La Bottega delle Maschere
l'OASI del tempo
2020
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VI 'Salottino'
del 24 febbraio e 2 marzo 2020
La Bibbia
Antico Testamento
Il libro del profeta Giona
Capitolo 1
Giona ribelle
[1]Fu
rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: [2]«Alzati,
và a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita
fino a me». [3]Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis,
lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis.
Pagato il prezzo del trasporto, s'imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal
Signore.
[4]Ma il
Signore scatenò sul mare un forte vento e ne venne in mare una tempesta tale
che la nave stava per sfasciarsi. [5]I marinai impauriti invocavano
ciascuno il proprio dio e gettarono a mare quanto avevano sulla nave per
alleggerirla. Intanto Giona, sceso nel luogo più riposto della nave, si era
coricato e dormiva profondamente.
[6]Gli si avvicinò il capo
dell'equipaggio e gli disse: «Che cos'hai così addormentato? Alzati, invoca il
tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo». [7]Quindi
dissero fra di loro: «Venite, gettiamo le sorti per sapere per colpa di chi ci
è capitata questa sciagura». Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona. [8]Gli
domandarono: «Spiegaci dunque per causa di chi abbiamo questa sciagura. Qual è
il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale popolo
appartieni?». [9]Egli rispose: «Sono Ebreo e venero il Signore Dio del cielo,
il quale ha fatto il mare e la terra». [10]Quegli uomini furono presi da
grande timore e gli domandarono: «Che cosa hai fatto?». Quegli uomini infatti
erano venuti a sapere che egli fuggiva il Signore, perché lo aveva loro
raccontato. [11]Essi gli dissero: «Che cosa dobbiamo fare di te perché
si calmi il mare, che è contro di noi?». Infatti il mare infuriava sempre più. [12]Egli
disse loro: «Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è
contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa
mia». [13]Quegli uomini cercavano a forza di remi di raggiungere la
spiaggia, ma non ci riuscivano perché il mare andava sempre più crescendo
contro di loro. [14]Allora implorarono il Signore e dissero: «Signore,
fà che noi non periamo a causa della vita di questo uomo e non imputarci il
sangue innocente poiché tu, Signore, agisci secondo il tuo volere». [15]Presero
Giona e lo gettarono in mare e il mare placò la sua furia. [16]Quegli
uomini ebbero un grande timore del Signore, offrirono sacrifici al Signore e
fecero voti.
Capitolo 2
Giona
salvato
[1]Ma il
Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre
del pesce tre giorni e tre notti. [2]Dal ventre del pesce Giona pregò il
Signore suo Dio [3]e disse:
«Nella
mia angoscia ho invocato il Signore
ed egli mi ha esaudito;
dal profondo degli inferi ho gridato
e tu hai ascoltato la mia voce.
[4]Mi hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare
e le correnti mi hanno circondato;
tutti i tuoi flutti e le tue onde
sono passati sopra di me.
[5]Io dicevo: Sono scacciato
lontano dai tuoi occhi;
eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio.
[6]Le acque mi hanno sommerso fino alla gola,
l'abisso mi ha avvolto,
l'alga si è avvinta al mio capo.
[7]Sono sceso alle radici dei monti,
la terra ha chiuso le sue spranghe
dietro a me per sempre.
Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita,
Signore mio Dio.
[8]Quando in me sentivo venir meno la vita,
ho ricordato il Signore.
La mia preghiera è giunta fino a te,
fino alla tua santa dimora.
[9]Quelli che onorano vane nullità
abbandonano il loro amore.
[10]Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio
e adempirò il voto che ho fatto;
la salvezza viene dal Signore».
ed egli mi ha esaudito;
dal profondo degli inferi ho gridato
e tu hai ascoltato la mia voce.
[4]Mi hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare
e le correnti mi hanno circondato;
tutti i tuoi flutti e le tue onde
sono passati sopra di me.
[5]Io dicevo: Sono scacciato
lontano dai tuoi occhi;
eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio.
[6]Le acque mi hanno sommerso fino alla gola,
l'abisso mi ha avvolto,
l'alga si è avvinta al mio capo.
[7]Sono sceso alle radici dei monti,
la terra ha chiuso le sue spranghe
dietro a me per sempre.
Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita,
Signore mio Dio.
[8]Quando in me sentivo venir meno la vita,
ho ricordato il Signore.
La mia preghiera è giunta fino a te,
fino alla tua santa dimora.
[9]Quelli che onorano vane nullità
abbandonano il loro amore.
[10]Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio
e adempirò il voto che ho fatto;
la salvezza viene dal Signore».
[11]E il
Signore comandò al pesce ed esso rigettò Giona sull'asciutto.
Capitolo 3
La conversione
di Ninive e il perdono divino
[1]Fu
rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: [2]«Alzati,
và a Ninive la grande città e annunzia loro quanto ti dirò». [3]Giona si
alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive era una città molto
grande, di tre giornate di cammino.
[4]Giona cominciò a percorrere la
città, per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Ninive
sarà distrutta». [5]I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono
un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. [6]Giunta
la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si
coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. [7]Poi fu proclamato in
Ninive questo decreto, per ordine del re e dei suoi grandi: «Uomini e animali,
grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. [8]Uomini
e bestie si coprano di sacco e si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si
converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. [9]Chi
sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno sì che noi
non moriamo?». [10]Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti
dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva
minacciato di fare loro e non lo fece.
Capitolo 4
Disappunto
di Giona e risposta divina
[1]Ma Giona
ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito. [2]Pregò il Signore:
«Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per ciò mi
affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e
clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al
male minacciato. [3]Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è
per me morire che vivere!». [4]Ma il Signore gli rispose: «Ti sembra
giusto essere sdegnato così?».
[5]Giona
allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì un riparo di
frasche e vi si mise all'ombra in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto
nella città. [6]Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino
al di sopra di Giona per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male.
Giona provò una grande gioia per quel ricino.
[7]Ma il
giorno dopo, allo spuntar dell'alba, Dio mandò un verme a rodere il ricino e
questo si seccò. [8]Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un
vento d'oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venir
meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere».
[9]Dio
disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di
ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato al punto da invocare la
morte!». [10]Ma il Signore gli rispose: «Tu ti dai pena per quella
pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto
spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: [11]e io
non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di
centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la
sinistra, e una grande quantità di animali?».
* * *
Giona,
profeta disobbediente
Giona è un profeta inviato da Dio verso la metà dell’VIII secolo a.C. a Ninive, la capitale dell’Assiria, il grande impero totalitario orientale dell’epoca.
Fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, questa
parola del Signore: «Àlzati, va’ a
Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino
a me» .
Ninive è una città nemica del piccolo regno
di Israele, è una potenza che lo distruggerà nel 722/721 e deporterà molti
ebrei. Ma Dio invia il profeta proprio al cuore della città del nemico.
La reazione di Giona è immediata: preso dalla
paura egli scappa! Se Ninive è a oriente, al di là del deserto, il profeta va a
occidente: scende al porto di Giaffa per fuggire attraverso il mare fino a
Tarsis, in Spagna. La paura nei confronti del potente, di chi domina con malvagità
e prepotenza , lo induce a non fare il profeta, a non voler parlare a nome di
Dio, a tacere: ecco perché Giona fugge «lontano
dal Signore». Il profeta riceve da Dio una missione ma si chiude nel
mutismo, non va a denunciare il male commesso dai Niniviti, fa finta di niente.
L’interesse, l’illusione che per vivere
meglio si debba fingere di non vedere, la paura delle conseguenze di una parola
pronunciata con franchezza: tutto questo spinge Giona a tacere e a fuggire. Fare
i profeti costa caro, perché se non si è allineati si è emarginati,
se non si applaude sempre si è diffidati, se non si dà ragione a chi detiene il
potere si è osteggiati …
Dio però impedisce a Giona la riuscita del
suo progetto. Invia una tempesta che blocca il tragitto della nave e minaccia
di distruggerla. Poi Giona, individuato dall’equipaggio come la causa di questa
sciagura, è gettato in mare, è ingoiato da un grosso pesce e rimane per tre
giorni e tre notti nel buio del suo ventre. Qui egli si pente del rifiuto
opposto a Dio, ed eleva a lui una lunga preghiera. Dio lo perdona e Giona viene
rigettato dal pesce sulla spiaggia.
A questo punto Dio gli rinnova l’invito: «Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e
annuncia loro quanto ti dico». Questa volta Giona vi si reca e predica attraversando
per un giorno le vie della città chiedendo la conversione dei Niniviti, il
cambiamento del loro modo di vivere. Egli ha ancora paura, teme di essere
ucciso da questi nemici di Israele, ma agisce secondo il comando del Signore.
Il risultato è sbalorditivo: la grande città
peccatrice si converte nella sua totalità (persino gli animali!), piange le
proprie malvagità e fa digiuno. Allora «Dio
vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia,
e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo
fece».
Ciò che Dio desiderava, la conversione dalla
malvagità, si è puntualmente avverato, eppure Giona si arrabbia, va in collera:
«Giona ne provò grande dispiacere e ne fu
sdegnato». Nella sua ottica Ninive va punita per il male che ha commesso;
si sarà pure convertita, ma la pena le deve essere assegnata, perché senza
castigo e punizione non ci può essere neppure giustizia. Questo è il suo
ragionamento: se Dio è giusto, deve punire i colpevoli.
Giona non sopporta che la pena non arrivi.
Dio allora gli chiede: «Ti sembra giusto
essere sdegnato così?». Ma egli si chiude in un altero silenzio, esce da
Ninive e va su una collinetta a oriente della mura: «si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all’ombra, in attesa di
vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città». È convinto che Dio, se
davvero è giusto, farà scendere il fuoco su Ninive e la brucerà, e si pone in
attesa del compimento di quella che lui crede essere la giustizia di Dio.
A questo punto Dio decide di dare una lezione
al profeta disobbediente che sembra non conoscere il suo cuore. Mentre Giona
dorme Dio gli fa crescere sulla testa un alberello, il qiqajon - un ricino - , che gli
fa ombra e gli è di conforto nell’arsura del deserto. Il profeta si rallegra di
quell’ombra, ma l’indomani Dio invia un verme e il vento secco del deserto e fanno
subito seccare il qiqajon.
Allora Giona, colpito dal sole, si infuria «e
chiede di morire, dicendo: “Meglio per me morire che vivere”».
Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?».
Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono
sdegnato da morire!». Ma il Signore gli rispose: «Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna
fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una
notte è perita! E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città,
nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere
fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?» .
A questo punto il racconto si conclude. E l’ultima
parola di Dio è una domanda che dai confini dell'infinito giunge fino a noi.
(da E.
Bianchi, Milano, 2012)
* * *
V 'Salottino'
del 3, 10 e 17 febbraio 2020
“Il Piccolo Principe” è un racconto dello scrittore
ed aviatore francese Antoine de Saint-Exupéry. Pensata come una fiaba per bambini
e ragazzi, “Il Piccolo Principe” è diventato ben presto un
vero e proprio caso editoriale, trasformandosi in un long seller.
Pubblicato per la prima volta a New York nell’Aprile del 1943, sia in inglese
che in francese, “Il Piccolo Principe”
è uno
dei libri più letti al mondo.
“Le Petit
Prince” è dedicato al bambino che fu Léon Werth, amico
dell'autore. L'opera, sia nella sua lingua originale che nelle varie
traduzioni, è illustrata da una decina di acquerelli dello stesso
Saint-Exupéry, disegni semplici e un po' naïf, eppure divenuti celebri quanto lo
stesso racconto.
“Il Piccolo Principe” sfugge a qualsiasi classificazione e - come
i più grandi capolavori letterari - si
presta a diversi livelli di lettura. Fiaba o racconto filosofico, pieno di
riflessioni sulla vita, sull’amicizia, sulla solitudine, sulla morte, ha infatti
sempre esercitato un fascino prodigioso, anche per quei disegni dal tratto e
dai colori delicati così indissolubilmente legati allo svolgersi della narrazione.
Antoine de Saint-Exupéry
Antoine Saint-Exupéry nacque a Lione nel 1900
in una famiglia dell’aristocrazia francese di provincia. A quattro anni rimase
orfano del padre (il conte Jean), ma trascorse con le sorelle e il fratello
un’infanzia serena, mantenendo sempre con la madre (Marie Boyer di Fonscolombe)
un rapporto molto stretto.
Nel collegio dei gesuiti di Sainte-Crois a Le
Mans divenne malinconico e solitario, insofferente della disciplina rigida
dell’Istituto. Nel 1912 realizzò, per la prima volta, il
sogno di volare sull’aereo del futuro asso dell’aviazione francese nella prima
guerra mondiale, Jules Védrines.
Conclusi gli studi superiori - dopo la morte
del fratello quindicenne François – iniziò a frequentare gli ambienti letterari
della capitale. Conseguito il brevetto di pilota civile e
militare, dopo un incidente, intraprese la carriera di pilota civile.
Nel 1926 pubblicò il suo primo libro “Volo di
notte”. Trasferitosi nel 1930 a Buenos Aires, lavorò come direttore dell'aereo
postale Argentina-Francia. Qui conobbe Consuelo Suncín-Sandoval Zeceña de Gómez
che, divenuta sua musa ispiratrice, sposò nel 1931.
Nel 1935, tentando di battere il record di
volo Parigi-Saigon, nel deserto della Libia in un atterraggio di fortuna si
salvò per miracolo. Tornato in Europa, ormai famoso, ricevette la Legion d’Onore, per le sue scoperte
scientifiche nell’ambito della navigazione aerea.
Reduce di missioni pericolose, durante la
seconda guerra mondiale, nel 1942 riparò in America dopo la firma del trattato
tra la Francia del maresciallo Pétain e la Germania di Hitler. Quando l’attacco
a Pearl Harbour provocò la mobilitazione generale, lasciò New York, dove aveva
già pubblicato “Il Piccolo Principe”,
arruolandosi come volontario per le azioni militari in Nord Africa.
2014: 70° anniversario della scomparsa di A. de Saint Exupéry
“Il Piccolo Principe”: il racconto
La storia è raccontata da un pilota di
aeroplani che si trova in mezzo al deserto, a causa di un guasto al suo aereo,
con poche provviste di cibo e acqua. In questa situazione avviene l'incontro
con il Piccolo Principe, un bambino
biondo che chiede al pilota di disegnarli una pecora.
Il piccolo principe racconta poi di essere arrivato da un piccolo pianeta -
l’asteroide B-612 - di cui è solito prendersi cura estirpando le erbacce ed
impedendo ai baobab di crescere troppo, e di invadere così tutto lo spazio
abitabile (il pianeta è davvero molto piccolo). Su questo asteroide ci sono
soltanto lui, tre vulcani e una piccola rosa. Il piccolo principe cura incessantemente il
suo fiore e lo tiene sotto una campana di vetro per evitargli ogni male, fin quando,
deluso dall’atteggiamento contraddittorio e vanesio della rosa, decide di
mettersi in viaggio per l’universo alla ricerca di nuovi amici.
Durante il suo viaggio, visitando gli asteroidi dal 325 al 330, incontra degli strani personaggi, tutti adulti egocentrici e materialisti:
- un vecchio re solitario, che ama dare ordini ai suoi sudditi (sebbene sia l’unico abitante del pianeta),
- un vanitoso che chiede solo di essere applaudito e ammirato, senza ragione,
- un ubriacone che beve per dimenticare la vergogna di bere,
- un uomo d’affari che passa i giorni a contare le stelle, credendo che siano sue,
- un lampionaio che deve accendere e spegnere il lampione del suo pianeta ogni minuto, perché il pianeta gira a quella velocità,
- un geografo che sta seduto alla sua scrivania ma non ha idea di come sia fatto il suo pianeta, perché non dispone di esploratori da mandare ad analizzare il terreno e riportare i dati.
Ma il piccolo principe riesce
a provare un pò di simpatia solo per il lampionaio, che si rivela sempre fedele al suo compito.
E’ il geografo suggerisce al principino
di visitare il pianeta terra, e così egli si ritrova nel mezzo di un deserto.
Il primo incontro è quello con un serpente che parla per enigmi. Poi incontra
un fiore con tre petali, e si arrampica sulla montagna più alta, dove scambia per una conversazione l'eco della
sua stessa voce. infine trova un giardino di rose, che provoca in lui una forte
delusione, perché si rende conto che la rosa del suo pianeta gli ha mentito quando
affermava di essere l'unica rosa al
mondo.
Il principe incontra anche una volpe, che
gli chiede di essere addomesticata e di diventare sua amica. Dalla volpe il
piccolo principe apprende delle
importanti lezioni di vita:
- Noi
possiamo vedere solo con il cuore; ciò che è essenziale è invisibile agli occhi
- E'
il tempo che egli ha dedicato alla sua rosa, che rende la sua rosa così
importante.
- l'amore
rende sempre responsabili di coloro che si amano.
Così il piccolo principe comprende che anche
se ha visto molte rose, il suo amore per l'unica rosa del suo pianeta lo ha
reso responsabile della sua rosa, ed inizia a sentirne la mancanza.
Dopo la volpe, il piccolo principe incontra anche un indaffarato controllore delle ferrovie e un venditore di pillole che calmano la sete, facendo risparmiare tanto tempo.
Dopo la volpe, il piccolo principe incontra anche un indaffarato controllore delle ferrovie e un venditore di pillole che calmano la sete, facendo risparmiare tanto tempo.
Dopo aver ascoltato tutto il racconto del
piccolo principe, il pilota non è riuscito a riparare l’aereo e ha terminato la
scorta d’acqua. Allora vanno insieme alla ricerca di un pozzo. Dopo una
giornata di cammino i due si fermano stanchi su una duna ad ammirare il deserto
nella notte. Con in braccio il bambino addormentato, il pilota cammina tutta la
notte, e finalmente all’alba scopre il pozzo.
Il pilota
torna al lavoro al suo apparecchio. La sera seguente ritrova il piccolo
principe ad attenderlo su un muretto accanto al pozzo, mentre parla con il
serpente che aveva incontrato un anno prima, al suo arrivo sulla terra. Il
piccolo principe chiede al serpente - che durante il loro primo incontro gli
aveva confidato di avere la capacità di portare chiunque molto lontano - di
riportarlo a casa, sul suo piccolo pianeta. Allora il
serpente lo morde alla caviglia e il piccolo principe cade
esanime sulla sabbia.
Il mattino
dopo l’aviatore, non trovando il corpo del piccolo principe, è sicuro che egli
sia tornato nel suo asteroide, dalla sua rosa. Da allora in poi, guardando le
stelle, sentirà l'eco della risata del piccolo principe, e talvolta si
preoccuperà del fatto che la pecora che aveva disegnato per il principe possa
aver mangiato la sua rosa.
Il racconto
si conclude con l'invito ai lettori che dovessero recarsi nel posto di
comunicargli un eventuale ritorno sulla terra del piccolo principe.
L'incipit del 'Piccolo Principe' in uno sand-art show
I personaggi
Il piccolo principe
E' il bambino che vive su un minuscolo pianeta ed atterra nel nostro pianeta durante un viaggio alla ricerca di verità e bellezza e amicizia. Nonostante l'età ha un carattere forte, senza paura, e innocente. Quando qualcuno cerca di fare amicizia con lui ed è mosso da sentimenti non egocentrici, il principe corrisponde. E' in grado di accorgersi quando le persone si illudono e vivono vite non autentiche, persi in occupazioni fini a se stesse. Il piccolo principe incarna tutto ciò che nella vita è bene, ed è capace di apprezzare l'essenza delle cose. Attaversa le esperienze della vita col cuore aperto, ed accetta la morte come parte della vita di un essere umano, e dopo la morte, causata dal morso del serpente, il pilota comprende che lo spirito del principe non morirà, e che la morte sarà solo l'inizio di una nuova vita.
Il pilota di aeroplani
E' il narratore del racconto, un adulto con il cuore di un bambino. Quando, nel deserto, stringe amicizia con il piccolo principe, riprende consapevolezza del bambino che è in lui, e della sua stessa innocenza. Il pilota, nel deserto, sta combattendo una lotta contro il tempo: deve riparare l'aereo prima che la scorta d'acqua finisca; nonostante questo dedica del tempo al principe, ed alle sue questioni apparentemente infantili. I due diventano amici, ed il pilota impara di nuovo ad amare il prossimo e a guardare la vita col cuore. Quando il pilota aveva l'età del principe, fu scoraggiato nel perseguire il suo talento artistico e la sua passione per la pittura, ma il principe lo incoraggia a riscoprire la sua arte, poichè coloro che hanno l'animo puro (soprattutto i bambini) la capiranno.
La rosa
E' l'amata del piccolo principe, l'unico fiore esistente sul suo piccolo pianeta. La rosa è incostante, complicata e vanitosa, ed induce in errore il principe con le sue richieste. Il principe prova a renderla felice, prendendosi cura di lei, che tuttavia vuole sempre di più. Deluso, il principe parte alla ricerca di qualcos'altro. Durante il viaggio riscopre l'importanza che la rosa ha nella sua vita, e decide di tornare. Nonostante le parole, la rosa ama il principe, ed è corrisposta. Il principe si sente responsabile nei confronti della rosa, e si pente di averla lasciata incustodita, con le sole sue quattro spine per difendersi dai pericoli del mondo.
Il Piccolo Principe e la rosa (dal cap. 8)
Il re
Crede di poter regnare sopra qualsiasi cosa, comprese le stelle. Offre al piccolo principe una carica di governo, ma il principe non cerca potere bensì amicizie.
Il vanitoso
Il vanitoso pensa che tutti gli altri siano suoi
ammiratori, ordina al principe di applaudirlo, e come risposta all'applauso, si
inchina.
L'ubriacone
E' un uomo che rifugge le responsabilità della vita e cade nel circolo vizioso
di bere per dimenticare di essere un ubriacone.
L'uomo d'affari
E' costantemente occupato a contare le stelle al fine di guadagnare dei soldi. Crede di essere una persona seria che svolge un lavoro serio, tuttavia agli occhi del principe è una persona noiosa che svolge un lavoro noioso, che non si cura dell'amicizia e dei valori della vita.
Il lampionaio
E' infelice perchè deve lavorare duramente e non ha
tempo di riposare. E' un personaggio positivo agli occhi del protagonista, per il
suo senso di responsabilità e del dovere; a differenza degli altri personaggi
incontrati nel girovagare da un pianeta all'altro non è un egoista.
Il geografo
L'ennesimo adulto cui sfugge il senso della vita, che passa tutto il tempo a scrivere libri, e non sa utilizzarli per esplorare e fare esperienza diretta del mondo.
La volpe
Insegna al piccolo principe il segreto della vita. Il segreto dell'amicizia vista come addomesticarsi l'un l'altro, creare legami e condividere la vita, generando legami che cambiano il destino di entrambi. Inoltre insegna al principe che le cose importanti sono invisibili agli occhi, e vanno sentite col cuore, e che l'amore genera la responsabilità verso chi si ama.
I baobab
Sono gli alberi giganti che, se non potati
regolarmente, occuperebbero tutto il territorio del piccolo pianeta in cui
abita il principe, rendendolo inospitale. Sono il simbolo di quelle tendenze
che, se non affrontate, portano pessime conseguenze.
Il controllore delle ferrovie
Il suo compito è quello di commutare i treni nei
binari facendo sì che transitino a destra oppure a sinistra. Vedendo migliaia
di viaggiatori, ci comunica il messaggio che le persone continuano a viaggiare
perchè sono insoddisfatte, senza sapere bene cosa stanno cercando.
Il commesso
Cerca di vendere al principe una pillola che gli
permetterà di liberarsi della sete, così facendo potrà risparmiare 53 minuti a
settimana del suo tempo. Il principe rifiuta e preferisce camminare lentamente
verso un pozzo per procurarsi l'acqua.
Il serpente
E' il simbolo della morte, intesa come l'inizio di una
nuova vita spirituale. Con il suo morso mortale, permetterà al principe di
rientrare a casa nel suo pianeta. Il serpente riconosce la bontà del principe e
capisce che è troppo buono per la terra. Quando la stella del piccolo principe
passerà vicina a dove il principe era atterrato un anno prima, morderà il
principe, che cadrà nella sabbia.
Il Piccolo Principe incontra il Serpente (dal cap. 17)
* * *
Alcuni commenti d'Autore
Matilde
Quarti
L’amicizia tra i due nasce, in un contesto
estremo come quello di un atterraggio di emergenza nel deserto del Sahara,
proprio per la componente infantile e naïf
del carattere del protagonista; seppur adulto, egli non ha dimenticato il se
stesso bambino, come traspare dall’episodio del disegno del boa e
dell’elefante.
Il pilota sa che molto spesso gli adulti non capiscono le fantasie dei
bambini e che altrettanto spesso questa incompresione è motivo
di sofferenza per i più piccoli. Chi cresce, per Saint-Exupéry, commette
infatti l’errore di dimenticare di essere stato bambino: il “piccolo principe”
è proprio una metafora dello sguardo
infantile sul mondo.
Il fatto che il protagonista sia un alieno
che viene da un altro pianeta permette di capovolgere il modo con cui solitamente guardiamo alle cose e alle
persone: Saint-Exupéry presenta così al lettore una galleria di
personaggi con cui stigmatizza i difetti
più comuni del genere umano. Sui diversi asterodidi incontriamo
un re, ipocrita nella sua ansia di potere, un burocrate, bloccato nel suo ligio
rispetto delle regole, un vanitoso, incapace di pensare ad altro che a sé, un
ubriacone, che non sa riconoscere le proprie debolezze, un uomo d’affari,
schiavo del suo stesso denaro, un geografo, che non sa trasformare il suo
sapere accademico in un’esistenza attiva.
Al “piccolo principe” (e a Saint-Exupéry) tutte queste occupazioni sembrano del tutto
senza senso, perché allontano gli uomini dal senso più intimo
delle cose e dei rapporti tra le persone.
A ciò si contrappone il percorso di
maturazione del protagonista, grazie soprattutto al rapporto con la volpe, la sua
amica più sincera. L’addomesticamento dell’animale selvatico e la scelta di
incontrarsi ad un’ora fissa - per dare valore all’attesa dell’incontro - fanno
crescere il piccolo principe, che comprende i suoi errori nel rapporto con la
sua rosa prediletta e che soprattutto impara che ciò che conta davvero sono i legami d’amicizia.
Appresa la lezione, il piccolo principe potrà
tornare sul suo pianeta: il morso del serpente e la morte sono dunque i simboli
di una maturazione compiuta.
Il Piccolo
principe potrebbe anche rappresentare una reazione agli anni
cupi e alle tragedie della guerra, in cui le azioni degli uomini appaiono davvero
insensate ed assurde.
Il messaggio del racconto è sottolineato dai toni fiabeschi della narrazione,
e in particolar dalla descrizione degli spazi. È infatti assai significativo
che tutta la vicenda sia ambientata in spazi
dominati dalla solitudine: il deserto del Sahara e lo spazio
siderale in cui viaggia il protagonista come metafora dello sradicamento della guerra, e la
ricerca d’acqua del pilota come la difficoltà dell’uomo di trovare ciò che
davvero conta, al di là delle apparenze e delle false illusioni.
I livelli di lettura del Il piccolo principe sono quindi diversi,
e si accompagnano ad uno stile
semplice e lineare, adatto a tutti i tipi di lettore.
Bruno Elpis
Il piccolo principe è il fanciullo che – nonostante i casi della vita, nonostante il procedere degli anni, nonostante le contaminazione e le disillusioni – permane nel nostro cuore. E’ il bagliore dell’innocenza che scorgiamo vivo in noi, il fuoco del nostro desiderio di amare e di essere ricambiati.
L’autore percepisce questa verità nel silenzio del deserto, nella solitudine, guardando in faccia alla morte durante un incidente con il suo aereo. E la verità ha il volto di un bambino che vola da un pianeta all’altro. Un bimbo che colloquia con personaggi come il re, l’uomo che accende i lampioni o l’uomo d’affari. Un ragazzino che insiste con le domande (e non desiste, una volta che le ha poste: come tutti i bambini!) e che nutre un amore struggente per la sua rosa bellissima e vanitosa. Bellissima e vanitosa come ogni amore che si rispetti.
Pagine indimenticabili di un libro che ho letto in italiano e in francese, di un soggetto che ho visto rappresentato a teatro. Un’opera che ogni volta rivela un aspetto nuovo, coinvolgente, nelle mille sfaccettature della sua complessa e disarmante semplicità.
Mi piace anche variarne il tema, a partire da singole frasi di quest’opera. O da un incontro, come quello con la volpe. Un esercizio che spesso faccio (reinterpretare), quando leggo. Per vivere attivamente quello che leggo. Questo è il risultato, lo so, modesto. Ma mi consente di rievocare passaggi indimenticabili e indimenticati. Provateci anche voi, è soltanto un gioco.
“I campi di grano non ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il suono del vento nel grano…”
La volpe tacque e guardò il piccolo principe: “Per favore … addomesticami”, disse.
Mi guardai attorno. Io, i campi di grano li avevo lì, di fronte a me. E ne ero completamente soggiogato. Non avevo bisogno di essere addomesticato.
Un soffio di vento sibilò pervadendomi, chiusi gli occhi, mi lasciai trasportare e capii che avrei potuto essere, per un momento, completamente felice. Se avessi allontanato da me quel senso di minaccia e paura.
Pia Sgarbossa
Ma per comprendere appieno i messaggi contenuti in questo libro,è necessario che il lettore sia un adulto, ma un adulto che si ricordi d'essere stato bambino e che lo è ancora nell'animo, così come lo era l'autore De Saint-Exupéri, che anche da adulto arrossiva per imbarazzo e che non potè realizzare mai il desiderio di diventare un artista e che perciò rimase "bloccato" come pittore incompreso per tutta la sua vita.
Ecco che egli con questo racconto autobiografico, coglie l'occasione di far diventare la sua esperienza di essersi trovato nel deserto col suo aereo , a causa di un'avaria , e di essersi salvato miracolosamente grazie a degli indigeni, la trama di una bellissima favola.
E' proprio nel deserto che avviene la narrazione di questo racconto, dove il nostro aviatore incontra un Piccolo Principe, che è arrivato da un altro pianeta e che rappresenta il bambino che rimarrà per sempre in lui.
Attraverso il racconto di questo personaggio che non risponde a domande ma si racconta soltanto, l'autore va a toccare tanti temi a lui cari, primo fra tutti l'amicizia.
Ogni racconto narrato con attenzione rivela un insegnamento di vita o comunque un modo di pensare dell'autore sulla vita e sugli uomini.
Ecco che vediamo lo sgorgare di una serie di riflessioni, con le quali ci possiamo rapportare,... tutti noi lettori che siamo alla ricerca di confronti e meditazioni:
- la capacità d'immaginazione insita in ogni bambino e non compresa dagli adulti;
- l'imparare a non rimandare a domani quello che si può fare oggi;
- l'importanza di saper dare giudizi basati sui fatti e non sulle parole;
- il riflettere su alcune caratteristiche negative degli uomini: il pensare solo a se
stessi,
- il vantarsi per necessità di esistenza , l'incapacità di riconoscere le proprie vergogne e
debolezze, l'incapacità di essere fedeli ,...e tanti... tanti altri, che lascio scoprire a
che lo vorrà ... con la giusta e attenta lettura, in sintonia col cuore dell'autore.
Ciò che personalmente ho apprezzato è stato vedere il nascere di una bella, dolce e delicata amicizia, che pur sapendo che volgerà a finire, lascerà ricordi vivi che scalderanno per sempre il cuore ... e che, per questo, sarà valsa la pena d'aver vissuto.
Due sono i momenti che mi rimarranno cari.
Il racconto della volpe che desidera essere addomesticata, per creare un legame profondo che fa diventare unici chi addomestica e chi viene addomesticato ... "Conoscerò il rumore dei tuoi passi, che sarà unico e diverso da tutti gli altri".
Il racconto della rosa che fa capire come il tempo dedicato a qualcuno, lo farà diventare importante e unico al mondo...
L'immagine più bella che mi è rimasta impressa è il disegno della cassa che contiene la pecora, è "pura e vivida capacità creativa"...
Un autore sensibile, creativo, che guarda al mondo e soprattutto agli uomini, con l'intelligenza di un adulto e col cuore di un bambino.
Il libro ed i suoi protagonisti possono essere letti come un messaggio di tolleranza ed accettazione, ma soprattutto di riscoperta del valore dei sentimenti e dei legami affettivi, motivo per cui questa favola andrebbe riletta più volte nel corso della nostra vita, un promemoria di ciò che per noi è realmente importante ma che per paura di soffrire tendiamo a dimenticare.
Ogni capitolo de Il piccolo principe racconta l’incontro del protagonista con personaggi diversi, ognuna di queste figure bizzarre lascia il Piccolo Principe stupito e sconcertato per la stranezza delle persone adulte.
Il pilota, ne Il Piccolo Principe, prova a
cercare il bambino in ogni adulto che incontra, ma quando mostra il disegno
tutti rispondono “è un cappello” così lui si
abbassa al loro livello adulto.
La colpa non è mia, però. Con lo scoraggiamento che hanno dato i grandi, quando avevo 6 anni, alla mia carriera di pittore, non ho mai imparato a disegnare altro che i serpenti boa dal di fuori o serpenti boa dal di dentro.
Nel personaggio del pilota viene mostrato come le nostre prime esperienze possono influenzare il nostro diventare adulti.
Non sapevo bene cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo come toccarlo, come raggiungerlo … Il paese delle lacrime è così misterioso.
Da piccoli, il paese delle lacrime è il paese che conosciamo meglio, il pianto è il primo urlo che facciamo sentire di noi quando veniamo al mondo, la prima nostra forma di comunicazione quando siamo piccoli ma da grandi capita di dimenticarsene e ci rende difficile anche comprendere il pianto altrui.
Il personaggio del Pilota crea con il Piccolo Principe un vero e proprio legame d’amicizia. Questo personaggio mostra di non scoraggiarsi facilmente, si trova nell’immensità del deserto e, pur essendo solo, non si perde mai d’animo e cerca di uscire da quella situazione anche se non è per niente semplice.
Il Piccolo Principe è un misterioso bambino proveniente da un pianeta minuscolo, con tanta voglia di conoscere gli uomini e le loro abitudini. Pur giungendo in una regione disabitata, non appare né smarrito, né tanto meno impaurito, balzano agli occhi la sua semplicità, la sua innocenza. Una delle caratteristiche del Piccolo Principe che viene più volte esaltata nel racconto è la sua capacità di arrossire, residuo dell’infanzia.
Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.
La volpe, con queste parole, insegna al Piccolo Prinicipe il valore dell’amicizia, che per lei significa essere addomesticata e per il piccolo principe vuol dire prendersi cura della sua rosa.
Ciò che differenzia per ognuno di noi una persona dall’altra è la relazione che costruiamo con quest’ultima dedicandole tempo e attenzioni, impegnandoci nel conoscerla nei suoi punti di forza e nelle sue fragilità. Essere addomesticata per la volpe vuol dire creare un’affiliazione reciproca dove l’uno poi avrà bisogno dell’altro, creare un legame, questo brano spiega molto bene il senso del libro di Bowlby “Una base sicura”: l’attaccamento si sviluppa come una interazione tra un bambino unico ed i suoi genitori unici e uno degli aspetti più affascinanti del genere umano è proprio quello di creare dei legami unici.
Se tu vieni , per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Con il passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, inizierò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore … ci vogliono i riti.
Sembra che la volpe sappia come si crei un legame di attaccamento sicuro: la madre assicura sempre la sua presenza e il bambino si abitua a questo rito.
Il Piccolo Principe si guadagna la fiducia della volpe andandola a trovare tutti i pomeriggi stabilendo un rito, è proprio il ripetersi di questo modello di interazione che fa sì che il bambino cominci a crearsi della aspettative. Si aspetta proprio che quella determinata persona appaia in quel determinato tempo, ed è il continuo verificarsi di tale rito che assicura che esiste lui, esiste l’altro, esiste la relazione. Il legame di attaccamento che si stabilirà fornirà un modello per le relazioni future e per tale motivo le nostre relazioni risentiranno di quella matrice interattiva densa per noi di significati, come ricorda Holmes nel libro “La teoria dell’attaccamento”: L’attaccamento e la dipendenza, sebbene non più evidenti allo stesso modo che nei bambini piccoli, rimangono attivi lungo il ciclo vitale – l’attaccamento quindi non è limitato all’infanzia ma dura – dalla culla alla tomba.
Ad oggi bisognerebbe discriminare l’utilizzo del termine “dipendenza”, non sempre questa può essere classificata come patologica in quanto in realtà è un desiderio assolutamente legittimo di ogni essere umano, di stare quanto più vicino possibile a chi si vuole bene, a chi in caso di bisogno può prendersi cura di noi. Su questi aspetti odierni di “dipendenza affettiva”, dove ci si fonde con l’altro per la paura e l’incapacità di sentirsi soli, e di “individualismo spietato”, dove si maschera la paura di un legame al quale però realmente si ambisce, si potrebbe aprire un lungo dibattito ma non è questo il contesto.
Il rapporto tra la volpe ed il Piccolo Principe aiuta quest’ultimo a fare chiarezza sul suo rapporto con la rosa. Il Piccolo Principe viene a conoscenza del roseto: la rosa dovrebbe perdere qualsiasi importanza per il principe, ma egli capisce che la rosa non è più speciale perché unica nel suo genere, bensì è speciale perché le vuole bene, perché c’è un legame che si è creato tra di loro.
Ogni persona per noi importante lo è a seguito del rapporto che abbiamo costruito con questa, del tempo che abbiamo investito nel coltivare e nel creare una relazione con lei. I legami che gli esseri umani creano vanno al di là del puramente visibile, diventano pensieri, significati e schemi mentali. La necessità del cucciolo d’uomo di creare dei legami di attaccamento nasce dall’istinto di sopravvivenza, ci dice Bowlby.
“Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”, il segreto che la volpe svela al Piccolo Principe. Non è ciò che vediamo delle persone che le rende speciali ai nostri occhi, ma ciò che sentiamo per loro, un sentimento impercettibile per l’occhio umano ma talmente forte da condizionare la nostra vita.
Tale frase riprende anche il disegno della pecora che non si vede perché è dentro alla scatola, si vede la scatola se la si guarda con gli occhi, la pecora se la si guarda con il cuore. Solo la nostra sensibilità percepisce la singolarità dell’individuo, le persone sono rinchiuse nelle apparenze e solo “addomesticandole” si potrà rivelare ed apprezzare la loro singolarità, per cui anche la nullità del deserto può essere bella.
Volpe: “Ah … piangerò”
Piccolo Principe: “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io non ti volevo far male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi”
La volpe facendosi addomesticare vuol far si che il Piccolo Principe si ricordi di lei anche quando non saranno più insieme, la conoscenza ed il legame con una persona implicano in sé la possibilità che poi si sperimenti la sofferenza, ad esempio quella del distacco, ma varrà la pena soffrire se poi in cambio si guadagnerà “il colore del grano”, cioè un legame affettivo, il calore di un’altra persona che non toglie nulla a ciò che siamo ma ci arricchisce permettendoci anche una maggior conoscenza di noi stessi:
I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai i capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato: questo ad oggi nei legami e nelle relazioni è ciò che più spaventa: la responsabilità del rispetto dell’altro all’interno della relazione e la paura che questa responsabilità limiti la nostra libertà, quando siamo noi in realtà a limitarla a causa delle nostre paure più nascoste.
Ogni adulto dovrebbe limitare il distanziamento emotivo da se stesso perché è solo ascoltandosi che si riesce ad ascoltare, è solo percependosi come “persona” con una identità ben precisa che si riesce a vedere l’altro, nella sua alterità e non come un prolungamento di sé.
La rosa che vive sull’asteroide B612 (paese in cui vive il Piccolo Principe) è delicata e molto esigente, le cure e la protezione del Piccolo Principe sono quelle che le permettono di sopravvivere e di splendere della sua bellezza. Il Piccolo Principe quindi era responsabile della rosa e della sua vita, questo era ciò che la rendeva così importante per lui, ma era anche il motivo per cui alle volte avrebbe voluto dimenticarla e andarsene via lontano...
Ma quando se ne andò via lontano, continuava ancora a
pensare a lei.
A ognuno di noi serve pensare ad una persona, ci fa sentire essere importanti pensare a qualcuno ed essere pensati da qualcuno, perché noi non siamo un’isola, esistiamo in relazione agli altri.
Questo è ciò che accade nei rapporti con le persone alle quali vogliamo bene: ci piace sentirci indispensabili e responsabili per l’altro, è questo che rende così importante l’altro e la relazione ma allo stesso tempo tutto questo sembra avere un costo per la nostra libertà fino a quando non ci accorgiamo che la vera libertà è quella di vivere le emozioni ed i sentimenti che sentiamo.
Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda.
La vanità della rosa è la causa della rottura del rapporto con il Piccolo Principe, è così che il protagonista, perde il proprio punto di riferimento e soffre per la rottura di questo rapporto, ma proprio questa rottura, questo dolore, questo senso di solitudine è ciò che poi lo spinge a esplorare nuovi pianeti, metafora per spiegarci quanto la rottura di un rapporto possa avere due facce: perdita/opportunità, entrambe reali. Elaborata la perdita possiamo andare verso opportunità che prima ci precludevamo.
Il Piccolo Principe si fa mordere dal serpente “quando il desiderio della rosa è diventato troppo forte per potervi resistere ancora”, a volte per coltivare l’attaccamento bisogna sperimentare la perdita a piccole dosi: la lontananza dalla rosa ha permesso al Piccolo Principe di capirne l’importanza e di dare un valore al loro legame.
Analisi degli altri personaggi
Il Re monarca assoluto che pensa di dominare l’interno universo in un pianeta dove vive solo lui, ordina quello che sa già che accadrà e mantiene così l’illusione che l’universo gli obbedisca. Regna su un tutto che alla fine si rivela essere un niente. Vuole che la sua autorità sia rispettata e perché avvenga non dà ordini che poi non vengano eseguiti, questo personaggio intimidisce il Piccolo Principe.
L’Uomo vanitoso vuole solo essere ammirato e per questo risulta noioso,
si accorge degli altri solo nel momento in cui loro lo ammirano “Ti
ammiro”, disse il piccolo principe, alzando un
poco le spalle, “ma tu che te ne fai?”.
Probabilmente l’Uomo vanitoso ha l’illusione di riempire il vuoto che sente dentro di sé colmandolo con le parole di ammirazione, rappresentazione di personalità istrioniche che puntano la loro sicurezza sull’apparire e sul mostrarsi.
L’Ubriacone che beve per la vergogna di bere, in questo personaggio sono rappresentati i circoli viziosi delle nostre fragilità, cercando di mascherarle invece di accettarle ed imparare a gestirle inneschiamo un circolo vizioso che le amplifica e le evidenzia, rendendo la nostra fragilità ancor più evidente. Questo personaggio lascia nel protagonista una sensazione di malinconia.
L’Uomo d’affari pensava che contando le stelle diventassero sue, non saluta neanche il protagonista perché troppo impegnato. Ha avuto la brillante idea di possedere le stelle e dice che sono sue solo perché nessuno ci aveva mai pensato prima. Possedendo le stelle si sente ricco anche se alla fine, alla domanda del Piccolo Principe di che cosa se ne fa di tutte le stelle, non sa rispondere, rimanendo di stucco.
Il desiderio di possesso dell’altro per il bisogno di percepire di avere un valore, stessa motivazione per la quale accumuliamo cose delle quali non abbiamo bisogno ma che ci servono per sentire che valiamo. Possedere cose e persone ma senza dedicare tempo per coltivare i rapporti… Alla fine le 856 amicizie su Facebook a cosa ci servono?
L’Uomo che accende e spegne il lampione è l’unico a non sembrare ridicolo per il Piccolo Principe “Forse perché si occupa di altro che non di se stesso”, fa il suo dovere senza metterlo in discussione e senza cercare soluzioni alternative, il protagonista gli da un consiglio, ma lui vorrebbe solo dormire.
Il Geografo fa un lavoro che al Piccolo Principe sembra molto interessante ma poi rimane deluso quando scopre che non ci sono esploratori nel suo pianeta, quindi il geografo in realtà non conosce il suo pianeta. Questo personaggio svela al protagonista che i fiori sono effimeri, per questo il Piccolo Principe si dispiace di aver abbandonato la sua rosa.
Il Serpente, simbolo della morte, in questo racconto ha un’accezione positiva, come l’inizio di un viaggio. Spiega come a volte ciò che sembra un male serva a fare del bene, come il dolore per la separazione da un affetto possa in realtà permetterci di fare nuove esperienze.
Il Controllore è addetto allo smistamento delle persone, anche lui ammette
che gli uomini non sono mai contenti dove stanno e che vorrebbero sempre
raggiungere un posto nuovo, ma non sanno neanche loro qual è questo posto.
Ammette che la mente dei bambini è piena di buoni pensieri e questi vivono
tranquilli “con il naso appiccicato ai vetri”.
Rappresentazione dell’ affaccendarsi degli uomini insensato ed immotivato
e della costante insoddisfazione mai legata ad una vera e propria presa di
coscienza su cosa possa migliorare la nostra vita, necessità costante di
lamentarsi senza mai attivamente trovare soluzioni alternative.
Il Mercante pur di risparmiare tempo assume pillole per calmare la sete, ma anche qui alla domanda del Piccolo Principe su cosa poi ci farà con il tempo guadagnato rimane basito realizzando di non sapere cosa farsene. Questo personaggio rappresenta la nostra quotidiana corsa contro il tempo, la frenesia e la mancanza di capacità di riuscire a godere dei piccoli piaceri quotidiani, spinti poi a cercare piaceri estremi per evadere dalle frustrazioni accumulate.
Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercati le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercati di amici, gli uomini non hanno più amici.
Nell’incontro con i vari personaggi è evidente come ogni persona abbia bisogno della presenza dell’altro per definirsi, noi esistiamo in relazione agli altri, il geografo non può fare il suo lavoro senza gli esploratori, il vanitoso non può essere tale senza nessuno che lo ammiri, stessa cosa per il re senza sudditi. L’importanza delle relazioni e dei legami rappresenta il filo conduttore di questo racconto.
L’autore evidenzia l’ingenuità e la fantasia dell’infanzia in contrapposizione alla rigidità dell’uomo giù maturo “ … i grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano di spigargli tutto ogni volta …”. Viene messo in luce come gli adulti con le loro “bizzarrie” siano totalmente presi dai loro affari e non riescano a cogliere il senso della realtà e della reale utilità delle loro azioni, senza badare agli interrogativi posti dal Piccolo Principe.
Questo libro è il dialogo tra un adulto ed un bambino, all’interno del quale entrambe affrontano un processo di crescita e di conoscenza e ne escono arricchiti; l’autore parla al cuore degli adulti a cui nel mondo odierno sembra interessare null’altro che il proprio tornaconto personale.
Ci sono cose dei bambini che gli adulti non capiscono e queste incomprensioni sono motivo di sofferenza per un bambino ma ancor di più per il bambino che abbiamo dimenticato vivere ancora dentro di noi, il quale vorrebbe realizzassimo i nostri sogni di diventare pittori, piloti o qualsiasi altra professione sia nei nostri desideri senza che arrivi la società adulta a distruggerci i sogni all’età di 6 anni!
La figura del Piccolo Principe permette all’autore di riavvicinarsi alla sua parte bambina e di riuscire a leggere la realtà con gli occhi dell’infanzia, il protagonista si fa morsicare dal serpente per tornare sulla Terra perché l’autore-narratore non ha più bisogno di lui, il Piccolo Principe è riuscito nel suo intento di far riscoprire all’adulto il bambino che è ancora in lui.
Questa favola scritta durante l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, ad oggi rimane molto attuale.
Bruno Elpis
Il bambino, la volpe, la rosa
“Je crois qu’il profita, pour son évasion, d’une migration d’oiseaux sauvages”.Il piccolo principe è il fanciullo che – nonostante i casi della vita, nonostante il procedere degli anni, nonostante le contaminazione e le disillusioni – permane nel nostro cuore. E’ il bagliore dell’innocenza che scorgiamo vivo in noi, il fuoco del nostro desiderio di amare e di essere ricambiati.
L’autore percepisce questa verità nel silenzio del deserto, nella solitudine, guardando in faccia alla morte durante un incidente con il suo aereo. E la verità ha il volto di un bambino che vola da un pianeta all’altro. Un bimbo che colloquia con personaggi come il re, l’uomo che accende i lampioni o l’uomo d’affari. Un ragazzino che insiste con le domande (e non desiste, una volta che le ha poste: come tutti i bambini!) e che nutre un amore struggente per la sua rosa bellissima e vanitosa. Bellissima e vanitosa come ogni amore che si rispetti.
Pagine indimenticabili di un libro che ho letto in italiano e in francese, di un soggetto che ho visto rappresentato a teatro. Un’opera che ogni volta rivela un aspetto nuovo, coinvolgente, nelle mille sfaccettature della sua complessa e disarmante semplicità.
Mi piace anche variarne il tema, a partire da singole frasi di quest’opera. O da un incontro, come quello con la volpe. Un esercizio che spesso faccio (reinterpretare), quando leggo. Per vivere attivamente quello che leggo. Questo è il risultato, lo so, modesto. Ma mi consente di rievocare passaggi indimenticabili e indimenticati. Provateci anche voi, è soltanto un gioco.
“I campi di grano non ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il suono del vento nel grano…”
La volpe tacque e guardò il piccolo principe: “Per favore … addomesticami”, disse.
Mi guardai attorno. Io, i campi di grano li avevo lì, di fronte a me. E ne ero completamente soggiogato. Non avevo bisogno di essere addomesticato.
Un soffio di vento sibilò pervadendomi, chiusi gli occhi, mi lasciai trasportare e capii che avrei potuto essere, per un momento, completamente felice. Se avessi allontanato da me quel senso di minaccia e paura.
Pia Sgarbossa
Un libro per tutti i bambini ... e per pochi adulti
Se chiedi ad un bambino cosa si ricorda di questo libro o se lo chiedi ad un adulto, quasi sicuramente entrambi ti parleranno del Piccolo Principe incontrato sul deserto, della volpe, del serpente, della rosa o qualche altro personaggio.Ma per comprendere appieno i messaggi contenuti in questo libro,è necessario che il lettore sia un adulto, ma un adulto che si ricordi d'essere stato bambino e che lo è ancora nell'animo, così come lo era l'autore De Saint-Exupéri, che anche da adulto arrossiva per imbarazzo e che non potè realizzare mai il desiderio di diventare un artista e che perciò rimase "bloccato" come pittore incompreso per tutta la sua vita.
Ecco che egli con questo racconto autobiografico, coglie l'occasione di far diventare la sua esperienza di essersi trovato nel deserto col suo aereo , a causa di un'avaria , e di essersi salvato miracolosamente grazie a degli indigeni, la trama di una bellissima favola.
E' proprio nel deserto che avviene la narrazione di questo racconto, dove il nostro aviatore incontra un Piccolo Principe, che è arrivato da un altro pianeta e che rappresenta il bambino che rimarrà per sempre in lui.
Attraverso il racconto di questo personaggio che non risponde a domande ma si racconta soltanto, l'autore va a toccare tanti temi a lui cari, primo fra tutti l'amicizia.
Ogni racconto narrato con attenzione rivela un insegnamento di vita o comunque un modo di pensare dell'autore sulla vita e sugli uomini.
Ecco che vediamo lo sgorgare di una serie di riflessioni, con le quali ci possiamo rapportare,... tutti noi lettori che siamo alla ricerca di confronti e meditazioni:
- la capacità d'immaginazione insita in ogni bambino e non compresa dagli adulti;
- l'imparare a non rimandare a domani quello che si può fare oggi;
- l'importanza di saper dare giudizi basati sui fatti e non sulle parole;
- il riflettere su alcune caratteristiche negative degli uomini: il pensare solo a se
stessi,
- il vantarsi per necessità di esistenza , l'incapacità di riconoscere le proprie vergogne e
debolezze, l'incapacità di essere fedeli ,...e tanti... tanti altri, che lascio scoprire a
che lo vorrà ... con la giusta e attenta lettura, in sintonia col cuore dell'autore.
Ciò che personalmente ho apprezzato è stato vedere il nascere di una bella, dolce e delicata amicizia, che pur sapendo che volgerà a finire, lascerà ricordi vivi che scalderanno per sempre il cuore ... e che, per questo, sarà valsa la pena d'aver vissuto.
Due sono i momenti che mi rimarranno cari.
Il racconto della volpe che desidera essere addomesticata, per creare un legame profondo che fa diventare unici chi addomestica e chi viene addomesticato ... "Conoscerò il rumore dei tuoi passi, che sarà unico e diverso da tutti gli altri".
Il racconto della rosa che fa capire come il tempo dedicato a qualcuno, lo farà diventare importante e unico al mondo...
L'immagine più bella che mi è rimasta impressa è il disegno della cassa che contiene la pecora, è "pura e vivida capacità creativa"...
Un autore sensibile, creativo, che guarda al mondo e soprattutto agli uomini, con l'intelligenza di un adulto e col cuore di un bambino.
* * *
"IL PICCOLO PRINCIPE": Aalisi psicologica dei personaggi e delle relazioni
di Ilenia Magnani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena
Dietro ogni personaggio e ogni relazione c'è un po' della nostra psiche
Tante sono le interpretazioni della metafora della vita de Il Piccolo Principe, ancora oggi forse il messaggio che Antoine de Saint-Exupervy ci voleva lasciare con il suo racconto rimane celato tra le righe di questa favola, per cui “L’essenziale è invisibile agli occhi”.Il libro ed i suoi protagonisti possono essere letti come un messaggio di tolleranza ed accettazione, ma soprattutto di riscoperta del valore dei sentimenti e dei legami affettivi, motivo per cui questa favola andrebbe riletta più volte nel corso della nostra vita, un promemoria di ciò che per noi è realmente importante ma che per paura di soffrire tendiamo a dimenticare.
Ogni capitolo de Il piccolo principe racconta l’incontro del protagonista con personaggi diversi, ognuna di queste figure bizzarre lascia il Piccolo Principe stupito e sconcertato per la stranezza delle persone adulte.
Il pilota ed il Piccolo Principe
Il libro inizia con il ricordo e la sensazione di fallimento sperimentata dal pilota all’età di 6 anni, fallimento che lo fa rinunciare al suo sogno: decide di abbandonare una delle sue più grandi passioni, il disegno. Il pilota è sì adulto ma non ha dimenticato il se stesso bambino, conserva il disegno “per non dimenticare, giustamente, a che punto la mancanza d’immaginazione degli adulti potesse essere grande e scoraggiante”. Il Pilota sa per sua esperienza personale (si è reso ben presto conto che nessuno capisce il suo disegno che, al contrario dei tanti che lo interpretano come un cappello, rappresenta un boa che mangia unelefante) che spesso “I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano di spiegargli tutto ogni volta”, gli adulti non capiscono le fantasie dei bambini e ciò è motivo di forte sofferenza per loro.
Crescendo a volte mettiamo da parte la nostra parte più
giocosa e creativa pensando che questa non possa essere utile nel mondo adulto,
precludendoci così il piacere di fare le cose che ci rendono felici e che ci
alleggeriscono, in questo modo ci troviamo a dover riacquisire i comportamenti
che ci facevano stare bene lavorando sulle nostre strategie comportamentali. Il
paradosso è trovare difficoltà nel compilare “L’Elenco
delle possibili attività piacevoli”, mentre da bambini era la cosa
che ci risultava più naturale al mondo, da grandi ci ritroviamo a fare i
compiti per quello che ci siamo dimenticati di noi di quando eravamo bambini ed
eravamo impegnati a studiare per diventare grandi.
La colpa non è mia, però. Con lo scoraggiamento che hanno dato i grandi, quando avevo 6 anni, alla mia carriera di pittore, non ho mai imparato a disegnare altro che i serpenti boa dal di fuori o serpenti boa dal di dentro.
Nel personaggio del pilota viene mostrato come le nostre prime esperienze possono influenzare il nostro diventare adulti.
Non sapevo bene cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo come toccarlo, come raggiungerlo … Il paese delle lacrime è così misterioso.
Da piccoli, il paese delle lacrime è il paese che conosciamo meglio, il pianto è il primo urlo che facciamo sentire di noi quando veniamo al mondo, la prima nostra forma di comunicazione quando siamo piccoli ma da grandi capita di dimenticarsene e ci rende difficile anche comprendere il pianto altrui.
Il personaggio del Pilota crea con il Piccolo Principe un vero e proprio legame d’amicizia. Questo personaggio mostra di non scoraggiarsi facilmente, si trova nell’immensità del deserto e, pur essendo solo, non si perde mai d’animo e cerca di uscire da quella situazione anche se non è per niente semplice.
Il Piccolo Principe è un misterioso bambino proveniente da un pianeta minuscolo, con tanta voglia di conoscere gli uomini e le loro abitudini. Pur giungendo in una regione disabitata, non appare né smarrito, né tanto meno impaurito, balzano agli occhi la sua semplicità, la sua innocenza. Una delle caratteristiche del Piccolo Principe che viene più volte esaltata nel racconto è la sua capacità di arrossire, residuo dell’infanzia.
La Volpe e la Rosa
In questo romanzo non si trova solo il rapporto tra l’adulto e il bambino (pilota-piccolo principe), ma c’è anche quello tra pari, come tali possono essere visti il protagonista e la volpe: quest’ultima ha rivelato come “le amicizie possono essere tante ma sempre uniche”, l’incontro tra i due è un trattato sull’importanza dei legami nelle relazioni umane. Un amico non è una persona uguale a tutte le altre.Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.
La volpe, con queste parole, insegna al Piccolo Prinicipe il valore dell’amicizia, che per lei significa essere addomesticata e per il piccolo principe vuol dire prendersi cura della sua rosa.
Ciò che differenzia per ognuno di noi una persona dall’altra è la relazione che costruiamo con quest’ultima dedicandole tempo e attenzioni, impegnandoci nel conoscerla nei suoi punti di forza e nelle sue fragilità. Essere addomesticata per la volpe vuol dire creare un’affiliazione reciproca dove l’uno poi avrà bisogno dell’altro, creare un legame, questo brano spiega molto bene il senso del libro di Bowlby “Una base sicura”: l’attaccamento si sviluppa come una interazione tra un bambino unico ed i suoi genitori unici e uno degli aspetti più affascinanti del genere umano è proprio quello di creare dei legami unici.
Se tu vieni , per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Con il passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, inizierò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore … ci vogliono i riti.
Sembra che la volpe sappia come si crei un legame di attaccamento sicuro: la madre assicura sempre la sua presenza e il bambino si abitua a questo rito.
Il Piccolo Principe si guadagna la fiducia della volpe andandola a trovare tutti i pomeriggi stabilendo un rito, è proprio il ripetersi di questo modello di interazione che fa sì che il bambino cominci a crearsi della aspettative. Si aspetta proprio che quella determinata persona appaia in quel determinato tempo, ed è il continuo verificarsi di tale rito che assicura che esiste lui, esiste l’altro, esiste la relazione. Il legame di attaccamento che si stabilirà fornirà un modello per le relazioni future e per tale motivo le nostre relazioni risentiranno di quella matrice interattiva densa per noi di significati, come ricorda Holmes nel libro “La teoria dell’attaccamento”: L’attaccamento e la dipendenza, sebbene non più evidenti allo stesso modo che nei bambini piccoli, rimangono attivi lungo il ciclo vitale – l’attaccamento quindi non è limitato all’infanzia ma dura – dalla culla alla tomba.
Ad oggi bisognerebbe discriminare l’utilizzo del termine “dipendenza”, non sempre questa può essere classificata come patologica in quanto in realtà è un desiderio assolutamente legittimo di ogni essere umano, di stare quanto più vicino possibile a chi si vuole bene, a chi in caso di bisogno può prendersi cura di noi. Su questi aspetti odierni di “dipendenza affettiva”, dove ci si fonde con l’altro per la paura e l’incapacità di sentirsi soli, e di “individualismo spietato”, dove si maschera la paura di un legame al quale però realmente si ambisce, si potrebbe aprire un lungo dibattito ma non è questo il contesto.
Il rapporto tra la volpe ed il Piccolo Principe aiuta quest’ultimo a fare chiarezza sul suo rapporto con la rosa. Il Piccolo Principe viene a conoscenza del roseto: la rosa dovrebbe perdere qualsiasi importanza per il principe, ma egli capisce che la rosa non è più speciale perché unica nel suo genere, bensì è speciale perché le vuole bene, perché c’è un legame che si è creato tra di loro.
Ogni persona per noi importante lo è a seguito del rapporto che abbiamo costruito con questa, del tempo che abbiamo investito nel coltivare e nel creare una relazione con lei. I legami che gli esseri umani creano vanno al di là del puramente visibile, diventano pensieri, significati e schemi mentali. La necessità del cucciolo d’uomo di creare dei legami di attaccamento nasce dall’istinto di sopravvivenza, ci dice Bowlby.
“Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”, il segreto che la volpe svela al Piccolo Principe. Non è ciò che vediamo delle persone che le rende speciali ai nostri occhi, ma ciò che sentiamo per loro, un sentimento impercettibile per l’occhio umano ma talmente forte da condizionare la nostra vita.
Tale frase riprende anche il disegno della pecora che non si vede perché è dentro alla scatola, si vede la scatola se la si guarda con gli occhi, la pecora se la si guarda con il cuore. Solo la nostra sensibilità percepisce la singolarità dell’individuo, le persone sono rinchiuse nelle apparenze e solo “addomesticandole” si potrà rivelare ed apprezzare la loro singolarità, per cui anche la nullità del deserto può essere bella.
Volpe: “Ah … piangerò”
Piccolo Principe: “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io non ti volevo far male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi”
La volpe facendosi addomesticare vuol far si che il Piccolo Principe si ricordi di lei anche quando non saranno più insieme, la conoscenza ed il legame con una persona implicano in sé la possibilità che poi si sperimenti la sofferenza, ad esempio quella del distacco, ma varrà la pena soffrire se poi in cambio si guadagnerà “il colore del grano”, cioè un legame affettivo, il calore di un’altra persona che non toglie nulla a ciò che siamo ma ci arricchisce permettendoci anche una maggior conoscenza di noi stessi:
I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai i capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato: questo ad oggi nei legami e nelle relazioni è ciò che più spaventa: la responsabilità del rispetto dell’altro all’interno della relazione e la paura che questa responsabilità limiti la nostra libertà, quando siamo noi in realtà a limitarla a causa delle nostre paure più nascoste.
Il Piccolo Principe e la volpe (dal cap. 21)
Ogni adulto dovrebbe limitare il distanziamento emotivo da se stesso perché è solo ascoltandosi che si riesce ad ascoltare, è solo percependosi come “persona” con una identità ben precisa che si riesce a vedere l’altro, nella sua alterità e non come un prolungamento di sé.
La rosa che vive sull’asteroide B612 (paese in cui vive il Piccolo Principe) è delicata e molto esigente, le cure e la protezione del Piccolo Principe sono quelle che le permettono di sopravvivere e di splendere della sua bellezza. Il Piccolo Principe quindi era responsabile della rosa e della sua vita, questo era ciò che la rendeva così importante per lui, ma era anche il motivo per cui alle volte avrebbe voluto dimenticarla e andarsene via lontano...
A ognuno di noi serve pensare ad una persona, ci fa sentire essere importanti pensare a qualcuno ed essere pensati da qualcuno, perché noi non siamo un’isola, esistiamo in relazione agli altri.
Questo è ciò che accade nei rapporti con le persone alle quali vogliamo bene: ci piace sentirci indispensabili e responsabili per l’altro, è questo che rende così importante l’altro e la relazione ma allo stesso tempo tutto questo sembra avere un costo per la nostra libertà fino a quando non ci accorgiamo che la vera libertà è quella di vivere le emozioni ed i sentimenti che sentiamo.
Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda.
La vanità della rosa è la causa della rottura del rapporto con il Piccolo Principe, è così che il protagonista, perde il proprio punto di riferimento e soffre per la rottura di questo rapporto, ma proprio questa rottura, questo dolore, questo senso di solitudine è ciò che poi lo spinge a esplorare nuovi pianeti, metafora per spiegarci quanto la rottura di un rapporto possa avere due facce: perdita/opportunità, entrambe reali. Elaborata la perdita possiamo andare verso opportunità che prima ci precludevamo.
Il Piccolo Principe si fa mordere dal serpente “quando il desiderio della rosa è diventato troppo forte per potervi resistere ancora”, a volte per coltivare l’attaccamento bisogna sperimentare la perdita a piccole dosi: la lontananza dalla rosa ha permesso al Piccolo Principe di capirne l’importanza e di dare un valore al loro legame.
Analisi degli altri personaggi
Il Re monarca assoluto che pensa di dominare l’interno universo in un pianeta dove vive solo lui, ordina quello che sa già che accadrà e mantiene così l’illusione che l’universo gli obbedisca. Regna su un tutto che alla fine si rivela essere un niente. Vuole che la sua autorità sia rispettata e perché avvenga non dà ordini che poi non vengano eseguiti, questo personaggio intimidisce il Piccolo Principe.
Il Re è la rappresentazione del bisogno degli uomini di
avere l’illusione del potere e del controllo, senza le quali alcune personalità
si sentono fragili ed esposte al pericolo. Si parla di illusione perché il controllo
sugli altri non può esistere per definizione, il Re infatti non potendo
controllare l’altro controlla se stesso, formulando ordini che possano essere
eseguibili dalla persona che ha di fronte a sé.
Probabilmente l’Uomo vanitoso ha l’illusione di riempire il vuoto che sente dentro di sé colmandolo con le parole di ammirazione, rappresentazione di personalità istrioniche che puntano la loro sicurezza sull’apparire e sul mostrarsi.
L’Ubriacone che beve per la vergogna di bere, in questo personaggio sono rappresentati i circoli viziosi delle nostre fragilità, cercando di mascherarle invece di accettarle ed imparare a gestirle inneschiamo un circolo vizioso che le amplifica e le evidenzia, rendendo la nostra fragilità ancor più evidente. Questo personaggio lascia nel protagonista una sensazione di malinconia.
L’Uomo d’affari pensava che contando le stelle diventassero sue, non saluta neanche il protagonista perché troppo impegnato. Ha avuto la brillante idea di possedere le stelle e dice che sono sue solo perché nessuno ci aveva mai pensato prima. Possedendo le stelle si sente ricco anche se alla fine, alla domanda del Piccolo Principe di che cosa se ne fa di tutte le stelle, non sa rispondere, rimanendo di stucco.
Il desiderio di possesso dell’altro per il bisogno di percepire di avere un valore, stessa motivazione per la quale accumuliamo cose delle quali non abbiamo bisogno ma che ci servono per sentire che valiamo. Possedere cose e persone ma senza dedicare tempo per coltivare i rapporti… Alla fine le 856 amicizie su Facebook a cosa ci servono?
L’Uomo che accende e spegne il lampione è l’unico a non sembrare ridicolo per il Piccolo Principe “Forse perché si occupa di altro che non di se stesso”, fa il suo dovere senza metterlo in discussione e senza cercare soluzioni alternative, il protagonista gli da un consiglio, ma lui vorrebbe solo dormire.
Il Geografo fa un lavoro che al Piccolo Principe sembra molto interessante ma poi rimane deluso quando scopre che non ci sono esploratori nel suo pianeta, quindi il geografo in realtà non conosce il suo pianeta. Questo personaggio svela al protagonista che i fiori sono effimeri, per questo il Piccolo Principe si dispiace di aver abbandonato la sua rosa.
Il Serpente, simbolo della morte, in questo racconto ha un’accezione positiva, come l’inizio di un viaggio. Spiega come a volte ciò che sembra un male serva a fare del bene, come il dolore per la separazione da un affetto possa in realtà permetterci di fare nuove esperienze.
Il Mercante pur di risparmiare tempo assume pillole per calmare la sete, ma anche qui alla domanda del Piccolo Principe su cosa poi ci farà con il tempo guadagnato rimane basito realizzando di non sapere cosa farsene. Questo personaggio rappresenta la nostra quotidiana corsa contro il tempo, la frenesia e la mancanza di capacità di riuscire a godere dei piccoli piaceri quotidiani, spinti poi a cercare piaceri estremi per evadere dalle frustrazioni accumulate.
Conclusioni: lo sguardo da bambino de Il Piccolo Principe
Il Piccolo Principe è uno sguardo infantile sul mondo, ognuno di noi è stato bambino ma poi crescendo alcuni lo dimenticano e questo fa reprimere la nostra spontaneità, limita la nostra curiosità ed appiattisce le nostre emozioni facendoci iniziare a pensare che la “leggerezza” della vita non ci sia più concessa, che i sogni, le risate ed i giochi con gli amici siano sostituiti dall’esigenza e necessità di essere persone performanti in ogni momento della giornata ed in tutti gli ambiti della nostra vita e senza tempo libero a disposizione.Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercati le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercati di amici, gli uomini non hanno più amici.
Nell’incontro con i vari personaggi è evidente come ogni persona abbia bisogno della presenza dell’altro per definirsi, noi esistiamo in relazione agli altri, il geografo non può fare il suo lavoro senza gli esploratori, il vanitoso non può essere tale senza nessuno che lo ammiri, stessa cosa per il re senza sudditi. L’importanza delle relazioni e dei legami rappresenta il filo conduttore di questo racconto.
L’autore evidenzia l’ingenuità e la fantasia dell’infanzia in contrapposizione alla rigidità dell’uomo giù maturo “ … i grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano di spigargli tutto ogni volta …”. Viene messo in luce come gli adulti con le loro “bizzarrie” siano totalmente presi dai loro affari e non riescano a cogliere il senso della realtà e della reale utilità delle loro azioni, senza badare agli interrogativi posti dal Piccolo Principe.
Questo libro è il dialogo tra un adulto ed un bambino, all’interno del quale entrambe affrontano un processo di crescita e di conoscenza e ne escono arricchiti; l’autore parla al cuore degli adulti a cui nel mondo odierno sembra interessare null’altro che il proprio tornaconto personale.
Ci sono cose dei bambini che gli adulti non capiscono e queste incomprensioni sono motivo di sofferenza per un bambino ma ancor di più per il bambino che abbiamo dimenticato vivere ancora dentro di noi, il quale vorrebbe realizzassimo i nostri sogni di diventare pittori, piloti o qualsiasi altra professione sia nei nostri desideri senza che arrivi la società adulta a distruggerci i sogni all’età di 6 anni!
La figura del Piccolo Principe permette all’autore di riavvicinarsi alla sua parte bambina e di riuscire a leggere la realtà con gli occhi dell’infanzia, il protagonista si fa morsicare dal serpente per tornare sulla Terra perché l’autore-narratore non ha più bisogno di lui, il Piccolo Principe è riuscito nel suo intento di far riscoprire all’adulto il bambino che è ancora in lui.
Questa favola scritta durante l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, ad oggi rimane molto attuale.
IV 'Salottino'
del 13, 20 e 27 gennaio 2020
Il tempo scandisce i giorni e le stagioni.
I battiti del cuore segnano i nostri
passi
nel lungo o breve viaggio della vita.
Per ogni partenza c’è un ritorno,
ma i ritorni non hanno stagioni.
Il femminile, astro del mattino e di
speranza.
Promesse d’amore infinito
regalano le ‘fanciulle in fiore’
nella dolce stagione di primavera,
profumo di mille rose
nei giardini senza tempo.
Ma nel mondo, oscura dimora del tempo,
con il vento improvviso
che strappa i petali alle rose,
è l’inquieto risveglio dell’anima
dal vago sogno di giovinezza.
Nella canzone d’autore, nella poesia, nell’arte,
l’inatteso tramonto d’una ‘fanciulla in fiore’ è come il brusco
risveglio nel pieno di un sogno.
Così la Silvia leopardiana,
l’ignota Signorinella napoletana, la lunare Marinella di De André, le donne
esili e sfuggenti della pittura prerafaellita cantano l’epicedio sull’amore tradito,
eterno lamento sulla giovinezza perduta, struggente nostalgia dei giorni
trascorsi e vivi ancora nella memoria.
1
SIGNORINELLA
di Gian Franco Venè
Due generazioni di
Italiani si sono tramandate la più famosa canzone ‘Signorinella’. Diffusa
negli Anni Venti, Signorinella fu quasi
dimenticata durante la seconda guerra mondiale: venne ripresa all’improvviso
nell’immediato dopoguerra, nel 1945, e i genitori stupivano che la canzone
più nostalgica del loro tempo ritornasse così spontaneamente in bocca ai figli.
Che cosa potevano avere in comune gli Anni Venti con gli Anni Quaranta? Quali
corde dell’animo toccavano i versi di Signorinella
in un’epoca, come il secondo dopoguerra, aggredita dai ritmi americani portati
dagli eserciti di occupazione?
Nella canzone si
parla di un uomo che si sente ormai vecchio, annoiato, che guarda scendere la
neve e intristisce dietro la propria scrivania di notaio. «Signorinella, che malinconia...!»
La malinconia è di
ogni tempo, di ogni età: ma fra tutti i tempi e le età, gli anni del secondo
dopoguerra parevano i meno adatti a certi sentimenti che presuppongono la
delusione, la mestizia, l'assenza di speranza. Eppure, i ragazziniche del furore
del dopoguerra ricordano i primi passi del boogie woogie, di quando
in quando si sorprendevano ad ascoltare alla radio la voce di Achille
Togliani: «Perché negli occhi mi tremò una lacrima?
Chi sa... chi sa perché!». E i genitori, quegli adulti che non
avevano dimenticato Signorinella,
ma neppure avevano trovato la voglia di cantarla presi nella spira degli anni
terribili, si accorsero che non tutto il loro mondo era scomparso, travolto
dalla guerra e dai tempi.
Signorinella fu così una canzone dalla doppia vita; ma per intendere
le ragioni di quella sua resurrezione datata 1945 è bene ripensare alle
origini, agli Anni Venti, quando la cantava Carlo Buti. Solo se restituita alla
sua epoca, Signorinella può oggi
essere riascoltata come un documento fondamentale della canzone all’italiana,
un documento classico.
* * *
Libero Bovio, uno dei
maggiori autori della canzone napoletana, scrisse i versi di Signorinella a
quarantanni, al massimo della fama. Ma, nonostante portasse la sua firma, Signorinella non ebbe accoglienze
facili. Il grande attore e cantante Gennaro Pasquariello, uditala una prima
volta, rifiutò di accoglierla nel proprio repertorio.
Libero Bovio (1883-1942) insieme a Salvatore Di Giacomo,
Ernesto Murolo ed E.A. Mario fu uno degli artefici della cosiddetta epoca d'oro
della canzone napoletana, componendo i testi di molte celebri canzoni. Grazie
alle collaborazioni con i musicisti più celebri del momento, intorno al 1915
confezionò canzoni come Tu ca nun chiagne (musica di Ernesto De Curtis),
Reginella (musica di Gaetano Lama),
Zappatore, Guapparia, Cara piccina, 'O Paese d' 'o sole
e Lacreme napulitane, queste ultime legate al tema dell'emigrazione. Il
pessimismo sentimentale di Bovio si espresse anche con canzoni d'amore, quali L'addio
(musica di Nicola Valente) e Chiove (musica di Evemero Nardella).
Tra i testi in italiano, quello della famosa ‘Signorinella’, musicata da
Nicola Valente.
Il fatto è che Libero
Bovio stentò a lanciare Signorinella
perché questa canzone, destinata a rimanere così a lungo nel costume italiano,
paradossalmente sembrava superata già negli anni in cui fu scritta. Nessuno si
accorse, allora, che Signorinella
era nata con un proprio destino preciso: quello di essere una canzone controcorrente.
Bovio la scrisse
all’inizio degli Anni Venti:allora la canzone di successo doveva contenere
ingredienti ben precisi e tutti portati all’esasperazione: la donna doveva
avere un nome o un soprannome francese, l’ambiente era quello delle notti parigine
contese tra l’opulenza dei ricchi viveurs
e la disperata miseria dei poveri e degli amanti traditi. E se così era, se
questa era la moda, è facile comprendere che una canzone patetica e gentile
come Signorinella, pervasa di
nostalgica malinconia affatto priva di disperazione, non potesse ambire a un
successo immediato. Era, questa di Signorinella,
una vera e propria storia amorosa, un raccontino sentimentale che traeva la
sua delicatezza dalla normalità, dalla vita quotidiana, dagli affanni che
portano l'uomo sempre più lontano dalla purezza della gioventù.
C’era una volta un
signore, un buon signore, il ‘buon don
Cesare’, che viveva tranquillo con la sua famiglia e la sua professione di
notaio. Un giorno il buon don Cesare lascia che il figlio consulti un suo
vecchio libro di latino, e tra le pagine del libro il ragazzo scopre un fiore
rinsecchito. Il ricordo è immediato, dolce e straziante: il buon don Cesare rivede sé stesso
studente, innamorato di una ricamatrice che abitava sullo stesso quinto piano
della sua stanza in affitto, a Napoli, negli anni dell’università.
Presa la laurea, il
giovane dottorino, da borghese ligio ai doveri del proprio ceto, abbandona la
ragazza e segue i suoi sogni di speranza. La ragazza gli lascia per ricordo
una pansé; Cesare finisce per fare il notaio in un paesino di montagna, si sposa,
ha dei figli. Tutto a un tratto, per puro caso, ritrova il fiore rinsecchito,
la sua gioia perduta: e scrive una lettera in poesia; questa lettera è la
canzone ‘Signorinella’.
Una storia così
semplice come potevaadattarsi all’epoca dei viveurs scettici e
bruciati, delle donne appassionate e perdute, dagli occhi cupi come la notte,
segnati dal vizio e dalla malattia? E, in particolare, come poteva diventare
un classico della canzone all’italiana? Una risposta può venire soltanto da una
visione più precisa dei tempi e degli ambienti in cui Signorinella visse,
dapprima stentatamente, poi sempre meglio, insieme ai nottambuli scapestrati
d’importazione parigina.
* * *
In apparenza,
cambiava soltanto la moda, all’inizio degli Anni Venti. Coco Chanel lanciava
per le signore la linea mascolina: niente più busti né vite di vespa, ma tutto
dissimulato sotto le linee rigide degli abiti a sacco. Anche il trucco femminile cambiava: via i boccoli, via le
lunghe chiome corvine, imperava la pettinatura allagarçon, capelli cortissimi,
lisci, col ricciolo sopra le orecchie. La bocca, ritinta col rossetto, aveva
forma di cuore piccolissimo; le guance, meglio che fossero pallide. Solo lo
sguardo conveniva che fosse cupo, annerito o tinto di blu, più perfido che
provocante. Le signore portavano il cappellino, uno strano cappellinocon due
ali di nastro aggressive più che aggraziate. I soprabiti, a campana, lunghi
alla caviglia, abbottonati con tantissimi piccoli bottoni da cima a fondo,
ricordavano terribilmente, anche per via dei collettoni di pelliccia, il
cappotto dei generali dell’esercito.
Di fatto, l’aggressività
mascolina della donna nel decennio ’20-'30 è una tarda eredità della guerra. La
guerra, finita nel ’18, aveva riproposto l’importanza della donna nella società
moderna; la donna aveva sostituito l’uomo in molti posti di lavoro, aveva
sofferto al fronte come crocerossina: soprattutto aveva sofferto da sola, in
famiglia, perché il suo uomo le era stato portato via. La moda degli Anni Venti
è la più superficiale, ma anche la più vistosa riprova della donna che ambisce
ad avere nella società un posto di rilievo e di autonomia. Non che la donna
italiana si sognasse di votare, negli Anni Venti, - anche perché l’imminente
avvento della dittatura fascista avrebbe abolito il diritto di voto per
chiunque - ma proprio in quegli anni, e certo anche per la eredità della
guerra, la donna cerca accanto all'uomo di assumere una fisionomia politica.
Nell’aria c’è la
violenza del colpo di Stato fascista: gli squadristi escono ogni notte, sui
loro camion, per distruggere le sedi dei sindacati operai, dei partiti di
sinistra, le biblioteche popolari. In ogni città italiana si picchia e si
spara. Seper le donne socialiste non è certo una novità il trovarsi sulle barricate
accanto ai loro uomini, per le donne borghesi, abituate ai salotti o al tran
tran della vita quotidiana, è un’ebbrezza nuova questa di indossare abiti
sempre più vicini alla divisa fascista e di accompagnare gli squadristi alle loro
riunioni. La propaganda politica, le cartoline che invitavano i borghesi a
iscriversi al partito fascista raffiguravano la donna fascista che abbracciava
lo squadrista: la donna pettinata alla maschietta rimaneva pur sempre - anzi
più che mai - simbolo di provocazione e di conquista. Nella violenza dei tempi,
pareva che l’erotismo avesse sconfitto l'amore. Così, gli uomini, che ancora
non s’erano arresi alla tragica avventura politica, che non avevano ancora
scelto da che parte stare e si limitavano a subire la profonda crisi dei nuovi
tempi senza intenderne la gravità, si accontentavano di sognare le varie ‘Frou Frou del tabarin’, le focose
danzatrici della notte, i separès
dove non era proprio il caso di parlare d’affetto e di nostalgia.
Ma questa non era che
l'apparenza, la crosta di una società ebbra e indecisa: una società nella
quale gli squilibri sociali erano così profondi da trasformare addirittura
l'amore, nelle canzoni, in una faccenda da ricchi, da milionari. La realtà era
un’altra, assai più discreta e dura a morire, talmente dura a morire che, per
ignorarla, la si accusava di essere fuori moda. E in questa realtà, bene o
male, c’entrava pure Signorinella:
una canzone controcorrente proprio perché sommessa, schiva, protestataria,
addirittura, rispetto alla nuova immagine di donna quale veniva proposta
ufficialmente dal partito politico appena giunto al potere.
* * *
Quando Signorinella si
insinuava nel cuore e nella memoria degli Italiani, un’altra canzone si diffondeva
sempre più e stava per diventare, insieme con la Marcia reale, l’inno ufficiale
del paese: ‘Giovinezza’.Che cosa
c’entra Giovinezza con Signorinella?
E’ proprio l'apparente
incompatibilità di Giovinezza
con Signorinella chespiega
il successo di quest’ultima canzone in tempi così poco adatti al
sentimentalismo.
«Giovinezza giovinezza, primavera di
bellezza, - nella vita e nell’ebbrezza, - il tuo canto squillerà»: parole
ricche d'entusiasmo, aggressive e spensierate: un inno di gioia
indipendentemente dal significato politico che il regime avrebbe imposto a
esso, trasformandolo in inno nazionale. E in Signorinella: «Avevi un nome che non
si dimentica: un nome lungo e breve: Giovinezza». Paiono
concetti radicalmente diversi degli anni di gioventù, l'uno ottimista e
l’altro mesto.
In realtà la matrice
è unica: la trama di Signorinella,
la casta storia del buon don Cesare, è in tutto e per tutto imitata dalla famosa
‘Addio
Giovinezza!’,
una commedia nata dalla collaborazione tra Nino Oxilia e Sandro Camasio. La
commedia in questione, esattamente come la canzone, narrava la romantica
vicenda dell’amore dello studente per la sartina e dello spegnersi di
quest’amore dopo la laurea, dinanzi ai sogni di speranza per un poco probabile
futuro di successo.
“Addio
Giovinezza”, l’operetta goliardica di Giuseppe Pietri, su libretto di Sandro Camasio e Nino Oxilia,venne
rappresentata per la prima volta in musica nel 1915, all’inizio della Grande Guerra.Era quella l’epoca in cui
furoreggiava il genere operettistico inaugurato nella metà dell’ottocento da
Jacques Offenbach, autore di “Orfeo
all’inferno”, “La bella Elena”, “La Vie Parisienne”, e culminato con i
capolavori di Franz Leahr quali “La
vedova allegra” e “La danza delle
libellule”. Va evidenziato che proprio la versione musicale di “Addio giovinezza” del Pietri segnò la
nascita dell’Operetta italiana.
Il successo di “Addio giovinezza” fu forse dovuto al suo carattere intessuto di
nostalgia che faceva presa sui giovani impegnati al fronte in una guerra tra le
più sanguinarie. Gli autori del testo, ambientato a Torino, ben
raccontano il tramonto dell’età scapigliata con calore umano tenero e
crepuscolare, giàrappresentato alla fine del secolo da G. Puccini, nella più
celebre “Bohéme”. L’ambiente
goliardico è ritratto con sincerissima adesione. La storia è quella di una
semplice sartina che si innamora dello studente che sta a pensione a casa sua,
che poi si laurea, che poi se ne va, con una musica naturale e semplice dalla
prima all’ultima nota, con i mirabili i
duetti fra i protagonisti Mario e Dorina, e i magnifici momenti
brillanti e i cori dalle note spensierate. Il tutto intramezzato da paillettes,
lustrini e champagne.
Ora, bisogna ricordare
che Nino Oxilia fu anche l’autore delle parole di Giovinezza; e la
canzone, nata come coro degli studenti, diventò via via inno degli sciatori, fu
adottata dagli Alpini, poi dagli Arditi della prima guerra mondiale, poi dagli
squadristi del Fascio e infine divenne Inno italico.
Si trattò, non c’è
dubbio, di una deformazione più che di una trasformazione: rimane il fatto,
tuttavia, che la vicinanza d’origine di due canzoni apparentemente opposte come
Giovinezza e Signorinella sta a
testimoniare che l’anima aggressiva dell’Italia del Venti non era del tutto
diversa da quella nostalgica dei tempi della commedia di Oxilia e da quella di
Signorinella: era la
stessa anima che si era inebriata di nuove emozioni.
(da ‘La
canzone italiana’, n. 4 collana Gr. Editoriale Fabbri, Milano, 1970)
* * *
Signorinella
Versi di Libero Bovio - Musica di Vincenzo Valente
Signorinella
pallida
dolce
dirimpettaia del quinto piano,
non v'è
una notte ch'io non sogni Napoli
e son
vent'anni che ne sto lontano.
Al mio
paese nevica,
il
campanile della chiesa è bianco,
tutta la
legna è diventata cenere,
io ho
sempre freddoe sono triste e stanco.
Amore mio,
non ti
ricordi che nel dirmi addio
mi
mettesti all'occhiello una pansè
poi mi
dicesti con la voce tremula:
non ti
scordar di me.
Bei tempi
di baldoria,
dolce
felicità fatta di niente.
Brindisi
coi bicchieri colmi d'acqua
al nostro
amore povero e innocente.
Negli
occhi tuoi passavano
una
speranza, un sogno e una carezza,
avevi un
nome che non si dimentica,
un nome
lungo e breve: Giovinezza.
Il mio
piccino,
in un mio
vecchio libro di latino,
ha trovato
- indovina - una pansè.
Perché
negli occhi mi tremò una lacrima?
Chissà,
chissà perché!
E gli anni
e i giorni passano
eguali e
grigi con monotonia,
le nostre
foglie più non rinverdiscono,
signorinella,
che malinconia!
Tu
innamorata e pallida
più non
ricami innanzi al tuo telaio,
io qui son
diventato il buon Don Cesare,
porto il
mantello a ruota e fo il notaio.
Lenta
e lontana,
mentre ti
sento, suona la campana
della
piccola chiesa del Gesù,
e nevica,
vedessi come nevica.
Ma tu,
dove sei tu?
'Signorinella' interpretata da Achille Togliani
* * *
La canzone di Marinella
"La canzone di Marinella" è una canzone di Fabrizio De
André del 1964,
pubblicata in un 45 giri insieme a "Valzer
per un amore". Arrangiata da Gian Piero Reverberi, la
canzone ebbe successo per il cantautore genovese anche grazie
all'interpretazione di Mina
che consentì al brano ed all'autore una visibilità molto più estesa su tutto il
territorio nazionale.
La canzone,
sebbene appaia come una storia d'amore, non può considerarsi una canzone
‘leggera’, visto anche il triste epilogo della protagonista. Il brano nasce,
infatti, da un fatto di cronaca che vede come vittima una prostituta uccisa e
massacrata lungo un torrente. Una storia penosa che più volte si è ripetuta
nella storia, e che De André ha voluto trascrivere in musica prendendosi
qualche licenza poetica per trasformare una tragedia in una storia d'amore ove
solo la fatalità rompe l'idillio.
"La canzone di Marinella" non è
nata per caso, semplicemente perché volevo raccontare una favola d'amore. È
tutto il contrario. È - dichiarò De André - la storia di una ragazza che a sedici anni ha
perduto i genitori, una ragazza di campagna dalle parti di Asti. E' stata
cacciata dagli zii e si è messa a battere lungo le sponde del Tanaro, e un
giorno ha trovato uno che le ha portato via la borsetta dal braccio e l'ha
buttata nel fiume. E non potendo far niente - concluse l'artista
- per restituirle la vita, ho
cercato di cambiarle la morte."
In quanto
alla storia che ispirò la canzone, la prostituta rispondeva al nome di Maria Boccuzzi e fu
ritrovata nel fiume Olona (e non nel Tanaro come dichiarato dallo stesso De
André) nel 1953. La donna, che era anche una ballerina, fu crivellata di colpi.
Una storia triste di come se ne leggono ancora oggi tra i fatti di cronaca ma
che colpì la sensibilità di De André che, grazie alla sua arte, è riuscito a
donare una sorta di eternità a questa sfortunata vittima della violenza degli
uomini.
“La canzone di Marinella” non è dunque che la tragica storia di una
ragazza sicuramente giovanissima, annegata nel fiume proprio il giorno stesso
in cui ha incontrato un uomo magnifico che le ha dato subito il suo amore,
quello che avrebbe dovuto diventare il re del suo cuore, e che è impazzito per
sempre dal dolore quando lei è morta …
Il vento che porta
Marinella su una stella è una bellissima metafora per indicare il passaggio
alla vita dell’aldilà, come a indicare la speranza che le giovani vite
ingiustamente stroncate possano continuare la loro gioventù in cielo, perché “come tutte le più belle cose, hanno vissuto
solo un giorno, come le rose”.
«Una
storia senza tempo, che parla
di persone senza storia.
Marinella era una prostituta, il cui corpo era stato trovato massacrato sul
greto di un torrente. Sembra storia di oggi, ma è purtroppo storia di sempre.
Una tragedia anonima, capace di rubare dieci righe a un giornale di provincia,
letta alla luce della cronaca. Vista in controluce,
invece, diventa un dramma intenso, oltre la storia, a tracciare il percorso
della radicata vicinanza tra amore e morte. Di un amore che non conosce scale
gerarchiche, di una morte che sublima in dignità estrema del povero» (Don Luigi
Ciotti, da Il mondo in controluce
, 2000)
La canzone di Marinella
Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella.
Sola senza il ricordo di un dolore
vivevi senza il sogno di un amore
ma un re senza corona e senza scorta
bussò tre volte un giorno alla tua porta.
Bianco come la luna il suo cappello
come l'amore rosso il suo mantello
tu lo seguisti senza una ragione
come un ragazzo segue un aquilone.
E c'era il sole e avevi gli occhi belli
lui ti baciò le labbra ed i capelli
c'era la luna e avevi gli occhi stanchi
lui posò la sua mano sui tuoi fianchi
furono baci e furono sorrisi
poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle...
Dicono poi che mentre ritornavi
nel fiume chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent'anni ancora alla tua porta.
Questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose ...
'La Canzone di Marinella' illustrata da bambini'
Voce di F. De André
* * *
La canzone di Marinella - Legenda d’Autore
di Francesca Maria Miraglia, 2016
La canzone di Marinella, di
Fabrizio De André, ha da
sempre destato scalpore, in particolar modo poiché risulta essere avvolto
da un bellissimo alone di mistero e di tristezza. Iniziamo dunque ad analizzare
il testo:
Questa di Marinella è la srtoria vera
che scivolò nel fiume a primavera,
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra una stella.
Possiamo
notare sin da subito come la rima baciata conferisca dolcezza ai versi e doni una enfasi molto
forte; la costruzione ad arte reca quasi l’impressione di essere
catapultati in una fiaba. Una voce esterna (forse quella della gente, del
popolo indagatore) racconta la storia di questa fanciulla, Marinella,
probabilmente trasportata in quel luogo da un paesaggio incantato, opera
di Madre Natura.
La seconda strofa presenta un punto di
svolta:
Sola senza il ricordo di un dolore
Vivevi senza il sogno di un amore
Ma un re senza corona e senza scorta
Bussò tre volte un giorno alla tua porta.
Vivevi senza il sogno di un amore
Ma un re senza corona e senza scorta
Bussò tre volte un giorno alla tua porta.
Marinella non conosce il
sentimento dell’amore: un giorno però, si affaccia sulla scena un ‘re’, un giovane uomo, di cui poi la ragazza si
innamorerà. Questo è solo il preludio, infatti, alla terza
strofa:
Bianco come la luna il suo cappello
Come l’amore rosso il suo mantello
Tu lo seguisti senza una ragione
Come un ragazzo segue un aquilone.
Come l’amore rosso il suo mantello
Tu lo seguisti senza una ragione
Come un ragazzo segue un aquilone.
I colori
rivestono un ruolo rilevantissimo in questo testo: le alternanze cromatiche delineano le
personalità di Marinella e del giovane uomo. Il bianco
rappresenta concretamente il candore di Marinella a cui si oppone il rosso,
colore della passione che nutre l’uomo per lei. All’aquilone il compito di
simboleggiare poi l’innocenza infantile, ricolma di purezza, della
ragazza, che si ritrova a seguire senza un apparente motivo quell’uomo apparso
così, quasi per caso, nella sua vita.
La quarta strofa è decisamente idilliaca:
E c’era il sole e avevi gli occhi belli
Lui ti baciò le labbra ed i capelli
C’era la luna e avevi gli occhi stanchi
Lui pose le sue mani suoi tuoi fianchi.
Lui ti baciò le labbra ed i capelli
C’era la luna e avevi gli occhi stanchi
Lui pose le sue mani suoi tuoi fianchi.
Furono baci e furono sorrisi
Poi furono soltanto i fiordalisi
Che videro con gli occhi delle stelle
Fremere al vento e ai baci la tua pelle.
Poi furono soltanto i fiordalisi
Che videro con gli occhi delle stelle
Fremere al vento e ai baci la tua pelle.
In questa
parte del testo chiari sono i riferimenti all’imperversare della passione
amorosa fra Marinella e il giovane uomo: è un continuo crescendo, fino
quando lui, invaso da una smisurata dolcezza, pone le sue mani sui fianchi
di Marinella. Incalzano quindi baci, sorrisi ed emozioni, che portano la
ragazza a fremere in nome di questi suoi momenti vissuti. Nello svolgersi
della narrazione, sospesa nel tempo, appare improvvisamente un fiordaliso,
che sembra far da contorno alla storia: questo elemento, in realtà,
anticipa la morte della fanciulla, in un ritorno aggressivo della figura di
Madre Natura, pronta ad accogliere la morte di Marinella.
Dicono poi che mentre ritornavi
Nel fiume chissà come scivolavi
E lui che non ti volle creder morta
Bussò cent’anni ancora alla tua porta.
Nel fiume chissà come scivolavi
E lui che non ti volle creder morta
Bussò cent’anni ancora alla tua porta.
Questa è la tua canzone Marinella
Che sei volata in cielo su una stella
E come tutte le più belle cose
Vivesti solo un giorno, come le rose ...
Che sei volata in cielo su una stella
E come tutte le più belle cose
Vivesti solo un giorno, come le rose ...
Marinella è
stata uccisa, accanto ad un fiume: sembra
quasi che quel passaggio “mentre…
scivolavi” dia l’idea di una immagine a rallentatore,
costruita ad hoc, per dare modo
all’ascoltatore di immaginare
la scena davanti a sé e viverla così in prima persona. Il
giovane amante è incredulo, addolorato e affranto, cerca di bussare alla porta
di Marinella, con la speranza di trovarla viva e pronta ad accoglierlo ancora
tra le sue braccia.
* * *
La Canzone di Marinella
(Video clip ‘La Municipal’)
Il videoclip è diretto da Marco Pellegrino, vincitore con
“Falene – Moths to Flame” della sezione Fiction dei Nastri d’Argento 2019 per i
corti.
A proposito del brano, il regista afferma: «“La canzone di
Marinella” è un brano la cui scrittura si ispira a un caso di femminicidio
degli anni’60. Lo stesso De André affermava: La storia di quella ragazza mi
aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di
addolcirle la morte.»
«Si tratta di uno dei brani più significativi della musica
italiana - raccontano Carmine e Isabella de ‘La Municipàl’ - Nonostante il timore reverenziale circa la
responsabilità di reinterpretare questo brano, abbiamo scelto una chiave di
lettura basata sull’impatto emotivo in crescendo, partendo da una fase più
intima iniziale fino ad arrivare ad un’orchestrazione finale molto più robusta
ed avvolgente dove tutti gli strumenti arrivano al culmine della dinamica.»
2
COME 'IL FIOR DI GIOVINEZZA'
Οἷά τε φύλλα
(Come le foglie)
Mimnermo (Colofone, VII-VI secolo a.C.)
moltofiorito di primavera nascono
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
ci dilettiamo del fiore dell’età,
ignorando il bene e il male per dono dei Celesti.
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
ci dilettiamo del fiore dell’età,
ignorando il bene e il male per dono dei Celesti.
Ma le nere
parche ci stanno a fianco,
l’una con il segno della grave vecchiaia
e l’altra della morte.
l’una con il segno della grave vecchiaia
e l’altra della morte.
Fulmineo cade
il frutto di giovinezza,
come la luce d’un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
è meglio la morte che la vita.
come la luce d’un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
è meglio la morte che la vita.
L’espace d’un matin
François de Malherbe
(1555 – 1628)
…
Mais elle était du
monde où les plus belle schoses
Ont le pire destin,
Et Rose, elle a vécu ce
que vivent les roses
L’espace d’un matin.
Ma lei era di quel
mondo dove le più belle cose
hanno un triste
destino,
e come Rosa, lei ha
vissuto quel che vivono le rose
lo spazio d’un mattino.
da
“Consolation à M. Du Périer, gentilhomme d'Aix en Provence,
sur la mort de sa fille, 15-16“ (1599).
Mia giovinezza
Ada
Negri (1870 – 1945)
Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo
all’essere. Sei tu, ma un’altra sei:
senza fronda né fior, senza il lucente
riso che avevi al tempo che non torna,
senza quel canto …
… E sei rimasta
come
un’età che non ha nome:
umana tra le umane miserie
…
O giovinezza senza tempo, o
sempre
rinnovata speranza, io ti
commetto
a color che verranno: -
infin che in terra
torni a fiorir la
primavera, e in cielo
nascan le stelle quand’è
spento il sole.
A
SILVIA
Giacomo
Leopardi (1798-1837)
Parafrasi
Silvia, ricordi ancora quel periodo della tua vita terrena
quando la bellezza risplendeva nei tuoi occhi timidi e sorridenti e tu, felice
e pensierosa, stavi per superare la soglia della tua adolescenza?
Nelle stanze tranquille e per le strade circostanti
echeggiava il tuo continuo canto, quando tu, impegnata nei lavori femminili,
eri molto felice di quel futuro incerto e desiderato che avevi in cuore. Era il
maggio pieno di profumi, e tu eri solita trascorrere così le tue giornate.
Io, tralasciando di tanto in tanto i miei cari studi e le
carte su cui studiavo, nei quali si consumavano il tempo della mia giovinezza e
la parte migliore di me, dai balconi del palazzo di mio padre prestavo
attenzione al suono della tua voce e a quello della tua mano veloce che
faticosamente tesseva la tela. Contemplavo il cielo sereno, le vie assolate e i
giardini, e da una parte il mare da lontano, dall’altra la montagna. Le parole umane
non possono esprimere ciò che io provavo nel cuore.
Quanti dolci pensieri, quante speranze, quanti sentimenti, o
mia Silvia! Come ci sembravano luminosi allora la vita e il nostro destino!
Quando ripenso a tutte quelle speranze, sento l’oppressione di un sentimento
insopportabile e sconsolato, e mi prende una grande tristezza per la mia
sventura. O Natura, natura, perché non ci dai quello che prima ci avevi
promesso? Perché inganni così tanto i tuoi figli?
Tu, prima che l’inverno inaridisse i prati, consumata e
uccisa da una crudele malattia, morivi, o tenerella. E non avevi ancora
conosciuto la parte migliore dei tuoi anni; ancora non ti addolcivano il cuore
complimenti per i tuoi capelli neri, o per gli sguardi innamorati e timidi; e
neppure era giunto per te il tempo in
cui le ragazze, nei giorni festivi, parlano d’amore con le compagne. Tra poco
si spegnerà anche la mia dolce speranza: anche a me il destino ha negato la
giovinezza. Ahimè, come sei svanita, cara compagna dei miei anni giovanili, mia
compianta speranza!
È dunque questo il mondo che avevamo sognato? Sono questi i
piaceri, i sentimenti, le attività, gli avvenimenti che tu ed io avevamo
sospirato? È questo il destino degli uomini? Quando si svelò la verità, tu
svanivi miseramente, indicando silenziosamente da lontano la fredda morte e una
tomba nuda.
* * *
“A Silvia”
È un canto del 1828 dedicato a una ragazza che Leopardi
conobbe realmente, Teresa Fattorini,
figlia del cocchiere di casa Leopardi.
Nata
nel 1797, vissuta a cavallo tra Settecento e Ottocento, morì a soli ventuno
anni il 30 settembre del 1818. La sua immagine ideale si è ormai sovrapposta a
quella reale, ma proprio Leopardi, nelle pagine dello Zibaldone, così la
descrisse:
“ Una giovane dai sedici ai
diciotto anni [che] ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti, un
non so che di divino, che niente può agguagliare. […] quel fiore purissimo,
intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si
legge nel viso e negli atti, o che nel guardarla concepite in lei e per lei;
quell’aria di innocenza, di ignoranza completa del male, delle sventure, de’
patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fiore della vita”.
Per
il poeta, il ricordo vitale di quella esile figura femminile si trasforma in un
grido di dolore verso la spietata e sorda Natura, insensibile alle suppliche
degli umani.
Silvia è il simbolo delle speranze della giovinezza, fatta
di attese, sogni, illusioni. Silvia rappresenta la delusione
che attende ogni essere umano allo svanire della giovinezza.
La
struttura della poesia è tale da rivelare un rapporto molto forte tra Leopardi
e Silvia: il parallelismo tra il poeta e Silvia è evidentissimo, entrambi sono
giovani, sono intenti a lavorare e coltivano grandi speranze per il futuro.
In
questa lirica, la musicalità leopardiana raggiunge livelli altissimi, forse
superiori alle altre liriche: fin dalla prima strofa si instaura una complessa
rete di assonanze e consonanze, soprattutto legate alla ripetizione del suono
della "S", presente in "Salivi,
sonavan, stanze": addirittura si può notare come nella prima strofa la
parola Silvia sia contenuta nel termine "salivi" che ne è un
vero e proprio anagramma. L'anagramma in questo caso non è ovviamente un
semplice gioco di parole, ma serve ad evocare la presenza della fanciulla,
quasi a volerla richiamare in vita.
* * *
Un breve commento
La prima parte del canto “A Silvia” è evocativa
di una gioventù lieta,
ma anche pensosa,
quasi a presagire la sventura successiva. Eppure il mondo intorno a Silvia
sembrava perfetto: il perpetuo canto, il cucito con le compagne e un
avvenire vago, come quello di una qualsiasi ragazza dell’epoca.
Dall'altra parte, lo stesso poeta dal balcone ascolta e
guarda, partecipe di quella vaghezza che rassomiglia tanto alla felicità. Nello
sguardo e nel cuore, tutto si riempie di indefinito e di orizzonte: il
mare da lungi, le speranze.
Ma poi, secco come lo spezzarsi di un ramo, sale il verso
centrale, lo snodo verso il tramonto di tutte le illusioni: O
natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? perché di
tanto / inganni i figli tuoi?
E' quasi un atto di
accusa verso la natura che prima illude e poi disillude: di
nuovo Silvia, ma questa volta combattuta e già vinta ancora
prima che l'erba ingiallisca. E' la morte di Silvia, la morte della speranza
che avviene all'apparir
del vero. E' come se la speranza tramontasse davanti all'aridità e
alla potenza della ragione,
quella ragione che alza il velo dei dolci inganni per mostrare una tomba
ignuda, ancora da lontano, nel prolungamento d'un ricordo che fa
rivivere Silvia, ma che è anch'esso illusione.
Di questo parla Leopardi, dipingendo una delle figure più
immortali di tutta la poesia italiana: della speranza che nasce nel maggio
della vita e tramonta agli inizi dell'autunno, di una breve stagione in cui si
pensa di potere ordire la trama di un ancorché vago futuro e della rottura
dell'incantesimo, alla caduta delle illusioni giovanili.
C'è, nella lirica, tutto il pessimismo leopardiano, la sua
concezione della vita come sofferenza preceduta da una breve stagione di
felicità. La bellezza di questa poesia è proprio in questo doppio gioco: il fondere un episodio realmente
accaduto, la morte di Silvia, con quella che è la vicenda tragica di tutte le umane
genti e soprattutto quella del poeta stesso. C'è il passaggio dal
particolare di Silvia, all'universale del genere umano, da una ragazza che
muore giovane alla accidentalità della specie umana.
Marisa
Moles (Prof. di Lettere, Udine - 2013)
* * *
Spunti di analisi
“A Silvia” è senz’altro una delle poesie più famose di Leopardi, composta nella sua Recanati, quel natio borgo
selvaggio in cui il poeta spese il suo tempo migliore: la gioventù.
Molti pensano che questa sia una poesia d’amore. Nell’alternanza di endecasillabi e settenari
Leopardi, infatti, pare esprimere il suo amore per una fanciulla morta troppo presto per “veder il fior degli anni”
suoi. Una fanciulla che il giovane, sfortunato anche lui più per libera scelta
che per avversa fatalità, spiava
mentre la mano di lei percorrea la faticosa tela.
Come per Silvia i brevi giorni della sua vita erano stati
troncati dalla fatale malattia,
deludendo le speranze di un futuro gioioso di donna amata, così per Leopardi
stesso la morte di lei
rappresenta la fine delle sue speranze.
E questa disillusione gli deriva dalla convinzione che la Natura si prenda gioco del destino
degli uomini, quella Natura che prima illude e poi inganna i suoi figli, negando loro ciò che
prima aveva promesso.
Nell’ultima strofa la disillusione si palesa
inequivocabilmente: la morte di Silvia
rappresenta metaforicamente la morte stessa della speranza che non
può far altro che indicare al poeta la una tomba ignuda.
Ma al di là di questa metafora che ci riconduce al pessimismo leopardiano, la poesia può essere considerata
una lirica amorosa? Forse a livello conscio no: Leopardi parlava di quel suo male
di vivere, di quel suo costume che ben si addice al ‘passero
solitario’, ma non a lui, che per scelta conduceva una vita isolata e priva delle
gioie tipiche dell’età più bella, quell’età che il garzoncello
scherzoso trascorre spensierato nel villaggio
animato da personaggi umili, tutti intenti nei preparativi per trascorrere al
meglio una giornata di festa nella
gioia condivisa. Ma a livello inconscio
forse la poesia può essere letta come una poesia d’amore.
Il critico Giorgio Barberi Squarotti,
in un suo saggio rileva un’inconscia ossessione
del poeta nei confronti di Silvia. Un’ossessione che lo spinge, inconsciamente
appunto, a ripetere, quasi in uno sciame allitterativo, fin dai primi versi la
sillaba “vi”, compresa nella parola Silvia: al verso 2 ritroviamo
la parola “vita” che la contiene; al verso 4 gli occhi sono aggettivati
come “fuggitivi”, in rima con il verbo “salivi” del verso 6;
quindi, all’inizio del verso 11 si legge ancora un verbo, “sedevi”, che
termina con “vi” e ancora al verso
successivo “avevi” che rima con un altro verbo, sempre alla seconda
persona singolare, “solevi”. Nelle strofe che seguono si trovano
facilmente anche altre parole contenenti la sillaba “vi”, ma quello che sconcerta particolarmente è che la forma verbale
“salivi” del verso 6 costituisce addirittura l’anagramma del nome Silvia.
Secondo Barberi Squarotti questa
ripetizione ossessiva del “vi” si
accosta all’allitterazione del fonema
“T” nella prima strofa, e all’insistenza con cui Leopardi usa il
pronome personale “tu” e l’aggettivo possessivo “tuo/a” in tutta
la lirica. In particolare, nella terza strofa c’è un gioco di contrapposizioni
tra l’ “io” leopardiano e il “tu” riferito a Silvia. Non a caso, è la strofa in cui il poeta rappresenta con
toni più dolci e sereni il suo
“rapporto” con Silvia, un rapporto fatto di suoni e di sguardi.
Lo sguardo rivolto all’orizzonte (impossibile non fare un confronto con la
poesia L’infinito) rappresenta
la speranza stessa, non ancora
delusa, e l’attesa per un futuro ignoto i cui colori non sono cupi ma brillanti (L’oro delle vie illuminate dal sole).
Ritornando all’interpretazione di
Barberi Squarotti, ci chiediamo se quelle ripetizioni fossero volute o meno. Si
tratta, dunque, di una costruzione conscia della lirica come specchio dell’anima, in cui si insiste
su quel “vi” racchiuso nel cuore
della parola “Silvia”, così come l’immagine stessa della ragazza era racchiusa
nel cuore del poeta amareggiato
per la sua morte precoce? Non lo sappiamo per certo, ma ci sono degli indizi
che ci portano a credere che Silvia, al di là della metafora che incarna, fosse
davvero amata dal poeta, forse
come nessun’altra lo fu mai.
"A Silvia"
Voce e video di Elide Fumagalli
3
nell'arte dei Preraffaelliti
Nel 1848, nella Londra
vittoriana, un gruppo di giovani pittori, sentendosi stretti nei canoni
dell’accademismo, decidono di andare oltre alle convenzioni, oltre al
linguaggio pittorico tradizionale per creare qualcosa di nuovo e di innovativo.
Quello che nasce dal loro sodalizio (‘Pre-Raphaelite Brotherhood’) è qualcosa destinato a cambiare davvero la visione dell’arte,
ma soprattutto a regalare alla Storia alcuni dei più stupefacenti dipinti di
tutti i tempi.
I
“Preraffaelliti”
si contrappongono all’accademismo ufficiale, sempre più anacronistico e rigido
nei suoi canoni. Capeggiato da William Holman Hunt, da Dante Gabriel Rossetti e
da J. Everet Millais, il movimento propone nuovi canoni in antagonismo con il
Neoclassicismo Accademico, sposato appieno dalla Royal Academy. I giovani
artisti non vivono in un
passato nostalgico, ma nell’arte e nelle tematiche antiche vedono la via per
una nuova comunicazione pittorica. Essi infatti, nell’intento di creare
qualcosa di assolutamente nuovo, decidono di guardare al medioevo per trarre
spunto e nuova linfa alla pittura loro contemporanea, che, soffocata dal
barocco e dalla pittura di maniera, ha perso la capacità di comunicare emozione
e attraverso l’emozione.
I fondatori del Prerafaellismo: Rossetti, Millais, Hunt
La scelta del nome “Prerafaelliti” è
dovuta a William Holman Hunt, che nel commentare La ‘Trasfigurazione’ di
Raffaello (musei Vaticani), mosse una pesante critica all’urbinate: “Raffaello
doveva essere condannato per il suo disprezzo grandioso del carattere semplice
della verità, per la postura altezzosa degli apostoli e per l’atteggiamento non
spirituale del Salvatore”.
La confraternita dei Preraffaelliti
perciò fa un balzo indietro, a prima di Raffaello Sanzio, identificando
nell’artista rinascimentale le origini di tutta la pittura successiva, nella
sua arte le linee che influenzeranno gli stili e i gusti dei secoli seguenti in
modo negativo. La loro pittura decide di riagganciarsi a un’arte più antica:
quella medievale, e da essa prendere spunto.
In realtà il gusto preraffaellita è
piuttosto moderno, con caratteristiche ben definite e molto lontane dal gusto
medievale, ma vuole recuperare il senso simbolico dell’arte e alcune tematiche
del periodo.
I Preraffaelliti parlano all’anima, cercano di
ritrovare nello spettatore lo sguardo stupito e ancora bambino, quello che
lasciava incantati di fronte alle illustrazioni dei libri, per condurlo verso
la scoperta di un messaggio, celato nelle tele.
Quello
che propongono non è quindi solo un movimento pittorico, è una filosofia di
vita, una vera e propria poetica. Uno dei massimi esponenti del movimento, Dante Gabriel Rossetti, è infatti
anche uno dei poeti più importanti dell’epoca vittoriana.
In
questo periodo di contrasti, di stridore, i preraffaelliti propongono una pittura piena di colore, di
suggestive contaminazioni letterarie,
di magia, in cui non mancano le tematiche
sociali e religiose, ma sempre dipinte attraverso dense pennellate fatte
di lucente colore, attraverso immagini nitide, particolareggiate, nelle quali
mondi onirici e fiabeschi divengono crudelmente reali.
* * *
I Preraffaelliti furono precorritori e
sostenitori di idee nuove e inaudite in piena epoca vittoriana. E sperimentando nuove convinzioni
ideali, con conseguenti nuovi stili di vita, nelle relazioni personali furono
spesso molto più liberi e spregiudicati dei pittori tradizionali ottocenteschi.
Essi costituirono pertanto lo
scandalo e la frantumazione d’una società ormai giunta alla propria fine,
facendo esplodere l’arte ormai stantia delle accademie attraverso la ricerca
del presente e del futuro, nel nostro passato di leggende e splendori e magia.
Amarono riamati, tradirono, si uccisero, ma vissero la loro vita bruciandola
come una candela da entrambi i lati, ebbero metà del tempo ma rifulsero con il
doppio dello splendore.
Crearono nuovi miti, innalzandoli
su quelli antichi con la follia lucida del voler riportare un nuovo mondo di
bellezza per tutti. Furono la più dirompente rivoluzione culturale che si
potesse anche lontanamente immaginare ma fallirono, e il loro fu il fallimento
più grandioso e splendido che un artista potesse desiderare, perché questi
pochi pittori crearono un Nuovo Rinascimento che durò soltanto un’estate
stregata, un sogno fugace e mai più ripetuto che però rimane e perdura nel
tempo, mentre di tutto il resto, anche nell’arte contemporanea, non resterà
forse che polvere e cenere.
‘Brotherhood’ e ‘Sisterhood’ nel movimento preraffaellita.
Alla
‘confraternita’ dei Prerafaelliti si
affianca presto anche un gruppo femminile, una vera e propria ‘sorellanza’, nella quale si muovono le
compagne di vita, le muse, modelle e ispiratrici dei pittori, divenute a loro
volta protagoniste del movimento artistico, spesso dimostrandosi artiste di
altissimo livello.
I
preraffaelliti erano inclini a cercare le loro modelle tra le belle ragazze di
bassa estrazione sociale, che, non avendo una reputazione da difendere,
potevano incarnare anche ideali femminili seducenti ed erotici. Questa
tipologia di donne permetteva poi agli artisti, in genere di estrazione sociale
borghese, di relazionarsi con loro in una situazione di doppio vantaggio, in
quanto uomini e in quanto di una classe sociale superiore. Sposare una di
queste modelle voleva dire superare pregiudizi molto marcati nella società
vittoriana.
La ‘donna- simbolo’ e la sua sacralità nell’arte dei Preraffaelliti
La riflessione artistica dei
Prerafaelliti partiva dalla considerazione che, con l’evoluzione scientifica e
il progresso, l’umanità si era allontanata dalla natura.
L’uomo, col passaggio da modelli sociali che mettevano la vita e la donna al
centro in modelli gerarchizzanti di dominio maschile, aveva iniziato a creare
Dei a sua immagine per giustificare il suo potere, ma anche come specchio
simbolico del controllo esercitato sul lato dell’umanità considerato irrazionale,
quello relativo alla ‘donna’,
simbolo e riflesso della natura fuori controllo. Conseguentemente, l’uomo,
organizzatore e controllore della società strutturata, cominciò a vedere il ‘femminile naturale’
come caotico, ostile, elemento pericoloso da evitare e
dominare (che nelle religioni giudaico cristiane , non a caso, è descritto come
la porta dell’inferno). Il ‘femminile’,
persa la sua corona sacrale, diventava così un susseguirsi di provocazioni, di disturbo
dell’ordine sociale, incarnando una pericolosa energia libera,
la magia e i poteri occulti che sfuggono al controllo
maschile.
Il ritorno
alla ‘natura-femmina’ e la
celebrazione dell’immagine femminile dei preraffaelliti racchiude proprio
la propensione al ritorno verso la sacralità perduta.
Gli uomini e le donne della
confraternita si avventurarono nella sperimentazione di nuove convinzioni, nuovi
stili di vita e di relazioni personali, radicali quanto la loro
arte e incentrate sui principi estetici e concettuali di amore,
desiderio, natura e la sua fedele riproduzione, ispirandosi al
simbolismo, le storie medievali, la poesia, il mito, la bellezza in tutte le
sue forme.
La narrazione preraffaellita
veicola forti messaggi potenti legati alla sacralità femminile e, non a caso, al centro delle loro
opere ci sono sempre la donna, la natura e le storie del ‘Roman de la rose’ e
del ciclo arturiano che raccontano, attraverso i secoli, il
messaggio esoterico del ‘sacro femminile’.
La donna portatrice del fuoco della vita (Rossetti, 1870)
Si
intrecciano così, nella vita e nell’arte dei Prerafaelliti, avventure, storie romantiche,
tragiche, cariche del fascino di quest’epoca di contrasti e di grandi ideali. Quando avevano vent’anni essi volevano rivoluzionare tutto e celebrare per i secoli a
venire la sacralità femminile. Ci sono riusciti.
La donna è quasi sempre l'unica e
principale protagonista della pittura dei Prerafaelliti. La natura circostante,
anche se dipinta in modo particolareggiato o gli interni dei palazzi, fanno
solo da scenario.
Le figure femminili non hanno più il corpo costretto dagli abiti, come
nella vita reale, ma racchiudono in sè tutto ciò che alla donna del periodo
vittoriano non era ancora concesso. Sono donne libere, spesso raffigurate discinte, con capelli lunghissimi,
ondulati e sciolti sulle spalle, ‘donne simbolo’, riprese da personaggi
biblici, mitologici, storici, da eroine dell'antichità e del Medioevo.
E anche se apparentemente la tipologia fisica
non si discosta dall'immagine femminile dell’epoca, molto diversi sono i
connotati psicologici e simbolici, estremamente sfaccettati, complessi e a
volte contraddittori. Apparizioni di
donne, a volte inquietanti, o arcane ed eteree, o terribilmente sensuali,
come l’‘incantatrice’ pericolosa, fortemente
sensuale, che con la sua avvenenza riesce ad ammaliare e soggiogare gli incauti
uomini che hanno la sfortuna di avvicinarla, oppure l’‘angelo salvatore’ - come la Beatrice dantesca - o la donna che
si strugge e muore vittima sacrificale d’amore.
Elizabeth
Siddal (1829 – 1862)
Questa ambivalenza si rintraccia anche nella
vicenda biografica dei pittori del movimento e in quella delle donne, che ne
furono modelle, muse ispiratrici e amanti. La più celebre è sicuramente Elizabeth Siddal. Introdotta nel circolo
dei Preraffaelliti, divenne la modella prediletta di molti artisti del gruppo,
rappresentandone a pieno l’ideale femminile per l’aspetto esile ed etereo e i
lunghi capelli rossi.
Nonostante le umili origini, Siddal, fu essa
stessa poetessa e pittrice. Dante Gabriel Rossetti ne diventò presto maestro e amante:
Elizabeth imparò da lui a dipingere. Rossetti, già sposato, si fidanzò infine
con Elizabeth, continuando tuttavia per anni ad annullare e rimandare le nozze,
imbarazzato per le umili origini della donna. Fu in quei nove anni di attesa e
sofferenza che Siddal iniziò a manifestare quell’esaurimento cerebrale che la
spingerà verso l’uso del laudano.
Anche quando il matrimonio con Rossetti fu
celebrato, gli anni successivi continuarono ad essere costellati da amarezze e
gelosie, finché la nascita di un figlio morto la spinse definitivamente verso
il suicidio. Il pittore ritrarrà la
moglie defunta nel dipinto Beata
Beatrix, ove il volto della donna è ormai trasfigurato
nell’idealità più assoluta del personaggio dantesco.
Beata Beatrix (Rossetti, 1872)
Nella
tomba, insieme al corpo della Siddal, il marito fece porre anche l’unica copia
dei manoscritti d’amore che lo stesso Rossetti aveva dedicato alla Siddal,
scritti nel corso degli anni: il quaderno che li conteneva venne infilato fra i
suoi capelli rossi.
Nel
1869 Rossetti, piegato da alcool e droga e convinto di diventare cieco, fu
ossessionato dal desiderio di pubblicare le proprie poesie accompagnate da
quelle della moglie. Insieme al proprio agente Charles Howell, ottenne il
permesso di aprire la tomba della Siddal per recuperare il quaderno di poesie:
il tutto venne svolto di notte, per evitare lo sdegno della gente.
Rossetti
pubblicò quindi le proprie poesie insieme a quelle della moglie. A causa di
alcuni temi erotici, l’opera venne male accolta dalla critica.
Elizabeth Siddal scrisse 14 poesie complete, che vennero
considerate dalla cognata Christina troppo tristi e prive di speranza alcuna
per incontrare i gusti dell’Inghilterra vittoriana. Ma alla fine sono arrivate
a noi come la testimonianza del
coraggio della Siddal nel descrivere il doloroso e sottilissimo confine tra
amore e morte, astraendosi da qualsiasi moda poetica del suo secolo.
Nel
2006, queste composizioni sono state tradotte per la prima volta in italiano da
Conny Stockhausen.
Un’unica poesia di Elizabeth
risulta autografata:
L’amore finito
Non
piangere mai per un amore finito
poiché
l’amore raramente è vero
ma cambia
il suo aspetto dal blu al rosso,
dal rosso
più brillante al blu,
e l’amore
destinato ad una morte precoce
ed è così
raramente vero.
Non
mostrare il sorriso sul tuo grazioso viso
per
vincere l’estremo sospiro.
Le più
belle parole sulle più sincere labbra
scorrono e
presto muoiono,
e tu
resterai solo, mio caro,
quando i
venti invernali si avvicineranno.
Tesoro,
non piangere per ciò che non può essere,
per quello
che Dio non ti ha dato.
Se il più
puro sogno d’amore fosse vero
allora,
amore, dovremmo essere in paradiso,
invece è
solo la terra, mio caro,
dove il
vero amore non ci è concesso.
Dead Love
Oh never
weep for love that’s dead
Since love is seldom true
But changes his fashion from blue to red,
From brightest red to blue,
And love was born to an early death
And is so seldom true.
Since love is seldom true
But changes his fashion from blue to red,
From brightest red to blue,
And love was born to an early death
And is so seldom true.
Then harbour
no smile on your bonny face
To win the deepest sigh.
The fairest words on truest lips
Pass on and surely die,
And you will stand alone, my dear,
When wintry winds draw nigh.
Sweet, never weep for what cannot be,
For this God has not given.
If the merest dream of love were true
Then, sweet, we should be in heaven,
And this is only earth, my dear,
Where true love is not given.
To win the deepest sigh.
The fairest words on truest lips
Pass on and surely die,
And you will stand alone, my dear,
When wintry winds draw nigh.
Sweet, never weep for what cannot be,
For this God has not given.
If the merest dream of love were true
Then, sweet, we should be in heaven,
And this is only earth, my dear,
Where true love is not given.
La raccolta delle sue
poesie, tradotte da Conny Stockhausen, rivela una sensibilità fortemente
caratterizzata dalle atmosfere languide, quasi morbosamente malinconiche, di
quel tardo Ottocento: i motivi della
temperie romantica si sciolgono in una nostalgia dolorosa eppure delicatissima,
in un rimpianto del passato nel quale la passione d’amore e il senso sempre
incombente della morte si fondono ineluttabilmente.
In “Amore e odio” (Love and Hate) Siddal scrive: «Volgi altrove i tuoi bugiardi occhi cupi, / e
non posarli sul mio viso; / immenso amore ti diedi: ora l’immenso odio /
s’insidia crudelmente al suo posto», e forse si rivolge a Dante
Rossetti, suo amante e poi marito, dal quale Elizabeth ricevette lezioni
d’arte, passione sfrenata ma anche tanta implacabile sofferenza. E ancora i
versi di “Un anno e un giorno” (A Year
and a Day) «Il fiume scorre
eterno / nel suo letto erboso, / le voci di migliaia di uccelli / risuonano sul
mio capo, / mi porteranno un sogno ancora più triste / di quando questo triste
sogno avrà fine» che sembrano l’ekfrasis dell’Ophelia di Millais. Il viso di Ofelia morta è quello di
Elizabeth Siddal.
Ophelia (Millais, 1852)
Jane Burden
Tra
le amanti del Rossetti che furono causa dell’infelice vita di Elizabeth, è
probabilmente da annoverarsi Jane Burden, altra musa dei Preraffaelliti che,
con il suo fascino sensuale e carnale e la sua chioma corvina, rappresenta il
contraltare alla bellezza eterea di Siddal.
Jane,
donna colta e indipendente, ebbe numerosi amanti, e fece da modella a Rossetti
in un cospicuo numero delle sue tele, tra cui la celebre Proserpina.
Proserpina (Rossetti, 1874)
Annie Miller
Protagonista
di una romanzesca vicenda d’amore è invece Annie Miller. Questa donna, dai
tratti delicati e dalla folta chioma bionda, appare in numerose opere, tra le
quali Il sogno di Dante ed Elena di Troia
di Rossetti, nonché in molti dipinti di Hunt, tra cui il celebre Risveglio della coscienza.
Elena di Troia (Rossetti, 1863)
Cresciuta
nei bassifondi di Chelsea, fu inizialmente modella di William Holman Hunt, che
se ne innamorò perdutamente. Prima di partire per un viaggio, Hunt affidò la
ragazza alle cure del collega e amico Rossetti: al suo ritorno, i due erano
diventati amanti. La stessa Siddal, sospettando il tradimento del marito con
Annie Miller, ne buttò durante una lite i ritratti dalla finestra.
Fanny
Cornforth
Un’altra
modella di Rossetti, Fanny Cornforth, fu invece una bellezza diversa da quella
eterea delle altre muse preraffaellite. Domestica al servizio del pittore e poi
sua amante, fu donna opulenta e matronale, tanto che Rossetti ebbe a chiamarla
in seguito con lo scherzoso nomignolo di «mio caro elefante».
Un’opera
in particolare sembra tuttavia incarnare perfettamente il sentimento della
Confraternita verso la figura femminile. Fanny Cornforth è infatti Lilith in un’altra tela di
Rossetti, la mitologica prima moglie di Adamo, che divenne demone quando scelse
di abbandonarlo. Lilith è per eccellenza la donna demoniaca e tentatrice, il
cui fascino risiede proprio nella sua scelta di indipendenza.
Lady Lilith (Rossetti, 1868)
Eppure
in questo dipinto ha la bellezza luminosa e salvifica di una donna angelo
stilnovista ed è proprio questa contraddizione che dai Preraffaelliti passerà
poi al simbolismo e a Klimt fino ad arrivare a tanta letteratura dei giorni
nostri.
* *
*
I
fratelli Rossetti
Dante
Gabriel Rossetti (1828-1882)
Dante Gabriel Rossetti, pittore e
poeta, fu l'artista che meglio rappresentò l'ideale preraffaellita. Figlio di
un patriota italiano fuggito in Inghilterra dopo il fallimento dei moti
napoletani del 1821, nella sua formazione letteraria fu influenzato da una
parte da Dante e i dai poeti del dolce
stilnovo e, dall'altra, da Shelley, Keats, Tennyson, E.A. Poe e dal romanzo
gotico.
Lo studio giovanile di Dante lo
familiarizzò con l'aspetto simbolistico e rituale dello spirito medievale,
incoraggiando un'inclinazione a identificare il materiale con l'eterno e lo spirituale.
Nella sua prima raccolta di Poems (Poesie, 1870) e nella
seconda e ultima, Ballads and
sonnets (Ballate e sonetti, 1881), l'elemento nuovo della sua
ispirazione è dato dalla propensione per l'elegante, l'esoterico e l'arcano,
indice di un atteggiamento estetizzante; la sua poetica è alimentata dalla
ricerca dell'anima evanescente delle cose e da una realtà suggestiva sfumata nel
sogno e nel ricordo.
Christina Rossetti (1830 – 1894)
Christina
Rossetti nacque a Londra e fu educata in casa dalla madre. La cultura religiosa
anglicana ebbe un ruolo importante nella vita di Christina: appena diciottenne
si impegnò sentimentalmente con il pittore James Collinson, ma la relazione
finì perché quest'ultimo tornò ad essere cattolico. In seguito si legò al
linguista Charles Cayley ma non lo sposò, nuovamente per motivi religiosi. Morì
di cancro nel 1894 e venne seppellita nell'Highgate Cemetery.
All'inizio
del Novecento la sua popolarità venne offuscata, come anche quella di
molti altri scrittori dell'epoca vittoriana. Christina Rossetti rimase a lungo
dimenticata fino agli anni settanta, quando venne riscoperta da studiose
femministe.
Christina Rossetti iniziò a scrivere molto presto, ma solo
all'età di 31 anni vide pubblicata la sua prima raccolta di poesie, Goblin
Market and Other Poems (1862). Il titolo che dà il nome alla raccolta è il
lavoro più famoso di Christina Rossetti, e nonostante a prima vista sembri
semplicemente una filastrocca sulle disavventure di due sorelle in mezzo agli
gnomi (goblins), la poesia è complessa e si presta a diversi livelli di
lettura. La critica l'ha interpretata in modi molto diversi: vi ha visto
un'allegoria sulla tentazione e la redenzione, un commento sui ruoli sessuali
nell'epoca vittoriana, e la tematizzazione del desiderio erotico e la
redenzione sociale.
Christina Rossetti continuò a scrivere e pubblicare, tuttavia
più interessanti sono le sue poesie d'amore, nate da storie dolorosamente
vissute e da sprazzi di lucidità che trasformano il dolore in un sentimento
leggero e persino gioioso. La famosa When I am dead, my dearest esprime
tutta la sua insicurezza: lei non è sicura del proprio amore quanto non è
sicura dell'amore dell'amato, il quale dunque non viene caricato di doveri, che
del resto neppure lei potrebbe sopportare.
Quando io sarò morta
Quando io sarò morta, mio
carissimo,
non cantare canzoni tristi per me;
non piantare rose alla mia testa
nè ombroso albero di cipresso:
sia la verde erba su di me
con acquazzoni e gocce di rugiada umida;
e se tu vuoi, ricorda
e se tu vuoi, dimentica.
Io non vedrò le ombre,
non sentirò la pioggia;
non udirò l’usignolo
cantare come se fosse addolorato:
e sognando durante il il crepuscolo
che nè sorge nè tramonta,
per caso possa ricordare
e per caso possa dimenticare.
non cantare canzoni tristi per me;
non piantare rose alla mia testa
nè ombroso albero di cipresso:
sia la verde erba su di me
con acquazzoni e gocce di rugiada umida;
e se tu vuoi, ricorda
e se tu vuoi, dimentica.
Io non vedrò le ombre,
non sentirò la pioggia;
non udirò l’usignolo
cantare come se fosse addolorato:
e sognando durante il il crepuscolo
che nè sorge nè tramonta,
per caso possa ricordare
e per caso possa dimenticare.
When I am dead, my
dearest
When I am dead, my dearest,
Sing no sad songs for me:
Plant thou no roses at my head,
Nor shady cypress tree:
Be the green grass above me
With showers and dewdrops wet;
And if thou wilt, remember,
And if thou wilt, forget.
I shall not see the shadows,
I shall not feel the rain;
I shall not hear the nightingale
Sing on, as if in pain;
And dreaming through the twilight
That doth not rise nor set,
Haply I may remember,
And haply may forget.
When I am dead, my dearest,
Sing no sad songs for me:
Plant thou no roses at my head,
Nor shady cypress tree:
Be the green grass above me
With showers and dewdrops wet;
And if thou wilt, remember,
And if thou wilt, forget.
I shall not see the shadows,
I shall not feel the rain;
I shall not hear the nightingale
Sing on, as if in pain;
And dreaming through the twilight
That doth not rise nor set,
Haply I may remember,
And haply may forget.
Ricordami
Tu ricordami quando sarò andata
lontano, nella terra del silenzio,
né più per mano mi potrai tenere,
né io potrò il saluto ricambiare.
Ricordami anche quando non potrai
giorno per giorno dirmi dei tuoi sogni:
ricorda e basta, perché a me, lo sai,
non giungerà parola né preghiera.
Pure se un po’ dovessi tu scordarmi
e dopo ricordare, non dolerti:
perché se tenebra e rovina lasciano
tracce dei miei pensieri del passato,
meglio per te sorridere e scordare
che dal ricordo essere tormentato.
Remember me
Remember me when I am gone away,
Gone far away into the silent land;
When you can no more hold me by the hand,
Nor I half turn to go yet turning stay.
Gone far away into the silent land;
When you can no more hold me by the hand,
Nor I half turn to go yet turning stay.
Remember me when no more day by day
You tell me of our future that you plann’d:
Only remember me; you understand
It will be late to counsel then or pray.
You tell me of our future that you plann’d:
Only remember me; you understand
It will be late to counsel then or pray.
Yet if you should forget me for a while
And afterwards remember, do not grieve:
For if the darkness and corruption leave
And afterwards remember, do not grieve:
For if the darkness and corruption leave
A vestige of the thoughts that once I had,
Better by far you should forget and smile
Than that you should remember and be sad.
Better by far you should forget and smile
Than that you should remember and be sad.
Chi ha visto il vento?
Chi ha visto il vento?
né io né te;
ma quando le foglie tremano
è il vento che le attraversa
Chi ha visto il vento?
né io né te;
ma quando le foglie tremano
è il vento che le attraversa
Chi ha visto il vento?
né tu né io;
ma quando gli alberi piegano la testa
è il vento che passa.
né tu né io;
ma quando gli alberi piegano la testa
è il vento che passa.
Who Has Seen the Wind?
Who has
seen the wind?
Neither I
nor you:
But when
the leaves hang trembling,
The wind
is passing through.
Who has
seen the wind?
Neither
you nor I:
But when
the trees bow down their heads,
The wind
is passing by.
Christina e Dante
Gabriel Rossetti - poetessa l’una, poeta-pittore l’altro, fratelli
amorosi, animatori della brotherhood
preraffaellita, animati entrambi da una tensione alla semplicità ed alla
naturalezza, con lo sguardo sempre rivolto alla natura (con la stessa autonomia
che presumevano avesse caratterizzato gli artisti prima dell’ingombrante
esempio di Raffaello).
Nelle tele
di Dante Gabriele, spesso è rappresentata Christina: pure madonne dell’amor
sacro e profano, sensuali e caste vergini misteriose – tutto denso d’amore
preraffaellita, melanconico ed antico, segnato da un’inesorabile lontananza nel
tempo e nello spazio, lontano come dama medievale cinta di capelli, amore per
una donna inesistente e purificata, pura come Dio stesso. Fu proprio la ricerca
di purezza a costruire intorno ai “fratelli prerafaelliti” un giardino
splendido ma limitante, non reale immersione nel mondo naturale ricco di
irrisolte contraddizioni, ma nell’atemporalità’, nella la staticità del bello.
Questo il pesante fardello per un artista in fuga nel mondo, il prezzo della
pura ed inattaccata bellezza. Una concezione artistica che sfocerà più tardi
nell’estetismo e nel decadentismo.
Il mondo
poetico di Christina è profondamente diverso: la Natura è l’Altro da sé, un testo impervio da decifrare, “luogo consacrato che potrebbe divenire
paradiso se solo sapessimo vedere”, misterioso specchio di Dio e
costellazione ardua di simboli (la rosa, il ruscello, muschio, papavero e
giglio, il rivo ombroso del fiume) in cui l’uomo si muove solitario e
impotente. Un mondo così ricco non richiede la fuga ma l’ascolto. L’amore è
destinato al fallimento e non vi è contemplazione estatica che lo salvi (“L’amore, forte come la morte, è morto”), brocca
di solitudine e di rinuncia, cammino verso la propria personalissima ascesi.
L’unica destinazione certa rimane la Morte che, placando ogni vanità ed
effimero giudizio, può ricucire lo strappo, l’arco teso fra i due spazi. Dio ed
il mondo che è di Dio l’oscura manifestazione: morte pallida, bianco riposo e
sollievo per un cuore bramoso di pace. Unico rapporto possibile rimane dunque
il rapporto con Dio padre fedele, rapporto non semplice se, nella visione di
Christina, anche il cielo infine si rivela lontano. A nulla serve l’ascolto del
vento e del mare, dal momento che “è vano tutto ciò che sorge e
tramonta”:
Assediato
da ciò che pare ad un orecchio impotente il profondo silenzio universale, il
corpo, divenuto prigione a se stesso, dotato di ben scarse possibilità di
comprensione, attonito di fronte al canto degli uccelli, ricco di fronte al
mutare delle stagioni, si affida all’abbraccio della speranza, del Dio non
veduto che vede. E dopo la lunga strenua agonia del passaggio terreno, dopo il
pellegrinaggio dell’insipiente corpo sulle strade del mondo naturale,
contraddittorio e spesso indecifrabile, l’abbraccio della luce ignota ed
attesa: il riposo.
Da Elena Varvello (poetessa e scrittrice)
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