come per esempio la
presenza del pubblico, distolgano l’attenzione dell’attore.
La comunicazione
serve ad imparare a rivolgersi realmente e con efficacia agli altri attori e
non al pubblico.
L’ingenuità e l’immaginazione
sono le doti dei bambini che l’uomo adulto ha perso e che sono determinanti per
conferire verità e per arricchire la propria creazione.
Per Stanislavskij il
concetto di verità è essenziale. L’attore non deve recitare bene o male,
ma vero. La sua verità è interiore, vissuta e sofferta. Per questo non si può
partire né dalla finzione né dall’imitazione. L’attore non deve sembrare o
fingere, ma essere il personaggio, deve cioè viverlo. Non si tratta di
ricopiare la vita reale, in una sorta di nuovo naturalismo, ma di realizzare
una creazione organica, credibile e più vera della realtà. La situazione
dell’attore è difficile: deve essere vero, mentre tutto è falso intorno a lui
(scene, costumi, trucco, luci, pubblico). Nonostante tutto deve creare la sua
verità e crederci fino in fondo.
Il metodo Stanislavskij
fornisce all’attore due strumenti fondamentali per creare questa verità: le
circostanze date e il magico sé.
Le circostanze date
sono l’insieme dei fatti e delle situazioni che si possono ricostruire a
partire dal testo e riguardano l’epoca, l’ambientazione, il passato e il futuro
del personaggio. Si tratta cioè di ricostruite nei minimi dettagli la vita del
personaggio, anche ciò che non viene detto nel testo.
Una volta ricostruito
questo sotto-testo l’attore ricorre al magico sé: L’attore deve mettere
se stesso nei panni del personaggio e farsi la domanda “Se io mi trovassi nelle
sue condizioni, come mi comporterei?”. Partire da se stessi è anche
un’accettazione di certi limiti: nessuno può fare di più di ciò che è, quindi è
sbagliato partire da ciò che non si è. Non si tratta di riversare se stessi nel
personaggio. È solo l’inizio di un lungo percorso che serve alla creazione di
un altro se stesso.
Queste operazioni sono
poi costantemente arricchite dall’immaginazione dell’attore che aggiunge
particolari e dettagli al sotto-testo che si viene man mano creando.
Il personaggio comincia
così a prendere vita. Per imprimere vita al
personaggio l’attore deve sempre partire da se stesso, per non recitare
dall’esterno la parte e ricorre quindi alla memoria emotiva, che è
l’aspetto fondamentale del metodo Stanislavskij.
Per esprimere emozioni
che appartengono ad un’altra persona (il personaggio) l’attore deve trovare dei
punti di contatto tra la sua vita e quella del personaggio. La vita reale
dell’attore viene innestata in quella fantastica del personaggio che assumerà
quindi l’apparenza di una vita vissuta. Naturalmente l’esperienza non può
essere la stessa, l’importante è che si ponga in un rapporto di analogia tale
da provocare simili emozioni. Il personaggio sarà così dotato di esperienze
realmente vissute.
Questo processo è molto
lontano dall’immedesimazione che prevede la scomparsa dell’attore in virtù del
personaggio. Qui si tratta di un innesto, di una sintesi, di un parto. O meglio
ancora di una simbiosi vivente tra vita dell’attore e vita del
personaggio. Non scompare né l’uno né l’altro. Entrambi partecipano alla
creazione di una terza vita.
Il
Novecento aprì anche una nuova fase che portò al centro dell'attenzione una
nuova figura teatrale, quella del regista che affiancò e superò in
importanza le classiche componenti di autore e attore. Fra i grandi registi di
questo periodo vanno citati l'austriaco Max Reinhardt e il francese Jacques
Copeau e l'italiano Anton Giulio Bragaglia. Con il teatro contemporaneo, la
figura del regista teatrale diventa preminente. Anche in passato le
rappresentazioni avevano avuto bisogno di una direzione, ma il ruolo più
importante era sempre stato rivestito dal primo attore o dall'autore
dell'opera. La moderna regia compie il primo passo nella riforma del teatro
europeo, rigettando l'idea 'fotografica' della scena, e affermando la
preminenza dell'arte.
Il primo Novecento
Con l'affermarsi delle avanguardie storiche, come il Futurismo, il Dadaismo e il Surrealismo, nacquero nuove forme di teatro come il teatro della crudeltà di Antonin Artaud, la drammaturgia epica di Bertolt Brecht e, nella seconda metà del secolo, il teatro dell'assurdo di Samuel Beckett e Eugene Ionesco. Tali forme teatrali modificarono radicalmente l'approccio alla messa in scena e determinano una nuova via al teatro, una strada che era stata aperta anche da Jean Cocteau, Robert Musil, August Strindberg e Henrik Ibsen; ma coloro che spiccarono tra gli altri, per la loro originalità furono Frank Wedekind con la sua Lulù e Alfred Jarry, l'inventore del personaggio di Ubu Roi.
Per Gabriele D'Annunzio, in Italia, il
teatro fu una delle tante forme espressive del suo decadentismo e il linguaggio
aulico delle sue tragedie si mosse dietro al gusto liberty imperante.
Gabriele D'Annunzio
“Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”: a questa massima furono ispirate la vita e l’opera di Gabriele D’Annunzio. La sua vita fu ricca di eventi, innanzitutto i suoi grandi amori, come quello con l' attrice teatrale Eleonora Duse, che crearono un alone di mito attorno alla sua figura; poi la sua partecipazione alla vita politica, e ad alcune spericolate e spettacolari imprese militari.
Convinto che il teatro tragico nato in Grecia fosse una vera e propria festa
sacra, egli promosse il progetto per la costruzione di un teatro en plein air ad
Albano Laziale, per riprendere il carattere rituale dello spettacolo classico. Nella
sua intenzione c’era la
creazione di una tragedia moderna,
impegnando al massimo livello d’arte tutti gli elementi dello spettacolo: testo,
coro, musica e danza, ma anche costumi, scenografia e pittura. Questo portò i
critici dell’epoca a considerare D’Annunzio il più moderno degli autori
teatrali in Italia. In realtà D’Annunzio respirava il clima europeo (Ibsen,
Cechov, Strindberg) che stava spostando l’interesse dall’intersoggettività a una soggettività diffusa, per una nuova
attenzione, dovuta anche agli studi compiuti in quegli anni da Freud, alla vita
psicologica e inconscia del personaggio.
Pirandello è probabilmente l'autore che meglio rappresenta il periodo che va dalla crisi successiva all'unità d'Italia all'avvento del fascismo. Pochi come lui ebbero coscienza dello scacco subito dagli ideali del Risorgimento e dei complessi cambiamenti in atto nella società italiana.
La sua esperienza, come commediografo e regista, risulta estremamente innovativa in quanto porta ad una vera rivoluzione del concetto di rappresentazione teatrale. In teatro rompe le forme tradizionali: riduce al minimo la scenografia ed i costumi, per attirare l’attenzione del pubblico principalmente sul testo. Pirandello rompe la barriera tra la vita reale e la finzione dando vita ad un’operazione ardita e disorientante; spesso così gli attori entrano dalla platea, seduti tra gli spettatori ed iniziano a recitare. Pirandello vuole così dare agli spettatori l’idea che siano essi stessi gli attori (teatro nel teatro, meta-teatro) facendo sì che siano proprio questi a chiedersi se a recitare siano loro stessi, magari tutti i giorni, a loro insaputa. E’ attraverso questa metodologia che Pirandello introduce il concetto che vede il teatro come realtà e la quotidianità come finzione.
IL MONDO POETICO-TEATRALE PIRANDELLIANO
il contrasto tra l'essere e l'apparire;
La disgregazione della persona umana costituisce il tema di fondo del romanzo-saggio Uno, nessuno e centomila.
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Una figura fuori dalle righe fu quella di Achille Campanile il cui teatro anticipò di molti decenni la nascita del teatro dell'assurdo.
Gabriele D'Annunzio
“Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”: a questa massima furono ispirate la vita e l’opera di Gabriele D’Annunzio. La sua vita fu ricca di eventi, innanzitutto i suoi grandi amori, come quello con l' attrice teatrale Eleonora Duse, che crearono un alone di mito attorno alla sua figura; poi la sua partecipazione alla vita politica, e ad alcune spericolate e spettacolari imprese militari.
Gabriele D’Annunzio nasce nel 1863 da una famiglia della buona borghesia abruzzese.
Al Collegio Cigognini di Prato, acquisisce una robusta formazione sui classici,
che studia con grande impegno. Esordisce nel mondo della poesia con la raccolta
di versi “Primo vere”. Dopo questo
primo successo, si trasferisce a Roma per frequentare la facoltà di lettere, che
presto abbandona per inserirsi nella vita mondana e letteraria della capitale.
Ma la vita dispendiosa che conduce a Roma lo porta ad accumulare debiti, cosicché è costretto a trasferirsi a Napoli. Nel 1892 pubblica il romanzo “L’innocente”,
storia di un infanticidio e di una complicata psicologia omicida in cui si
sente l’influenza di Tolstoj e Dostoevskij.
Nel 1894 a Venezia incontra Eleonora Duse. La travolgente storia d’amore con la grande attrice ha riflessi anche a livello artistico: per il teatro D’annunzio scriverà una serie di testi (“Sogno di un mattino di primavera”, “Sogno di in tramonto d’autunno” e “La Gioconda”) con personaggi femminili tagliati su misura per la Duse. Nel 1898 D’annunzio si trasferisce sulle colline di Firenze, in una villa (“la Capponcina”) dove vive fastosamente tra arredi preziosi mentre la Duse abita in una villetta attigua (“la Porziuncola”). Nel 1904 viene messo in scena a Milano il capolavoro teatrale di D’annunzio “La figlia di Iorio”, tragedia ambientata in un mondo primitivo e selvaggio popolato da pastori “ ’briachi di sole e di vino”.
Nel 1894 a Venezia incontra Eleonora Duse. La travolgente storia d’amore con la grande attrice ha riflessi anche a livello artistico: per il teatro D’annunzio scriverà una serie di testi (“Sogno di un mattino di primavera”, “Sogno di in tramonto d’autunno” e “La Gioconda”) con personaggi femminili tagliati su misura per la Duse. Nel 1898 D’annunzio si trasferisce sulle colline di Firenze, in una villa (“la Capponcina”) dove vive fastosamente tra arredi preziosi mentre la Duse abita in una villetta attigua (“la Porziuncola”). Nel 1904 viene messo in scena a Milano il capolavoro teatrale di D’annunzio “La figlia di Iorio”, tragedia ambientata in un mondo primitivo e selvaggio popolato da pastori “ ’briachi di sole e di vino”.
Eleonora Duse (foto) |
Lo scoppio della prima guerra mondiale offre al poeta l’opportunità di fare
della sua esistenza un’opera straordinaria attraverso il compimento di gesta
eroiche che lo consegnino alla storia della patria: partecipa alla beffa di Buccari (10-11 febbraio 1918)
ed è protagonista del volo su Vienna (9 agosto 1918). Tra il 1919 e il 1920 prende
l’iniziativa di occupare la città di Fiume. Nel 1921 si ritira a Gardone,
chiudendosi nello splendido isolamento della villa del “Vittoriale degli
italiani”, da dove guarda con simpatia all’avvento del fascismo, e dove si
spegne il 1° marzo 1938.
* * *
Agli esordi la vocazione
teatrale di Gabriele D’Annunzio era pressoché insignificante, ma dal 1892 al
1897 quattro esperienze vissute lo affascinarono
e ne determinarono l’approdo alla scrittura per il palcoscenico:
- la conoscenza dei testi di Friederich
Nietzsche (in particolare de “La
nascita della tragedia”;
- Il viaggio in Grecia: “A
Micene - raccontò - ho riletto Sofocle ed Eschilo, sotto la porta dei Leoni: la
forma del mio dramma è già chiara e ferma”;
- l’alleanza d’amore e di lavoro con
Eleonora
Duse. In quegli anni la Duse godeva di una grandissima fama
internazionale e molti lavori di D’Annunzio furono scritti esclusivamente per
lei.
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Pirandello è probabilmente l'autore che meglio rappresenta il periodo che va dalla crisi successiva all'unità d'Italia all'avvento del fascismo. Pochi come lui ebbero coscienza dello scacco subito dagli ideali del Risorgimento e dei complessi cambiamenti in atto nella società italiana.
Sul piano letterario il suo
punto di partenza fu, come per gran parte degli autori nati nella seconda metà
dell'Ottocento, il naturalismo. Fin dal primo momento però l'oggetto
privilegiato, o pressoché esclusivo, delle rappresentazioni pirandelliane non
fu il mondo popolare bensì la condizione della piccola borghesia. Il
personaggio pirandelliano, infatti è lo specchio del crollo dei valori della
società borghese, che intraprende una rigorosa e pungente analisi delle comuni
credenze e convenzioni sociali, giungendo a minare alla radice la diffusa
certezza dell'univocità e conoscibilità dell'individuo umano.
E’ da questa prospettiva che lo
scrittore seppe sviluppare una graffiante critica di costume. Poiché però
anch'egli apparteneva alla piccola borghesia, finì per accentuarne i dubbi e le
sofferenze, che rappresentò come il segno di una condizione eterna di tutti gli
esseri umani. D'altro canto fu proprio la direzione esistenziale e metafisica
assunta dalla sua ricerca a portarlo molto vicino alle posizioni di alcuni dei
più grandi scrittori europei di questo secolo. Pirandello è stato uno dei
pochissimi scrittori italiani del Novecento capaci di raggiungere una fama
mondiale: ancora oggi i suoi drammi sono tra i più rappresentati in tutto il
mondo.
*
* *
Nato nel 1867 nella contrada di
Kaos, presso Agrigento, Luigi Pirandello fu autore di novelle, di poesie, di
romanzi, di saggi, e soprattutto di
opere teatrali.
Nel 1887 si trasferisce da
Palermo a Roma, dove frequenta la Facoltà di Lettere dell'Università ma, in
seguito ad un diverbio con il rettore è costretto ad allontanarsi e ad
iscriversi all'Università di Bonn.
Nel 1892 si stabilisce a Roma
dove collaborando a vari giornali e riviste, e insegnando letteratura italiana
presso l’Istituto Superiore di Magistero Femminile.
Nel 1894 sposa Antonietta
Portulano, dalla quale ha tre figli. Dopo
alcune raccolte di poesie, pubblica le prime novelle e i primi romanzi.
Nel 1903 una frana sommerge la
zolfara in cui erano investiti tutti i beni di famiglia; da quel momento
Pirandello si dedica con assiduità al lavoro di scrittore, mentre la moglie
Antonietta, rimane gravemente sconvolta da una crisi mentale sfociata in una
forma morbosa e violenta di gelosia nei confronti del marito, tanto da dover
restare in un ospedale psichiatrico fino alla morte (1959). La pazzia della
moglie segnerà profondamente la vita dello scrittore.
Nel
1934 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura. Morì a Roma il 10
dicembre 1936.
Le ceneri di Pirandello
riposano in una roccia, presso la sua casa natale
nella contrada Kaos, vicina ad Agrigento.
*
* *
Pirandello iniziò la sua
attività letteraria come poeta. Si era quindi proposto di scrivere 365 novelle,
una per ogni giorno dell’anno, ma ne scrisse soltanto 246. Alcune di esse
ricche di elementi drammatici, furono poi riprese dall’autore e trasformate in
commedie. Le novelle risentono dell’esperienza verista, che viene però
rivissuta in modo originale,con una sensibilità e un’ inquietudine di impronta
decadente.
Come
solitamente avviene in chi vive in un’età di transizione, vecchio e nuovo,
verismo e decadentismo coesistono in Pirandello, dando luogo ad un’arte
originale, tipicamente “pirandelliana”.
Verista è la maniera di Pirandello di ritrarre la realtà umana e sociale;la
descrizione minuziosa e impietosa dei personaggi e degli ambienti; il suo
rifiuto dei sentimentalismi romantici; ed infine verista è la sua prosa che
procede serrata, senza abbandono lirico. Ma Pirandello si discosta dal Verismo.
Egli rifiuta del Verismo il principio della impersonalità,della
rappresentazione fredda e distaccata dell’opera d’arte. Per Pirandello la
rappresentazione della realtà deve essere invece appassionata, ironica, polemica,
accompagnata dagli interventi personali dello scrittore, che giudica accusa e
condanna. Inoltre,mentre i “vinti”
del Verga,pescatori e contadini, sono rassegnati al loro destino,i personaggi
di Pirandello sono tipi più complessi, di piccolo-borghesi irrequieti. Sono
anch’essi dei “vinti”, vittime di un
destino assurdo e crudele, ma spesso da “vinti” diventano ribelli,protestano
contro la società ipocrita,non accettano la “pena di vivere così” e per questo cercano di uscire dalla forma che
li condanna a questa pena. Così già nelle novelle, troviamo la dialettica di
apparenza e realtà, che è il tema centrale delle opere del Pirandello. Come le
novelle anche i romanzi di Pirandello risentono dell’ esperienza del romanzo
verista. Ma si tratta anche qui di un verismo improntato a una sensibilità
nuova, inquiete, decadente. Si accantona la tematica sociale e si apre la
strada al romanzo psicologico. L’attenzione del Pirandello si concentra
sull’individuo, colto con le sue angosce, le sue crisi, i suoi fallimenti, in
perenne conflitto con la società e con se stesso.
IL TEATRO
Soltanto
intorno al 1910 Pirandello si decise ad affrontare anche le scene. Il
teatro rappresenta la parte più valida ed interessante della produzione
artistica del Pirandello. Egli vi giunse quando si andò maturando in lui il
distacco dal Verismo verso il Decadentismo. Allora si dedicò ad esso quasi
totalmente, comprendendo che la sua concezione tragica della vita, calata in
situazioni drammatiche, umoristiche e paradossali, poteva trovare nell’azione
scenica più che nella narrativa il mezzo espressivo più adatto ed efficace.
La sua esperienza, come commediografo e regista, risulta estremamente innovativa in quanto porta ad una vera rivoluzione del concetto di rappresentazione teatrale. In teatro rompe le forme tradizionali: riduce al minimo la scenografia ed i costumi, per attirare l’attenzione del pubblico principalmente sul testo. Pirandello rompe la barriera tra la vita reale e la finzione dando vita ad un’operazione ardita e disorientante; spesso così gli attori entrano dalla platea, seduti tra gli spettatori ed iniziano a recitare. Pirandello vuole così dare agli spettatori l’idea che siano essi stessi gli attori (teatro nel teatro, meta-teatro) facendo sì che siano proprio questi a chiedersi se a recitare siano loro stessi, magari tutti i giorni, a loro insaputa. E’ attraverso questa metodologia che Pirandello introduce il concetto che vede il teatro come realtà e la quotidianità come finzione.
Pirandello chiamò il suo teatro
“teatro dello specchio”, perché in
esso si rappresenta la vita nuda, cioè senza maschera,con le sue reali verità e
amarezze,così che chi assiste, si vede come in uno specchio così com’è, e
diventa migliore. Alla base quindi del suo teatro c’è la forte esigenza morale
di strappare gli uomini dalle menzogne,perché il mondo si rinnovi secondo
giustizia, verità e libertà. Pirandello compose complessivamente 43 fra drammi
e commedie.
Nel teatro di Pirandello possiamo distinguere varie fasi:
Il Teatro veristico è scritto interamente in dialetto siciliano perché
considerato dall'autore più vivo dell'italiano ed esprime di più l'aderenza
alla realtà.
Mano a mano che l'autore si
distacca dal verismo e si avvicina al decadentismo si ha l'inizio della seconda
fase: nel teatro umoristico, ricco di
paradossi, Pirandello presenta personaggi che spezzano le certezze del mondo
borghese introducendo la versione relativistica della realtà in cui lui
vorrebbe trovare la dimensione autentica della vita al di là della maschera.
Nella fase del teatro nel teatro le cose cambiano
radicalmente: per Pirandello il teatro deve parlare anche agli occhi non solo
alle orecchie; a tal scopo ripristinerà una tecnica teatrale di Shakespeare, il
palcoscenico multiplo, in cui vi può per esempio essere una casa divisa in cui
si vedono varie scene fatte in varie stanze contemporaneamente; inoltre nel
teatro si vede il mondo trasformarsi sul palcoscenico. Pirandello abolisce
anche il concetto della quarta parete,
cioè la parete trasparente che sta tra attori e pubblico: in questa fase,
infatti, Pirandello tende a coinvolgere il pubblico che non è più passivo ma
che rispecchia la propria vita in quella agita degli attori sulla scena.
Per il teatro dei miti, solo tre opere della produzione pirandelliana si
possono considerare dei miti: La
nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna.
IL MONDO POETICO-TEATRALE PIRANDELLIANO
Secondo
Pirandello la vita non è nient'altro che teatro. Il teatro è infatti il miglior
luogo per rappresentare le maschere sociali. Dando alle sue opere
teatrali il titolo complessivo di Maschere nude, Pirandello indica
chiaramente l’intendimento di mettere a nudo verità nascoste, il mondo
interiore dell'uomo. I temi messi in scena sono infatti:
il contrasto tra l'essere e l'apparire;
la crisi d'identità dell’individuo;
la solitudine esistenziale dell'uomo.
Maschere
nude
Per Pirandello,
la vita è un fluire costante di emozioni; la vita scorre velocemente, in modo
inafferrabile e inconoscibile. Gli esseri umani, per avere qualche consistenza,
fissano la vita in una forma che
rappresenta la fissità, la morale comune e la rigidità. Ne deriva, quindi, il
contrasto tra vita e forma. Alla vita
si oppone la forma. Per forma si
intendono le maschere sociali che ogni
individuo indossa per adeguarsi alla società di appartenenza.
Dal rapporto dialettico tra Vita
e Forma deriva il relativismo psicologico, che si svolge in due sensi: in senso
orizzontale, riguarda il rapporto dell’individuo con gli altri, e in senso verticale
riguarda il rapporto dell’individuo con se stesso.
Gli uomini non sono liberi, ma
sono come tanti “pupi” nelle mani di
un burattinaio che è il caso. Quando nasciamo, ci troviamo inseriti in una
società regolata da leggi e abitudini già fissate in precedenza. Inseriti in
questa società ci fissiamo in una forma, obbligandoci a muoverci secondo schemi
ben definiti che accettiamo senza avere mai il coraggio di rifiutarli. Però
sotto l’apparenza della forma il nostro spirito freme per la sua continua mutabilità,
perché avverte sentimenti ed impulsi che spesso sono in contrasto con la
maschera che noi (o gli altri) ci siamo imposti.
L’uomo e le sue maschere
Le maschere
sociali rappresentano un vero e proprio ostacolo alla libertà personale
dell'uomo, un limite alla vita. L'uomo per adattarsi alle convenzioni della
società è costretto ad indossare le maschere.
Se l'uomo intende liberarsene deve ricorrere alla follia. La follia, quindi, rappresenta l'unica
salvezza per gli uomini che vogliono essere liberi. Le maschere sono, quindi,
delle trappole. Ogni individuo è vittima di queste trappole. Anche la famiglia
rappresenta una maschera per ogni essere umano. Secondo Luigi Pirandello la
famiglia è la principale maschera, e quindi trappola di ogni individuo.
Questo
contrasto tra la maschera e il volto,ossia tra l’apparenza esteriore e la
realtà interiore dell’essere, costituisce il motivo di fondo del romanzo più
famoso di Pirandello, Il fu Mattia
Pascal.
Mattia Pascal
vive in un immaginario paese ligure, Miragno, dove il padre, che si era
arricchito con i traffici marittimi e il gioco d'azzardo, ha lasciato in
eredità alla moglie e ai due figli una discreta fortuna. A gestire l'intero
patrimonio è un avido e disonesto amministratore, Batta Malagna, la cui nipote,
Romilda, viene messa incinta da Mattia dopo che non è riuscito a farla sposare
all'amico Pomino. Mattia viene costretto a sposare Romilda e a convivere con la
suocera vedova che non manca di manifestare il suo disprezzo per il genero che
considera inetto. Tramite l'amico Pomino, Mattia ottiene un lavoro come
bibliotecario ma dopo un po' di tempo, infelice per il lavoro che trova
umiliante e per il matrimonio che si è rivelato sbagliato, decide di fuggire da
Miragno e di tentare l'avventura in Francia. Arrivato a Montecarlo e fermatosi
a giocare alla roulette, in seguito ad una serie di vincite fortunate, diventa
ricco. Deciso a ritornare a casa per riscattare la sua proprietà e vendicarsi
dei soprusi della suocera, un altro fatto muta il suo destino. Mentre è in
treno legge per caso su un giornale che a Miragno è stato ritrovato nella
roggia di un mulino il cadavere di Mattia Pascal. Sebbene sconvolto, comprende
presto che, credendolo tutti ormai morto, può crearsi un'altra vita. Così, con
il nome di Adriano Meis, inizia a viaggiare prima in Italia e poi all'estero,
fintantoché decide di stabilirsi a Roma in una camera ammobiliata sul Tevere.
Si innamora, ricambiato, di Adriana, la dolce e mite figlia del padrone di
casa, Anselmo Paleari, e sogna di sposarla e di vivere un'altra vita, ma presto
si rende conto che la sua esistenza è fittizia. Infatti, non essendo registrato
all'anagrafe, è come se non esistesse e pertanto non può sposare Adriana, non
può denunciare il furto subito da Terenzio Papiano, un losco individuo che lo
ha raggirato, e non può fare tutte quelle cose della vita quotidiana che
necessitano di una identità. Finge così un suicidio e, lasciato il suo bastone
e il suo cappello vicino a un ponte del Tevere, ritorna a Miragno come Mattia
Pascal. Sono intanto trascorsi due anni e arrivato al paese, Mattia viene a
sapere che la moglie si è risposata con Pomino e ha avuto una bambina. Si
ritira così dalla vita e trascorre le sue giornate nella biblioteca polverosa
dove lavorava in precedenza a scrivere la sua storia e ogni tanto si reca al
cimitero per portare sulla sua tomba una corona di fiori.
Per Pirandello il disagio
dell’uomo non deriva soltanto dall’urto con la società, ma anche dal continuo
trasmutarsi del suo spirito che non gli permette di conoscere bene se stesso.
Dal fondo del subconscio, che è la zona oscura e misteriosa del suo essere,
affiorano sempre nuovi sentimenti ed impulsi, che lo rendono diverso non solo
dagli altri, ma anche dal se stesso di prima e da quello che sarà poi. Proprio
per il suo continuo divenire, l’uomo è nello stesso tempo uno, nessuno e centomila: è “uno”,
perché è quello che di volta in volta lui credere di essere; è “nessuno”, perché, dato il suo continuo
mutare, è incapace di fissarsi in una personalità definita, né si riconosce
nella forma che gli altri gli attribuiscono; è infine “centomila”, perché ciascuno di quelli che lo avvicinano, lo vede “a
suo modo”, ed egli assume tante forme o apparenze.
La disgregazione della persona umana costituisce il tema di fondo del romanzo-saggio Uno, nessuno e centomila.
Un giorno a Vitangelo Mostarda, il protagonista del
romanzo, la moglie Dida, che chiama il marito Gengè, fa osservare che il naso
di lui pende verso destra e che, come uomo ha molti difetti. Da questa rivelazione
casuale incomincia la meditazione sulla vita che porta Vitangelo alla follia.
Ciò che lo colpisce non è la rivelazione dei difetti, ma il fatto che egli per
28 anni non è stato, per la moglie e per gli altri, quello che lui credeva di
essere, e che ciascuno lo ha visto a suo modo. Ed allora egli distrugge le
forme o immagini che gli altri si son fatti di lui, e prende una serie di
iniziative che gettano lo scompiglio nel suo ambiente, fino ad alienare le sue
ricchezze per la costruzione di un ospizio per mendicanti, dove finisce
anch’egli come ospite. Egli rifiuta le centomila forme che gli altri gli
attribuiscono, preferisce annullarsi come persona e vivere senza alcuna
coscienza di essere.
Tra Il fu Mattia Pascal e Uno,
nessuno e centomila, vi è una differenza: nel primo romanzo il
relativismo psicologico si svolge prevalentemente in senso orizzontale, perché
è centrato sul rapporto di Mattia, sdoppiato, con la società; in Uno,
nessuno e centomila il relativismo psicologico si svolge prevalentemente
in senso verticale, è centrato sul ripiegamento in se stesso di Vitangelo
Mostarda che vede frantumarsi in centomila aspetti la propria personalità, fino
alla follia e all’autodistruzione. In comune i due romanzi hanno il senso della
solitudine dell’uomo in un mondo mutevole, incomprensibile ed assurdo.
*
* *
Pirandello definì "teatro dello specchio " tutta la
sua opera, perché in essa si rappresenta la vita senza maschera, quale essa è
nella sua sostanza e nella sua verità , lo spettatore, l'attore e il lettore vi
si vedono come chi si guardi ad uno specchio; allora si riconoscono diversi da
come si erano sempre immaginati e ne restano amareggiati e preoccupati.
Pirandello aprirà la strada ad un nuovo tipo di teatro sperimentale,
caratteristico del secondo Novecento, il teatro “dell’assurdo”. Dopo aver ottenuto
un buon successo con Pensaci,
Giacomino! e Liolà (entrambi del 1916), egli
precisò le fonti della propria ispirazione con Così è (se vi pare) (1917) e Il giuoco delle parti (1918). Ma l'anno decisivo per la
notorietà fu il 1921, quando, per la sua
audacia sperimentale, il dramma Sei
personaggi in cerca d'autore ottenne a Milano un clamoroso successo,
che proseguì subito dopo in America. A questo seguì il successo della tragedia Enrico IV (1922), che consacrò
definitivamente Pirandello fra i massimi drammaturghi mondiali. Fra le numerosissime opere teatrali dello
scrittore, sono da ricordare anche Ciascuno
a suo modo (1924) e Questa sera si recita a soggetto
(1930).
Il suo capolavoro, per giudizio concorde
della critica, è la commedia Sei personaggi in cerca d'autore
(1921), che è anche la maggiore opera del teatro italiano del Novecento. In
essa Pirandello, riprendendo l'antico artificio del "teatro nel teatro", dà la più complessa e riuscita
rappresentazione della condizione umana e del suo modo di intendere il rapporto
tra l'arte e la vita.
(allestimento
Teatro Carcano, Milano, 2013 – Regia di Giulio Bosetti)
In Sei personaggi In cerca d’autore, durante una prova in teatro,
arrivano sulla scena sei “personaggi”, reali, ma non persone autentiche, dato
che sono personaggi nati dalla fantasia di un autore che non ha saputo, o
voluto, dar loro vita compiuta nella finzione scenica, e che cercano un autore
che voglia dar loro vita sul palcoscenico, almeno per la durata del loro
dramma, in quanto il personaggio vive solo se esiste la storia da
rappresentare. Perché la vita non ha bisogno di essere rappresentata, si
rappresenta da sé, mentre la verosimiglianza cerca in tutti i modi di imitare
la vita.
I sei personaggi che chiedono al
capocomico di essere tratti dal limbo della loro condizione, di poter vedere
rappresentato il loro dramma e che poi non si riconoscono negli attori che
tentano di riviverlo, sono un po' la cifra di tutta l'arte pirandelliana in
perenne contesa con l'infida, inafferrabile realtà che sembra di continuo
assoggettarla, ma ne resta in effetti profondamente lacerata. I sei personaggi
incarnano ognuno una visione diversa dello stesso dramma che ogni personaggio
vive con una "sua" verità inconciliabile con quella degli altri.
Questo è il dramma pirandelliano della solitudine e dell'incomunicabilità che
viene spiegato dal Padre quando, rivolgendosi al capocomico, gli dice: «ciascuno
di noi - veda - si crede "uno" ma non è vero: è "tanti"
signore, "tanti" secondo tutte le possibilità d'essere che sono in
noi; "uno" con questo, "uno" con quello - diversissimi! E
con l'illusione d'esser sempre "uno per tutti" e sempre
"quest'uno" che ci crediamo in ogni nostro atto! Non è vero!».
La fama di Pirandello drammaturgo venne a
noi dagli stranieri. Per lungo tempo non si comprese la carica innovatrice
contenuta nel teatro pirandelliano, mentre fu quasi esclusivamente attraverso
la sua opera di drammaturgo che l'arte di Pirandello, e con essa tutta la
nostra letteratura, si inseriva finalmente nella grande letteratura europea e
mondiale contemporanea.
L'arte di
Pirandello fu esposta a gravi rischi, ai quali egli non sempre riuscì a
sottrarsi: il "cerebralismo", l'artificiosa accentuazione di
situazioni paradossali, il compiacimento di complicati sofismi addotti per
smontare e distruggere valori e miti convenzionali. Ma nelle sue opere più
grandi egli sollevò alla luce della sua poesia la sua disperata ricerca di
verità e la sua amara cognizione della solitudine e dell'alienazione dell'uomo
contemporaneo.
*
* *
LA POETICA DELL’UMORISMO (Il “sentimento
del contrario”)
L’umorismo è il sentimento del contrario, che nasce, nello scrittore
umorista, dall’azione combinata di due forze diverse, ma complementari, per cui
egli è nello stesso tempo poeta e critico della situazione. Le due forze sono
il sentimento, che crea le situazione della vita, e la ragione, che interviene
e le analizza scomponendole nei loro elementi costitutivi e rilevandone i
meccanismi che le determinano. Nell’arte umoristica, quando la ragione
interviene per analizzare una situazione o resta in superficie, si ha l’“avvertimento
del contrario”, quando invece la ragione penetra in profondità si ha il
“sentimento del contrario”. Pirandello porta l’esempio di una vecchia signora
che si unge i capelli, si trucca goffamente e si agghinda come una giovinetta.
La prima reazione nel vederla è quella di ridere, avvertendo il lato comico
della situazione, perché la vecchia è il contrario di ciò che dovrebbe essere,
una donna seria, alla sua età. Questo è il momento comico dell’ “avvertimento
del contrario”. Ma poi interviene la ragione, che con la sua riflessione vuol
rendersi conto del perché di così goffo comportamento, e scopre che quel modo
di truccarsi è una forma di autoinganno: la vecchia signora ha paura della
vecchiaia e crede di allontanarla o di nasconderla, addobbandosi in quel modo.
Questo è il momento del “sentimento del contrario”, perché alla comicità
subentra la pietà per il dramma penoso della povera donna.
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Una figura fuori dalle righe fu quella di Achille Campanile il cui teatro anticipò di molti decenni la nascita del teatro dell'assurdo.
La Germania
della Repubblica di Weimar fu un terreno di sperimentazione molto proficuo,
oltre al già citato Brecht molti artisti furono conquistati
dall'ideale comunista e seguirono l'influenza del teatro bolscevico, quello di Vladimir
Majakovskij.
Nella
Spagna del primo dopoguerra spiccano le figure di Federico García Lorca
(1898-1936) che nel 1933 fece rappresentare la tragedia Bodas de sangre,
Nozze di sangue (ma le sue ambizioni furono presto represse nel sangue
dalla milizia franchista che lo fucilò vicino Granada), e di Rafael
Alberti, con i suoi drammi esistenzialisti, tra cui El hombre
desabithado, L’uomo disabitato, rappresentato nel 1931.