Puccini
e il femminicidio melodrammatico
GIACOMO PUCCINI
Giacomo Puccini nasce a Lucca il 22 dicembre 1858 da una
famiglia di musicisti da cinque generazioni.
Fin da piccolo dimostra di possedere un grande talento
musicale, anche se non dimostra di essere propriamente un ragazzo prodigio.
Indolente e poco incline allo studio, i professori lamentavano la sua pigrizia.
Riesce comunque ad ottenere una borsa di studio per il Conservatorio di Milano;
tuttavia la madre, desiderosa di continuare le tradizioni familiari, lo manda a
studiare presso l'istituto musicale di Lucca.
L'ascolto dell'Aida di Verdi a Pisa, dove il diciottenne Puccini si recò l'11
marzo 1876 a piedi da Lucca fu
per lui "l'aprirsi di una finestra sul mondo della musica".
Stimolato dall'Aida, Puccini rivolge il suo interesse alle tradizioni
operistiche italiane.
Con l'aiuto finanziario dei familiari e grazie ad una borsa
di studio della Regina Margherita, si iscrive al Conservatorio di Milano, dove
dal 1880 al 1883 studia con Amilcare Ponchielli. Quest'ultimo presenta il
giovane compositore allo scrittore Ferdinando Fontana il quale si occupa di
scrivere il libretto per la prima opera di Puccini: "Le Villi". Presentata ad un concorso, l'opera non riesce a
vincere il premio, ma si guadagna il favore del pubblico quando viene
rappresentata a Milano nel 1884.
Questo successo induce l'editore Ricordi a commissionare a
Puccini una nuova opera, che il compositore scrive cinque anni dopo chiamandola
"Edgar"; non avrà però
particolare successo.
Sarà con "Manon
Lescaut" del 1893 e la "Bohéme"
del 1896, rispettivamente terza e quarta opera di Puccini, entrambe
rappresentate per la prima volta a Torino, che troverà fama e fortuna.
Le due opere successive, "Tosca" del 1900 e "Madama
Butterfly" del 1904, vengono accolte con minore entusiasmo alla prima
esecuzione. I critici che avevano condannato la Tosca vengono però in seguito
smentiti dal pubblico; così, dopo la revisione nelle settimane successive alla
prima alla Scala, anche Madama Butterfly ottiene un grande successo.
Giacomo Puccini sposa nel 1904 Elvira Gemignani, la quale
era fuggita da Lucca e dalla sua famiglia per stare con lui; si sarebbe
rivelata però una scelta infelice. Elvira ossessiona Giacomo con le sue scenate
di gelosia e conduce al suicidio una giovinetta, Doria Manfredi, che era venuta
a fare la cameriera in casa Puccini a Torre del Lago. Sembra che la moglie di
Puccini esasperò la cameriera a tal punto, accusandola di intendersela col
marito, che la poveretta si tolse la vita. Tutte queste vicende tolgono la
necessaria serenità al maestro, che vive momenti assai tristi e di grave
depressione.
Elvira Bonturi
La sua fama rimane comunque ben salda, ormai nell'empireo
dei compositori acclamati in tutto il mondo. Con tutte le sue opere fin qui
citate, indimenticabili per qualità melodica, intensità drammatica e preziosismo
sonoro, il compositore arriva ad essere ben presto addirittura indicato come
l'erede di Verdi, anche se forse Puccini non sarà altrettanto innovatore dal
punto di vista musicale e drammatico.
L'opera successiva, "La Fanciulla del West", viene scritta per il Metropolitan di
New York, dove è rappresentata nel 1910 per la prima volta. Seguono "La rondine" del 1917, il "Trittico" del 1918 ed infine
"Turandot", il cui ultimo
atto sarà completato da Franco Alfano dopo la morte di Giacomo Puccini,
avvenuta a Bruxelles il 29 novembre 1924.
La prima di Turandot, diretta da Arturo Toscanini, verrà eseguita alla Scala di Milano nel 1926.
Le doti di Puccini furono soprattutto drammatiche. La sua
intensa e sensibile vena teatrale e le sue opere immortali, ci restituiscono un
teatro ancora modernissimo, anticipatore della sensibilità cinematografica
degli anni successivi.
Inoltre, Puccini possedeva un gusto eccezionale per il
colore timbrico strumentale e un senso melodico molto sviluppato che lo ha reso
unico. Le sue struggenti opere rappresentano per tutto il mondo, al pari di
quelle di Giuseppe Verdi, la tradizione operistica italiana al suo grado più
alto.
Le Opere di Giacomo Puccini
(e le loro prime esecuzioni)
1. Le Villi (31.5.1884 Teatro dal Verme, Milano)
Le Villi [revisione] (26.12.1884 Teatro Regio, Torino)
2. Edgar (21.4.1889 Teatro alla Scala, Milano)
Edgar [revisione] (28.2.1892 Teatro Communale, Ferrara)
3. Manon Lescaut (1.2.1893 Teatro Regio, Torino)
4. La bohème (1.2.1896 Teatro Regio, Torino)
5. Tosca (14.1.1900 Teatro Costanzi, Roma)
6. Madama Butterfly (17.2.1904 Teatro alla Scala, Milano)
Madama Butterfly [I revisione] (28.5.1904 Teatro Grande, Brescia)
Edgar [II revisione] (8.7.1905 Teatro Colón, Buenos Aires)
Madama Butterfly [II revisione] (10.7.1905 Covent Garden, Londra)
Madama Butterfly [III revisione] (28.12.1905 Opéra Comique, Parigi)
7. La fanciulla del West (10.12.1910 Metropolitan Opera, New York)
8. La rondine (27.3.1917 Opéra, Monte Carlo)
Il trittico:
9 - Il tabarro
10 - Suor Angelica
11 - Gianni Schicchi (14.12.1918 Metropolitan Opera, New York)
12 - Turandot (25.4.1926 Teatro alla Scala, Milano)
Le Opere di Giacomo Puccini
(e le loro prime esecuzioni)
1. Le Villi (31.5.1884 Teatro dal Verme, Milano)
Le Villi [revisione] (26.12.1884 Teatro Regio, Torino)
2. Edgar (21.4.1889 Teatro alla Scala, Milano)
Edgar [revisione] (28.2.1892 Teatro Communale, Ferrara)
3. Manon Lescaut (1.2.1893 Teatro Regio, Torino)
4. La bohème (1.2.1896 Teatro Regio, Torino)
5. Tosca (14.1.1900 Teatro Costanzi, Roma)
6. Madama Butterfly (17.2.1904 Teatro alla Scala, Milano)
Madama Butterfly [I revisione] (28.5.1904 Teatro Grande, Brescia)
Edgar [II revisione] (8.7.1905 Teatro Colón, Buenos Aires)
Madama Butterfly [II revisione] (10.7.1905 Covent Garden, Londra)
Madama Butterfly [III revisione] (28.12.1905 Opéra Comique, Parigi)
7. La fanciulla del West (10.12.1910 Metropolitan Opera, New York)
8. La rondine (27.3.1917 Opéra, Monte Carlo)
Il trittico:
9 - Il tabarro
10 - Suor Angelica
11 - Gianni Schicchi (14.12.1918 Metropolitan Opera, New York)
12 - Turandot (25.4.1926 Teatro alla Scala, Milano)
* * *
Giacomo Puccini e le donne
a cura di Augusto Benemeglio
a cura di Augusto Benemeglio
* Le compagnie scapestrate
Pigro e geniale, nevrotico,
strafottente e timido, goliardico e primitivo, amava stare in compagnia e, allo
stesso tempo, sentiva il bisogno della solitudine; era legato in modo quasi
morboso alle brume del suo lago di lucchesia (“gaudio supremo, paradiso, vas spirituale, reggia…abitanti 120, 12
case”), amava le scapestrate compagnie maschili, le scorribande tra i
falaschi, il rompere della quiete di una natura selvaggi, i colpi di fucile, le
imprecazioni e le bestemmie della sua gente - e tuttavia non sognava che di
fuggirsene al più presto, andare a Milano, là dove si poteva far carriera, dove
l’aspettavano la fama e la gloria, la ricchezza e le belle donne. Questo era
Giacomo Puccini.
* Fumatore fanfarone e bugiardo
Sensibile e cinico, estroverso
e angosciato (all’improvvisa e rumorosa allegria, spesso becera, faceva seguito
la malinconia e l’inquietudine, la cupezza), fumatore accanito e lavoratore
fantasioso, ma discontinuo, disposto ad amare e a soffrire con una passione
senza pudori, quasi sempre sopra le regole, come i suoi personaggi, ma
spudoratamente bugiardo, fanfarone e infedele. Questo era Giacomo Puccini.
* Un
‘nevrotico degenerato erotomane’
“E’ stato – scrive Federico
Diotallevi – un grandissimo, immenso musicista, il vero autentico erede di
Verdi, interprete e cantore del melo’ italiano nel mondo, al di fuori dei
patriottismi un po’ forzati di altri operisti coevi, ma anche un sommo
puttaniere, se mai ce ne furono, uno che ogni lasciata è persa, uno che il
sesso ce l’aveva stampato in testa e dal sesso fu dominato interamente per
tutta la sua esistenza. Si raccontano aneddoti boccacceschi su di lui, fin da
quand’era ragazzo e frequentava già, nonostante avesse solo quindici anni, i
bordelli di Lucca. E poi amori ad ogni latitudine, di ogni età, razza,
religione, consumati in treno, negli alberghi, nelle pinete e nei tuguri, sulle
spiagge di Viareggio o nella campagna di Forte dei Marmi, nei camerini
teatrali.
Vicende talora scabrose di cui
si occupò anche la cronaca rosa e nera, come ad esempio la sua relazione con
Corinna, una ragazza torinese di ventun’anni (“Sono – dirà di se stesso, con spietata sincerità – nevrotico, isterico,
linfatico, degenerato, malfattoide, erotico, musico-poetico), o quella ,
drammatica, legata al suicidio della servetta di casa Puccini, Doria Manfredi,
una ragazza diciassettenne, invaghitasi del celebre e ormai attempato musicista
lucchese e perseguitata ossessivamente, crudelmente e ingiustamente, dalla
compagna e convivente di Puccini (che diverrà poi sua moglie), Elvira Bonturi.
Quest’ultima - che era stata moglie di uno dei migliori amici di Giacomo,
Narciso Geminiani, e già madre di due figli, aveva abbandonato il marito e
s’era rifugiata, anni addietro, a Milano, in casa del musicista, suscitando
grande scalpore e scandalo a Lucca, - conosceva assai bene il maestro e il suo
antico “vizietto”. Ma stavolta aveva sbagliato, poiché l’autopsia rivelò che la
ragazza era illibata, e fu costretta a pagare i danni ai familiari
*
Donne e sigarette, una costanza della sua vita
Le donne
contrassegnarono tutta l’esistenza di Puccini, e furono (insieme alle sigarette
che iniziò a fumare a soli dodici anni) una costante nella sua vita, fin da
bambino, quando rimase orfano del padre Michele, a soli cinque anni, con un
fratello più grande e ben cinque sorelle.
Fu allevato in una
famiglia in cui le donne – scrive Pinzauti – dovevano apparirgli inconsciamente
un’ossessione, l’incentivo di precoci curiosità e turbamenti, e quasi un incubo
di dolcezza e di costrizioni. Le donne lo soffocavano d’affetto, d’attenzioni,
ma anche di ansie, di divieti, d’attese e di frustrazioni. In questo vero e
proprio gineceo, con la madre, cinque sorelle e una serie infinita di cugine e
zie, si snoda la breve stagione dell’infanzia di Giacomo, che segnerà il
proprio destino, insieme al pianoforte che suonava (non bene) fin dai
quattordici anni nelle chiese e nei locali pubblici di villeggiature, per
comprarsi le sigarette (già a quindici anni fumava in modo accanito) e –
dicevano le voci – andare nelle case di tolleranza. E poi il mare di Viareggio,
o le brume di Torre del Lago, gli scorci di palude, i deserti autunnali coi
rami secchi che bruciano amari nelle campagne serali, le acacie ubriache di
profumi, in primavera, le vie strette e polverose d’estate.
* Tutti matti i musici Puccini: vino donne e
incenso.
Una città dai confini malcerti
che trascolorava tra la campagna e il mare, un microcosmo toscano di ciechi
organisti matti di vino donne e incenso, tutti matti i musici Puccini, i vivi e
i morti, dirà la madre Albina Magi, per spiegare la propria faticata vita di
vedova perduta in un’eterna veglia, con sessantasette lire al mese di pensione,
sette figli da mantenere e i problemi del quotidiano; e poi la nonna, avara e
inflessibile, la zia “nera”, energica e mascolina , la zia “rossa”,
anacronistica e seducente, e le cinque sorelle, la prima, Ramelde, tagliente e
impietosa, l’ultima, Iginia, che poi si fece monaca , tenera, ingenua come una
bambina, tutta pietà, santini e preghiere. Per un fato che perseguita la
famiglia da generazioni, gli uomini sono morti quasi tutti precocemente (il
padre Michele muore a 51 anni), vittime d’incidenti o dei propri fallimenti, e
l’amore che si riversa sul piccolo Giacomo è a un tempo capriccioso, avvolgente
e rabbioso, frustrante, pieno zeppo di remore e di tabù di natura religiosa,
soprattutto quello della madre.
* Tutte donne le sue eroine, appassionate e
tragiche
Puccini trasferirà,
inconsciamente, il suo senso di colp , nei suoi personaggi femminili, a partire
dalla sua prime opere, nell’Anna
delle Villi e nella Fidelia di Edgar , donne – come avverrà anche in seguito – che pagano con la
morte il loro amore “colpevole”. E anche l’attrazione sessuale , che Puccini
subirà per tutta la sua vita, sarà sempre sentita, più o meno inconsciamente,
come un tradimento della Madre, se non addirittura come un inconfessabile
sentimento incestuoso.
Tutte le sue donne saranno,
come lui, vulnerabili e insicure, malate di solitudine e malinconia, malate
d’amore. Contrariamente a ciò che scrive in certe lettere, in cui appare cinico
e calcolatore artefice dei suoi personaggi teatrali, che sembrano essere
studiati a tavolino, Puccini amò profondamente tutte le “sue” donne , a partire
dalla Manon Lescaut , “donna leggera e impudente , amante infelice,
peccatrice senza malizia “, come la definì lo stesso abate Prevost, porto
accogliente e caldo, tante volte fantasticato dalla sua indole ardente e
sensuale. Una donna, insomma, tutta carne e sesso, di quelle che fanno
impazzire con i loro capricci e la loro imprevedibilità, ma che alla fine
ripagano i loro amanti in una morbida pienezza di sudditanza e di abbandoni,
anche se sono destinate a rimanere “sole,
perdute, abbandonate in lande desolate”, e a maledire la loro bellezza.
Puccini ebbe il merito – scrisse un suo critico – di sentire in sé “una certa
poesia animale”, fatta di intimità e comprensione delle piccole gioie e degli
umili dolori, con una sensualità facile che ha sinceri ritorni di candore
compassionevole.
* Un genio della musica
illetterato
Quella poesia gli veniva dalla
sua terra, Lucca – allora facente parte del Granducato di Toscana – , dove era
nato il 22 dicembre 1858, in una famiglia in cui si respirava musica da quattro
generazioni, (per un secolo e mezzo la dinastia dei Puccini, maestri di
Cappella, organisti, insegnanti, aveva assicurato una continuità alla vita
pubblica musicale lucchese), e pur non mostrando doti musicali particolari e
non fosse neppure il primo dei maschi, era stato designato l’erede dei Puccini.
Non deluse le attese, ma fu solo grazie ai sacrifici e alla determinazione
della madre Albina, che potè completare i suoi studi al conservatorio di Milano
e divenire in capo a pochi anni uno dei più acclamati autori di musica
operistica.
Rispetto ai vari Catalani,
Leoncavallo, Mascagni, Giordano, Puccini aveva un miracoloso istintivo senso
teatrale e grandi capacità di seduzione, in particolare sul pubblico femminile,
sia con armonie e melodie sentimentali, che con il suo fascino personale d’uomo
contraddittorio, dicotomico.
Da un lato “bestia , birbante ,
maschilista , uomo da bettola e da bordello” ,dall’altra signore elegante,
raffinato , amante della modernità e dell’avventura (comprò il “bicicletto”,
diverse vetture, i primi motoscafi, ebbe numerosi incidenti automobilistici);
era quasi illetterato (componeva versi di una banalità soncertante,
filastrocche scurrili e sgrammaticate che facevano inorridire Illica e
Giocosa), e tuttavia seppe cavare il meglio dai suoi librettisti, che erano i
migliori verseggiatori sulla piazza; la sua musica si rifaceva alla grande
tradizione italiana e tuttavia fu moderna, sempre attenta, sorvegliata,
aggiornata alle novità strumentali francesi e alle avanguardie viennesi.
La
Boheme
Dopo la Manon, del 1893, ecco Mimì, che scopre andando a vedere a
teatro, a Parigi, Vie de Boheme di
Henri Murger . Se ne innamora subito e pensa di metterla in scena, nonostante
Leoncavallo ci avesse pensato prima di lui e vantasse quindi dei diritti
“morali” di primogenitura (Murger era morto da quasi quarant’anni, senza eredi
). “Egli musichi, io musicherò”.
Ne nacque una querelle che si
trascinò per diverso tempo, anche sui giornali, ma alla fine la sua Boheme,
“audace esperimento di tecnica scenica impressionista”, messa in scena il 1°
febbraio 1896 a Torino, fu un trionfo, e rimane ancora oggi l’opera più
replicata al mondo, insieme alla Traviata di Verdi, mentre nessuno ricorda
l’opera omonima di Leoncavallo. Puccini ci aveva lavorato sodo , per tre anni,
durante i quali aveva messo a dura prova la pazienza dei suoi librettisti,
Illica e il panciuto Giacosa, che così si sfogò con l’editore Ricordi: “Sono stanco morto del continuo rifare,
ritoccare, aggiungere, correggere, tagliare , riappiccicare , gonfiare a destra
e a sinistra, vi giuro che a fare libretti non mi ci colgono mai più”.
La storia di Lucille (detta
Mimì), morta tisica a ventiquattro anni nell’Ospedale di Pitiè, che farà
piangere il pubblico di intere generazioni, veniva direttamente dalla cronaca
del tempo. La Boheme era uno spaccato sociale della vita dell’epoca che Murger
conosceva bene, ma Puccini ne fece qualcosa di straordinario, sia dal punto di
vista musicale che poetico. Ne fece il simbolo stesso della ricerca della
bellezza, balsamo e consolazione ideale delle quotidiane inquietudini. Voleva
cadenze accattivanti, ora comiche, ora tragiche e sentimentali, che però non
dovevano celare la sostanza amara e disincantata della vita ( “Voglio il riso e il pianto, la delicatezza e
la volgarità, la malizia e l’innocenza, l’inquieta e malinconica solitudine che
è dell’uomo, voglio carne umana , dramma rovente, sorprendente quasi, razzo
finale, anche se è tristezza, malattia e morte”).
La musica di Puccini punta al
cuore dei personaggi, facendo delle loro passioni l’autentica molla teatrale:
la sua Boheme non è la cronaca di un ambiente, come quella di Murger, ma
un’operazione idealizzante della memoria. Mimì deve morire, non in forza di un
processo drammatico, ma solo in quanto
allegoria d’una giovinezza che non può evolversi se non nella memoria. La
fioraia Mimì, dalla bellezza esangue, rappresenta la trasfigurazione delle
passioni indelebili dell’animo umano, la fugacità della giovinezza, delle
illusioni e degli amori senza tempo. Mimì è il ricovero emozionale , poesia autentica
delle piccole umili cose e dei giganteschi sentimenti che non hanno età…
Tosca
E subito dopo Mimì,
semplice , affettuosa , la naturalezza fatta musica, ecco la Tosca, che sparge le sue fragranze e i
suoi profumi nella Roma barocca della fine settecento del Papa Re, a Castel
Sant’Angelo; profumi così intensi da far
infoiare lo scellerato sbirro, Scarpia, che la vuole a tutti i costi. La Tosca
di Puccini non somigliava molto a quella del dramma di Sardou , né alla Sarah
Bernhardt che l’aveva portata sulle scene di tutti i teatri d’Europa .
In Floria Tosca Puccini cerca
quelle assonanze e quelle sintonia con la propria sensibilità, ne rievoca le
proprie origini contadine e popolane, la propria orfanezza (anche Tosca è
un’orfanella convertita al canto) e ne fa un personaggio tutta fragilità
sentimentale e sessualità, un simbolo d’amore e di libertà che si fonde con il
mirabile paesaggio descrittivo dell’alba su Roma (“E lucevan le stelle”) , la densità della scrittura armonica, la
pasta inquieta dei timbri strumentali e il finale con una delle marce funebri
più disperate e crudeli di tutta la storia del teatro musicale.
Madama Butterfly
E dopo Tosca, con cui aveva
inaugurato il ventesimo secolo, proprio a Roma, ecco Madama Butterfly, tragica
vicenda della giapponesina sedotta e abbandonata dall’ufficiale di marina
americano (quando vide la prima volta il dramma di David Belasco al Duke of
York’s Theatre di Londra, Puccini ne fu talmente entusiasta che chiese subito
il permesso dell’autore per trasformare Madame Butterfly in un’opera lirica),
che mise in scena il 17 febbraio 1904 alla Scala di Milano con un insuccesso
pilotato (boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate). Dirà Puccini: “Come sono stati crudeli questi “buoni”
milanesi e quei cani di giornalisti, con quale livore si sono scagliati . Mai
io credo sia accaduto, con tanta rabbiosa e biliosa veemenza” .
Le critiche furono velenose, si
parlò di operetta, musica frammentata senza originalità di idee, drammetto
kitsch, puro estetismo, sostanziale friabilità, opera indecente, o scaltro
rimaneggiamento di materiali musicali preesistenti, ma Puccini fu difeso
nientedimeno che da Giovanni Pascoli, presente alla prima, che fu facile
profeta: “Caro nostro e grande maestro,
la farfallina volerà; /ha l’ali sparse di polvere/ con qualche goccia qua e
là,/gocce di sangue, gocce di pianto./Ma volerà, volerà…”
E , infatti, solo tre mesi dopo
a Brescia, l’opera ottenne un grande successo. Secondo la Pampanini, che fu una
straordinaria Butterfly, l’emozione musicale,
in quest’opera, sembra nascere da lontananze misteriose, è come se Puccini
fosse stato realmente in Giappone, con quei profumi notturni orientali, quelle
indefinibili angosce e quel senso di poesia che approda a vere e proprie
modificazioni interne del linguaggio sonoro pucciniano, certamente un’opera
innovativa, d’avanguardia, una delle realizzazioni più perfette del teatro
operistico del Novecento.
Quella veglia notturna di Butterfly, il senso
della solitudine che l’avvolge, il sonno del bambino, il celeberrimo coro a
bocca chiusa, sono questi segni di modernità che è già sottile inquietudine di
sé stessa, e forse dello stesso autore, che presagisce la propria decadenza
d’uomo arrivato, d’uomo accasato (Puccini ha compiuto 46 anni e si è sposato con
Elvira, a seguito del decesso del marito di quest’ultima), apatico e circonfuso
di luce, che non ha più niente da dire, come aveva scritto Illica il 25 aprile
1904, ma i tormenti di Puccini uomo moderno cominciano proprio allora.
La
fanciulla del West
“Ah, se sapessi quel porco inglese!” Comincia a viaggiare, si guarda
intorno, avverte che è già vecchio per i critici e i musicisti più giovani,
Debussy, Strauss. È umorale, provinciale, si fa mandare le camice e i colletti
da Londra, descrive come un ragazzo il lusso delle cabine che gli vengono
riservate sui piroscafi, si reca Buones Aires e poi a New York dove è stata
allestita una stagione pucciniana. Scrive alla sorella Ramelde: “ Ah, se sapessi il porco inglese ! Come mi
secca a non saperlo. Quante donne ! E quante mi cercano e mi vogliono. Anche
vecchietto si trova volendo e come!…Basterebbe alzassi un dito … E che forme le
donne di qui, che culi sporgenti e che personali, che capelli! Roba da far
drizzare il campanile di Pisa!”
Ed ecco che dalle bellezze
americane nasce un’altra donna, la Minnie
della Fanciulla del West, opera che
andò in scena al Metropolitan la sera del 10 dicembre 1910 con un successo di
pubblico solo apparente. In realtà qualcosa si è modificato, si sono ribaltate
le posizioni: fino alla Butterfly era stato Puccini a portare avanti i suoi
personaggi e a muoverli con un attaccamento che poteva apparire perfino
sadismo, questa volta sono i personaggi a mostrarsi da soli, quasi non
volessero lasciar spazio al Puccini, geniale inventore di melodie, e a
costringerlo, invece, parola per parola, ad interessarsi dei loro sentimenti,
insomma qualcosa di pirandelliano.
In questo caso l’impeto tragico
diviene enfasi fuor d’ogni misura. Siamo in presenza di un sostanziale senso di
distacco fra l’opera d’arte in sé ed i sentimenti del suo creatore. Che poi
sono alcuni caratteri distintivi non soltanto della musica novecentesca, ma di
gran parte della produzione artistica del nostro tempo. Anche Mosco Carter ,
che aveva esaltato le sue eroine che s’inquadravano negli schemi freudiani,
tutte sconfitte e “condannate”, tranne appunto Minnie, liquida sommariamente
l’opera definendola un disfacimento del melodramma e definirà la successiva e
incompiuta Turandot , un sarcofago del melodramma, la fine di un modo di
concepire il teatro musicale.
E’ il rovesciamento delle
posizioni tra i personaggi e il suo autore, tra Puccini e le sue donne.
Puccini è ormai avviato al
tramonto e quest’opera è la testimonianza di una crisi, siamo lungo un crinale
fra le inquietudini linguistiche ed espressive che separano l’Ottocento dal
Novecento. Puccini era un artista celebre e un uomo ricco. Ormai si poteva
concedere tutto, il motoscafo che lo veniva a prendere a Torre del Lago per
andare a Viareggio, fucili, motori, automobili, orologi, vestiva con eleganza,
era un gran signore alla mano, ma a nessuno sfuggiva la sua indomabile
malinconia, la sua accentuata tristezza, che egli stesso riconosceva essere
senza ragione. La sua amante, la baronessa Josephine von Stangel , una giovane
signora di Monaco di Baviera divisa dal marito, che Puccini aveva conosciuto
sulla spiaggia di Viareggio verso la fine del 1917, gli propone di abbandonare
la moglie Elvira e di farsi un nido altrove, ma Giacomo, per quanto lo
desideri, non ha il coraggio di un gesto che avrebbe suscitato uno scandalo
troppo grande e preferisce continuare la strada dei piccoli sotterfugi e degli
incontri segreti. Ciò gli provocava ansia e malumore, ma la vera angoscia era
quella di non trovare un libretto adatto alla sua ispirazione, cercare altri
personaggi femminili. Gli propongono una collaborazione con Dannunzio, ma lui
rifiuta: Il poeta porta male al teatro lirico, scrive nel novembre del 1918 ,
in lui manca sempre il vero e spoglio e semplice senso umano. Tutto sempre è
parossismo, corda tirata, espressione ultra eccessiva.
Il
Trittico
Accetta di mettere in musica il
famoso Trittico: “Il Tabarro”, un
grandguignol, un’opera mancata con zone geniali; “Gianni
Schicchi”, un personaggio umoristico tratto dalla Divina Commedia,
capolavoro d’equlibrio e di saggezza ridente; e infine “Suor Angelica”, con al centro un altro personaggio femminile,
un’armonia di femminee delicatezze, con una musica di una mollezza quasi
pascoliana, ma anche un dolce sogno virginale solcato da un momento di strazio.
Turandot
Siamo alla fine
della prima guerra mondiale e Puccini ha un assillo sempre più crescente: “rinnovarsi o morire? L’armonia d’oggi e
l’orchestra non sono più le stesse.”Avverte l’esigenza di cambiare, ma non
sa ancora esattamente come, in quale direzione. Ha scarti di malumore e di
nostalgia uniti ad un’insaziabile e mal dissimulata curiosità nei confronti del
nuovo. Vuole stupire il mondo con una nuova opera, qualcosa che gli dia nuovo
entusiasmo, nuova linfa, nuova vitalità e quando l’amico Renato Simoni, alla
stazione di Milano, gli propone di pensare alla messa in scena della fiaba
gozzaniana “Turandot” la storia della bella e crudele principessa misantropa.
La cosa lo affascina, gli
sembra adatta per realizzare le sue nuove idee. Conosce la fiaba perché è stata
già messa in musica da Ferruccio Busoni e rappresentata a Zurigo nel 1917, ma
lui intende farne qualcosa di fantasmagorico. Un’amica gli parla del lavoro
teatrale messo in scena anni addietro in Germania da Max Rehinardt, gli
promette che gli farà avere delle fotografie. Puccini s’entusiasma, chiede a
Simoni di esemplificare il testo, di renderlo snello ed efficace, di esaltare
la passione amorosa di Turandot che per tanto tempo ha soffocato sotto la
cenere del suo grande orgoglio. Pensa ad un personaggio da realizzare “attraverso il cervello moderno”, ma
passano due anni e il lavoro non va avanti,
perdura il suo malumore, quel senso di annichilimento. Gli sembra di
lavorare per le ombre, gli sembrano sforzi inani, tutto inutile. “Ormai il pubblico – scrive all’amico
Simoni – non ha più il palato e il gusto
per la musica ; ama, subisce musiche illogiche, senza buon senso. La melodia
non si fa più, o se si fa, è volgare. Si crede che il sinfonismo debba regnare
, invece io credo che è la fine dell’opera di teatro. In Italia si cantava, ora
non più.”
I dubbi e le inquietudini
dell’artista, il timore di perdere contatto con la realtà circostante, con le
nuove correnti musicali, ora non avevano più - sullo sfondo - le nevrosi
erotiche d’un tempo, che erano quasi del tutto tramontate, ma diventavano più
intime e logoranti nell’incubo della vecchiaia. Pensò addirittura di sottoporsi
ad un trapianto ghiandolare di ringiovanimento di cui si erano avuti
esperimenti in cliniche di Parigi e Berlino. Era ricco e famoso, ma niente più
gli dava la gioia, la soddisfazione, l’orgoglio di un tempo, né l’enorme
gettito dei diritti d’autore, le proprietà che aveva sparse un po’ ovunque, gli
amici, la caccia, i viaggi, le sue automobili. S’immerge nel lavoro della
Turandot con i soliti momenti d’euforia e abbattimento, incertezze,
contraddizioni, ripensamenti, e, come sempre, Puccini scarica tutte le colpe
sui suoi librettisti, che erano invece intelligenti, colti e devoti a lui. Ci vogliono
altri due anni, dal marzo 1922 al febbraio 1924 , per finire la strumentazione
dei primi due atti, ma quello che lo angustia è il terzo atto, di cui non
riesce ancora a vedere il logico sbocco drammatico. Accusa i “poeti” di
trascurarlo, ma in realtà avverte inconsciamente che si è avviato lungo una
strada senza uscita, fatta di esperienze composite che devono essere ricondotte
ad un’unità . Capisce che deve dare un taglio netto e definitivo al passato,
con le vecchie regole del melodramma.
Era partito dalla passione
amorosa di Turandot, ma i sentimenti di questa donna sembravano emergere
soprattutto come la componente di un misterioso ed affascinante rituale
scenografico; l’unico personaggio che richiamava le sue eroine, deboli e
destinate ad amare e a morire d’amore, è quello che non c’era nella fiaba
drammatica del Gozzi, Liù, che
conserva intatta la felicità musicale e la delicatezza delle intuizioni liriche
delle sue donne, per il resto naviga in
un mare di incertezze. L’ultima delle sue donne non è Turandot, ma Liù, “che va sacrificata – dice – perché questa morte può avere una forza per
lo sgelamento della principessa”. Intuisce che non ce la farà a finire
l’opera.”Io ci ho messo in quest’opera
tutta l’anima mia , ma non so se potrò finirla in tempo” , anche se
scaramanticamente ne fissa l’esecuzione alla Scala per l’aprile 1925.
* Il ‘mal di gola’
“Ho l’inferno in
gola”. Ma già nell’aprile
del 1924 giunge l’evento irreparabile del suo “mal di gola” che lo affligge da
diverso tempo: si tratta di un tumore maligno. Continua a sperare, o fingere di
sperare (sa che la madre e la sorella
suora erano morte dello stesso male), in agosto scrive agli amici di stare
benone, soffre solo di una fastidiosa faringite e tonsillte, parla di caccia e
in Ottobre si reca a Torre del Lago, per l’ultima volta.
Il 3 novembre scrive a
Clausetti, per la Turandot: “Occorre una
donna eccezionale e un tenore che non scherzi. Non averla finita quest’opera mi
addolora. Guarirò per finirla in tempo?” La sera del 4 novembre Puccini
parte per Bruxelles, accompagnato dal figlio Tonio: all’Institut de la
Couronne, diretto dal dottor Leodux , dove sarebbe stata tentata la cura del
radio, unica possibilità di salvezza, gli avevano detto a Firenze. Puccini farà
un po’ da cavia e sarà la prima vittima illustre delle pionieristiche terapie
anticancro.
Operato il 24 novembre , – tre
ore e quaranta minuti di sala operatoria, dolori atroci, impossibilitato a
parlare, – Puccini scrive su un taccuino: “Caro
Magrini, la Maremma è ancora bella?, si va a caccia?”. Per qualche giorno
l’atroce supplizio sembra avviato a risultati positivi (“Puccini en sortirà”, dice Ledoux) , ma alle nove
di sera del 28 novembre una sopraggiunta crisi cardiaca ne segna l’inevitabile
fine. “Ho l’inferno in gola, mi sento
svanire”, scrive Puccini sul taccuino. Sono le sue ultime parole.
Ormai non c’è più niente da
fare. Arriva l’ambasciatore italiano, poi il Nunzio Apostolico che si
intrattiene qualche minuto da solo e gli impartisce i sacramenti. L’agonia dura
quasi tre ore. Alle undici e mezzo di sabato 29 novembre 1924, il cuore di
Puccini cessa di battere. Un attimo prima di morire forse rivede in un flash
tutta la sua vita: pianista e organista adolescente a Lucca, studente e autore
di pezzi orchestrali a Milano, cacciatore sul Lago di Massaciuccoli, i primi
successi, il benessere, la fama, i grandi viaggi, gli amici, le donne e il
fumo, la nomina a senatore del Regno d’Italia .
Rivede la galleria dei suoi
personaggi femminili, le sue “grandi” donne, figure indimenticabili, fragili
come onde di mare, ma non arrendevoli, eroine struggenti che conquistano il
cuore della gente, riascolta la sua musica di straordinaria forza narrativa e
di miracolosa precisione teatrale, la sua musica che ci fa ancora sognare e commuovere,
e si firma, con malinconica autoironia, come usava fare negli ultimi mesi della
sua vita: il vostro “ sonatore del regno”.