L'OASI 2020

La Bottega delle Maschere
l'OASI del tempo
2020
_________________________________


VI  'Salottino' 
del 24 febbraio e 2 marzo 2020



La Bibbia
Antico Testamento
 
Il libro del profeta Giona


Capitolo  1
Giona ribelle 

[1]Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: [2]«Alzati, và a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me». [3]Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s'imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore.
[4]Ma il Signore scatenò sul mare un forte vento e ne venne in mare una tempesta tale che la nave stava per sfasciarsi. [5]I marinai impauriti invocavano ciascuno il proprio dio e gettarono a mare quanto avevano sulla nave per alleggerirla. Intanto Giona, sceso nel luogo più riposto della nave, si era coricato e dormiva profondamente.

 

 [6]Gli si avvicinò il capo dell'equipaggio e gli disse: «Che cos'hai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo». [7]Quindi dissero fra di loro: «Venite, gettiamo le sorti per sapere per colpa di chi ci è capitata questa sciagura». Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona. [8]Gli domandarono: «Spiegaci dunque per causa di chi abbiamo questa sciagura. Qual è il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale popolo appartieni?». [9]Egli rispose: «Sono Ebreo e venero il Signore Dio del cielo, il quale ha fatto il mare e la terra». [10]Quegli uomini furono presi da grande timore e gli domandarono: «Che cosa hai fatto?». Quegli uomini infatti erano venuti a sapere che egli fuggiva il Signore, perché lo aveva loro raccontato. [11]Essi gli dissero: «Che cosa dobbiamo fare di te perché si calmi il mare, che è contro di noi?». Infatti il mare infuriava sempre più. [12]Egli disse loro: «Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia». [13]Quegli uomini cercavano a forza di remi di raggiungere la spiaggia, ma non ci riuscivano perché il mare andava sempre più crescendo contro di loro. [14]Allora implorarono il Signore e dissero: «Signore, fà che noi non periamo a causa della vita di questo uomo e non imputarci il sangue innocente poiché tu, Signore, agisci secondo il tuo volere». [15]Presero Giona e lo gettarono in mare e il mare placò la sua furia. [16]Quegli uomini ebbero un grande timore del Signore, offrirono sacrifici al Signore e fecero voti. 



Capitolo 2
Giona salvato

[1]Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti. [2]Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore suo Dio [3]e disse:

  

«Nella mia angoscia ho invocato il Signore
ed egli mi ha esaudito;
dal profondo degli inferi ho gridato
e tu hai ascoltato la mia voce.
[4]Mi hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare
e le correnti mi hanno circondato;
tutti i tuoi flutti e le tue onde
sono passati sopra di me.
[5]Io dicevo: Sono scacciato
lontano dai tuoi occhi;
eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio.
[6]Le acque mi hanno sommerso fino alla gola,
l'abisso mi ha avvolto,
l'alga si è avvinta al mio capo.
[7]Sono sceso alle radici dei monti,
la terra ha chiuso le sue spranghe
dietro a me per sempre.
Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita,
Signore mio Dio.
[8]Quando in me sentivo venir meno la vita,
ho ricordato il Signore.
La mia preghiera è giunta fino a te,
fino alla tua santa dimora.
[9]Quelli che onorano vane nullità
abbandonano il loro amore.
[10]Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio
e adempirò il voto che ho fatto;
la salvezza viene dal Signore». 
 [11]E il Signore comandò al pesce ed esso rigettò Giona sull'asciutto. 



Capitolo 3
La conversione di Ninive e il perdono divino 

 [1]Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: [2]«Alzati, và a Ninive la grande città e annunzia loro quanto ti dirò». [3]Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive era una città molto grande, di tre giornate di cammino. 

 
[4]Giona cominciò a percorrere la città, per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». [5]I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. [6]Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. [7]Poi fu proclamato in Ninive questo decreto, per ordine del re e dei suoi grandi: «Uomini e animali, grandi e piccoli, non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. [8]Uomini e bestie si coprano di sacco e si invochi Dio con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. [9]Chi sa che Dio non cambi, si impietosisca, deponga il suo ardente sdegno sì che noi non moriamo?». [10]Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.

Capitolo 4
Disappunto di Giona e risposta divina 

[1]Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito. [2]Pregò il Signore: «Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. [3]Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!». [4]Ma il Signore gli rispose: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?».
[5]Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì un riparo di frasche e vi si mise all'ombra in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. [6]Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino. 


 [7]Ma il giorno dopo, allo spuntar dell'alba, Dio mandò un verme a rodere il ricino e questo si seccò. [8]Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d'oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venir meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere».
[9]Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato al punto da invocare la morte!». [10]Ma il Signore gli rispose: «Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: [11]e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?».

*      *      *

Giona, profeta disobbediente

               Giona è un profeta inviato da Dio verso la metà dell’VIII secolo a.C. a Ninive, la capitale dell’Assiria, il grande impero totalitario orientale dell’epoca.
Fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, questa parola del Signore: «Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me» .
Ninive è una città nemica del piccolo regno di Israele, è una potenza che lo distruggerà nel 722/721 e deporterà molti ebrei. Ma Dio invia il profeta proprio al cuore della città del nemico.
La reazione di Giona è immediata: preso dalla paura egli scappa! Se Ninive è a oriente, al di là del deserto, il profeta va a occidente: scende al porto di Giaffa per fuggire attraverso il mare fino a Tarsis, in Spagna. La paura nei confronti del potente, di chi domina con malvagità e prepotenza , lo induce a non fare il profeta, a non voler parlare a nome di Dio, a tacere: ecco perché Giona fugge «lontano dal Signore». Il profeta riceve da Dio una missione ma si chiude nel mutismo, non va a denunciare il male commesso dai Niniviti, fa finta di niente.
L’interesse, l’illusione che per vivere meglio si debba fingere di non vedere, la paura delle conseguenze di una parola pronunciata con franchezza: tutto questo spinge Giona a tacere e a fuggire. Fare i profeti costa caro, perché se non si è allineati si è emarginati, se non si applaude sempre si è diffidati, se non si dà ragione a chi detiene il potere si è osteggiati …
Dio però impedisce a Giona la riuscita del suo progetto. Invia una tempesta che blocca il tragitto della nave e minaccia di distruggerla. Poi Giona, individuato dall’equipaggio come la causa di questa sciagura, è gettato in mare, è ingoiato da un grosso pesce e rimane per tre giorni e tre notti nel buio del suo ventre. Qui egli si pente del rifiuto opposto a Dio, ed eleva a lui una lunga preghiera. Dio lo perdona e Giona viene rigettato dal pesce sulla spiaggia.
A questo punto Dio gli rinnova l’invito: «Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». Questa volta Giona vi si reca e predica attraversando per un giorno le vie della città chiedendo la conversione dei Niniviti, il cambiamento del loro modo di vivere. Egli ha ancora paura, teme di essere ucciso da questi nemici di Israele, ma agisce secondo il comando del Signore.
Il risultato è sbalorditivo: la grande città peccatrice si converte nella sua totalità (persino gli animali!), piange le proprie malvagità e fa digiuno. Allora «Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece».
Ciò che Dio desiderava, la conversione dalla malvagità, si è puntualmente avverato, eppure Giona si arrabbia, va in collera: «Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato». Nella sua ottica Ninive va punita per il male che ha commesso; si sarà pure convertita, ma la pena le deve essere assegnata, perché senza castigo e punizione non ci può essere neppure giustizia. Questo è il suo ragionamento: se Dio è giusto, deve punire i colpevoli.
Giona non sopporta che la pena non arrivi. Dio allora gli chiede: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?». Ma egli si chiude in un altero silenzio, esce da Ninive e va su una collinetta a oriente della mura: «si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all’ombra, in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città». È convinto che Dio, se davvero è giusto, farà scendere il fuoco su Ninive e la brucerà, e si pone in attesa del compimento di quella che lui crede essere la giustizia di Dio.
A questo punto Dio decide di dare una lezione al profeta disobbediente che sembra non conoscere il suo cuore. Mentre Giona dorme Dio gli fa crescere sulla testa un alberello, il qiqajon - un ricino - , che gli fa ombra e gli è di conforto nell’arsura del deserto. Il profeta si rallegra di quell’ombra, ma l’indomani Dio invia un verme e il vento secco del deserto e fanno subito seccare il qiqajon. Allora Giona, colpito dal sole, si infuria «e chiede di morire, dicendo: “Meglio per me morire che vivere”».
Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!». Ma il Signore gli rispose: «Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?» .
A questo punto il racconto si conclude. E l’ultima parola di Dio è una domanda che dai confini dell'infinito giunge fino a noi. 


 (da E. Bianchi, Milano, 2012)


*      *      *


V  'Salottino' 
del 3, 10 e 17 febbraio 2020


“Il Piccolo Principe” è un racconto dello scrittore ed aviatore francese Antoine de Saint-Exupéry. Pensata come una fiaba per bambini e ragazzi, “Il Piccolo Principe” è diventato ben presto un vero e proprio caso editoriale, trasformandosi in un long seller. Pubblicato per la prima volta a New York nell’Aprile del 1943, sia in inglese che in francese, “Il Piccolo Principe” è uno dei libri più letti al mondo.

“Le Petit Prince”  è dedicato al bambino che fu Léon Werth, amico dell'autore. L'opera, sia nella sua lingua originale che nelle varie traduzioni, è illustrata da una decina di acquerelli dello stesso Saint-Exupéry, disegni semplici e un po' naïf, eppure divenuti celebri quanto lo stesso racconto. 

“Il Piccolo Principe” sfugge a qualsiasi classificazione e - come i più grandi capolavori letterari -  si presta a diversi livelli di lettura. Fiaba o racconto filosofico, pieno di riflessioni sulla vita, sull’amicizia, sulla solitudine, sulla morte, ha infatti sempre esercitato un fascino prodigioso, anche per quei disegni dal tratto e dai colori delicati così indissolubilmente legati allo svolgersi della narrazione. 


Antoine  de  Saint-Exupéry


Antoine Saint-Exupéry nacque a Lione nel 1900 in una famiglia dell’aristocrazia francese di provincia. A quattro anni rimase orfano del padre (il conte Jean), ma trascorse con le sorelle e il fratello un’infanzia serena, mantenendo sempre con la madre (Marie Boyer di Fonscolombe) un rapporto molto stretto. 

Nel collegio dei gesuiti di Sainte-Crois a Le Mans divenne malinconico e solitario, insofferente della disciplina rigida dell’Istituto. Nel 1912 realizzò, per la prima volta, il sogno di volare sull’aereo del futuro asso dell’aviazione francese nella prima guerra mondiale, Jules Védrines. 

Conclusi gli studi superiori - dopo la morte del fratello quindicenne François – iniziò a frequentare gli ambienti letterari della capitale. Conseguito il brevetto di pilota civile e militare, dopo un incidente, intraprese la carriera di pilota civile. 

Nel 1926 pubblicò il suo primo libro “Volo di notte”. Trasferitosi nel 1930 a Buenos Aires, lavorò come direttore dell'aereo postale Argentina-Francia. Qui conobbe Consuelo Suncín-Sandoval Zeceña de Gómez che, divenuta sua musa ispiratrice, sposò nel 1931.

Nel 1935, tentando di battere il record di volo Parigi-Saigon, nel deserto della Libia in un atterraggio di fortuna si salvò per miracolo. Tornato in Europa, ormai famoso, ricevette la Legion d’Onore, per le sue scoperte scientifiche nell’ambito della navigazione aerea. 

Reduce di missioni pericolose, durante la seconda guerra mondiale, nel 1942 riparò in America dopo la firma del trattato tra la Francia del maresciallo Pétain e la Germania di Hitler. Quando l’attacco a Pearl Harbour provocò la mobilitazione generale, lasciò New York, dove aveva già pubblicato “Il Piccolo Principe”, arruolandosi come volontario per le azioni militari in Nord Africa. 


 2014: 70° anniversario della scomparsa di A. de Saint Exupéry



“Il Piccolo Principe”:  il racconto

La storia è raccontata da un pilota di aeroplani che si trova in mezzo al deserto, a causa di un guasto al suo aereo, con poche provviste di cibo e acqua. In questa situazione avviene l'incontro con il Piccolo Principe, un bambino biondo che chiede al pilota di disegnarli una pecora.  
 
Il piccolo principe racconta poi di essere arrivato da un piccolo pianeta - l’asteroide B-612 - di cui è solito prendersi cura estirpando le erbacce ed impedendo ai baobab di crescere troppo, e di invadere così tutto lo spazio abitabile (il pianeta è davvero molto piccolo). Su questo asteroide ci sono soltanto lui, tre vulcani e una piccola rosa.  Il piccolo principe cura incessantemente il suo fiore e lo tiene sotto una campana di vetro per evitargli ogni male, fin quando, deluso dall’atteggiamento contraddittorio e vanesio della rosa, decide di mettersi in viaggio per l’universo alla ricerca di nuovi amici.

Durante il suo viaggio, visitando gli asteroidi dal 325 al 330, incontra degli strani personaggi, tutti adulti egocentrici e materialisti:

  • un vecchio re solitario, che ama dare ordini ai suoi sudditi (sebbene sia l’unico abitante del pianeta),
  • un vanitoso che chiede solo di essere applaudito e ammirato, senza ragione,
  • un ubriacone che beve per dimenticare la vergogna di bere,
  • un uomo d’affari che passa i giorni a contare le stelle, credendo che siano sue,
  • un lampionaio che deve accendere e spegnere il lampione del suo pianeta ogni minuto, perché il pianeta gira a quella velocità,
  • un geografo che sta seduto alla sua scrivania ma non ha idea di come sia fatto il suo pianeta, perché non dispone di esploratori da mandare ad analizzare il terreno e riportare i dati.
Ma il piccolo principe riesce a provare un pò di simpatia solo per il lampionaio, che si rivela sempre  fedele al suo compito. 
 
 

E’ il geografo suggerisce al principino di visitare il pianeta terra, e così egli si ritrova nel mezzo di un deserto. Il primo incontro è quello con un serpente che parla per enigmi. Poi incontra un fiore con tre petali, e si arrampica sulla montagna più alta, dove scambia per una conversazione l'eco della sua stessa voce. infine trova un giardino di rose, che provoca in lui una forte delusione, perché si rende conto che la rosa del suo pianeta gli ha mentito quando affermava  di essere l'unica rosa al mondo.

Il principe incontra anche una volpe, che gli chiede di essere addomesticata e di diventare sua amica. Dalla volpe il piccolo principe  apprende delle importanti lezioni di vita:

-  Noi possiamo vedere solo con il cuore; ciò che è essenziale è invisibile agli occhi

-  E' il tempo che egli ha dedicato alla sua rosa, che rende la sua rosa così 
   importante.  

-  l'amore rende sempre responsabili di coloro che si amano. 

Così il piccolo principe comprende che anche se ha visto molte rose, il suo amore per l'unica rosa del suo pianeta lo ha reso responsabile della sua rosa, ed inizia a sentirne la mancanza.
Dopo la volpe, il piccolo principe incontra anche un indaffarato controllore delle ferrovie e un venditore di pillole che calmano la sete, facendo risparmiare tanto tempo.

Dopo aver ascoltato tutto il racconto del piccolo principe, il pilota non è riuscito a riparare l’aereo e ha terminato la scorta d’acqua. Allora vanno insieme alla ricerca di un pozzo. Dopo una giornata di cammino i due si fermano stanchi su una duna ad ammirare il deserto nella notte. Con in braccio il bambino addormentato, il pilota cammina tutta la notte, e finalmente all’alba scopre il pozzo.

Il pilota torna al lavoro al suo apparecchio. La sera seguente ritrova il piccolo principe ad attenderlo su un muretto accanto al pozzo, mentre parla con il serpente che aveva incontrato un anno prima, al suo arrivo sulla terra. Il piccolo principe chiede al serpente - che durante il loro primo incontro gli aveva confidato di avere la capacità di portare chiunque molto lontano - di riportarlo a casa, sul suo piccolo pianeta. Allora il serpente lo morde alla caviglia e il piccolo principe cade esanime sulla sabbia. 

Il mattino dopo l’aviatore, non trovando il corpo del piccolo principe, è sicuro che egli sia tornato nel suo asteroide, dalla sua rosa. Da allora in poi, guardando le stelle, sentirà l'eco della risata del piccolo principe, e talvolta si preoccuperà del fatto che la pecora che aveva disegnato per il principe possa aver mangiato la sua rosa.

Il racconto si conclude con l'invito ai lettori che dovessero recarsi nel posto di comunicargli un eventuale ritorno sulla terra del piccolo principe.



L'incipit del 'Piccolo Principe' in uno sand-art show


I personaggi


Il piccolo principe

E' il bambino che vive su un minuscolo pianeta ed atterra nel nostro pianeta durante un viaggio alla ricerca di  verità e bellezza e amicizia. Nonostante l'età ha un carattere forte, senza paura, e innocente. Quando qualcuno cerca di fare amicizia con lui ed è mosso da sentimenti non egocentrici, il principe corrisponde. E' in grado di accorgersi quando le persone si illudono e vivono vite non autentiche, persi in occupazioni fini a se stesse. Il piccolo principe incarna tutto ciò che nella vita è bene, ed è capace di apprezzare l'essenza delle cose. Attaversa le esperienze della vita col cuore aperto, ed accetta la morte come parte della vita di un essere umano, e dopo la morte, causata dal morso del serpente, il pilota comprende che lo spirito del principe non morirà, e che la morte sarà solo l'inizio di una nuova vita.


Il pilota di aeroplani

E' il narratore del racconto, un adulto con il cuore di un bambino. Quando, nel deserto, stringe amicizia con il piccolo principe, riprende consapevolezza del bambino che è in lui, e della sua stessa innocenza. Il pilota, nel deserto, sta combattendo una lotta contro il tempo: deve riparare l'aereo prima che la scorta d'acqua finisca;  nonostante questo dedica del tempo al principe, ed alle sue questioni apparentemente infantili. I due diventano amici, ed il pilota impara di nuovo ad amare il prossimo e a guardare la vita col cuore. Quando il pilota aveva l'età del principe, fu scoraggiato nel perseguire il suo talento artistico e la sua passione per la pittura, ma il principe lo incoraggia a riscoprire la sua arte, poichè coloro che hanno l'animo puro (soprattutto i bambini) la capiranno. 



La rosa

E' l'amata del piccolo principe, l'unico fiore esistente sul suo piccolo pianeta. La rosa è incostante, complicata e vanitosa, ed induce in errore il principe con le sue richieste. Il principe prova a renderla felice, prendendosi cura di lei, che tuttavia vuole sempre di più. Deluso, il principe parte alla ricerca di qualcos'altro. Durante il viaggio riscopre l'importanza che la rosa ha nella sua vita, e decide di tornare. Nonostante le parole, la rosa ama il principe, ed è corrisposta. Il principe si sente responsabile nei confronti della rosa, e si pente di averla lasciata incustodita, con le sole sue quattro spine per difendersi dai pericoli del mondo. 


Il Piccolo Principe e la rosa (dal cap. 8)


Il re

Crede di poter regnare sopra qualsiasi cosa, comprese le stelle. Offre al piccolo principe una carica di governo, ma il principe non cerca potere bensì amicizie.
Il vanitoso

Il vanitoso pensa che tutti gli altri siano suoi ammiratori, ordina al principe di applaudirlo, e come risposta all'applauso, si inchina.

L'ubriacone

E' un uomo che rifugge le responsabilità della vita e cade nel circolo vizioso di bere per dimenticare di essere un ubriacone. 

L'uomo d'affari 

E' costantemente occupato a contare le stelle al fine di guadagnare dei soldi. Crede di essere una persona seria che svolge un lavoro serio, tuttavia agli occhi del principe è una persona noiosa che svolge un lavoro noioso, che non si cura dell'amicizia e dei valori della vita. 

Il lampionaio

E' infelice perchè deve lavorare duramente e non ha tempo di riposare. E' un personaggio positivo agli occhi del protagonista, per il suo senso di responsabilità e del dovere; a differenza degli altri personaggi incontrati nel girovagare da un pianeta all'altro non è un egoista. 

Il geografo

L'ennesimo adulto cui sfugge il senso della vita, che passa tutto il tempo a scrivere libri, e non sa utilizzarli per esplorare e fare esperienza diretta del mondo. 

La volpe

Insegna al piccolo principe il segreto della vita. Il segreto dell'amicizia vista come addomesticarsi  l'un l'altro, creare legami e condividere la vita, generando legami che cambiano il destino di entrambi. Inoltre insegna al principe che le cose importanti sono invisibili agli occhi, e vanno sentite col cuore, e che l'amore genera la responsabilità verso chi si ama.

I baobab

Sono gli alberi giganti che, se non potati regolarmente, occuperebbero tutto il territorio del piccolo pianeta in cui abita il principe, rendendolo inospitale. Sono il simbolo di quelle tendenze che, se non affrontate, portano pessime conseguenze.

Il controllore delle ferrovie

Il suo compito è quello di commutare i treni nei binari facendo sì che transitino a destra oppure a sinistra. Vedendo migliaia di viaggiatori, ci comunica il messaggio che le persone continuano a viaggiare perchè sono insoddisfatte, senza sapere bene cosa stanno cercando.

Il commesso

Cerca di vendere al principe una pillola che gli permetterà di liberarsi della sete, così facendo potrà risparmiare 53 minuti a settimana del suo tempo. Il principe rifiuta e preferisce camminare lentamente verso un pozzo per procurarsi l'acqua.

Il serpente

E' il simbolo della morte, intesa come l'inizio di una nuova vita spirituale. Con il suo morso mortale, permetterà al principe di rientrare a casa nel suo pianeta. Il serpente riconosce la bontà del principe e capisce che è troppo buono per la terra. Quando la stella del piccolo principe passerà vicina a dove il principe era atterrato un anno prima, morderà il principe, che cadrà nella sabbia.


Il Piccolo Principe incontra il Serpente (dal cap. 17)

 
 *      *      *


Alcuni commenti d'Autore

Matilde Quarti

Il piccolo principe: un lungo dialogo tra un adulto e un bambino. 

 


L’amicizia tra i due nasce, in un contesto estremo come quello di un atterraggio di emergenza nel deserto del Sahara, proprio per la componente infantile e naïf del carattere del protagonista; seppur adulto, egli non ha dimenticato il se stesso bambino, come traspare dall’episodio del disegno del boa e dell’elefante. 

Il pilota sa che molto spesso gli adulti non capiscono le fantasie dei bambini e che altrettanto spesso questa incompresione è motivo di sofferenza per i più piccoli. Chi cresce, per Saint-Exupéry, commette infatti l’errore di dimenticare di essere stato bambino: il “piccolo principe” è proprio una metafora dello sguardo infantile sul mondo.

Il fatto che il protagonista sia un alieno che viene da un altro pianeta permette di capovolgere il modo con cui solitamente guardiamo alle cose e alle persone: Saint-Exupéry presenta così al lettore una galleria di personaggi con cui stigmatizza i difetti più comuni del genere umano. Sui diversi asterodidi incontriamo un re, ipocrita nella sua ansia di potere, un burocrate, bloccato nel suo ligio rispetto delle regole, un vanitoso, incapace di pensare ad altro che a sé, un ubriacone, che non sa riconoscere le proprie debolezze, un uomo d’affari, schiavo del suo stesso denaro, un geografo, che non sa trasformare il suo sapere accademico in un’esistenza attiva. 

Al “piccolo principe” (e a Saint-Exupéry) tutte queste occupazioni sembrano del tutto senza senso, perché allontano gli uomini dal senso più intimo delle cose e dei rapporti tra le persone.

A ciò si contrappone il percorso di maturazione del protagonista, grazie soprattutto al rapporto con la volpe, la sua amica più sincera. L’addomesticamento dell’animale selvatico e la scelta di incontrarsi ad un’ora fissa - per dare valore all’attesa dell’incontro - fanno crescere il piccolo principe, che comprende i suoi errori nel rapporto con la sua rosa prediletta e che soprattutto impara che ciò che conta davvero sono i legami d’amicizia. 

Appresa la lezione, il piccolo principe potrà tornare sul suo pianeta: il morso del serpente e la morte sono dunque i simboli di una maturazione compiuta. 

Il Piccolo principe potrebbe anche rappresentare una reazione agli anni cupi e alle tragedie della guerra, in cui le azioni degli uomini appaiono davvero insensate ed assurde. 

Il messaggio del racconto è sottolineato dai toni fiabeschi della narrazione, e in particolar dalla descrizione degli spazi. È infatti assai significativo che tutta la vicenda sia ambientata in spazi dominati dalla solitudine: il deserto del Sahara e lo spazio siderale in cui viaggia il protagonista come metafora dello sradicamento della guerra, e la ricerca d’acqua del pilota come la difficoltà dell’uomo di trovare ciò che davvero conta, al di là delle apparenze e delle false illusioni. 

I livelli di lettura del Il piccolo principe sono quindi diversi, e si accompagnano ad uno stile semplice e lineare, adatto a tutti i tipi di lettore.


Bruno Elpis

Il bambino, la volpe, la rosa

“Je crois qu’il profita, pour son évasion, d’une migration d’oiseaux sauvages”.



Il piccolo principe è il fanciullo che – nonostante i casi della vita, nonostante il procedere degli anni, nonostante le contaminazione e le disillusioni – permane nel nostro cuore. E’ il bagliore dell’innocenza che scorgiamo vivo in noi, il fuoco del nostro desiderio di amare e di essere ricambiati.


L’autore percepisce questa verità nel silenzio del deserto, nella solitudine, guardando in faccia alla morte durante un incidente con il suo aereo. E la verità ha il volto di un bambino che vola da un pianeta all’altro. Un bimbo che colloquia con personaggi come il re, l’uomo che accende i lampioni o l’uomo d’affari. Un ragazzino che insiste con le domande (e non desiste, una volta che le ha poste: come tutti i bambini!) e che nutre un amore struggente per la sua rosa bellissima e vanitosa. Bellissima e vanitosa come ogni amore che si rispetti.


Pagine indimenticabili di un libro che ho letto in italiano e in francese, di un soggetto che ho visto rappresentato a teatro. Un’opera che ogni volta rivela un aspetto nuovo, coinvolgente, nelle mille sfaccettature della sua complessa e disarmante semplicità.

Mi piace anche variarne il tema, a partire da singole frasi di quest’opera. O da un incontro, come quello con la volpe. Un esercizio che spesso faccio (reinterpretare), quando leggo. Per vivere attivamente quello che leggo. Questo è il risultato, lo so, modesto. Ma mi consente di rievocare passaggi indimenticabili e indimenticati. Provateci anche voi, è soltanto un gioco.


“I campi di grano non ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il suono del vento nel grano…”


La volpe tacque e guardò il piccolo principe: “Per favore … addomesticami”, disse.


Mi guardai attorno. Io, i campi di grano li avevo lì, di fronte a me. E ne ero completamente soggiogato. Non avevo bisogno di essere addomesticato.


Un soffio di vento sibilò pervadendomi, chiusi gli occhi, mi lasciai trasportare e capii che avrei potuto essere, per un momento, completamente felice. Se avessi allontanato da me quel senso di minaccia e paura.



Pia Sgarbossa

Un libro per tutti i bambini ... e per pochi adulti

Se chiedi ad un bambino cosa si ricorda di questo libro o se lo chiedi ad un adulto, quasi sicuramente entrambi ti parleranno del Piccolo Principe incontrato sul deserto, della volpe, del serpente, della rosa o qualche altro personaggio.

Ma per comprendere appieno i messaggi contenuti in questo libro,è necessario che il lettore sia un adulto, ma un adulto che si ricordi d'essere stato bambino e che lo è ancora nell'animo, così come lo era l'autore De Saint-Exupéri, che anche da adulto arrossiva per imbarazzo e che non potè realizzare mai il desiderio di diventare un artista e che perciò rimase "bloccato" come pittore incompreso per tutta la sua vita.


Ecco che egli con questo racconto autobiografico, coglie l'occasione di far diventare la sua esperienza di essersi trovato nel deserto col suo aereo , a causa di un'avaria , e di essersi salvato miracolosamente grazie a degli indigeni, la trama di una bellissima favola.


E' proprio nel deserto che avviene la narrazione di questo racconto, dove il nostro aviatore incontra un Piccolo Principe, che è arrivato da un altro pianeta e che rappresenta il bambino che rimarrà per sempre in lui.


Attraverso il racconto di questo personaggio che non risponde a domande ma si racconta soltanto, l'autore va a toccare tanti temi a lui cari, primo fra tutti l'amicizia.


Ogni racconto narrato con attenzione rivela un insegnamento di vita o comunque un modo di pensare dell'autore sulla vita e sugli uomini.


Ecco che vediamo lo sgorgare di una serie di riflessioni, con le quali ci possiamo rapportare,... tutti noi lettori che siamo alla ricerca di confronti e meditazioni:


 -  la capacità d'immaginazione insita in ogni bambino e non compresa dagli adulti;
 -  l'imparare a non rimandare a domani quello che si può fare oggi;
 -  l'importanza di saper dare giudizi basati sui fatti e non sulle parole;
 -  il riflettere su alcune caratteristiche negative degli uomini: il pensare solo a se 

    stessi,    
 -  il vantarsi per necessità di esistenza , l'incapacità di riconoscere le proprie vergogne e
    debolezze, l'incapacità di essere fedeli ,...e tanti... tanti altri, che lascio scoprire a 
    che lo vorrà ... con la giusta e attenta lettura, in sintonia col cuore dell'autore.

Ciò che personalmente ho apprezzato è stato vedere il nascere di una bella, dolce e delicata amicizia, che pur sapendo che volgerà a finire, lascerà ricordi vivi che scalderanno per sempre il cuore ... e che, per questo, sarà valsa la pena d'aver vissuto.


Due sono i momenti che mi rimarranno cari.


Il racconto della volpe che desidera essere addomesticata, per creare un legame profondo che fa diventare unici chi addomestica e chi viene addomesticato ... "Conoscerò il rumore dei tuoi passi, che sarà unico e diverso da tutti gli altri".


Il racconto della rosa che fa capire come il tempo dedicato a qualcuno, lo farà diventare importante e unico al mondo...


L'immagine più bella che mi è rimasta impressa è il disegno della cassa che contiene la pecora, è "pura e vivida capacità creativa"... 



Un autore sensibile, creativo, che guarda al mondo e soprattutto agli uomini, con l'intelligenza di un adulto e col cuore di un bambino.



*      *      *


"IL PICCOLO PRINCIPE":  Aalisi psicologica dei personaggi e delle relazioni

di Ilenia Magnani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Dietro ogni personaggio e ogni relazione c'è un po' della nostra psiche

Tante sono le interpretazioni della metafora della vita de Il Piccolo Principe, ancora oggi forse il messaggio che Antoine de Saint-Exupervy ci voleva lasciare con il suo racconto rimane celato tra le righe di questa favola, per cui “L’essenziale è invisibile agli occhi”.

Il libro ed i suoi protagonisti possono essere letti come un messaggio di tolleranza ed accettazione, ma soprattutto di riscoperta del valore dei sentimenti e dei legami affettivi, motivo per cui questa favola andrebbe riletta più volte nel corso della nostra vita, un promemoria di ciò che per noi è realmente importante ma che per paura di soffrire tendiamo a dimenticare.

Ogni capitolo de Il piccolo principe racconta l’incontro del protagonista con personaggi diversi, ognuna di queste figure bizzarre lascia il Piccolo Principe stupito e sconcertato per la stranezza delle persone adulte.

Il pilota ed il Piccolo Principe

Il libro inizia con il ricordo e la sensazione di fallimento sperimentata dal pilota all’età di 6 anni, fallimento che lo fa rinunciare al suo sogno: decide di abbandonare una delle sue più grandi passioni, il disegno. Il pilota è sì adulto ma non ha dimenticato il se stesso bambino, conserva il disegno “per non dimenticare, giustamente, a che punto la mancanza d’immaginazione degli adulti potesse essere grande e scoraggiante”. Il Pilota sa per sua esperienza personale (si è reso ben presto conto che nessuno capisce il suo disegno che, al contrario dei tanti che lo interpretano come un cappello, rappresenta un boa che mangia unelefante) che spesso “I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano di spiegargli tutto ogni volta”, gli adulti non capiscono le fantasie dei bambini e ciò è motivo di forte sofferenza per loro.

Crescendo a volte mettiamo da parte la nostra parte più giocosa e creativa pensando che questa non possa essere utile nel mondo adulto, precludendoci così il piacere di fare le cose che ci rendono felici e che ci alleggeriscono, in questo modo ci troviamo a dover riacquisire i comportamenti che ci facevano stare bene lavorando sulle nostre strategie comportamentali. Il paradosso è trovare difficoltà nel compilare “L’Elenco delle possibili attività piacevoli”, mentre da bambini era la cosa che ci risultava più naturale al mondo, da grandi ci ritroviamo a fare i compiti per quello che ci siamo dimenticati di noi di quando eravamo bambini ed eravamo impegnati a studiare per diventare grandi.

Il pilota, ne Il Piccolo Principe, prova a cercare il bambino in ogni adulto che incontra, ma quando mostra il disegno tutti rispondono “è un cappello” così lui si abbassa al loro livello adulto.

La colpa non è mia, però. Con lo scoraggiamento che hanno dato i grandi, quando avevo 6 anni, alla mia carriera di pittore, non ho mai imparato a disegnare altro che i serpenti boa dal di fuori o serpenti boa dal di dentro.

Nel personaggio del pilota viene mostrato come le nostre prime esperienze possono influenzare il nostro diventare adulti.

Non sapevo bene cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo come toccarlo, come raggiungerlo … Il paese delle lacrime è così misterioso.

Da piccoli, il paese delle lacrime è il paese che conosciamo meglio, il pianto è il primo urlo che facciamo sentire di noi quando veniamo al mondo, la prima nostra forma di comunicazione quando siamo piccoli ma da grandi capita di dimenticarsene e ci rende difficile anche comprendere il pianto altrui.

Il personaggio del Pilota crea con il Piccolo Principe un vero e proprio legame d’amicizia. Questo personaggio mostra di non scoraggiarsi facilmente, si trova nell’immensità del deserto e, pur essendo solo, non si perde mai d’animo e cerca di uscire da quella situazione anche se non è per niente semplice.

Il Piccolo Principe è un misterioso bambino proveniente da un pianeta minuscolo, con tanta voglia di conoscere gli uomini e le loro abitudini. Pur giungendo in una regione disabitata, non appare né smarrito, né tanto meno impaurito, balzano agli occhi la sua semplicità, la sua innocenza. Una delle caratteristiche del Piccolo Principe che viene più volte esaltata nel racconto è la sua capacità di arrossire, residuo dell’infanzia.

La Volpe e la Rosa

In questo romanzo non si trova solo il rapporto tra l’adulto e il bambino (pilota-piccolo principe), ma c’è anche quello tra pari, come tali possono essere visti il protagonista e la volpe: quest’ultima ha rivelato come “le amicizie possono essere tante ma sempre uniche”, l’incontro tra i due è un trattato sull’importanza dei legami nelle relazioni umane. Un amico non è una persona uguale a tutte le altre.


Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.

La volpe, con queste parole, insegna al Piccolo Prinicipe il valore dell’amicizia, che per lei significa essere addomesticata e per il piccolo principe vuol dire prendersi cura della sua rosa.

Ciò che differenzia per ognuno di noi una persona dall’altra è la relazione che costruiamo con quest’ultima dedicandole tempo e attenzioni, impegnandoci nel conoscerla nei suoi punti di forza e nelle sue fragilità. Essere addomesticata per la volpe vuol dire creare un’affiliazione reciproca dove l’uno poi avrà bisogno dell’altro, creare un legame, questo brano spiega molto bene il senso del libro di Bowlby “Una base sicura”: l’attaccamento si sviluppa come una interazione tra un bambino unico ed i suoi genitori unici e uno degli aspetti più affascinanti del genere umano è proprio quello di creare dei legami unici.

Se tu vieni , per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Con il passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, inizierò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore … ci vogliono i riti.

Sembra che la volpe sappia come si crei un legame di attaccamento sicuro: la madre assicura sempre la sua presenza e il bambino si abitua a questo rito.

Il Piccolo Principe si guadagna la fiducia della volpe andandola a trovare tutti i pomeriggi stabilendo un rito, è proprio il ripetersi di questo modello di interazione che fa sì che il bambino cominci a crearsi della aspettative. Si aspetta proprio che quella determinata persona appaia in quel determinato tempo, ed è il continuo verificarsi di tale rito che assicura che esiste lui, esiste l’altro, esiste la relazione. Il legame di attaccamento che si stabilirà fornirà un modello per le relazioni future e per tale motivo le nostre relazioni risentiranno di quella matrice interattiva densa per noi di significati, come ricorda Holmes nel libro “La teoria dell’attaccamento”: L’attaccamento e la dipendenza, sebbene non più evidenti allo stesso modo che nei bambini piccoli, rimangono attivi lungo il ciclo vitale – l’attaccamento quindi non è limitato all’infanzia ma dura – dalla culla alla tomba.

Ad oggi bisognerebbe discriminare l’utilizzo del termine “dipendenza”, non sempre questa può essere classificata come patologica in quanto in realtà è un desiderio assolutamente legittimo di ogni essere umano, di stare quanto più vicino possibile a chi si vuole bene, a chi in caso di bisogno può prendersi cura di noi. Su questi aspetti odierni di “dipendenza affettiva”, dove ci si fonde con l’altro per la paura e l’incapacità di sentirsi soli, e di “individualismo spietato”, dove si maschera la paura di un legame al quale però realmente si ambisce, si potrebbe aprire un lungo dibattito ma non è questo il contesto.

Il rapporto tra la volpe ed il Piccolo Principe aiuta quest’ultimo a fare chiarezza sul suo rapporto con la rosa. Il Piccolo Principe viene a conoscenza del roseto: la rosa dovrebbe perdere qualsiasi importanza per il principe, ma egli capisce che la rosa non è più speciale perché unica nel suo genere, bensì è speciale perché le vuole bene, perché c’è un legame che si è creato tra di loro.

Ogni persona per noi importante lo è a seguito del rapporto che abbiamo costruito con questa, del tempo che abbiamo investito nel coltivare e nel creare una relazione con lei. I legami che gli esseri umani creano vanno al di là del puramente visibile, diventano pensieri, significati e schemi mentali. La necessità del cucciolo d’uomo di creare dei legami di attaccamento nasce dall’istinto di sopravvivenza, ci dice Bowlby.

Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”, il segreto che la volpe svela al Piccolo Principe. Non è ciò che vediamo delle persone che le rende speciali ai nostri occhi, ma ciò che sentiamo per loro, un sentimento impercettibile per l’occhio umano ma talmente forte da condizionare la nostra vita.

Tale frase riprende anche il disegno della pecora che non si vede perché è dentro alla scatola, si vede la scatola se la si guarda con gli occhi, la pecora se la si guarda con il cuore. Solo la nostra sensibilità percepisce la singolarità dell’individuo, le persone sono rinchiuse nelle apparenze e solo “addomesticandole” si potrà rivelare ed apprezzare la loro singolarità, per cui anche la nullità del deserto può essere bella.

Volpe: “Ah … piangerò”

Piccolo Principe: “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io non ti volevo far male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi”

La volpe facendosi addomesticare vuol far si che il Piccolo Principe si ricordi di lei anche quando non saranno più insieme, la conoscenza ed il legame con una persona implicano in sé la possibilità che poi si sperimenti la sofferenza, ad esempio quella del distacco, ma varrà la pena soffrire se poi in cambio si guadagnerà “il colore del grano”, cioè un legame affettivo, il calore di un’altra persona che non toglie nulla a ciò che siamo ma ci arricchisce permettendoci anche una maggior conoscenza di noi stessi:

I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai i capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato: questo ad oggi nei legami e nelle relazioni è ciò che più spaventa: la responsabilità del rispetto dell’altro all’interno della relazione e la paura che questa responsabilità limiti la nostra libertà, quando siamo noi in realtà a limitarla a causa delle nostre paure più nascoste.


Il Piccolo Principe e la volpe (dal cap. 21)

Ogni adulto dovrebbe limitare il distanziamento emotivo da se stesso perché è solo ascoltandosi che si riesce ad ascoltare, è solo percependosi come “persona” con una identità ben precisa che si riesce a vedere l’altro, nella sua alterità e non come un prolungamento di sé.

La rosa che vive sull’asteroide B612 (paese in cui vive il Piccolo Principe) è delicata e molto esigente, le cure e la protezione del Piccolo Principe sono quelle che le permettono di sopravvivere e di splendere della sua bellezza. Il Piccolo Principe quindi era responsabile della rosa e della sua vita, questo era ciò che la rendeva così importante per lui, ma era anche il motivo per cui alle volte avrebbe voluto dimenticarla e andarsene via lontano...

Ma quando se ne andò via lontano, continuava ancora a pensare a lei.

A ognuno di noi serve pensare ad una persona, ci fa sentire essere importanti pensare a qualcuno ed essere pensati da qualcuno, perché noi non siamo un’isola, esistiamo in relazione agli altri.

Questo è ciò che accade nei rapporti con le persone alle quali vogliamo bene: ci piace sentirci indispensabili e responsabili per l’altro, è questo che rende così importante l’altro e la relazione ma allo stesso tempo tutto questo sembra avere un costo per la nostra libertà fino a quando non ci accorgiamo che la vera libertà è quella di vivere le emozioni ed i sentimenti che sentiamo.

Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda.


La vanità della rosa è la causa della rottura del rapporto con il Piccolo Principe, è così che il protagonista, perde il proprio punto di riferimento e soffre per la rottura di questo rapporto, ma proprio questa rottura, questo dolore, questo senso di solitudine è ciò che poi lo spinge a esplorare nuovi pianeti, metafora per spiegarci quanto la rottura di un rapporto possa avere due facce: perdita/opportunità, entrambe reali. Elaborata la perdita possiamo andare verso opportunità che prima ci precludevamo.

Il Piccolo Principe si fa mordere dal serpente “quando il desiderio della rosa è diventato troppo forte per potervi resistere ancora”, a volte per coltivare l’attaccamento bisogna sperimentare la perdita a piccole dosi: la lontananza dalla rosa ha permesso al Piccolo Principe di capirne l’importanza e di dare un valore al loro legame.




Analisi degli altri personaggi

Il Re monarca assoluto che pensa di dominare l’interno universo in un pianeta dove vive solo lui, ordina quello che sa già che accadrà e mantiene così l’illusione che l’universo gli obbedisca. Regna su un tutto che alla fine si rivela essere un niente. Vuole che la sua autorità sia rispettata e perché avvenga non dà ordini che poi non vengano eseguiti, questo personaggio intimidisce il Piccolo Principe.


Il Re è la rappresentazione del bisogno degli uomini di avere l’illusione del potere e del controllo, senza le quali alcune personalità si sentono fragili ed esposte al pericolo. Si parla di illusione perché il controllo sugli altri non può esistere per definizione, il Re infatti non potendo controllare l’altro controlla se stesso, formulando ordini che possano essere eseguibili dalla persona che ha di fronte a sé.

L’Uomo vanitoso vuole solo essere ammirato e per questo risulta noioso, si accorge degli altri solo nel momento in cui loro lo ammirano “Ti ammiro”, disse il piccolo principe, alzando un poco le spalle, “ma tu che te ne fai?”.

Probabilmente l’Uomo vanitoso ha l’illusione di riempire il vuoto che sente dentro di sé colmandolo con le parole di ammirazione, rappresentazione di personalità istrioniche che puntano la loro sicurezza sull’apparire e sul mostrarsi.

L’Ubriacone che beve per la vergogna di bere, in questo personaggio sono rappresentati i circoli viziosi delle nostre fragilità, cercando di mascherarle invece di accettarle ed imparare a gestirle inneschiamo un circolo vizioso che le amplifica e le evidenzia, rendendo la nostra fragilità ancor più evidente. Questo personaggio lascia nel protagonista una sensazione di malinconia.

L’Uomo d’affari pensava che contando le stelle diventassero sue, non saluta neanche il protagonista perché troppo impegnato. Ha avuto la brillante idea di possedere le stelle e dice che sono sue solo perché nessuno ci aveva mai pensato prima. Possedendo le stelle si sente ricco anche se alla fine, alla domanda del Piccolo Principe di che cosa se ne fa di tutte le stelle, non sa rispondere, rimanendo di stucco.

Il desiderio di possesso dell’altro per il bisogno di percepire di avere un valore, stessa motivazione per la quale accumuliamo cose delle quali non abbiamo bisogno ma che ci servono per sentire che valiamo. Possedere cose e persone ma senza dedicare tempo per coltivare i rapporti… Alla fine le 856 amicizie su Facebook a cosa ci servono?

L’Uomo che accende e spegne il lampione è l’unico a non sembrare ridicolo per il Piccolo PrincipeForse perché si occupa di altro che non di se stesso”, fa il suo dovere senza metterlo in discussione e senza cercare soluzioni alternative, il protagonista gli da un consiglio, ma lui vorrebbe solo dormire.

Il Geografo fa un lavoro che al Piccolo Principe sembra molto interessante ma poi rimane deluso quando scopre che non ci sono esploratori nel suo pianeta, quindi il geografo in realtà non conosce il suo pianeta. Questo personaggio svela al protagonista che i fiori sono effimeri, per questo il Piccolo Principe si dispiace di aver abbandonato la sua rosa.

Il Serpente, simbolo della morte, in questo racconto ha un’accezione positiva, come l’inizio di un viaggio. Spiega come a volte ciò che sembra un male serva a fare del bene, come il dolore per la separazione da un affetto possa in realtà permetterci di fare nuove esperienze.


Il Controllore è addetto allo smistamento delle persone, anche lui ammette che gli uomini non sono mai contenti dove stanno e che vorrebbero sempre raggiungere un posto nuovo, ma non sanno neanche loro qual è questo posto. Ammette che la mente dei bambini è piena di buoni pensieri e questi vivono tranquilli “con il naso appiccicato ai vetri”.  Rappresentazione dell’ affaccendarsi degli uomini insensato ed immotivato e della costante insoddisfazione mai legata ad una vera e propria presa di coscienza su cosa possa migliorare la nostra vita, necessità costante di lamentarsi senza mai attivamente trovare soluzioni alternative.

Il Mercante pur di risparmiare tempo assume pillole per calmare la sete, ma anche qui alla domanda del Piccolo Principe su cosa poi ci farà con il tempo guadagnato rimane basito realizzando di non sapere cosa farsene. Questo personaggio rappresenta la nostra quotidiana corsa contro il tempo, la frenesia e la mancanza di capacità di riuscire a godere dei piccoli piaceri quotidiani, spinti poi a cercare piaceri estremi per evadere dalle frustrazioni accumulate.



Conclusioni: lo sguardo da bambino de Il Piccolo Principe

Il Piccolo Principe è uno sguardo infantile sul mondo, ognuno di noi è stato bambino ma poi crescendo alcuni lo dimenticano e questo fa reprimere la nostra spontaneità, limita la nostra curiosità ed appiattisce le nostre emozioni facendoci iniziare a pensare che la “leggerezza” della vita non ci sia più concessa, che i sogni, le risate ed i giochi con gli amici siano sostituiti dall’esigenza e necessità di essere persone performanti in ogni momento della giornata ed in tutti gli ambiti della nostra vita e senza tempo libero a disposizione.

Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercati le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercati di amici, gli uomini non hanno più amici.
Nell’incontro con i vari personaggi è evidente come ogni persona abbia bisogno della presenza dell’altro per definirsi, noi esistiamo in relazione agli altri, il geografo non può fare il suo lavoro senza gli esploratori, il vanitoso non può essere tale senza nessuno che lo ammiri, stessa cosa per il re senza sudditi. L’importanza delle relazioni e dei legami rappresenta il filo conduttore di questo racconto.

L’autore evidenzia l’ingenuità e la fantasia dell’infanzia in contrapposizione alla rigidità dell’uomo giù maturo “ … i grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano di spigargli tutto ogni volta …”. Viene messo in luce come gli adulti con le loro “bizzarrie” siano totalmente presi dai loro affari e non riescano a cogliere il senso della realtà e della reale utilità delle loro azioni, senza badare agli interrogativi posti dal Piccolo Principe.

Questo libro è il dialogo tra un adulto ed un bambino, all’interno del quale entrambe affrontano un processo di crescita e di conoscenza e ne escono arricchiti; l’autore parla al cuore degli adulti a cui nel mondo odierno sembra interessare null’altro che il proprio tornaconto personale.

Ci sono cose dei bambini che gli adulti non capiscono e queste incomprensioni sono motivo di sofferenza per un bambino ma ancor di più per il bambino che abbiamo dimenticato vivere ancora dentro di noi, il quale vorrebbe realizzassimo i nostri sogni di diventare pittori, piloti o qualsiasi altra professione sia nei nostri desideri senza che arrivi la società adulta a distruggerci i sogni all’età di 6 anni!

La figura del Piccolo Principe permette all’autore di riavvicinarsi alla sua parte bambina e di riuscire a leggere la realtà con gli occhi dell’infanzia, il protagonista si fa morsicare dal serpente per tornare sulla Terra perché l’autore-narratore non ha più bisogno di lui, il Piccolo Principe è riuscito nel suo intento di far riscoprire all’adulto il bambino che è ancora in lui.

Questa favola scritta durante l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, ad oggi rimane molto attuale.



________________________________________________________


IV  'Salottino' 
del 13, 20 e 27 gennaio 2020


Il tempo scandisce i giorni e le stagioni.
I battiti del cuore segnano i nostri passi
nel lungo o breve viaggio della vita.

 Per ogni partenza c’è un ritorno,
ma i ritorni non hanno stagioni.

 Il femminile, astro del mattino e di speranza.

Promesse d’amore infinito
regalano le ‘fanciulle in fiore’
nella dolce stagione di primavera,
profumo di mille rose
nei giardini senza tempo.

 Ma nel mondo, oscura dimora del tempo,
con il vento improvviso
che strappa i petali alle rose,
è l’inquieto risveglio dell’anima
dal vago sogno di giovinezza.

Nella canzone d’autore, nella poesia, nell’arte, l’inatteso tramonto d’una ‘fanciulla in fiore’ è come il brusco risveglio nel pieno di un sogno.

Così la Silvia leopardiana, l’ignota Signorinella napoletana, la lunare Marinella di De André, le donne esili e sfuggenti della pittura prerafaellita cantano l’epicedio sull’amore tradito, eterno lamento sulla giovinezza perduta, struggente nostalgia dei giorni trascorsi e vivi ancora nella memoria.


1

 SIGNORINELLA
di Gian Franco Venè

Due generazioni di Italiani si so­no tramandate la più famosa can­zone ‘Signorinella’. Diffusa negli Anni Venti, Signori­nella fu quasi dimenticata duran­te la seconda guerra mondiale: venne ripresa al­l’improvviso nell’immediato dopo­guerra, nel 1945, e i genitori stu­pivano che la canzone più nostal­gica del loro tempo ritornasse co­sì spontaneamente in bocca ai fi­gli. Che cosa potevano avere in comune gli Anni Venti con gli An­ni Quaranta? Quali corde dell’ani­mo toccavano i versi di Signori­nella in un’epoca, come il secondo dopoguerra, aggredita dai ritmi americani portati dagli eserciti di occupazione?
Nella canzone si parla di un uo­mo che si sente ormai vecchio, annoia­to, che guarda scendere la neve e intristisce dietro la propria scri­vania di notaio. «Signorinella, che malinconia...!»
La malinconia è di ogni tempo, di ogni età: ma fra tutti i tempi e le età, gli anni del secondo dopoguerra parevano i meno adatti a certi sentimenti che presuppongono la delusione, la mestizia, l'assenza di speranza. Eppure, i ragazziniche del fu­rore del dopoguerra ricordano i primi passi del boogie woogie, di quando in quando si sorprende­vano ad ascoltare alla radio la vo­ce di Achille Togliani: «Perché negli occhi mi tremò una lacri­ma? Chi sa... chi sa perché!». E i genitori, quegli adulti che non avevano dimenticato Signorinella, ma nep­pure avevano trovato la voglia di cantarla presi nella spira degli anni terribili, si accorsero che non tutto il loro mondo era scomparso, tra­volto dalla guerra e dai tempi.
Signorinella fu così una canzone dalla doppia vita; ma per inten­dere le ragioni di quella sua re­surrezione datata 1945 è bene ri­pensare alle origini, agli Anni Venti, quando la cantava Carlo Buti. Solo se restituita alla sua epoca, Signorinel­la può oggi essere riascoltata co­me un documento fondamentale della canzone all’italiana, un do­cumento classico.
* * *
Libero Bovio, uno dei maggiori autori della canzone napoletana, scrisse i versi di Signorinella a quarantanni, al massimo della fa­ma. Ma, nonostante portasse la sua firma, Signorinella non ebbe ac­coglienze facili. Il grande attore e cantante Gennaro Pasquariello, uditala una prima volta, rifiutò di accoglierla nel proprio re­pertorio.
Libero Bovio (1883-1942) insieme a Salvatore Di Giacomo, Ernesto Murolo ed E.A. Mario fu uno degli artefici della cosiddetta epoca d'oro della canzone napoletana, componendo i testi di molte celebri canzoni. Grazie alle collaborazioni con i musicisti più celebri del momento, intorno al 1915 confezionò canzoni come Tu ca nun chiagne (musica di Ernesto De Curtis), Reginella (musica di Gaetano Lama),  Zappatore, Guapparia, Cara piccina, 'O Paese d' 'o sole e Lacreme napulitane, queste ultime legate al tema dell'emigrazione. Il pessimismo sentimentale di Bovio si espresse anche con canzoni d'amore, quali L'addio (musica di Nicola Valente) e Chiove (musica di Evemero Nardella). Tra i testi in italiano, quello della famosa ‘Signorinella’, musicata da Nicola Valente.
Il fatto è che Libero Bovio sten­tò a lanciare Signorinella perché questa canzone, destinata a rima­nere così a lungo nel costume ita­liano, paradossalmente sembrava superata già negli anni in cui fu scritta. Nessuno si accorse, allora, che Signorinella era nata con un proprio destino preciso: quello di essere una canzone con­trocorrente.
Bovio la scrisse all’inizio degli An­ni Venti:allora la canzone di successo doveva con­tenere ingredienti ben precisi e tutti portati all’esasperazione: la donna doveva avere un nome o un soprannome francese, l’am­biente era quello delle notti pari­gine contese tra l’opulenza dei ric­chi viveurs e la disperata miseria dei poveri e degli amanti traditi. E se così era, se questa era la mo­da, è facile comprendere che una canzone patetica e gentile come Signorinella, pervasa di nostalgi­ca malinconia affatto priva di di­sperazione, non potesse ambire a un successo immediato. Era, questa di Signorinella, una vera e propria storia amorosa, un raccontino sentimentale che trae­va la sua delicatezza dalla norma­lità, dalla vita quotidiana, dagli affanni che portano l'uomo sem­pre più lontano dalla purezza del­la gioventù.
C’era una volta un signore, un buon signore, il ‘buon don Cesare’, che viveva tranquillo con la sua famiglia e la sua professione di notaio. Un giorno il buon don Ce­sare lascia che il figlio consulti un suo vecchio libro di latino, e tra le pagine del libro il ragazzo sco­pre un fiore rinsecchito. Il ricor­do è immediato, dolce e strazian­te: il buon don Cesare rivede sé stesso studente, innamorato di una ricamatrice che abitava sullo stesso quinto piano della sua stanza in affitto, a Napoli, negli anni dell’università.
Presa la lau­rea, il giovane dottorino, da borghese ligio ai doveri del proprio ceto, abban­dona la ragazza e segue i suoi so­gni di speranza. La ragazza gli la­scia per ricordo una pansé; Cesare finisce per fare il notaio in un paesino di montagna, si spo­sa, ha dei figli. Tutto a un tratto, per puro caso, ritrova il fiore rinsec­chito, la sua gioia perduta: e scri­ve una lettera in poesia; questa lettera è la canzone ‘Si­gnorinella’.
Una storia così semplice come po­tevaadattarsi all’epoca dei viveurs scettici e bruciati, delle donne ap­passionate e perdute, dagli occhi cupi come la notte, segnati dal vi­zio e dalla malattia? E, in parti­colare, come poteva diventare un classico della canzone all’italiana? Una risposta può venire soltanto da una visione più precisa dei tempi e degli ambienti in cui Si­gnorinella visse, dapprima stenta­tamente, poi sempre meglio, in­sieme ai nottambuli scapestrati d’importazione parigina.
* * *
In apparenza, cambiava soltanto la moda, all’inizio degli Anni Ven­ti. Coco Chanel lanciava per le si­gnore la linea mascolina: niente più busti né vite di vespa, ma tut­to dissimulato sotto le linee rigi­de degli abiti a sacco. Anche il trucco femminile cam­biava: via i boccoli, via le lunghe chiome corvine, imperava la pet­tinatura allagarçon, capelli cor­tissimi, lisci, col ricciolo sopra le orecchie. La bocca, ritinta col ros­setto, aveva forma di cuore pic­colissimo; le guance, meglio che fossero pallide. Solo lo sguardo conveniva che fosse cupo, anneri­to o tinto di blu, più perfido che provocante. Le signore portavano il cappellino, uno strano cappellinocon due ali di nastro aggressive più che aggra­ziate. I soprabiti, a campana, lun­ghi alla caviglia, abbottonati con tantissimi piccoli bottoni da ci­ma a fondo, ricordavano terribil­mente, anche per via dei colletto­ni di pelliccia, il cappotto dei ge­nerali dell’esercito.
Di fatto, l’ag­gressività mascolina della donna nel decennio ’20-'30 è una tarda eredità della guerra. La guerra, fi­nita nel ’18, aveva riproposto l’im­portanza della donna nella socie­tà moderna; la donna aveva sosti­tuito l’uomo in molti posti di la­voro, aveva sofferto al fronte come crocerossina: soprattutto ave­va sofferto da sola, in famiglia, perché il suo uomo le era stato portato via. La moda degli Anni Venti è la più superficiale, ma an­che la più vistosa riprova della donna che ambisce ad avere nella società un posto di rilievo e di autonomia. Non che la donna italiana si so­gnasse di votare, negli Anni Ven­ti, - anche perché l’imminente avvento della dittatura fascista avrebbe abolito il diritto di voto per chiunque - ma proprio in quegli anni, e certo anche per la eredità della guerra, la donna cer­ca accanto all'uomo di assumere una fisionomia politica.
Nell’aria c’è la violenza del colpo di Stato fascista: gli squadristi escono ogni notte, sui loro camion, per distruggere le sedi dei sinda­cati operai, dei partiti di sinistra, le biblioteche popolari. In ogni cit­tà italiana si picchia e si spara. Seper le donne socialiste non è cer­to una novità il trovarsi sulle bar­ricate accanto ai loro uomini, per le donne borghesi, abituate ai sa­lotti o al tran tran della vita quo­tidiana, è un’ebbrezza nuova que­sta di indossare abiti sempre più vicini alla divisa fascista e di ac­compagnare gli squadristi alle loro riunioni. La pro­paganda politica, le cartoline che invitavano i borghesi a iscriversi al partito fascista raffiguravano la donna fascista che abbraccia­va lo squadrista: la donna petti­nata alla maschietta rimaneva pur sempre - anzi più che mai - simbolo di provocazione e di con­quista. Nella violenza dei tem­pi, pareva che l’erotismo avesse sconfitto l'amore. Così, gli uomi­ni, che ancora non s’erano arresi alla tragica avventura politica, che non avevano ancora scelto da che parte stare e si limitavano a subire la profonda crisi dei nuovi tempi senza intenderne la gra­vità, si accontentavano di sogna­re le varie ‘Frou Frou del tabarin’, le focose danzatrici della notte, i separès dove non era proprio il caso di parlare d’affetto e di no­stalgia. 

Ma questa non era che l'apparenza, la crosta di una so­cietà ebbra e indecisa: una so­cietà nella quale gli squilibri so­ciali erano così profondi da tra­sformare addirittura l'amore, nel­le canzoni, in una faccenda da ricchi, da milionari. La realtà era un’altra, assai più discreta e dura a morire, talmente dura a morire che, per ignorarla, la si accusava di essere fuori moda. E in que­sta realtà, bene o male, c’entrava pure Signorinella: una canzone controcorrente proprio perché sommessa, schiva, protestataria, addirittura, rispetto alla nuova immagine di donna quale veniva proposta ufficialmente dal partito politico appena giunto al potere.
* * *
Quando Signorinella si insinuava nel cuore e nella memoria degli Italiani, un’altra canzone si dif­fondeva sempre più e stava per diventare, insieme con la Marcia reale, l’inno ufficiale del paese: ‘Giovinezza’.Che cosa c’entra Giovinezza con Signorinella?
E’ proprio l'apparente incompatibili­tà di Giovinezza con Signorinella chespiega il successo di quest’ultima canzone in tempi così poco adat­ti al sentimentalismo.
«Giovinezza giovinezza, primave­ra di bellezza, - nella vita e nell’eb­brezza, - il tuo canto squillerà»: parole ricche d'entusiasmo, ag­gressive e spensierate: un inno di gioia indipendentemente dal significato politico che il regime avrebbe imposto a esso, trasfor­mandolo in inno nazionale. E in Signorinella: «Avevi un nome che non si dimentica: un nome lun­go e breve: Giovinezza». Paiono concetti radicalmente diversi de­gli anni di gioventù, l'uno otti­mista e l’altro mesto.
In realtà la matrice è unica: la trama di Signorinella, la casta storia del buon don Cesare, è in tutto e per tutto imitata dalla famosa ‘Addio Giovinezza!’, una commedia nata dalla collaborazione tra Nino Oxilia e Sandro Camasio. La comme­dia in questione, esattamente co­me la canzone, narrava la roman­tica vicenda dell’amore dello stu­dente per la sartina e dello spe­gnersi di quest’amore dopo la laurea, dinanzi ai sogni di spe­ranza per un poco probabile fu­turo di successo.
“Addio Giovinezza”, l’operetta goliardica di Giuseppe Pietri, su libretto di Sandro Camasio e Nino Oxilia,venne rappresentata per la prima volta in musica nel 1915, all’inizio della Grande Guerra.Era quella l’epoca in cui furoreggiava il genere operettistico inaugurato nella metà dell’ottocento da Jacques Offenbach, autore di “Orfeo all’inferno”, “La bella Elena”, “La Vie Parisienne”, e culminato con i capolavori di Franz Leahr quali “La vedova allegra” e “La danza delle libellule”. Va evidenziato che proprio la versione musicale di “Addio giovinezza” del Pietri segnò la nascita dell’Operetta italiana.


Il successo di “Addio giovinezza” fu forse dovuto al suo carattere intessuto di nostalgia che faceva presa sui giovani impegnati al fronte in una guerra tra le più sanguinarie. Gli autori del testo, ambientato a Torino, ben raccontano il tramonto dell’età scapigliata con calore umano tenero e crepuscolare, giàrappresentato alla fine del secolo da G. Puccini, nella più celebre “Bohéme”. L’ambiente goliardico è ritratto con sincerissima adesione. La storia è quella di una semplice sartina che si innamora dello studente che sta a pensione a casa sua, che poi si laurea, che poi se ne va, con una musica naturale e semplice dalla prima all’ultima nota, con i mirabili i duetti fra i protagonisti Mario e Dorina, e i magnifici momenti brillanti e i cori dalle note spensierate. Il tutto intramezzato da paillettes, lustrini e champagne.

Ora, bisogna ri­cordare che Nino Oxilia fu anche l’autore delle parole di Giovinez­za; e la canzone, nata come coro degli studenti, diventò via via inno degli sciatori, fu adottata dagli Alpini, poi dagli Arditi del­la prima guerra mondiale, poi dagli squadristi del Fascio e in­fine divenne Inno italico. 

Si trattò, non c’è dubbio, di una defor­mazione più che di una trasforma­zione: rimane il fatto, tuttavia, che la vicinanza d’origine di due canzoni apparentemente opposte come Giovinezza e Signorinella sta a testimoniare che l’anima ag­gressiva dell’Italia del Venti non era del tutto diversa da quella nostalgica dei tempi della comme­dia di Oxilia e da quella di Signo­rinella: era la stessa anima che si era inebriata di nuove emozioni.
(da ‘La canzone italiana’, n. 4 collana Gr. Editoriale Fabbri, Milano, 1970)

* * *
 Signorinella



Versi di Libero Bovio  -  Musica di Vincenzo Valente

 
 
Signorinella pallida
dolce dirimpettaia del quinto piano,
non v'è una notte ch'io non sogni Napoli
e son vent'anni che ne sto lontano.

Al mio paese nevica,
il campanile della chiesa è bianco,
tutta la legna è diventata cenere,
io ho sempre freddoe sono triste e stanco.

Amore mio,
non ti ricordi che nel dirmi addio
mi mettesti all'occhiello una pansè
poi mi dicesti con la voce tremula:
non ti scordar di me.

Bei tempi di baldoria,
dolce felicità fatta di niente.
Brindisi coi bicchieri colmi d'acqua
al nostro amore povero e innocente.

Negli occhi tuoi passavano
una speranza, un sogno e una carezza,
avevi un nome che non si dimentica,
un nome lungo e breve: Giovinezza.

Il mio piccino,
in un mio vecchio libro di latino,
ha trovato - indovina - una pansè.
Perché negli occhi mi tremò una lacrima?
Chissà, chissà perché!

E gli anni e i giorni passano
eguali e grigi con monotonia,
le nostre foglie più non rinverdiscono,
signorinella, che malinconia!

Tu innamorata e pallida
più non ricami innanzi al tuo telaio,
io qui son diventato il buon Don Cesare,
porto il mantello a ruota e fo il notaio.

Lenta e  lontana,
mentre ti sento, suona la campana
della piccola chiesa del Gesù,
e nevica, vedessi come nevica.
Ma tu, dove sei tu?



     'Signorinella'  interpretata da Achille Togliani

 * * *

La canzone di Marinella

"La canzone di Marinella" è una canzone di Fabrizio De André del 1964, pubblicata in un 45 giri insieme a "Valzer per un amore". Arrangiata da Gian Piero Reverberi, la canzone ebbe successo per il cantautore genovese anche grazie all'interpretazione di Mina che consentì al brano ed all'autore una visibilità molto più estesa su tutto il territorio nazionale. 

La canzone, sebbene appaia come una storia d'amore, non può considerarsi una canzone ‘leggera’, visto anche il triste epilogo della protagonista. Il brano nasce, infatti, da un fatto di cronaca che vede come vittima una prostituta uccisa e massacrata lungo un torrente. Una storia penosa che più volte si è ripetuta nella storia, e che De André ha voluto trascrivere in musica prendendosi qualche licenza poetica per trasformare una tragedia in una storia d'amore ove solo la fatalità rompe l'idillio.
"La canzone di Marinella" non è nata per caso, semplicemente perché volevo raccontare una favola d'amore. È tutto il contrario. È - dichiarò De André - la storia di una ragazza che a sedici anni ha perduto i genitori, una ragazza di campagna dalle parti di Asti. E' stata cacciata dagli zii e si è messa a battere lungo le sponde del Tanaro, e un giorno ha trovato uno che le ha portato via la borsetta dal braccio e l'ha buttata nel fiume. E non potendo far niente - concluse l'artista - per restituirle la vita, ho cercato di cambiarle la morte."
In quanto alla storia che ispirò la canzone, la prostituta rispondeva al nome di Maria Boccuzzi e fu ritrovata nel fiume Olona (e non nel Tanaro come dichiarato dallo stesso De André) nel 1953. La donna, che era anche una ballerina, fu crivellata di colpi. Una storia triste di come se ne leggono ancora oggi tra i fatti di cronaca ma che colpì la sensibilità di De André che, grazie alla sua arte, è riuscito a donare una sorta di eternità a questa sfortunata vittima della violenza degli uomini.

La canzone di Marinella” non è dunque che la tragica storia di una ragazza sicuramente giovanissima, annegata nel fiume proprio il giorno stesso in cui ha incontrato un uomo magnifico che le ha dato subito il suo amore, quello che avrebbe dovuto diventare il re del suo cuore, e che è impazzito per sempre dal dolore quando lei è morta …

Il vento che porta Marinella su una stella è una bellissima metafora per indicare il passaggio alla vita dell’aldilà, come a indicare la speranza che le giovani vite ingiustamente stroncate possano continuare la loro gioventù in cielo, perché “come tutte le più belle cose, hanno vissuto solo un giorno, come le rose”.

«Una storia senza tempo, che parla di persone senza storia. Marinella era una prostituta, il cui corpo era stato trovato massacrato sul greto di un torrente. Sembra storia di oggi, ma è purtroppo storia di sempre. Una tragedia anonima, capace di rubare dieci righe a un giornale di provincia, letta alla luce della cronaca. Vista in controluce, invece, diventa un dramma intenso, oltre la storia, a tracciare il percorso della radicata vicinanza tra amore e morte. Di un amore che non conosce scale gerarchiche, di una morte che sublima in dignità estrema del povero» (Don Luigi Ciotti, da Il mondo in controluce , 2000) 





 La canzone di Marinella
di Fabrizio De André

Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella.

Sola senza il ricordo di un dolore
vivevi senza il sogno di un amore
ma un re senza corona e senza scorta
bussò tre volte un giorno alla tua porta.

Bianco come la luna il suo cappello
come l'amore rosso il suo mantello
tu lo seguisti senza una ragione
come un ragazzo segue un aquilone.

E c'era il sole e avevi gli occhi belli
lui ti baciò le labbra ed i capelli
c'era la luna e avevi gli occhi stanchi
lui posò la sua mano sui tuoi fianchi

furono baci e furono sorrisi
poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle...

Dicono poi che mentre ritornavi
nel fiume chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent'anni ancora alla tua porta.

Questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose ...




'La Canzone di Marinella'  illustrata da bambini'
                        Voce di F. De André


* * *

La canzone di Marinella - Legenda d’Autore 

di Francesca Maria Miraglia, 2016

La canzone di Marinella, di Fabrizio De André, ha da sempre destato scalpore, in particolar modo poiché risulta essere avvolto da un bellissimo alone di mistero e di tristezza. Iniziamo dunque ad analizzare il testo:
Questa di Marinella è la srtoria vera
che scivolò nel fiume a primavera,
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra una stella.

Possiamo notare sin da subito come la rima baciata conferisca dolcezza ai versi e doni una enfasi molto forte; la costruzione ad arte reca quasi l’impressione di essere catapultati in una fiaba. Una voce esterna (forse quella della gente, del popolo indagatore) racconta la storia di questa fanciulla, Marinella, probabilmente trasportata in quel luogo da un paesaggio incantato, opera di Madre Natura.
La seconda strofa presenta un punto di svolta:

Sola senza il ricordo di un dolore
Vivevi senza il sogno di un amore
Ma un re senza corona e senza scorta
Bussò tre volte un giorno alla tua porta.

Marinella non conosce il sentimento dell’amore: un giorno però, si affaccia sulla scena un ‘re’, un giovane uomo, di cui poi la ragazza si innamorerà. Questo è solo il preludio, infatti, alla terza strofa:

Bianco come la luna il suo cappello
Come l’amore rosso il suo mantello
Tu lo seguisti senza una ragione
Come un ragazzo segue un aquilone.

I colori rivestono un ruolo rilevantissimo in questo testo: le alternanze cromatiche delineano le personalità di Marinella e del giovane uomo. Il bianco rappresenta concretamente il candore di Marinella a cui si oppone il rosso, colore della passione che nutre l’uomo per lei. All’aquilone il compito di simboleggiare poi l’innocenza infantile, ricolma di purezza, della ragazza, che si ritrova a seguire senza un apparente motivo quell’uomo apparso così, quasi per caso, nella sua vita.

La quarta strofa è decisamente idilliaca:
 
E c’era il sole e avevi gli occhi belli
Lui ti baciò le labbra ed i capelli
C’era la luna e avevi gli occhi stanchi
Lui pose le sue mani suoi tuoi fianchi.

Furono baci e furono sorrisi
Poi furono soltanto i fiordalisi
Che videro con gli occhi delle stelle
Fremere al vento e ai baci la tua pelle.

In questa parte del testo chiari sono i riferimenti all’imperversare della passione amorosa fra Marinella e il giovane uomo: è un continuo crescendo, fino quando lui, invaso da una smisurata dolcezza, pone le sue mani sui fianchi di Marinella. Incalzano quindi baci, sorrisi ed emozioni, che portano la ragazza a fremere in nome di questi suoi momenti vissuti. Nello svolgersi della narrazione, sospesa nel tempo, appare improvvisamente un fiordaliso, che sembra far da contorno alla storia: questo elemento, in realtà, anticipa la morte della fanciulla, in un ritorno aggressivo della figura di Madre Natura, pronta ad accogliere la morte di Marinella.

Dicono poi che mentre ritornavi
Nel fiume chissà come scivolavi
E lui che non ti volle creder morta
Bussò cent’anni ancora alla tua porta.

Questa è la tua canzone Marinella
Che sei volata in cielo su una stella
E come tutte le più belle cose
Vivesti solo un giorno, come le rose ...

Marinella è stata uccisa, accanto ad un fiume: sembra quasi che quel passaggio “mentre… scivolavi” dia l’idea di una immagine a rallentatore, costruita ad hoc, per dare modo all’ascoltatore di immaginare la scena davanti a sé e viverla così in prima persona. Il giovane amante è incredulo, addolorato e affranto, cerca di bussare alla porta di Marinella, con la speranza di trovarla viva e pronta ad accoglierlo ancora tra le sue braccia.


L’epilogo della canzone è tragico: Marinella, come tutte le belle cose, ha vissuto quella passione in un solo giorno, quasi come una rosa dalla bellezza straordinaria, sfiorita troppo presto. La passione, il dolore, il destino crudele e meschino de La canzone di Marinella trasmettono un messaggio molto forte: l’esistenza umana è effimera, nessuno può sottrarsi alla morte, alla sofferenza; allo stesso tempo, però, nessuno può sottrarsi alla bellezza di un sentimento così grande, la cui potenza è tale da annullare la propria identità e sconvolgere la propria personalità.

* * *

  La Canzone di Marinella

(Video clip ‘La Municipal’)



Il videoclip è diretto da Marco Pellegrino, vincitore con “Falene – Moths to Flame” della sezione Fiction dei Nastri d’Argento 2019 per i corti. 

A proposito del brano, il regista afferma: «“La canzone di Marinella” è un brano la cui scrittura si ispira a un caso di femminicidio degli anni’60. Lo stesso De André affermava: La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte.» 

«Si tratta di uno dei brani più significativi della musica italiana - raccontano Carmine e Isabella de ‘La Municipàl’ - Nonostante il timore reverenziale circa la responsabilità di reinterpretare questo brano, abbiamo scelto una chiave di lettura basata sull’impatto emotivo in crescendo, partendo da una fase più intima iniziale fino ad arrivare ad un’orchestrazione finale molto più robusta ed avvolgente dove tutti gli strumenti arrivano al culmine della dinamica


2
COME  'IL FIOR DI GIOVINEZZA'

Οἷά τε φύλλα  (Come le foglie)
Mimnermo  (Colofone, VII-VI  secolo a.C.) 


Come le foglie che nel tempo
moltofiorito di primavera nascono
e ai raggi del sole rapide crescono,
noi simili a quelle per un attimo
ci dilettiamo del fiore dell’età,
ignorando il bene e il male per dono dei Celesti.

Ma le nere parche ci stanno a fianco,
l’una con il segno della grave vecchiaia
e l’altra della morte.

Fulmineo cade il frutto di giovinezza,
come la luce d’un giorno sulla terra.
E quando il suo tempo è dileguato
è meglio la morte che la vita.


L’espace d’un matin
François de Malherbe (1555 – 1628)





Mais elle était du monde où les plus belle schoses
Ont le pire destin,
Et Rose, elle a vécu ce que vivent les roses
L’espace d’un matin.

Ma lei era di quel mondo dove le più belle cose
hanno un triste destino,
e come Rosa, lei ha vissuto quel che vivono le rose
lo spazio d’un mattino.
 
da “Consolation à M. Du Périer, gentilhomme d'Aix en Provence,
sur la mort de sa fille, 15-16“ (1599).


Mia giovinezza
Ada Negri  (1870 – 1945)


Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo
all’essere. Sei tu, ma un’altra sei:
senza fronda né fior, senza il lucente
riso che avevi al tempo che non torna,
senza quel canto …
                             
                               E sei rimasta
         come un’età che non ha nome:
         umana tra le umane miserie …

         O giovinezza senza tempo, o sempre
         rinnovata speranza, io ti commetto
         a color che verranno: - infin che in terra
         torni a fiorir la primavera, e in cielo
         nascan le stelle quand’è spento il sole.



A SILVIA
Giacomo Leopardi (1798-1837)

Parafrasi 

Silvia, ricordi ancora quel periodo della tua vita terrena quando la bellezza risplendeva nei tuoi occhi timidi e sorridenti e tu, felice e pensierosa, stavi per superare la soglia della tua adolescenza?

Nelle stanze tranquille e per le strade circostanti echeggiava il tuo continuo canto, quando tu, impegnata nei lavori femminili, eri molto felice di quel futuro incerto e desiderato che avevi in cuore. Era il maggio pieno di profumi, e tu eri solita trascorrere così le tue giornate.

Io, tralasciando di tanto in tanto i miei cari studi e le carte su cui studiavo, nei quali si consumavano il tempo della mia giovinezza e la parte migliore di me, dai balconi del palazzo di mio padre prestavo attenzione al suono della tua voce e a quello della tua mano veloce che faticosamente tesseva la tela. Contemplavo il cielo sereno, le vie assolate e i giardini, e da una parte il mare da lontano, dall’altra la montagna. Le parole umane non possono esprimere ciò che io provavo nel cuore.

Quanti dolci pensieri, quante speranze, quanti sentimenti, o mia Silvia! Come ci sembravano luminosi allora la vita e il nostro destino! Quando ripenso a tutte quelle speranze, sento l’oppressione di un sentimento insopportabile e sconsolato, e mi prende una grande tristezza per la mia sventura. O Natura, natura, perché non ci dai quello che prima ci avevi promesso? Perché inganni così tanto i tuoi figli?

Tu, prima che l’inverno inaridisse i prati, consumata e uccisa da una crudele malattia, morivi, o tenerella. E non avevi ancora conosciuto la parte migliore dei tuoi anni; ancora non ti addolcivano il cuore complimenti per i tuoi capelli neri, o per gli sguardi innamorati e timidi; e neppure era giunto per te  il tempo in cui le ragazze, nei giorni festivi, parlano d’amore con le compagne. Tra poco si spegnerà anche la mia dolce speranza: anche a me il destino ha negato la giovinezza. Ahimè, come sei svanita, cara compagna dei miei anni giovanili, mia compianta speranza!

È dunque questo il mondo che avevamo sognato? Sono questi i piaceri, i sentimenti, le attività, gli avvenimenti che tu ed io avevamo sospirato? È questo il destino degli uomini? Quando si svelò la verità, tu svanivi miseramente, indicando silenziosamente da lontano la fredda morte e una tomba nuda.


*     *     *
“A Silvia”

È un canto del 1828 dedicato a una ragazza che Leopardi conobbe realmente, Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi. 

Nata nel 1797, vissuta a cavallo tra Settecento e Ottocento, morì a soli ventuno anni il 30 settembre del 1818. La sua immagine ideale si è ormai sovrapposta a quella reale, ma proprio Leopardi, nelle pagine dello Zibaldone, così la descrisse:

“ Una giovane dai sedici ai diciotto anni [che] ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti, un non so che di divino, che niente può agguagliare. […] quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria di innocenza, di ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fiore della vita”.


Per il poeta, il ricordo vitale di quella esile figura femminile si trasforma in un grido di dolore verso la spietata e sorda Natura, insensibile alle suppliche degli umani.

Silvia è il simbolo delle speranze della giovinezza, fatta di attese, sogni, illusioni. Silvia rappresenta la delusione che attende ogni essere umano allo svanire della giovinezza. 

La struttura della poesia è tale da rivelare un rapporto molto forte tra Leopardi e Silvia: il parallelismo tra il poeta e Silvia è evidentissimo, entrambi sono giovani, sono intenti a lavorare e coltivano grandi speranze per il futuro. 
 
In questa lirica, la musicalità leopardiana raggiunge livelli altissimi, forse superiori alle altre liriche: fin dalla prima strofa si instaura una complessa rete di assonanze e consonanze, soprattutto legate alla ripetizione del suono della "S", presente in "Salivi, sonavan, stanze": addirittura si può notare come nella prima strofa la parola Silvia sia contenuta nel termine "salivi" che ne è un vero e proprio anagramma. L'anagramma in questo caso non è ovviamente un semplice gioco di parole, ma serve ad evocare la presenza della fanciulla, quasi a volerla richiamare in vita. 

*     *     *
Un breve commento

La prima parte del canto “A Silvia” è evocativa di una gioventù lieta, ma anche pensosa, quasi a presagire la sventura successiva. Eppure il mondo intorno a Silvia sembrava perfetto: il perpetuo canto, il cucito con le compagne e un avvenire vago, come quello di una qualsiasi ragazza dell’epoca.

Dall'altra parte, lo stesso poeta dal balcone ascolta e guarda, partecipe di quella vaghezza che rassomiglia tanto alla felicità. Nello sguardo e nel cuore, tutto si riempie di indefinito e di orizzonte: il mare da lungi, le speranze

Ma poi, secco come lo spezzarsi di un ramo, sale il verso centrale, lo snodo verso il tramonto di tutte le illusioni: O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? perché di tanto / inganni i figli tuoi?

E' quasi un atto di accusa verso la natura che prima illude e poi disillude: di nuovo Silvia, ma questa volta combattuta e già vinta ancora prima che l'erba ingiallisca. E' la morte di Silvia, la morte della speranza che avviene all'apparir del vero. E' come se la speranza tramontasse davanti all'aridità e alla potenza della ragione, quella ragione che alza il velo dei dolci inganni per mostrare una tomba ignuda, ancora da lontano, nel prolungamento d'un ricordo che fa rivivere Silvia, ma che è anch'esso illusione.

Di questo parla Leopardi, dipingendo una delle figure più immortali di tutta la poesia italiana: della speranza che nasce nel maggio della vita e tramonta agli inizi dell'autunno, di una breve stagione in cui si pensa di potere ordire la trama di un ancorché vago futuro e della rottura dell'incantesimo, alla caduta delle illusioni giovanili.

C'è, nella lirica, tutto il pessimismo leopardiano, la sua concezione della vita come sofferenza preceduta da una breve stagione di felicità. La bellezza di questa poesia è proprio in questo doppio gioco: il fondere un episodio realmente accaduto, la morte di Silvia, con quella che è la vicenda tragica di tutte le umane genti e soprattutto quella del poeta stesso. C'è il passaggio dal particolare di Silvia, all'universale del genere umano, da una ragazza che muore giovane alla accidentalità della specie umana. 

Marisa Moles  (Prof. di Lettere, Udine - 2013)

*     *     *

Spunti di analisi

“A Silvia” è senz’altro una delle poesie più famose di Leopardi, composta nella sua Recanati, quel natio borgo selvaggio in cui il poeta spese il suo tempo migliore: la gioventù.
Molti pensano che questa sia una poesia d’amore. Nell’alternanza di endecasillabi e settenari Leopardi, infatti, pare esprimere il suo amore per una fanciulla morta troppo presto per “veder il fior degli anni” suoi. Una fanciulla che il giovane, sfortunato anche lui più per libera scelta che per avversa fatalità, spiava mentre la mano di lei percorrea la faticosa tela.
Come per Silvia i brevi giorni della sua vita erano stati troncati dalla fatale malattia, deludendo le speranze di un futuro gioioso di donna amata, così per Leopardi stesso la morte di lei rappresenta la fine delle sue speranze. E questa disillusione gli deriva dalla convinzione che la Natura si prenda gioco del destino degli uomini, quella Natura che prima illude e poi inganna i suoi figli, negando loro ciò che prima aveva promesso.
Nell’ultima strofa la disillusione si palesa inequivocabilmente: la morte di Silvia rappresenta metaforicamente la morte stessa della speranza che non può far altro che indicare al poeta la una tomba ignuda


Ma al di là di questa metafora che ci riconduce al pessimismo leopardiano, la poesia può essere considerata una lirica amorosa? Forse a livello conscio no: Leopardi parlava di quel suo male di vivere, di quel suo costume che ben si addice al ‘passero solitario’, ma non a lui, che per scelta conduceva una vita isolata e priva delle gioie tipiche dell’età più bella, quell’età che il garzoncello scherzoso trascorre spensierato nel villaggio animato da personaggi umili, tutti intenti nei preparativi per trascorrere al meglio una giornata di festa nella gioia condivisa. Ma a livello inconscio forse la poesia può essere letta come una poesia d’amore.

Il critico Giorgio Barberi Squarotti, in un suo saggio rileva un’inconscia ossessione del poeta nei confronti di Silvia. Un’ossessione che lo spinge, inconsciamente appunto, a ripetere, quasi in uno sciame allitterativo, fin dai primi versi la sillaba “vi”, compresa nella parola Silvia: al verso 2 ritroviamo la parola “vita” che la contiene; al verso 4 gli occhi sono aggettivati come “fuggitivi”, in rima con il verbo “salivi” del verso 6; quindi, all’inizio del verso 11 si legge ancora un verbo, “sedevi”, che termina con “vi” e ancora al verso successivo “avevi” che rima con un altro verbo, sempre alla seconda persona singolare, “solevi”. Nelle strofe che seguono si trovano facilmente anche altre parole contenenti la sillaba “vi”, ma quello che sconcerta particolarmente è che la forma verbale “salivi” del verso 6 costituisce addirittura l’anagramma del nome Silvia.

Secondo Barberi Squarotti questa ripetizione ossessiva del “vi” si accosta all’allitterazione del fonema “T” nella prima strofa, e all’insistenza con cui Leopardi usa il pronome personale “tu” e l’aggettivo possessivo “tuo/a” in tutta la lirica. In particolare, nella terza strofa c’è un gioco di contrapposizioni tra l’ “io” leopardiano e il “tu” riferito a Silvia. Non a caso, è la strofa in cui il poeta rappresenta con toni più dolci e sereni il suo “rapporto” con Silvia, un rapporto fatto di suoni e di sguardi. Lo sguardo rivolto all’orizzonte (impossibile non fare un confronto con la poesia L’infinito) rappresenta la speranza stessa, non ancora delusa, e l’attesa per un futuro ignoto i cui colori non sono cupi ma brillanti (L’oro delle vie illuminate dal sole).

Ritornando all’interpretazione di Barberi Squarotti, ci chiediamo se quelle ripetizioni fossero volute o meno. Si tratta, dunque, di una costruzione conscia della lirica come specchio dell’anima, in cui si insiste su quel “vi” racchiuso nel cuore della parola “Silvia”, così come l’immagine stessa della ragazza era racchiusa nel cuore del poeta amareggiato per la sua morte precoce? Non lo sappiamo per certo, ma ci sono degli indizi che ci portano a credere che Silvia, al di là della metafora che incarna, fosse davvero amata dal poeta, forse come nessun’altra lo fu mai. 



"A Silvia"
Voce e video di Elide Fumagalli


3
L' ETERNO FEMMINILE
nell'arte dei Preraffaelliti 

Nel 1848, nella Londra vittoriana, un gruppo di giovani pittori, sentendosi stretti nei canoni dell’accademismo, decidono di andare oltre alle convenzioni, oltre al linguaggio pittorico tradizionale per creare qualcosa di nuovo e di innovativo. Quello che nasce dal loro sodalizio (‘Pre-Raphaelite Brotherhood’) è qualcosa destinato a cambiare davvero la visione dell’arte, ma soprattutto a regalare alla Storia alcuni dei più stupefacenti dipinti di tutti i tempi.

I “Preraffaelliti” si contrappongono all’accademismo ufficiale, sempre più anacronistico e rigido nei suoi canoni. Capeggiato da William Holman Hunt, da Dante Gabriel Rossetti e da J. Everet Millais, il movimento propone nuovi canoni in antagonismo con il Neoclassicismo Accademico, sposato appieno dalla Royal Academy. I giovani artisti non vivono in un passato nostalgico, ma nell’arte e nelle tematiche antiche vedono la via per una nuova comunicazione pittorica. Essi infatti, nell’intento di creare qualcosa di assolutamente nuovo, decidono di guardare al medioevo per trarre spunto e nuova linfa alla pittura  loro contemporanea, che, soffocata dal barocco e dalla pittura di maniera, ha perso la capacità di comunicare emozione e attraverso l’emozione.

 I fondatori del Prerafaellismo: Rossetti, Millais, Hunt

La scelta del nome “Prerafaelliti” è dovuta a William Holman Hunt, che nel commentare La ‘Trasfigurazione’ di Raffaello (musei Vaticani), mosse una pesante critica all’urbinate: “Raffaello doveva essere condannato per il suo disprezzo grandioso del carattere semplice della verità, per la postura altezzosa degli apostoli e per l’atteggiamento non spirituale del Salvatore”.

La confraternita dei Preraffaelliti perciò fa un balzo indietro, a prima di Raffaello Sanzio, identificando nell’artista rinascimentale le origini di tutta la pittura successiva, nella sua arte le linee che influenzeranno gli stili e i gusti dei secoli seguenti in modo negativo. La loro pittura decide di riagganciarsi a un’arte più antica: quella medievale, e da essa prendere spunto.

In realtà il gusto preraffaellita è piuttosto moderno, con caratteristiche ben definite e molto lontane dal gusto medievale, ma vuole recuperare il senso simbolico dell’arte e alcune tematiche del periodo.

I  Preraffaelliti parlano all’anima, cercano di ritrovare nello spettatore lo sguardo stupito e ancora bambino, quello che lasciava incantati di fronte alle illustrazioni dei libri, per condurlo verso la scoperta di un messaggio, celato nelle tele.

Quello che propongono non è quindi solo un movimento pittorico, è una filosofia di vita, una vera e propria poetica. Uno dei massimi esponenti del movimento, Dante Gabriel Rossetti, è infatti anche uno dei poeti più importanti dell’epoca vittoriana.

In questo periodo di contrasti, di stridore, i preraffaelliti propongono una pittura piena di colore, di suggestive contaminazioni letterarie, di magia, in cui non mancano le tematiche sociali e religiose, ma sempre dipinte attraverso dense pennellate fatte di lucente colore, attraverso immagini nitide, particolareggiate, nelle quali mondi onirici e fiabeschi divengono crudelmente reali.

*     *     *

I Preraffaelliti furono precorritori e sostenitori di idee nuove e inaudite in piena epoca vittoriana. E sperimentando nuove convinzioni ideali, con conseguenti nuovi stili di vita, nelle relazioni personali furono spesso molto più liberi e spregiudicati dei pittori tradizionali ottocenteschi.

Essi costituirono pertanto lo scandalo e la frantumazione d’una società ormai giunta alla propria fine, facendo esplodere l’arte ormai stantia delle accademie attraverso la ricerca del presente e del futuro, nel nostro passato di leggende e splendori e magia. Amarono riamati, tradirono, si uccisero, ma vissero la loro vita bruciandola come una candela da entrambi i lati, ebbero metà del tempo ma rifulsero con il doppio dello splendore.

Crearono nuovi miti, innalzandoli su quelli antichi con la follia lucida del voler riportare un nuovo mondo di bellezza per tutti. Furono la più dirompente rivoluzione culturale che si potesse anche lontanamente immaginare ma fallirono, e il loro fu il fallimento più grandioso e splendido che un artista potesse desiderare, perché questi pochi pittori crearono un Nuovo Rinascimento che durò soltanto un’estate stregata, un sogno fugace e mai più ripetuto che però rimane e perdura nel tempo, mentre di tutto il resto, anche nell’arte contemporanea, non resterà forse che polvere e cenere.


‘Brotherhood’  e  ‘Sisterhood’  nel movimento preraffaellita.

Alla ‘confraternita’ dei Prerafaelliti si affianca presto anche un gruppo femminile, una vera e propria ‘sorellanza’, nella quale si muovono le compagne di vita, le muse, modelle e ispiratrici dei pittori, divenute a loro volta protagoniste del movimento artistico, spesso dimostrandosi artiste di altissimo livello.

I preraffaelliti erano inclini a cercare le loro modelle tra le belle ragazze di bassa estrazione sociale, che, non avendo una reputazione da difendere, potevano incarnare anche ideali femminili seducenti ed erotici. Questa tipologia di donne permetteva poi agli artisti, in genere di estrazione sociale borghese, di relazionarsi con loro in una situazione di doppio vantaggio, in quanto uomini e in quanto di una classe sociale superiore. Sposare una di queste modelle voleva dire superare pregiudizi molto marcati nella società vittoriana.

La  ‘donna- simbolo’  e la sua sacralità nell’arte dei Preraffaelliti

La riflessione artistica dei Prerafaelliti partiva dalla considerazione che, con l’evoluzione scientifica e il progresso, l’umanità si era allontanata dalla natura.  L’uomo, col passaggio da modelli sociali che mettevano la vita e la donna al centro in modelli gerarchizzanti di dominio maschile, aveva iniziato a creare Dei a sua immagine per giustificare il suo potere, ma anche come specchio simbolico del controllo esercitato sul lato dell’umanità considerato irrazionale, quello relativo alla ‘donna’, simbolo e riflesso della natura fuori controllo. Conseguentemente, l’uomo, organizzatore e controllore della società strutturata, cominciò a vedere il femminile naturale come caotico, ostile, elemento pericoloso da evitare e dominare (che nelle religioni giudaico cristiane , non a caso, è descritto come la porta dell’inferno). Il ‘femminile’, persa la sua corona sacrale, diventava così un susseguirsi di provocazioni, di disturbo dell’ordine sociale, incarnando una pericolosa energia libera, la magia e i poteri occulti che sfuggono al controllo maschile.

Il ritorno allanatura-femmina’ e la celebrazione dell’immagine femminile dei preraffaelliti racchiude proprio la propensione al ritorno verso la sacralità perduta

Gli uomini e le donne della confraternita si avventurarono nella sperimentazione di nuove convinzioni, nuovi stili di vita e di relazioni personali, radicali quanto la loro arte e incentrate sui principi estetici e concettuali di amore, desiderio, natura e la sua fedele riproduzione, ispirandosi al simbolismo, le storie medievali, la poesia, il mito, la bellezza in tutte le sue forme. 

La narrazione preraffaellita veicola forti messaggi potenti legati alla sacralità femminile e, non a caso, al centro delle loro opere ci sono sempre la donna, la natura e le storie del ‘Roman de la rose’ e del ciclo arturiano che raccontano, attraverso i secoli, il messaggio esoterico del ‘sacro femminile’.

 La donna portatrice del fuoco della vita (Rossetti, 1870)

Si intrecciano così, nella vita e nell’arte dei Prerafaelliti, avventure, storie romantiche, tragiche, cariche del fascino di quest’epoca di contrasti e di grandi ideali. Quando avevano vent’anni essi  volevano rivoluzionare tutto e celebrare per i secoli a venire la sacralità femminile. Ci sono riusciti.

La donna è quasi sempre l'unica e principale protagonista della pittura dei Prerafaelliti. La natura circostante, anche se dipinta in modo particolareggiato o gli interni dei palazzi, fanno solo da scenario.
Le figure femminili non hanno più il corpo costretto dagli abiti, come nella vita reale, ma racchiudono in sè tutto ciò che alla donna del periodo vittoriano non era ancora concesso. Sono donne libere, spesso raffigurate discinte, con capelli lunghissimi, ondulati e sciolti sulle spalle,  donne simbolo’, riprese da personaggi biblici, mitologici, storici, da eroine dell'antichità e del Medioevo. 

E  anche se apparentemente la tipologia fisica non si discosta dall'immagine femminile dell’epoca, molto diversi sono i connotati psicologici e simbolici, estremamente sfaccettati, complessi e a volte contraddittori. Apparizioni di donne, a volte inquietanti, o arcane ed eteree, o terribilmente sensuali, come l’‘incantatrice’ pericolosa, fortemente sensuale, che con la sua avvenenza riesce ad ammaliare e soggiogare gli incauti uomini che hanno la sfortuna di avvicinarla, oppure l’‘angelo salvatore’ - come la Beatrice dantesca - o la donna che si strugge e muore vittima sacrificale  d’amore.



Elizabeth Siddal (1829 – 1862)

Questa ambivalenza si rintraccia anche nella vicenda biografica dei pittori del movimento e in quella delle donne, che ne furono modelle, muse ispiratrici e amanti. La più celebre è sicuramente Elizabeth Siddal. Introdotta nel circolo dei Preraffaelliti, divenne la modella prediletta di molti artisti del gruppo, rappresentandone a pieno l’ideale femminile per l’aspetto esile ed etereo e i lunghi capelli rossi.

Nonostante le umili origini, Siddal, fu essa stessa poetessa e pittrice. Dante Gabriel Rossetti ne diventò presto maestro e amante: Elizabeth imparò da lui a dipingere. Rossetti, già sposato, si fidanzò infine con Elizabeth, continuando tuttavia per anni ad annullare e rimandare le nozze, imbarazzato per le umili origini della donna. Fu in quei nove anni di attesa e sofferenza che Siddal iniziò a manifestare quell’esaurimento cerebrale che la spingerà verso l’uso del laudano.

Anche quando il matrimonio con Rossetti fu celebrato, gli anni successivi continuarono ad essere costellati da amarezze e gelosie, finché la nascita di un figlio morto la spinse definitivamente verso il suicidio. Il  pittore ritrarrà la moglie defunta nel dipinto Beata Beatrix, ove il volto della donna è ormai trasfigurato nell’idealità più assoluta del personaggio dantesco.

 Beata Beatrix (Rossetti, 1872)

Nella tomba, insieme al corpo della Siddal, il marito fece porre anche l’unica copia dei manoscritti d’amore che lo stesso Rossetti aveva dedicato alla Siddal, scritti nel corso degli anni: il quaderno che li conteneva venne infilato fra i suoi capelli rossi.
Nel 1869 Rossetti, piegato da alcool e droga e convinto di diventare cieco, fu ossessionato dal desiderio di pubblicare le proprie poesie accompagnate da quelle della moglie. Insieme al proprio agente Charles Howell, ottenne il permesso di aprire la tomba della Siddal per recuperare il quaderno di poesie: il tutto venne svolto di notte, per evitare lo sdegno della gente.
Rossetti pubblicò quindi le proprie poesie insieme a quelle della moglie. A causa di alcuni temi erotici, l’opera venne male accolta dalla critica.
Elizabeth Siddal scrisse 14 poesie complete, che vennero considerate dalla cognata Christina troppo tristi e prive di speranza alcuna per incontrare i gusti dell’Inghilterra vittoriana. Ma alla fine sono arrivate a noi come la testimonianza del coraggio della Siddal nel descrivere il doloroso e sottilissimo confine tra amore e morte, astraendosi da qualsiasi moda poetica del suo secolo.

Nel 2006, queste composizioni sono state tradotte per la prima volta in italiano da Conny Stockhausen. 
Un’unica poesia di Elizabeth risulta autografata:
 
L’amore finito


Non piangere mai per un amore finito
poiché l’amore raramente è vero
ma cambia il suo aspetto dal blu al rosso,
dal rosso più brillante al blu,
e l’amore destinato ad una morte precoce
ed è così raramente vero.

Non mostrare il sorriso sul tuo grazioso viso
per vincere l’estremo sospiro.
Le più belle parole sulle più sincere labbra
scorrono e presto muoiono,
e tu resterai solo, mio caro,
quando i venti invernali si avvicineranno. 
Tesoro, non piangere per ciò che non può essere,
per quello che Dio non ti ha dato.
Se il più puro sogno d’amore fosse vero
allora, amore, dovremmo essere in paradiso,
invece è solo la terra, mio caro,
dove il vero amore non ci è concesso.


Dead Love


Oh never weep for love that’s dead
Since love is seldom true
But changes his fashion from blue to red,
From brightest red to blue,
And love was born to an early death
And is so seldom true.

Then harbour no smile on your bonny face
To win the deepest sigh.
The fairest words on truest lips
Pass on and surely die,
And you will stand alone, my dear,
When wintry winds draw nigh.
Sweet, never weep for what cannot be,
For this God has not given.
If the merest dream of love were true
Then, sweet, we should be in heaven,
And this is only earth, my dear,
Where true love is not given.

La raccolta delle sue poesie, tradotte da Conny Stockhausen, rivela una sensibilità fortemente caratterizzata dalle atmosfere languide, quasi morbosamente malinconiche, di quel tardo Ottocento:  i motivi della temperie romantica si sciolgono in una nostalgia dolorosa eppure delicatissima, in un rimpianto del passato nel quale la passione d’amore e il senso sempre incombente della morte si fondono ineluttabilmente. 
In “Amore e odio” (Love and Hate) Siddal scrive: «Volgi altrove i tuoi bugiardi occhi cupi, / e non posarli sul mio viso; / immenso amore ti diedi: ora l’immenso odio / s’insidia crudelmente al suo posto», e forse si rivolge a Dante Rossetti, suo amante e poi marito, dal quale Elizabeth ricevette lezioni d’arte, passione sfrenata ma anche tanta implacabile sofferenza. E ancora i versi di “Un anno e un giorno” (A Year and a Day) «Il fiume scorre eterno / nel suo letto erboso, / le voci di migliaia di uccelli / risuonano sul mio capo, / mi porteranno un sogno ancora più triste / di quando questo triste sogno avrà fine» che sembrano l’ekfrasis dell’Ophelia di Millais. Il viso di Ofelia morta è quello di Elizabeth Siddal.

Ophelia (Millais, 1852)

Jane Burden
Tra le amanti del Rossetti che furono causa dell’infelice vita di Elizabeth, è probabilmente da annoverarsi Jane Burden, altra musa dei Preraffaelliti che, con il suo fascino sensuale e carnale e la sua chioma corvina, rappresenta il contraltare alla bellezza eterea di Siddal.
Jane, donna colta e indipendente, ebbe numerosi amanti, e fece da modella a Rossetti in un cospicuo numero delle sue tele, tra cui la celebre Proserpina.
Proserpina (Rossetti, 1874)

Annie Miller
Protagonista di una romanzesca vicenda d’amore è invece Annie Miller. Questa donna, dai tratti delicati e dalla folta chioma bionda, appare in numerose opere, tra le quali Il sogno di Dante ed Elena di Troia di Rossetti, nonché in molti dipinti di Hunt, tra cui il celebre Risveglio della coscienza.
Elena di Troia (Rossetti, 1863)

Cresciuta nei bassifondi di Chelsea, fu inizialmente modella di William Holman Hunt, che se ne innamorò perdutamente. Prima di partire per un viaggio, Hunt affidò la ragazza alle cure del collega e amico Rossetti: al suo ritorno, i due erano diventati amanti. La stessa Siddal, sospettando il tradimento del marito con Annie Miller, ne buttò durante una lite i ritratti dalla finestra.

Fanny Cornforth
Un’altra modella di Rossetti, Fanny Cornforth, fu invece una bellezza diversa da quella eterea delle altre muse preraffaellite. Domestica al servizio del pittore e poi sua amante, fu donna opulenta e matronale, tanto che Rossetti ebbe a chiamarla in seguito con lo scherzoso nomignolo di «mio caro elefante».
Un’opera in particolare sembra tuttavia incarnare perfettamente il sentimento della Confraternita verso la figura femminile. Fanny Cornforth è infatti Lilith  in un’altra tela di Rossetti, la mitologica prima moglie di Adamo, che divenne demone quando scelse di abbandonarlo. Lilith è per eccellenza la donna demoniaca e tentatrice, il cui fascino risiede proprio nella sua scelta di indipendenza. 
Lady Lilith (Rossetti, 1868)

Eppure in questo dipinto ha la bellezza luminosa e salvifica di una donna angelo stilnovista ed è proprio questa contraddizione che dai Preraffaelliti passerà poi al simbolismo e a Klimt fino ad arrivare a tanta letteratura dei giorni nostri.

*     *     *

I fratelli Rossetti


Dante Gabriel Rossetti (1828-1882)



Dante Gabriel Rossetti, pittore e poeta, fu l'artista che meglio rappresentò l'ideale preraffaellita. Figlio di un patriota italiano fuggito in Inghilterra dopo il fallimento dei moti napoletani del 1821, nella sua formazione letteraria fu influenzato da una parte da Dante e i dai poeti del dolce stilnovo e, dall'altra, da Shelley, Keats, Tennyson, E.A. Poe e dal romanzo gotico. 


Lo studio giovanile di Dante lo familiarizzò con l'aspetto simbolistico e rituale dello spirito medievale, incoraggiando un'inclinazione a identificare il materiale con l'eterno e lo spirituale. 


Nella sua prima raccolta di Poems (Poesie, 1870) e nella seconda e ultima, Ballads and sonnets (Ballate e sonetti, 1881), l'elemento nuovo della sua ispirazione è dato dalla propensione per l'elegante, l'esoterico e l'arcano, indice di un atteggiamento estetizzante; la sua poetica è alimentata dalla ricerca dell'anima evanescente delle cose e da una realtà suggestiva sfumata nel sogno e nel ricordo. 


Christina Rossetti (1830 – 1894)

Christina Rossetti nacque a Londra e fu educata in casa dalla madre. La cultura religiosa anglicana ebbe un ruolo importante nella vita di Christina: appena diciottenne si impegnò sentimentalmente con il pittore James Collinson, ma la relazione finì perché quest'ultimo tornò ad essere cattolico. In seguito si legò al linguista Charles Cayley ma non lo sposò, nuovamente per motivi religiosi. Morì di cancro nel 1894 e venne seppellita nell'Highgate Cemetery. 

All'inizio del Novecento la sua popolarità venne offuscata, come anche quella di molti altri scrittori dell'epoca vittoriana. Christina Rossetti rimase a lungo dimenticata fino agli anni settanta, quando venne riscoperta da studiose femministe. 

Christina Rossetti iniziò a scrivere molto presto, ma solo all'età di 31 anni vide pubblicata la sua prima raccolta di poesie, Goblin Market and Other Poems (1862). Il titolo che dà il nome alla raccolta è il lavoro più famoso di Christina Rossetti, e nonostante a prima vista sembri semplicemente una filastrocca sulle disavventure di due sorelle in mezzo agli gnomi (goblins), la poesia è complessa e si presta a diversi livelli di lettura. La critica l'ha interpretata in modi molto diversi: vi ha visto un'allegoria sulla tentazione e la redenzione, un commento sui ruoli sessuali nell'epoca vittoriana, e la tematizzazione del desiderio erotico e la redenzione sociale. 

Christina Rossetti continuò a scrivere e pubblicare, tuttavia più interessanti sono le sue poesie d'amore, nate da storie dolorosamente vissute e da sprazzi di lucidità che trasformano il dolore in un sentimento leggero e persino gioioso. La famosa When I am dead, my dearest esprime tutta la sua insicurezza: lei non è sicura del proprio amore quanto non è sicura dell'amore dell'amato, il quale dunque non viene caricato di doveri, che del resto neppure lei potrebbe sopportare.

Quando io sarò morta

Quando io sarò morta, mio carissimo,
non cantare canzoni tristi per me;
non piantare rose alla mia testa
nè ombroso albero di cipresso:
sia la verde erba su di me
con acquazzoni e gocce di rugiada umida;
e se tu vuoi, ricorda
e se tu vuoi, dimentica.
Io non vedrò le ombre,
non sentirò la pioggia;
non udirò l’usignolo
cantare come se fosse addolorato:
e sognando durante il il crepuscolo
che nè sorge nè tramonta,
per caso possa ricordare
e per caso possa dimenticare.

When I am dead, my dearest

When I am dead, my dearest,
Sing no sad songs for me:
Plant thou no roses at my head,
Nor shady cypress tree:
Be the green grass above me
With showers and dewdrops wet;
And if thou wilt, remember,
And if thou wilt, forget.
I shall not see the shadows,
I shall not feel the rain;
I shall not hear the nightingale
Sing on, as if in pain;
And dreaming through the twilight
That doth not rise nor set,
Haply I may remember,
And haply may forget.


Ricordami 

Tu ricordami quando sarò andata
lontano, nella terra del silenzio,
né più per mano mi potrai tenere,
né io potrò il saluto ricambiare.

Ricordami anche quando non potrai
giorno per giorno dirmi dei tuoi sogni:
ricorda e basta, perché a me, lo sai,
non giungerà parola né preghiera.

Pure se un po’ dovessi tu scordarmi
e dopo ricordare, non dolerti:
perché se tenebra e rovina lasciano
tracce dei miei pensieri del passato,
meglio per te sorridere e scordare
che dal ricordo essere tormentato.


Remember me

Remember me when I am gone away,
Gone far away into the silent land;
When you can no more hold me by the hand,
Nor I half turn to go yet turning stay.

Remember me when no more day by day
You tell me of our future that you plann’d:
Only remember me; you understand
It will be late to counsel then or pray.

Yet if you should forget me for a while
And afterwards remember, do not grieve:
For if the darkness and corruption leave

A vestige of the thoughts that once I had,
Better by far you should forget and smile
Than that you should remember and be sad.


Chi ha visto il vento?

Chi ha visto il vento?
né io né te;
ma quando le foglie tremano
è il vento che le attraversa

Chi ha visto il vento?
né tu né io;
ma quando gli alberi piegano la testa
è il vento che passa.

 

Who Has Seen the Wind?


Who has seen the wind?
Neither I nor you:
But when the leaves hang trembling,
The wind is passing through.

Who has seen the wind?
Neither you nor I:
But when the trees bow down their heads,
The wind is passing by.

Christina e Dante Gabriel Rossetti - poetessa l’una, poeta-pittore l’altro, fratelli amorosi, animatori della brotherhood preraffaellita, animati entrambi da una tensione alla semplicità ed alla naturalezza, con lo sguardo sempre rivolto alla natura (con la stessa autonomia che presumevano avesse caratterizzato gli artisti prima dell’ingombrante esempio di Raffaello). 

Nelle tele di Dante Gabriele, spesso è rappresentata Christina: pure madonne dell’amor sacro e profano, sensuali e caste vergini misteriose – tutto denso d’amore preraffaellita, melanconico ed antico, segnato da un’inesorabile lontananza nel tempo e nello spazio, lontano come dama medievale cinta di capelli, amore per una donna inesistente e purificata, pura come Dio stesso. Fu proprio la ricerca di purezza a costruire intorno ai “fratelli prerafaelliti” un giardino splendido ma limitante, non reale immersione nel mondo naturale ricco di irrisolte contraddizioni, ma nell’atemporalità’, nella la staticità del bello. Questo il pesante fardello per un artista in fuga nel mondo, il prezzo della pura ed inattaccata bellezza. Una concezione artistica che sfocerà più tardi nell’estetismo e nel decadentismo.

Il mondo poetico di Christina è profondamente diverso: la Natura è l’Altro da sé, un testo impervio da decifrare, “luogo consacrato che potrebbe divenire paradiso se solo sapessimo vedere”, misterioso specchio di Dio e costellazione ardua di simboli (la rosa, il ruscello, muschio, papavero e giglio, il rivo ombroso del fiume) in cui l’uomo si muove solitario e impotente. Un mondo così ricco non richiede la fuga ma l’ascolto. L’amore è destinato al fallimento e non vi è contemplazione estatica che lo salvi (“L’amore, forte come la morte, è morto”), brocca di solitudine e di rinuncia, cammino verso la propria personalissima ascesi. L’unica destinazione certa rimane la Morte che, placando ogni vanità ed effimero giudizio, può ricucire lo strappo, l’arco teso fra i due spazi. Dio ed il mondo che è di Dio l’oscura manifestazione: morte pallida, bianco riposo e sollievo per un cuore bramoso di pace. Unico rapporto possibile rimane dunque il rapporto con Dio padre fedele, rapporto non semplice se, nella visione di Christina, anche il cielo infine si rivela lontano. A nulla serve l’ascolto del vento e del mare, dal momento che “è vano tutto ciò che sorge e tramonta”:

Assediato da ciò che pare ad un orecchio impotente il profondo silenzio universale, il corpo, divenuto prigione a se stesso, dotato di ben scarse possibilità di comprensione, attonito di fronte al canto degli uccelli, ricco di fronte al mutare delle stagioni, si affida all’abbraccio della speranza, del Dio non veduto che vede. E dopo la lunga strenua agonia del passaggio terreno, dopo il pellegrinaggio dell’insipiente corpo sulle strade del mondo naturale, contraddittorio e spesso indecifrabile, l’abbraccio della luce ignota ed attesa: il riposo.

Da Elena Varvello  (poetessa e scrittrice)



**********************************************************