4 lezioni di cultura teatrale



 
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IL TEATRO COME GENERE LETTERARIO


Secondo Giorgio Strehler - grande regista teatrale contemporaneo - “il teatro è la parabola dell’esistenza”.

L’uomo è forse l’unico animale che conosce la dimensione del tempo.  Sospeso sull’esile filo del presente, egli sa distinguere bene l’esperienza di ciò che non c’è più (passato) dall’immaginazione di ciò che ancora deve venire (futuro).  Stupito e sconcertato dall’incalzare del tempo, consapevole della sua precarietà e tormentato dalla consapevolezza di dover morire, egli cerca ogni giorno la sopravvivenza. La cerca nella generazione dei figli, nella costruzione di una significativa identità sociale, nel lavoro e nel prodotto del suo lavoro. La cerca anche raccontando se stesso mediante il linguaggio: narrare è donarsi per sopravvivere; una sfida alla spietata fuga dei giorni nell’incanto delle parole che cristallizzano il ricordo (passato) e il sogno (futuro) in un presente illusorio che ha tuttavia il potere di vivificarsi nell’atto in cui viene trasmesso e accolto.

Le narrazioni non sono allora che ‘lettere’ spedite dall’uomo all’uomo, messaggi di vita, testimonianze d’amore. La letteratura è l’insieme di tutte le ‘lettere’ che raccontano l’umana esistenza.

Ma questo ‘animale narrativo’ che è l’uomo, che cosa sente bisogno di raccontare ai suoi simili?  Quel che vive o ha vissuto, che desidererebbe o ha paura di vivere; cioè i suoi sentimenti, le sue storie, il mondo dei suoi rapporti con gli altri.

Quando l’intenzione narrativa si fa ‘lettera’,  il racconto prende la forma di ‘genere letterario’: il racconto dei propri sentimenti, dei misteriosi sospiri dell’anima, delle estasi e degli struggimenti che costellano il cielo degli uomini, diventa poesia, ossia musica di parole;  il racconto di eventi vissuti nel vero o nel sogno diventa storia o romanzo; il racconto della trama dei rapporti umani, paradiso e inferno dell’esistenza, diventa teatro.

Il teatro è certamente finzione. Ma è la più reale delle finzioni se  – come sosteneva Pirandello – “il teatro è la vita”. Nella commedia o nella tragedia, gli uomini che si agitano sulla scena non sono fantastiche macchiette senz’anima, ma immagini speculari di uomini veri, di esistenze realmente presenti nella storia e vivi nel cuore di ognuno di noi.

Ecco dunque perché “Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro” (Eduardo).


 IL TEATRO COME RAPPRESENTAZIONE

Il ‘teatro’  è   visione’, ‘spettacolo’, ‘rappresentazione’  di ciò che gli uomini sentono, di ciò che immaginano, di ciò che temono, che sognano e che amano. Il teatro è espressione della vita umana.

La rappresentazione teatrale nasce da un’idea, dal sogno di un autore.

L’autore ne tesse la trama, abbozzando un canovaccio o scrivendone il soggetto.

Il soggetto teatrale è l’autore stesso e la sua storia, da lui descritta in forma drammatica.

I personaggi sono gli elementi essenziali del soggetto teatrale. Non hanno vita autonoma o altro significato, se non quello che la storia drammatica racconta e rappresenta.

La rappresentazione teatrale realizza un particolare rapporto interpersonale: quello tra l’artista-autore e gli spettatori.

In quanto primo destinatario del messaggio dell’autore, lo spettatore può considerarsi il ‘personaggio’ principale dell’azione teatrale. Egli è chiamato a dialogare con l’autore prendendo parte ad un ‘gioco dell’immaginario’, che coinvolge la sua fantasia, i suoi sentimenti e le sue emozioni, il suo mondo intellettuale.

In nome e per conto dell’autore, il ‘regista’ è l’interprete dell’opera teatrale. Egli sceglie gli attori più idonei a rappresentare i singoli personaggi e cura in tutti i dettagli la situazione scenica che più risponda alla  sua ri-creazione dell’idea dell’autore.

Gli attori (players, in inglese) sono gli elementi-chiave del gioco teatrale. La loro ‘intelligenza del testo’, la loro sensibilità, le tecniche espressive possedute, renderanno possibile la magia dell’esperienza viva del teatro. 

L’attore è uno strumento docile ed umile nelle mani del regista; le sue  capacità istrioniche gli permetteranno di dar vita ai personaggi immaginati nell’opera. Saranno gli stessi attori a trasformarsi in quei personaggi. E in essi lo spettatore vedrà, come in uno specchio, il riflesso della propria anima, e perfino le profondità più nascoste del proprio inconscio.

Nel dramma di E. Scribe e E. Legouvé (ridotto da A. Colautti per le musiche di F. Cilea), così descriveva il suo ruolo di attrice Adriana Lecouvreur, celebre interprete della comédie francaise del 700:
Io son l'umile ancella del Genio creator :
ei  m'offre la favella, io la diffondo ai cor...
Del verso io son l'accento, l'eco del dramma uman,
il fragile strumento vassallo della man…
Mite, gioconda, atroce, mi chiamo Fedeltà :
un soffio è la mia voce, che al novo dì morrà.

Lo staff dei tecnici rappresenta inoltre il motore della macchina teatrale. Senza un perfetto sincronismo di tutte le componenti, il meccanismo di una performance teatrale tende inevitabilmente ad incepparsi e a scivolare nella caricatura.Perciò dal direttore di scena al buttafuori, dal costumista al trovarobe, dallo scenografo al macchinista, dal tecnico delle luci al tecnico del suono, dal truccatore all’acconciatore, dal rammentatore al gobbista, ogni ruolo è fondamentale per un buon allestimento teatrale.



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IL  VOLTO  E  LA  MASCHERA


Se si intende per temperamentola struttura genetica di base di un individuo e linsieme delle disposizioni comportamentali presenti in lui sin dalla nascita, le cui caratteristiche definiscono le differenze nella sua risposta all’ambiente’, e per carattere ‘la particolare struttura comportamentale modellata fin dalla nascita sull'apprendimento di intuizioni, concetti e risposte agli stimoli ambientali nell’abitudine a cogliere le relazioni tra gli eventi riorganizzando mentalmente le percezioni e l'esperienza su se stesso, sulle altre persone e sugli oggetti. circostanti’, si può definire personalità un complesso sistema psichico a due dimensioni: temperamento e carattere.

La personalità è quindi una modalità strutturata di pensare, sentire e comportarsi, risultante dall’interazione dell’ambiente sul proprio patrimonio genetico e culturale, ed è pertanto modificabile perché costruita mediante l’esperienza e l’adattamento tra i propri bisogni/desideri e la realtà esterna.
Possiamo allora considerare il ‘volto’ di un individuo come la sua peculiare soggettività, unica e irripetibile, capace di scelte autonome nell’universo delle sue conoscenze e dei suoi valori. Il volto corrisponde alla sua  reale personalità.
Il termine persona indicava, nel teatro latino, la maschera utilizzata dagli attori teatrali, che serviva a nascondere il volto dell’attore, dandogli le sembianze del personaggio che interpretava, ma anche a permettere alla sua voce - incanalandosi nell’imbuto della bocca della maschera stessa - di ottenere una certa amplificazione e di andare sufficientemente lontano per essere ben udita dagli spettatori. 
Nel linguaggio quotidiano spesso la metafora della maschera viene usata come segno d'inganno e d'imbroglio. Il termine ‘maschera’ indicherebbe così un ruolo assunto artificiosamente dall'individuo, un atteggiamento non autentico; un comportamento assunto in un determinato momento, spesso sotto la pressione delle convenzioni sociali.

La maschera diventerebbe così uno strumento di difesa, di fuga, di falsità. Nell'espressione "mettere la maschera", la frase sottolinea che ciò che appare è falso, mentre dietro la maschera si trova la verità, la realtà, il volto autentico della persona.

Il mondo del teatro, a cui si fa riferimento nella metafora, è considerato spesso il regno della finzione e dell'inganno: ma solo il cattivo teatro finge, il vero teatro non è né vero né falso, ma è creazione di realtà, di senso. Si può dire che il teatro è la vita stessa, sia pure in forma concentrata, compressa nel tempo e nello spazio. Per questo la scena non è il luogo dell'inganno, ma il luogo della rappresentazione. Il palcoscenico teatrale non è lo spazio in cui si finge, ma lo spazio in cui è possibile creare un significato alle azioni. 

La persona è dunque metafora del volto, cioè rappresentazione della propria identità agli altri, strumento-cardine del gioco delle relazioni sociali. La persona (questa specie di divisa che ci caratterizza) ci consente di essere conosciuti e ri-conosciuti, nonostante il turbinio delle mutazioni del tempo, delle esperienze della vita, dei venti delle emozioni.

Nel teatro – come nella realtà – si attiva dunque un vero ‘gioco delle parti’, un ‘ballo in maschera’ in cui tutti mostrano agli altri ciò che vogliono rappresentare di sé, al di là del volto e dell’essere profondo di ciascuno.

Interessante, a questo proposito, la riflessione del personaggio pirandelliano protagonista del romanzo “Uno nessuno e centomila”:  ... Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.”.

L’attore-interprete che indossa la maschera di un personaggio, non cambia volto, non abdica - neppure temporaneamente - alla signoria sulla propria persona, alla gestione di tutti quei delicati equilibri emozionali, intellettivi e relazionali che ha appreso nel corso della vita:  egli deve essere ben consapevole che sta soltanto interpretando un ruolo (role playing), sta rivestendo un personaggio per simulare una persona diversa da sé. 

L’attore-interprete non deve mai confondere il proprio volto con il volto del personaggio che interpreta, tanto meno quando il volto di questo personaggio dovesse apparirgli assai simile al suo.

L’attore-interprete deve riuscire ad entrare nella psicologia del personaggio interpretato, saperne cogliere i tratti e le sfumature più sottili, imitarli con il massimo realismo, per poter trasmettere al pubblico spettatore la ‘verità’ di quel personaggio, senza che lo spettatore avverta la doppia presenza dell’interprete e del personaggio.

 “Character is action, action is character”: l’elemento fondamentale e più urgente per la costruzione di un personaggio risulta essere l’azione: movimento del corpo, parole. 

La costruzione di un personaggio, da parte dell’attore-interprete, può avvenire in diversi modi:
uno strumento utile può rivelarsi lo stendere una biografia del personaggio e del suo mondo. L’attore deve cercare inoltre di sapere del proprio personaggio più di quanto la pièce non dica: entrare nei panni del personaggio denota il preciso significato di ogni azione positiva o passiva, di qualsiasi comportamento, di qualsivoglia resistenza. I personaggi, infatti, vanno caratterizzati, vanno costruiti a tutto tondo, vanno scolpiti sottolineando anche i punti deboli, le insicurezze, le incapacità.

Come aveva schematizzato Aristotele duemilacinquecento anni orsono nella Poetica, il teatro è costituito da sei elementi: i caratteri o personaggi, l’intreccio, il linguaggio, il pensiero o idee, la musica, lo spettacolo o scena. Il personaggio agisce nello spazio in accordo con tutti questi elementi, ma forgiandosi innanzitutto attraverso il linguaggio, elemento insostituibile in un teatro drammatico.

Un personaggio dovrebbe possedere una propria logica, una propria etica, una propria coerenza, fatta (ammesso che si tratti di una scelta del drammaturgo) anche di scelte contraddittorie, di sbalzi emotivi, di improvvise malinconie. 

Un personaggio è una rete di relazioni con il mondo che lo circonda e di storie che l’hanno coinvolto fino a quel momento. Due o più personaggi, nel loro incontrarsi sulla scena, in questa dimensione prospettica della fantasia, si rivelano a se stessi e al pubblico soltanto attraverso le frizioni e le risonanze che generano. 

“Character is action, action is character”: è nell’azione, nell’agire, nel temprarsi, che il personaggio nasce, vive, e muore.


GLI INTERPRETI

Gli elementi essenziali del teatro, che danno vita alla macchina teatrale, sono: lo spazio teatrale, la fabula, gli interpreti.

Lo spazio teatrale è rappresentato dallo spazio fisico, dal luogo della rappresentazione. Esso può identificarsi con un teatro o una qualsiasi altra struttura adatta a ospitare una rappresentazione (nel caso del teatro di strada, al contrario, sono attori e pubblico ad adattarsi ad una struttura destinata ad altri scopi).

All'interno dello spazio teatrale può essere delimitato lo spazio scenico, ovvero il perimetro della rappresentazione vera e propria, affidata agli attori (oggi il palcoscenico).

Lo spazio rappresentato, inesistente fino a un momento prima dell'inizio della rappresentazione, è il luogo mentale che viene evocato, grazie all'immaginazione dello spettatore e alla maestria dell'artista che ne crea i confini, con la possibilità, durante la performance, di variarne continuamente le dimensioni e la forma.

Il termine Teatro, presso i Greci, indicava il luogo destinato agli spettacoli pubblici. Si trattò, da principio, del fianco concavo di una collina su cui venivano ricavati gradini erbosi, poi di pietra o di marmo (la càvea per gli spettatori) con uno spiazzo in basso, rotondo o semicircolare, l'orchestra, dove sorgeva l'altare di Dioniso e dove agiva il Coro; dietro l'orchestra era un palco (la scena) che limitava l'anfiteatro di fronte alla càvea e dove agivano gli attori.

La fabula è costituita dalla storia raccontata nell’opera teatrale e dall’intreccio delle azioni sceniche. Essa è concepita da un Autore come testo redatto in forma drammatica, ovvero disposta per sommi capi in un canovaccio destinato (come nella commedia dell’arte) ad essere sviluppato in azione scenica dall’improvvisazione creativa degli attori. Il copione è il testo – o il canovaccio – contenente tutti gli elementi descrittivi dell’interpretazione del regista (didascalie sulla recitazione e i movimenti scenici, indicazioni sulla scenografia, annotazioni riguardanti le luci e il commento musicale, ecc.)

Agli interpreti spetta il compito di realizzare l’idea dell’Autore e di trasmetterla allo spettatore.  I ruoli attinenti all’interpretazione di un testo teatrale sono svolti dal regista, primo referente del pensiero dell’Autore e coordinatore della sua traduzione scenica, e dagli attori chiamati ad evocare, rendendoli verosimili, i personaggi della fabula.

Affinché gli attori risultino pienamente rispondenti ai personaggi interpretati, essi dovranno possedere una struttura fisica coerente al ruolo specifico (physique du role), con particolare riguardo al volto, agli occhi e alla mimica facciale; agire una vocalità (vox) i cui colori tonali diano il giusto risalto alla psicologia del personaggio; articolare i movimenti del corpo, la gestualità e le posture (motus) in modo da rendere costantemente equilibrato il quadro scenico e viva la rappresentazione.


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LA FABULA E L’IMMAGINARIO


“Nulla si sa. Tutto si immagina”. La massima dello scrittore portoghese Ferdinando Pessoa, (in Odi di Ricardo Reis) ripresa da Fellini come cifra caratterizzante del suo cinema, ci riporta ad una concezione pirandelliana del teatro, peraltro influenzata dalle teorie psicoanalitiche in voga nella cultura europea di fine Ottocento.

Consideriamo l’ “Immaginario” come il luogo mentale di tutte le nostre rappresentazioni, cioè la zona del cervello preposta a ricevere tutte le informazioni del mondo circostante che ci arrivano attraverso i sensi, a catalogarle in insiemi significativi, e a rielaborarle in modo che ci siano utili ed efficaci per un miglior adattamento del nostro organismo all’ambiente. Allora quella che chiamiamo “realtà” non è altro che il riflesso in noi di quello che i nostri sensi ci comunicano, e che passa al vaglio di ciò che già conosciamo (cosa che ce lo rende riconoscibile), delle nostre emozioni, delle nostre aspettative, dei nostri timori (cosa che ce lo rende accettabile o inaccettabile).

Ciascun individuo, nei meccanismi di organizzazione della sua mente, costruisce (nel senso che ri-costruisce) la realtà esterna sulla propria misura. L’immaginario (quello che gli antichi filosofi chiamavano fantasia) è il luogo mentale di questa costruzione/ri-costruzione.

In quello che lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung chiamava l’“immaginario collettivo” confluiscono i contenuti comuni a tutta la specie umana, gli archétipi della conoscenza. La madre, il sole, la trascendenza, l’horror vacui, la verità, il bene e il male, l’amore … sono i fantasmi primordiali che riconosciamo e in cui ci riconosciamo.

Quando si dice che la verità (ma sarebbe più corretto dire la conoscenza) è relativa, si intende che essa deve essere considerata in relazione al soggetto conoscente e al suo peculiare modo di elaborarla nel proprio immaginario. Il confronto progressivo con l’immaginario collettivo, ossia con il modo di vedere dei propri simili - confronto che dura tutta la vita -, costituisce il termine di paragone e la prova di realtà validanti i contenuti dell’immaginario. In tal senso si dice che la verità (o meglio la conoscenza) è – più che relativa – relazionale.

E’ chiaro, a questo punto, che non esistono due persone che abbiano un’identica percezione della medesima realtà: perché non esistono due persone che riflettano la realtà nel proprio immaginario con gli stessi modelli di costruzione/ri-costruzione dei dati dell’esperienza.

Sulla base di questa elementare osservazione è possibile comprendere la straordinaria varietà dei punti di vista dei vari individui e dei gruppi umani, la differenziazione delle lingue e delle culture, le dialettiche storiche e le diversificazioni delle forme di pensiero, ma anche i conflitti tra le singole persone, le guerre tra i popoli, e i flussi imprevedibili delle vicende umane.

Caratteristiche, a tal proposito, appaiono le dinamiche dell’innamoramento e della relazione amorosa. Ci si innamora perché si intravede nell’altro un’immagine che ci somiglia abbastanza (tanto da rassicurarci e non suscitare in noi la paura dell’estraneità), ma che nello stesso tempo è portatrice di quegli elementi di diversità e di novità che ci entusiasmano ed esaltano (perché vorremmo averli anche noi). Conquistare l’altro significa dunque proiettare la sua immagine nella nostra mente, ricostruirla “a nostra immagine e somiglianza” e collocarla in una dimensione relazionale perfettamente simmetrica a scambio osmotico permanente.
Dal momento che l’interesse sessuale e/o affettivo tende spesso a creare una navetta di reciprocità nella psicologia del preludio amoroso, ciascuno, credendo di poter conquistare l’altro e di catturarlo definitivamente nel proprio immaginario, è addirittura disponibile a offrire in cambio il proprio essere senza alcuna riserva. Molte volte c’è una grande sincerità in queste totali  dedizioni, tant’è vero che nelle loro dichiarazioni gli innamorati ricorrono ad una terminologia e a proclami assai impegnativi, come “per sempre”, “mai”, e “per tutta la vita” che sembrano scardinare i confini del tempo e aleggiare negli spazi della storia sul piccolo tappeto volante della passione d’amore.

Il risveglio spesso è deludente. Quando ci si accorge che l’altro non è una costruzione del mio immaginario, ma appena un compagno di viaggio elettivo, che porta nel suo bagaglio le mie stesse fragilità, le mie stesse piccole cose buone, le mie stesse ansie e le mie stesse paure, allora si aprono due vie: il rimpianto per ciò che avremmo voluto realizzare e non realizzeremo mai,  oppure la volontà d’amore che comincia col dono di sé, libero e incondizionato, con un grande investimento di fiducia e di speranza.

Il teatro è il luogo più idoneo alle rappresentazioni dell’immaginario. L’autore, concepito il dramma nella sua mente (ed eventualmente trasferitolo sulla carta in forma di fabula letteraria) lo proietta su uno spazio scenico, dove un gruppo di attori dà vita a quel dramma in un gioco di finzione che tende a restituire dimensioni di realtà a quanto di reale è esistito nell’immaginario dell’autore.

La rappresentazione teatrale dunque, se per un verso è gioco di finzione, per un altro è riproduzione della realtà ad altissima verosimiglianza, in quanto l’azione scenica interpretata da esseri umani fornisce allo spettatore l’immediata possibilità di entrare empaticamente nell’atmosfera suggerita dalla fabula e di identificarsi con i personaggi che agiscono nel dramma.

In questo senso, come diceva Charlie Chaplin, “La vita è un'opera di teatro”, in quanto rappresentazione reale e paradigma dell’esperienza relazionale di ogni uomo – e quindi del suo peculiare modo di intendere e di vivere la realtà -  con tutta la complessità, la drammaticità e le contraddizioni del quotidiano individuale. Per questo gli antichi consideravano il teatro “catartico”, cioè, in qualche modo, purificatorio. Partecipare (e non solo assistere) all’azione scenica avrebbe indotto lo spettatore a rivivere, in un contesto amotivo-analogico, le rappresentazioni mentali della realtà (quelle vere e quelle immaginate), a riflettere sulle cause, gli effetti e la finalità ultima delle proprie scelte.

Aristotele, nella Poetica, usa il termine “catarsi” parlando della tragedia, per spiegare l’effetto di purificazione dell’animo che lo spettatore esperisce assistendo alla rappresentazione. La tragedia rappresenta (imitandoli sulla scena) fatti gravi, luttuosi, suscitando forti emozioni, come il terrore e la pietà. 

"La "catarsi" è riaffiorata a fine 800, agli albori della ricerca psicoanalitica. Nel metodo catartico proposto da Freud, la rappresentazione del fatto penoso rimosso dalla coscienza (e quindi dimenticato) tende a coincidere con l’evocazione e quindi con la presenza del fatto penoso stesso, allo scopo di scongiurarlo. Il metodo catartico assume così l’aspetto di una riproposizione dell’evento e di una sua esorcizzazione attraverso la rappresentazione. Freud si rese conto tuttavia che ciò che agiva positivamente nel metodo catartico non era semplicemente la possibilità di rappresentare il fatto penoso obliato, bensì il rivivere il ricordo nell’ambito di una relazione affettiva di transfert che, in quanto comporta affetti, implica una mescolanza di energia e di significazione. Per Freud l’amore stesso è riconducibile a un processo di transfert, e il transfert contiene la situazione teatrica, nel senso che l’affetto per una persona trasforma la persona amata in qualcosa che sta al posto di un personaggio del mondo delle proprie rappresentazioni interiori.

Il concetto di transfert mette in crisi il concetto aristotelico della catarsi, come semplice processo curativo che libera dal male attraverso una purificazione realizzata per mezzo della espulsione di qualcosa di cattivo. Infatti non si tratta di esorcizzare il male attraverso una serie di rappresentazioni-mimesi come è nel teatro greco o nella sacra rappresentazione medioevale: la catarsi costituisce un processo attivo di costruzione di senso. Attraverso la rappresentazione teatrale, per esempio, lo spettatore comprende, stemperandone l’effetto emotivo immediato, gli aspetti profondi della sua realtà psicologica ed esistenziale. Contemplare dall’alto, vedere da una certa distanza le passioni negative può contribuire infatti alla ri-costruzione del loro significato profondo.

Come sottolinea Robert J. Landy, la catarsi teatrale non è uno sfogo di forti sentimenti, uno sgorgare di lacrime o un parossismo di risate e abbracci. Spesso è una reazione discreta, un silenzioso momento di riconoscimento: "la catarsi implica l'abilità a riconoscere le contraddizioni, a vedere come aspetti conflittuali della vita psichica o della vita sociale, del pensiero, del linguaggio o del sentimento possano esistere simultaneamente".

La catarsi può essere intesa dunque come il riconoscimento di un paradosso psicologico, la comprensione profonda di un conflitto che genera tensione e disagio.


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 STILE  E  STILEMI

La “fabula teatrale” che l’Autore ha concepito nel suo immaginario, e quindi tradotto in forma drammatica, affinché si trasferisca dall’immaginario dell’Autore a quello dello spettatore, ha bisogno di essere interpretata.

Si può discutere se il migliore interprete sia o no l’Autore medesimo. C’è chi ovviamente lo sostiene. Altri invece pensano che l’interprete ideale sia proprio il destinatario del messaggio drammatico, cioè il non-autore che, come potenziale interlocutore dell’Autore, ha il compito e il diritto di decodificare in quel che gli perviene tutti i significati che la comunicazione porta con sé sia alla fonte (nell’intendimento del suo emittente), sia quelli raccolti nel passaggio dall’immaginario dell’Autore all’immaginario dello spettatore-destinatario. Significati suscettibili di forti trasformazioni, per lo più lontane dalla consapevolezza dello stesso Autore.

Il Regista (non-autore) esercita la funzione di primo interprete dell’opera teatrale immaginata e scritta dall’Autore.  Egli la ri-costruisce attualizzandola in forma scenica.

Il Regista leggerà l’opera di un Autore in una prospettiva panottica, ridisegnando in una veduta d’insieme la fabula e il dramma, integrati da tutti i dettagli, gli accorgimenti, le raffinatezze che meglio ne esprimono il potenziale emotivo e il senso.

Lo stile del Regista rappresenta la ‘colonna portante’ di un’opera teatrale portata sulla scena. Ogni elemento della macchina teatrale (le luci, i costumi, le scenografie, le musiche, la mimica, i movimenti, le posture, il trucco, i modi di recitare degli attori, …) devono convergere rigorosamente sullo stile della regìa. La disattenzione a questa norma fondamentale comporterebbe una profonda lacerazione nell’unità realizzativa dell’opera e, inevitabilmente, ne comprometterebbe i risultati.
 
Lo stile caratterizza dunque sia la regìa (nella persona del regista, che perciò assume la piena responsabilità dell’interpretazione dell’opera), sia la macchina teatrale nel suo complesso, ed in particolare la compagnia degli attori.

Lo stile registico si manifesta in un ampio ventaglio di elementi stilistici (stilémi) che contribuiscono alla costruzione e alla proposta al pubblico dello spettacolo teatrale come prodotto finito di un complesso lavoro d’équipe.

Un importante stiléma teatrale è la recitazione degli attori che – lungi dall’essere lasciata all’improvvisazione sia pur geniale o alla perizia scenica dei singoli recitanti – dovrà rispecchiare fedelmente il modello interpretativo del regista e il suo specifico stile narrativo.



I PRELIMINARI DELLA RECITAZIONE


L’attore-interprete che si accinge a disegnare con la sua presenza fisica, con le sue parole, con i suoi gesti, la rappresentazione scenica della fabula teatrale, deve preliminarmente ottemperare ai seguenti obblighi ‘di mestiere’, che costituiscono le condizioni di base perché egli possa avventurarsi nel gioco del teatro:

1.  Deve innanzitutto acquisire una chiara consapevolezza della fabula, ossia del testo proposto dall’Autore; deve cioè conoscere il contesto culturale in cui l’opera è nata, il mondo poetico e gli intendimenti dell’Autore, nonché i significati che al testo sono stati attribuiti nel corso del tempo.

2.   Deve poi saper padroneggiare il testo specifico, il “pezzo” che è chiamato ad interpretare, battuta per battuta, in modo che il suo disegno recitativo sia costruito in perfetta aderenza all’opera dell’Autore e alla mediazione del regista, primo interprete dell’opera stessa.

3.   Perché l’attore possa di fatto padroneggiare il testo sulla scena, è assolutamente necessario che egli lo abbia perfettamente memorizzato. Non c’è alcuna reale possibilità di produrre una qualsiasi forma di recitazione credibile se l’attore, al momento dell’incontro con lo spettatore, appare incerto, come distratto dal tentativo di ricerca del pensiero e delle parole che deve dire.

Chi vuole recitare non può prescindere da una ottima memorizzazione delle sequenze di parole. Da decenni, come è noto, nelle scuole si è persa quasi del tutto l’abitudine di far imparare a memoria le poesie: sia la non dimestichezza, che la diffusa mancanza di questo genere di esercizio può rendere ardua la memorizzazione delle battute ed influire negativamente su una significativa presenza della memoria linguistica negli attori di oggi. Appare assolutamente necessaria invece, anche per l’attore non professionista, una buona memoria linguistica unita alla capacità di sincronizzare le parole alle azioni (dato che la maggior parte delle opere teatrali richiede movimento). La memoria, com’è noto, si può esercitare ed esistono manuali che illustrano come potenziare le capacità di memorizzazione.

4.   Interiorizzato il testo e memorizzata la parte, l’attore che va in scena deve estraniarsi dal contesto e dallo spazio teatrali. Sulla scena infatti egli è solo (eventualmente con i players, i suoi compagni di scena): lui e la sua ‘parte’, che dovranno essere un tutt’uno. E’ il momento magico e terribile in cui il regista scompare, scompaiono i tecnici e il direttore di scena, scompare il rammentatore, e scompare anche il pubblico. Le luci lo isoleranno dagli spettatori, immergendolo in un’atmosfera surreale, in uno spazio piccolissimo e infinito a un tempo: quello dell’azione scenica creata dal regista. In questa specie di ovattata solitudine l’attore e la sua maschera daranno vita teatrale al personaggio che interpretano.


GLI STILEMI ATTORIALI:  LA VOCALITA’

La vocalità è uno degli stilemi principali dell’arte espressiva tipica di un attore. I suoni verbali o non verbali emessi con la voce disegnano i tratti della parte che gli è stata affidata. Insieme ad altri elementi ad alta valenza sensoriale (come il gesto, i movimenti scenici, i costumi, il trucco, i suoni e gli effetti sonori, le musiche e i giochi di luce), la voce dell’attore, con le sue innumerevoli potenzialità di espressione e di sfumature, rende viva la fabula teatrale fino a farla giungere allo spettatore.

I suoni e le parole disegnati dalla voce dell’attore volano nello spazio neutro del silenzio scenico per posarsi, con la densità dei loro significati, sulla tela bianca in cui il Regista dipinge la fabula sognata dall’Autore.

La voce è dunque segno, sfumatura, colore, senso.

Come i colori e i pennelli del pittore, va usata con grande attenzione e con sapiente misura, se si vogliono ottenere gli effetti desiderati. Imparare ad usare la propria vocalità è il primo degli apprendimenti dell’aspirante attore. L’educazione della voce e la dizione delle parole non sono un cammino facile: occorrono buone guide ed un esercizio continuo, più o meno come per quelli che si propongono di suonare uno strumento musicale.

In un ‘Laboratorio della vocalità’ (uno dei fondamentali dell’arte drammatica), gli attori tenderanno ad acquisire le conoscenze necessarie e le abilità per il controllo dello strumento vocale,  mediante un programma di esercitazioni sistematiche sui seguenti ambiti:

-            Respirazione
-            Controllo dell’emissione vocale (tono e volume del suono)
-            Ortoepìa (dizione e corretta pronuncia delle parole)
-            Organizzazione sequenziale della battuta
-            I ritmi espressivi (i suoni e le pause)
-            I timbri vocali (il colore e le sue trasformazioni)